Capitolo cinquantotto
Il blu profondo della notte appariva ancora più bello, quella sera. Scie di un verde brillante sbocciavano all'orizzonte e ne screziavano l'oscurità, danzando sopra di loro.
Le luci si riflettevano negli occhi spalancati di Thadrez, fissi sul cielo. Dhnir distolse la propria attenzione dal firmamento per spostarla sulla compagna, mentre il suo sorriso si allargava. "La mia gente lo chiama il fiore del nord." spiegò dolcemente.
La guaritrice non si mosse, continuando a osservare le luci. "È meraviglioso." commentò. Il kery annuì e si strinse più vicino a lei.
Quando aveva scorto i bagliori che striavano la notte, la vista gli aveva tolto il fiato. Era passato così tanto tempo dall'ultima volta che li aveva visti. Così tanto che, se non se li fosse trovati davanti ora, avrebbe creduto di esserseli inventati a Erui per aggrapparsi ai ricordi della sua casa.
Ma persino la visione di tanto splendore non era stata pari a ciò che aveva provato osservando l'espressione di Thadrez. La donna aveva immediatamente lasciato cadere nella neve la sacca con i loro averi e si era seduta a terra, con gli occhi colmi di stupore e un sorriso sulle labbra.
Dhnir sapeva di avere avuto la stessa espressione la prima volta che aveva assistito a quel fenomeno. L'aveva vista anche sul viso di Hjkyan, quando erano bambini.
Anche se avesse dovuto lasciarla, almeno lei avrebbe potuto vedere davvero quanto fosse straordinaria la sua terra, prima di andarsene. Sperava che il ricordo potesse trasmetterle calore in futuro, come aveva fatto con lui in passato.
Thadrez si abbandonò con la testa sulla sua spalla, senza smettere di guardare il cielo, mentre la luce danzava sul suo volto. Dhnir non si sentiva pronto a lasciarla.
La sua presenza era diventata troppo preziosa. Lo teneva ancorato alla realtà, anche se, mano a mano che si addentrava nel nord, si sentiva sempre più simile a uno spettro. Era una sensazione che sarebbe svanita presto – ne era certo – ma sapere che Thadrez era con lui lo aiutava a sopportarla.
Ma presto le avrebbe davvero detto addio, e sarebbe stato per il bene di entrambi. Lei sarebbe tornata a casa, nel sud, e dei loro momenti insieme sarebbero rimasti solo i ricordi.
In quel momento, non riusciva nemmeno a pentirsi di essersi affezionato a lei.
Si perse a guardare il suo respiro che si condensava e saliva verso il cielo, per fondersi con le luci. Al suo fianco, lei era calda e viva, reale. Non era più prigioniero, e quel momento era più di un sogno.
Per un unico, fugace istante, pensò a quel respiro che si mescolava al suo.
Sentì il sangue che gli imporporava le guance, e non era solo per la temperatura. Distolse bruscamente lo sguardo. Sapeva ciò che stava provando, e non era la prima volta che gli succedeva – c'era stata una ragazza, anni prima, e un cacciatore del suo villaggio che aveva considerato il proprio compagno per pochi mesi, ma di cui ormai non ricordava neanche più la faccia.
Ma lei era umana. Il fatto che non fosse sua nemica non cambiava nulla. Comportarsi civilmente e viaggiare insieme era qualcosa che potevano concedersi, e così i sorrisi che si erano scambiati, ma non poteva permettersi simili pensieri.
Era solo passato troppo tempo dall'ultima volta che si fosse trovato vicino a qualcuno che non avesse mai avuto intenzione di fargli del male.
"Dobbiamo andare?" Thadrez si scostò e voltò bruscamente lo sguardo su di lui, e Dhnir scattò all'indietro. Sperava che il suo sguardo non l'avesse disturbata, o inquietata. Non aveva bisogno di rovinare quel momento.
Un bramito familiare si agitò nel profondo del suo essere, e lui rabbrividì. Perdere il controllo della propria trasformazione era l'ultima cosa di cui aveva bisogno. Non aveva nulla da temere – non così vicino a casa. Non da Thadrez.
Ma non successe nulla. Prese un respiro profondo e tornò a sorriderle. "No." Se non avesse passato gli ultimi due anni a voler tornare insieme, avrebbe potuto scegliere di non muoversi più da lì, di congelare quegli istanti nel tempo per viverli per sempre.
Aveva desiderato rivedere le luci, ma non aveva immaginato di farlo accanto a un essere umano. Ora si sentiva come se il loro bagliore gli fosse parso fioco, se non fosse stato con lei. Si chiese se dovesse dirglielo.
Forse non avrebbe avuto senso, ora che stavano per lasciarsi. Avrebbe fatto meglio a stare in silenzio e a continuare a godersi quegli istanti di pace, finché fossero durati.
Lo avrebbe fatto con Cirhen, se fosse sopravvissuto. Era certo che al kamry sarebbero piaciuti i riflessi colorati che macchiavano la neve intorno a loro, e da lui non si sarebbe dovuto separare. Ma Cirhen non c'era più. Trovare Thadrez era stata una benedizione, e avrebbe dovuto concentrarsi solo su di lei. Dimenticare ogni cosa tranne loro due e perdersi nello splendore che li circondava.
Le parole salirono alle sue labbra prima che potesse fermarle. "Sono felice che tu sia qui."
Si era spinto troppo oltre. Se ne rese conto nel momento stesso in cui finì di parlare. Si aspettava che lei si alzasse e se ne andasse – e che forse iniziasse a dirigersi subito a sud, senza voltarsi indietro.
Ma la guaritrice parve illuminarsi ancora di più. Prima che lui avesse il tempo di accorgersene, gli si avvicinò di nuovo e lo strinse tra le braccia. "Anch'io..." mormorò, la sua voce un alito caldo contro la pelle del kery.
Per un momento, Dhnir rimase senza fiato. La stretta intorno a lui non lo faceva sentire intrappolato come aveva temuto. Non gli trasmetteva altro che una dolce, familiare sensazione di calore e sicurezza – qualcosa che non provava da troppo tempo.
L'ultima volta che qualcuno lo aveva abbracciato, forse, era stato quando Hjkyan era ancora in vita.
Erano così vicini, ora. L'istinto gli diceva di approfittarne, accarezzarle i capelli, forse addirittura avvicinare il viso al suo e...
Si domandò se ciò che stava pensando trasparisse dalla sua espressione. Lei, intanto, continuava a sorridergli, e lui si perse nei suoi occhi.
Non successe nulla di nuovo. Thadrez lo lasciò andare. Dhnir deglutì, ma non riuscì a distogliere lo sguardo. Anche se erano di nuovo lontani, quel momento era ancora perfetto.
Sapeva che lo avrebbe ricordato fino alla fine dei propri giorni.
...
Kael socchiuse gli occhi, ignorando il battito tonante del proprio cuore mentre si sporgeva cautamente oltre la superficie dell'acqua e osservava l'orizzonte.
Fino a quel momento, la vittoria aveva sorriso ai mape. Ma avevano attaccato solo navi isolate, dotate di un equipaggio inesperto e troppo scarso per sapersi davvero difendere.
Era evidente che bruciare le loro case non era bastato. Quella che si trovava davanti ai suoi occhi non doveva essere un'intera flotta, ma era comunque più ampia di quanto si fosse aspettato. Grosse navi che beccheggiavano eleganti su un mare calmo e liscio, le vele immacolate stagliate contro il blu della notte.
Non sapeva se fossero state mandate per annientarli, o forse per salvaguardare un eventuale carico dai loro attacchi. Ma non importava. Loro le avrebbero distrutte comunque.
Ora che le sirene avevano ospitato i civili nei loro abissi non c'era più nulla che gli umani potessero bruciare. Se avessero usato una simile arma contro di loro, in quel momento, non sarebbe importato. Avrebbero dato la vita per scacciare i loro aguzzini dall'oceano.
Era un sacrificio che Kael avrebbe compiuto volentieri. Da tempo aveva perso ogni altro scopo.
Seguì gli altri soldati, immergendosi nuovamente e nuotando silenzioso verso la loro preda. Per quanto poco numerose fossero state le sirene che si erano volontariamente unite alla loro guerra, l'acqua era fitta dei loro corpi luminosi, e i mape tra di loro parevano macchie scure. La candida luce che danzava sull'acqua li nascondeva alla vista, e quando gli umani si fossero accorti di loro sarebbe stato troppo tardi.
Era abbastanza vicino a una delle navi da sentire le voci. Non riusciva a comprendere la loro lingua e non voleva capirla – il suono bastò a fargli correre un brivido lungo la schiena – ma il tono sembrava ansioso, preoccupato.
Quasi sorrise al pensiero. Finalmente li temevano. Finalmente si rendevano conto che non erano solo le loro prede.
Ma nessuna precauzione avrebbe potuto salvarli mentre l'esercito nuotava verso di loro, silenzioso e ineluttabile. Kael giunse così vicino alla nave da poter scorgere le macchie sul legno e le incrostazioni di molluschi sulla chiglia, ma si sforzò di attendere il momento dell'attacco.
Lo scintillio dei rampini alla luce della luna, mentre raggiungevano le fiancate delle navi, fu l'unico indizio della loro presenza.
Kael trattenne il respiro mentre si arrampicava. Il tridente, contro la sua schiena, era gelido. Sopra di sé, poteva udire i primi guerrieri colpire i marinai. Le loro grida soffocate e il tonfo dei corpi che ricadevano sul legno infransero il silenzio della notte.
Raggiunse il ponte prima che qualcuno potesse recidere la corda a cui era aggrappato, atterrando con grazia sulla nave. Un umano corse urlando verso di lui, e lui lo trafisse, trattenendolo impalato sulla lama per un momento prima di gettarlo in mare. Se anche fosse sopravvissuto, le sirene avrebbero pensato a finirlo.
Ignorando il suono del corpo che precipitava tra le onde, Kael scattò in avanti, pronto a colpire di nuovo.
Nonostante non sapesse quanto del sangue di cui percepiva l'odore fosse umano e quanto fosse mape, si ritrovò a sorridere. Sapeva che se fosse stato sconfitto avrebbero potuto fargli cose più orribili che ucciderlo, ma si sentiva al sicuro.
I suoi compagni, tutto intorno a lui, stavano versando sangue, e, più in basso, le sirene stavano attaccando le navi stesse.
Gli umani sarebbero stati troppo impegnati a combattere e salvarsi per accorgersene. Una volta che le loro imbarcazioni si fossero sfasciate e fossero affondate, sarebbero caduti preda delle correnti, del gelo, o dei loro pugnali.
Doveva solo tenerli occupati fino a quel momento. Continuò a lottare e colpire, sperando di perdersi nel movimento della propria arma.
Sibilò quando la punta di un arpione gli graffiò la spalla. La sua prima reazione fu spingere il tridente contro il viso del suo aggressore. L'urlo lacerante che l'altro emise, lasciando cadere la propria arma per coprirsi il volto sfigurato, quasi coprì il suono del legno che iniziava a cedere.
Le sirene sapevano come colpire. La chiglia era stata ferita, e la nave stava iniziando a imbarcare acqua. Le altre la seguirono.
Ci sarebbe voluto del tempo perché affondassero del tutto, insieme al loro carico, ma lì in mezzo all'oceano non c'era salvezza, né per loro né per i loro marinai. Avevano sfidato il mare, e ne avrebbero pagato il prezzo.
Un uomo tentò di calare una scialuppa, ma la lancia nella sua schiena lo fermò prima che potesse riuscirci. Anche se avesse tentato di scappare, sarebbe stato trascinato a fondo prima di poter trovare la salvezza. Questa volta non avrebbero lasciato sopravvissuti, non dopo quello che era accaduto a Iserb. Non ce n'era più bisogno.
Le correnti avrebbero finito il lavoro. Kael si sarebbe potuto allontanare, prima che uno dei marinai, rendendosi conto di essere condannato, decidesse di contrattaccare, ma non riuscì a impedirsi di pugnalarne un altro prima di tuffarsi dal ponte, che si stava inclinando pericolosamente.
Era riuscito ad arrivare abbastanza lontano quando, con un gemito di disperazione, uno dei nemici lanciò in acqua una tra le giare che si trovavano sulla nave.
La luce si spanse in acqua, ormai inutile. Non avevano potuto usarla per difendersi senza rischiare di bruciare le navi stesse, e non c'era niente che potessero bruciare sotto la superficie, non ora che i soldati avevano imparato ad aspettarsela e a fuggire prima che potesse raggiungerli.
Ma i relitti, e gli uomini che li avevano popolati, presero fuoco quando affondarono del tutto. A distanza di sicurezza, Kael li osservò bruciare.
La loro morte non avrebbe ricostruito Iserb dalle sue rovine, né avrebbe guarito i feriti o resuscitato i morti. Non sarebbe servito a salvare ciò che era già andato distrutto.
Ma le famiglie di quegli uomini li avrebbero pianti come avevano fatto quelle delle loro vittime, e lui non osava sperare in nulla di più.
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