Capitolo cinquantacinque
Anche il mare aveva i suoi confini. Gli abissi erano un luogo che nessun mape avrebbe voluto visitare. I loro occhi non erano fatti per vedere attraverso un buio così fitto e uniforme, e i pericoli che potevano celarvisi erano di poco inferiori a quelli che li attendevano sulla terraferma.
Ma ora che Iserb non c'era più, non avevano altra scelta. E Kael avrebbe preferito gettarsi in quella gelida oscurità piuttosto che affrontare ancora una volta gli umani e ciò che la loro mente poteva concepire.
Cominciava a capire perché i sacerdoti avessero deciso di guidare i sopravvissuti verso le voragini che si aprivano nel fondale. Forse lì la luce non sarebbe stata in grado di raggiungerli. Anche se non fossero riusciti ad adattarsi alla vita negli abissi, non sarebbero morti come coloro che erano stati bruciati nell'attacco.
Nuotare stava diventando sempre più faticoso, mentre lentamente scendevano dove nessuno della loro specie doveva essere mai giunto prima. Le correnti fredde e la pressione erano eccessive anche per un corpo come il suo, che, per quanto ormai indebolito, era stato creato per l'acqua. Alla fragile luce emanata dall'intreccio di alghe che reggeva, scorse il viso di suo padre, e lo sfinimento che vi lesse gli causò un doloroso sussulto nel petto.
Combattere non era bastato a salvare ciò che restava della sua famiglia. Solo a condannarli ulteriormente. E per quanto il suo istinto continuasse a urlargli di emergere in superficie, lanciarsi contro la prima imbarcazione umana in vista e ricominciare a uccidere, sapeva che il sangue non sarebbe bastato a lavare via la realtà.
Non osò avvicinarsi ulteriormente a Domal, o provare a pronunciare vuote parole di conforto. Non era nemmeno sicuro di poter ancora parlare. La sua lingua sembrava avere disimparato a muoversi dall'ultima volta che aveva parlato con Malke.
Non c'era bisogno di dire nulla. Era quasi certo che tutti loro sapessero che il momento della loro estinzione era troppo vicino, e qualunque parola fosse uscita dalle loro labbra – qualunque speranza o riflessione – presto non avrebbe avuto più alcun significato.
Era convinto che lo sapessero anche i sacerdoti, e che la loro discesa non fosse un modo di preservare la popolazione, ma solo di dare loro una fine più dignitosa.
Per un attimo, si sentì quasi sollevato che Skitnal non fosse lì a condividere quel destino. Lui almeno era morto credendo che la fine dei mape non fosse ancora giunta.
Il banco continuava a muoversi, senza sapere veramente cosa li attendesse in fondo alla spaccatura. Non importava più. Solo pochi – perlopiù bambini, subito messi a tacere dai genitori – osavano chiedere ancora dove stessero andando, arrendendosi subito quando non ricevevano risposta.
Le luci emanate dalle alghe continuavano a non mostrare altro che lisce pareti di roccia. Rischiaravano sempre di meno l'oscurità, e respirare stava diventando progressivamente più difficile. Nessun mape vivente aveva memoria di qualcuno che fosse sceso così a fondo. Forse anche solo avventurarsi fino a lì sarebbe bastato a ucciderli.
Poi, lentamente, la spaccatura sembrò farsi sempre più ampia. Sembrava che ci fossero delle luci colorate a danzare nell'oscurità. Kael rabbrividì per il freddo, ma vide i sacerdoti dirigersi con decisione verso quei bagliori, e li seguì. Non riuscì a mantenere lo sguardo sul punto verso cui stava nuotando, continuando a voltarsi verso il padre.
Non sapevano ancora a cosa stessero andando incontro.
Le luci rallentarono il proprio movimento, poi si fermarono del tutto. Più si avvicinavano, più si ingrandivano e la loro forma si faceva più definita. Kael sentì la bocca seccarsi quando si rese conto di cosa fossero.
A emanarle non erano rocce o alghe, ma i corpi di centinaia di sirene.
Non ne aveva mai vista una. Era consapevole della loro esistenza – senza di loro i mape stessi non sarebbero mai nati – ma gli era sempre stato detto che erano tutte morte da tempo, o almeno che non ne restavano in vita abbastanza da far sopravvivere la loro specie.
Ma lì, in fondo all'abisso, sembrava che esistesse un'intera comunità. Corpi leggiadri, coperti di scaglie variopinte e scie azzurre, vagavano nell'abisso senza risentirne, e al di sotto delle antenne luminescenti sulla loro fronte decine di occhi azzurri si erano voltati verso di loro, fissandoli con diffidenza.
Non c'era traccia della minima interferenza umana.
Sentì Domal sussultare al suo fianco, ma, per un istante, nessuno osò parlare. I mape e le sirene si limitarono a fissarsi, immobili come se tra loro ci fosse una barriera invalicabile.
Poi ebbero inizio i mormorii – Kael riuscì a cogliere qualche parola, ma non era sicuro di chi la stessa pronunciando e a che popolo appartenesse – presto sovrastati dalla voce del sommo sacerdote, chiara e priva della minima sorpresa.
"Siamo venuti a riscuotere ciò che ci è dovuto."
...
Kael inspirò a fondo e si appiattì contro la parete dell'abisso. Se avesse avuto fortuna, sarebbe rimasto inosservato fino a quando non avesse capito cosa stava succedendo.
Forse non era davvero in pericolo, ma il suo cuore continuava a pulsare così violentemente da generare un dolore sordo che si irradiava in tutto il suo corpo.
Non c'era nulla da temere. Non davvero. Quelli che aveva davanti agli occhi erano i loro antenati, che avevano permesso loro di nascere, li avevano resi ciò che erano, avevano trasmesso loro l'abilità di sopravvivere in mare e trovarvi una casa.
E sarebbero dovuti essere tutti morti.
Per tutta la vita, aveva solo sentito racconti su come le sirene erano state cacciate fino a estinguersi, su come il loro popolo un tempo numeroso e fiorente fosse sterminato, e su come sarebbe successo lo stesso a loro se non avessero cercato di allontanare la minaccia rappresentata dagli umani – a qualunque costo.
Ma quelle di fronte a lui non sembravano affatto stanche, spaventate o ferite. Non erano giunte fin lì in preda alla disperazione, rischiando la morte pur di fuggire da una fine ancora più atroce.
A giudicare dai loro corpi forti e privi di lesioni, e dalle numerose tane scavate nella roccia della parete opposta a quella a cui era appoggiato, dall'assenza di paura negli occhi dei loro bambini, erano lì da molti anni, ed erano in pace.
Erano stati lì per tutto quel tempo, mentre Iserb e le altre città venivano distrutte, mentre quelli come lui venivano venduti e uccisi.
E i sacerdoti sapevano dove si trovassero, comprese. Se li avevano portati fino a lì non era stato per caso.
Si costrinse a restare fermo, anche se il suo istinto era solo di scagliarsi su di loro e chiedere perché atteso fino a quel momento per portarli fino a lì, quando già troppe vite erano state spezzate.
Le sirene avevano smesso di fissarli, anche se la confusione era ancora visibile nelle loro espressioni. Forse anche loro credevano che i mape non esistessero più. Forse pensavano che non ci fosse vita al di fuori del loro abisso.
E forse non si rendevano nemmeno conto di quanto fossero stati fortunati a crescere i loro figli senza insegnare loro come sfuggire agli schiavisti.
Il tempo parve riprendere a scorrere normalmente quando una delle sirene – un uomo con lunghi capelli verdi e la coda colorata di un pesce scorpione – si fece avanti, così vicino che avrebbe potuto sfiorare i sacerdoti, incrociando le braccia sul petto. La lama affilata al suo fianco mandava bagliori alla luce emanata dal suo stesso corpo. "Non pensavamo che sarebbe giunto questo giorno." La sua voce era come una corrente gelida. "Vi ascoltiamo."
Le parole erano comprensibili, distinte solo dal lieve sibilare delle vocali. Come se non fossero stati separati dagli abissi e da tutti gli anni che erano passati dall'ultima volta che i loro popoli erano stati in contatto.
"Prima che ve ne andaste, ci avevate fatto un giuramento." iniziò il secondo sacerdote con voce ferma. "Nel momento in cui avessimo avuto più bisogno, sareste riemersi dagli abissi per tornare al nostro fianco. Non è così?"
Il mormorio che serpeggiò tanto tra i mape quanto tra le sirene mandò una serie di vibrazioni nell'acqua. Kael le sentì a malapena mentre gli scivolavano addosso.
Quante generazioni erano passate da quando quel patto era stato sancito, e perché era stato tenuto nascosto?
Quel popolo sembrava numeroso e fiorente. Insieme sarebbero riusciti ad annientare tutti gli umani che avessero osato addentrarsi tra le onde. Non erano stati uniti, quando la caccia alle sirene le aveva distrutte quasi del tutto – ammesso che fosse successo davvero – e quando erano iniziate le catture di massa dei mape. Ma ora, se avessero ricominciato a combattere fianco a fianco, avrebbero potuto cogliere di sorpresa il nemico, e forse intimidirlo abbastanza da impedirgli di usare nuovamente armi come quella che aveva annientato Iserb.
Kael avrebbe voluto urlare. Avrebbero potuto allearsi molto prima. Prima che tutto ciò che gli restava diventasse polvere.
Ma doveva restare calmo. Se fosse giunto qualcuno in loro aiuto, se ciò avesse portato una possibilità di salvezza per i mape, allora la fine che lo attendeva non sarebbe stata vana.
Il tritone si guardò intorno come alla ricerca di una risposta adeguata. Prima che potesse parlare, fu interrotto da un'altra sirena, una donna anziana con la coda di un blu così brillante da accecare. "È vero. Ma è stato molto tempo fa." Anche se la sua voce era fragile per l'età, le parole erano chiare. "E non possiamo sacrificare il nostro popolo dopo tutto ciò che abbiamo fatto per nasconderci."
Alla luce, una lama baluginò. Kael si chiese se fosse stato un mape a prenderla in mano – se fossero pronti a ricorrere alle minacce pur di ottenere aiuto, di ritardare uno sterminio che forse era inevitabile.
Ma nessuno fece in tempo a versare sangue. Con un movimento rapido, il terzo sacerdote nuotò verso la vecchia. "Ma il patto deve essere rispettato! Non potete abbandonarci." Sembrava più una supplica che un comando.
"Non lo faremo." rispose lei, senza cambiare espressione. "Ma non possiamo rischiare di estinguerci per voi." Siete già condannati, sembrava dire il suo tono. "Potremmo radunare dei volontari disposti ad aiutarvi. E se non saranno abbastanza, qualcuno di noi verrà comunque con voi. Non possiamo fare di più."
Kael non avrebbe saputo dire se a fargli esplodere il cuore nel petto fosse il sollievo o la delusione.
Anche un aiuto minimo avrebbe potuto fare la differenza, nella loro situazione. Eppure non poteva ignorare il modo in cui le sirene avevano parlato. Ciò che avevano lasciato sottinteso, ma che qualunque mape doveva aver colto.
Il loro popolo sarebbe potuto andare incontro a una distruzione così totale che nemmeno rifugiarsi in abissi come quello li avrebbe salvati, e coloro che avrebbero dovuto giungere in loro soccorso non avevano intenzione di farsi coinvolgere nel loro fato.
Una parte di lui non poteva biasimarli.
...
Quando Shera si svegliò, la luce era di un rosa più chiaro di quella che lo aveva avvolto nel momento in cui aveva perso conoscenza. Gli bastò per comprendere che ciò che aveva visto non era stato un miraggio, che non era in un sogno destinato a sparire per lasciarlo intrappolato a Erui.
Per quanto tempo fosse passato, non avrebbe mai dimenticato il profumo di Gicarb e del villaggio che aveva creduto di non rivedere più.
Anche dopo che aveva giurato di non tornare, la sua casa lo aveva richiamato a sé.
Riuscì a sedersi e si passò la mano sulla fronte sudata, attendendo che la sua vista si rimettesse a fuoco. Si accorse subito dopo, mentre gli ultimi residui di sonno lo abbandonavano e tutti i suoi sensi si acuivano, di non essere solo.
Voltò la testa e vide esattamente ciò che si era aspettato. Afayd inginocchiata al suo fianco, le lacrime che le solcavano le guance e un sorriso a illuminarle il volto.
Il suo cuore parve fermarsi. Shera deglutì, fissandola senza riuscire a parlare.
L'ultima volta che l'aveva vista, Afayd era stata solo una giovane donna fragile e disperata. Il tempo non l'aveva cambiata quanto aveva cambiato lui, ma ora piccole rughe le circondavano gli occhi, e i suoi lineamenti sembravano essersi fatti più morbidi. I capelli un tempo lunghi fino alla vita ora le sfioravano le clavicole. Almeno in quello erano diventati simili.
Davanti a sé aveva la prova di tutti gli anni che non avevano passato insieme. Eppure, la luce nel sorriso con cui sua sorella lo stava guardando non era cambiata.
Shera deglutì. La sua espressione sarebbe mutata presto, non appena avesse capito la verità. Se lui era lì, era solo perché lui aveva fallito. "Afayd." iniziò, cercando senza successo le parole giuste. La sua voce era rauca, e quella semplice parola parve lacerargli la gola. Non si fermò. "Io..."
Prima che potesse continuare, prima che potesse spiegarle fino a che punto l'avesse delusa, lei gli si fece più vicina e lo strinse a sé.
"Sei tornato..." mormorò, la voce spezzata dal pianto. "Sei tornato da me."
Shera non avrebbe dovuto ricambiare l'abbraccio. Non quando l'aveva tradita. Ma non riuscì a resistere all'impulso. L'ultima volta che erano stati in quella posizione era stata quando le aveva detto addio. Almeno, anche se lei avesse deciso di respingerlo, avrebbe potuto portare con sé il ricordo di quel momento.
Quando si staccarono, di fronte alla luce negli occhi dorati di Afayd, il pensiero delle parole che stava per pronunciare parve trafiggergli il petto. "Ho fallito." fu tutto quello che riuscì a dire alla fine, quando la sua voce trovò il coraggio di uscire.
Quelle erano le prime parole che le aveva rivolto dopo vent'anni. Avrebbe voluto portarle un messaggio diverso.
La donna cambiò espressione, fissandolo senza replicare. Dopo quello che parve un tempo interminabile, abbassò lo sguardo. "Ti riferisci alla ladax?" Shera si sforzò di annuire, anche se qualcosa dentro di lui sembrava stare crollando.
Ma sua sorella non lo respinse. Non gli urlò contro e non lo maledisse. Si limitò ad abbassare lo sguardo. "Shera... non importa più. Davvero. Sono passati anni, è diventato molto più facile sopravvivere. E io..." Si interruppe di nuovo. "Hai pagato troppo per me. Sono solo felice di poterti riavere."
Shera non era sicuro se crederle. Ma ora che era tornato a casa, se lei davvero era disposta a concedergli il proprio perdono, non poteva andarsene di nuovo. Se la sua assenza l'avesse fatta soffrire più della sua presenza, se restare avesse significato vedere ancora il sorriso che lei gli aveva rivolto quando si era svegliato, non l'avrebbe abbandonata.
Avrebbe voluto abbracciarla di nuovo e non lasciarla andare fino a quando non avessero recuperato tutti gli anni che li avevano divisi.
Forse era stato veramente uno sbaglio venire fino a lì. Eppure sul volto di Afayd non c'erano i segni della fame, e il calore che emanava dal suo corpo era qualcosa che aveva dimenticato, nelle notti passate sveglio su un freddo pavimento, circondato dalle altre belve.
In quel momento si sentiva come se tornato a essere qualcosa di più di uno schiavo.
Non riuscì a reprimere il sorriso tremante che fiorì sulle sue labbra. Aveva creduto di non avere più niente per cui vivere quando era strappato a Erui. Eppure la sua sopravvivenza, la lotta insensata per non permettere alla morte di prenderlo, per ritrovare la strada di Gicarb, lo avevano salvato.
Gli occhi della donna si spostarono sul suo viso, percorsero il suo corpo. "Vorrei averti impedito di andare prima che... prima che ti facessero questo." Gli ci volle un istante per accorgersi che stava fissando ciò che restava del suo braccio.
Shera scosse la testa. "È stata una mia scelta." E forse non era neanche stata necessaria. Forse sarebbero sopravvissuti tutti lo stesso anche se non si fosse offerto per la ladax, anche se non avesse rinunciato a vent'anni della propria vita e a ciò che avrebbe potuto avere con Corr.
Ma quando se n'era andato non aveva avuto tempo di pensare a ciò che forse sarebbe potuto succedere, era inutile chiederselo ora che non aveva più modo di tornare indietro. Se si fosse concentrato solo sul viso di Afayd, si sarebbe convinto che tutto il sangue che aveva versato non era stato inutile.
Prima che pensieri che non voleva formulare potessero sopraffarlo di nuovo, percepì la tenda ruvida che copriva l'entrata della casa muoversi. Il suo primo istinto fu di scattare in piedi e lanciarsi contro la figura che era apparsa, ma non si sentiva abbastanza in forze per provare.
Impiegò solo un attimo a capire che quello che si trovava non era un nemico. Era solo il giovane che lo aveva accolto quando era giunto al villaggio, prima di rivedere Afayd.
E anche se era solo un neonato l'ultima volta che lo aveva visto, lo riconobbe quasi subito. Anche se aveva ereditato il naso aquilino e le macchie irregolari del padre, e nonostante la sua pelle quasi nera, le labbra piene, il taglio degli occhi e l'eleganza della sua postura lo rendevano fin troppo simile a sua madre.
Fin troppo simile a lui.
Prima che potesse parlare, l'altro sussultò, probabilmente trafitto dallo stesso pensiero. "Zio?" Nonostante la sua voce fosse dubbiosa, Shera sentì ogni dubbio dissolversi mentre il sorriso tornava a sbocciare sulle sue labbra.
Rhiwe era sopravvissuto. Era diventato un uomo, e sembrava in ottima salute. Anche solo per quello, era quasi valsa la pena di fare tutto ciò che aveva fatto.
Non aveva mai creduto di poterlo vedere come adulto, un giorno. Per vent'anni, nella sua mente, suo nipote era stato il bambino inconsapevole che si era agitato tra le braccia di sua sorella prima che lui si voltasse e lasciasse il villaggio. Troppo piccolo per ricordarsi di lui. Ma Afayd doveva avergliene parlato – e Shera si chiese cosa, esattamente, gli avesse detto.
Ma avrebbero avuto tempo per scoprirlo. Era tornato a casa, e, ora, non aveva più intenzione di andarsene di nuovo. Non se c'era la possibilità di tornare a fare parte di una famiglia, di lasciarsi alle spalle per quanto poteva la sabbia insanguinata su cui aveva combattuto.
Quindi rivolse uno sguardo radioso al figlio di sua sorella e giurò che avrebbe protetto ciò che gli restava – e lo avrebbe fatto restando al loro fianco. "Speravo di rivederti un giorno, Rhiwe."
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top