Parte 37
Elias non ricordava un giaciglio in cui avesse dormito più profondamente, prima di quel giorno. Il guanciale era soffice e prendeva la forma della sua testa. I tessuti leggeri, ma caldi. I suoni del risveglio della natura mescolati a eterei canti che si udivano in lontananza. La festa doveva già essere iniziata. Si vestì in un lampo e corse fuori curioso.
Le fate erano anch'esse vestite o, meglio, ognuno di loro aveva qualche complemento che adornava e copriva. Oltre a indossare i loro tipici accessori che li rendevano unici quando erano nudi, come cavigliere, bracciali, orecchini all'ombelico o disegni sul corpo fluorescenti, quella mattina avevano aggiunto chi uno scialle, chi una mantella, chi un cappello. Alcuni portavano delle gonne trapunte di foglie secche, altri dei veli trasparenti ricamati; tutti avevano scelto colori autunnali, giallo, arancio, viola, rosso scuro, tutte le sfumature del marrone.
Titione gli andò incontro, carico del suo solito entusiasmo, aveva tre strani bastoncini appesi a una cintura.
«Come mai oggi siete tutti vestiti?» chiese Elias.
«Non siamo vestiti, siamo abbigliati a festa».
«Intendevo, perché siete coperti e non nudi come sempre».
«Ecco appunto, è questa la differenza. Non siamo vestiti nel senso che intendi tu, per coprire la nudità. Di questo non ne abbiamo bisogno, perché non conosciamo il pudore che è stato insinuato in voi umani dagli dèi, per limitare i vostri rapporti. Il pudore aveva lo scopo di farvi risparmiare le energie da convogliare nel lavoro, e per limitare la procreazione. Non per questo noi indossiamo delle vesti; ne facciamo uso, quando decidiamo di decorare il corpo in giorni di festa, come oggi, ricorrenza in cui onoriamo la natura e i suoi continui cambiamenti. Oggi celebriamo il suo ingresso in letargo per prepararsi alla stagione fredda. Cantiamo alla Luna, perché andremo verso i giorni in cui le ore di buio sono più lunghe di quelle di luce. Da stasera fino a quando arriverà il giorno più buio dell'anno. Allora celebreremo la luce che tornerà».
In quell'istante Gologon passò accanto a loro. Trasportava, facendolo fluttuare in aria, un vassoio pieno di piccole sfere.
«Buongiorno, giovane Elias», lo salutò, concentrata sul suo incarico, ma sorridente.
«Buongiorno», si imbarazzò Elias, ammirando la sua bellezza, che non era in alcun modo nascosta dai veli trasparenti, di una tinta di un viola appena più chiaro della sua chioma.
«Ti fa quell'effetto proprio perché non sei abituato alla nudità», si intromise Titione, «e non potendola vedere, ne provi desiderio. Noi invece avendo di fronte i corpi nudi ogni giorno, non facciamo distinzione tra la bellezza di una mano, di un seno, di un orecchio o di un collo. Certo, al tocco, quando ci uniamo, alcune zone rispondo in maniera più sensibile di altre, ma amiamo il corpo nella sua interezza, in ogni sua parte. Riusciresti a capirlo solo se vivessi con noi per almeno una stagione e se anche tu smettessi di indossare vestiti. Diventerebbe una consuetudine anche per te e non te ne accorgeresti più».
«Sai, non so se vorrei che questo effetto finisse, mi piace il modo in cui mi fa sentire quando guardo la nudità di un corpo che mi attrae. Comunque dovreste rispettare i pensieri degli altri, questa cosa che leggete in continuazione nella mente è molto imbarazzante».
«Scusaci, per noi è un'abitudine, quando siamo nella forma di cavallo è il nostro modo di comunicare, quindi il tuo flusso di pensieri ci arriva nello stesso modo in cui percepiamo la tua voce. E per rispondere al pensiero che hai appena avuto, Gologon ha esattamente...»
«Non ti hanno insegnato che non si chiede l'età a una fanciulla?» Gologon era tornata indietro a mani vuote, proseguendo nel suo incarico, stava passando accanto a loro e, come Titione, doveva aver letto nella mente di Elias, mentre si chiedeva l'età di quella fanciulla che lo chiamava sempre "giovane".
«ma... io non l'ho chiesto. Me lo stavo domandando tra me e me, non l'ho chiesto a voi», si scusò Elias imbarazzato. Gologon proseguendo per la sua strada gli aveva sorriso gaia e gli aveva accarezzato una guancia. Le gote di Elias erano diventate color porpora.
«Così non vale, vi state prendendo gioco di me», disse Elias a Titione.
«Però mi sembra di capire dal colore delle tue guance che il gioco non ti sia dispiaciuto troppo» e Titione prese a sbellicarsi dalle risate.
In quel momento partì una musica.
«Il ballo d'apertura della festa» disse Titione e corse verso il centro del cortile in cui si trovavano. Tutte le fate abbandonarono le proprie mansioni, si unirono al centro e presero a danzare in tondo.
Elias si accorse che non era l'unico rimasto fuori dal cerchio. Dall'altra parte del cortile un ragazzo e una ragazza, umani, vestiti non molto diversamente da lui, si avvicinavano insonnoliti. Entrambi avevano i capelli rosso carota, sembravano di poco più giovani di lui, forse un paio di cicli in meno. La ragazza fece uno sbadiglio, lui si stava strofinando gli occhi. Dovevano essere i ragazzi giunti a Urtaddala la sera prima. A parte la stanchezza, sembrava si fossero ripresi, erano puliti, luminosi. La ragazza era molto avvenente, labbra carnose, un fascino diverso da quello delle fate, meno eterea, più selvaggia, ma bellissima.
Lui aveva l'aspetto tipico dei ragazzi ancora imberbi che erano nella fase di passaggio tra giovane e uomo. I capelli leggermente lunghi, lasciati sciolti, una statura media, muscolatura non massiccia, ma ben definita. Vedendoli in lontananza, gli sembravano entrambi mezzo palmo più bassi di lui. Guardavano le fate affascinati e ancora storditi, forse non avevano avuto abbastanza tempo per capire bene dove si trovassero. Da quello che aveva sentito Elias, erano fortunati a essere ancora vivi.
Le fate continuavano a ballare in tondo, sembravano molto felici, come se alfine potessero godere di tutti i preparativi avvenuti fino a quel momento.
Maimone era raggiante, teneva Gologon per mano e il cerchio continuava con tutte le fate femmine in un gioco di incastri e intersecamenti con il cerchio dei maschi, nel quale riconobbe, Thomes e Titione. I due cerchi di danzatori si allargavano e si stringevano, alternandosi nell'essere a turno uno all'interno, l'altro all'esterno.
Tutti nei loro celebrativi colori autunnali: foglie secche di quercia, leccio, rametti di ginepro, di rosmarino, ghiande e uva arricchivano i capelli di tutti; le coccinelle sembrava non desiderassero altro che danzare tra le loro chiome, le farfalle preferivano la peluria sotto alle scapole di chi non l'aveva coperta.
Poi la musica terminò. Titione e una fata, l'unica con i capelli bianchi colore dell'argento e l'unica a indossare un vestito argentato invece che i colori autunnali, si spostarono verso il centro del gruppo. Titione afferrò i tre strani bastoncini che aveva legati alla vita e prese a soffiarci dento come in un flauto. Il suono era incredibile, sembrava prodotto da più strumenti al contempo: uno che emetteva un suono basso continuo e altri che suonavano melodie con suoni più acuti. La fata dai capelli bianchi prese a cantare:
Voglio danzare con te
Sul soffice terreno
Di un bosco di betulle,
E vivere con te
Il resto della mia melodia.
Perdiamoci in un abbraccio,
Voglio provare ancora
Il senso di fragilità
Stringendo i tuoi bianchi fianchi.
Avanzando sul sentiero
Riemergono le memorie,
All'ascolto della melodia del vento.
Prendimi con te
Sulle note di questa dolce notte
Sarò come un fanciullo
Che sogna un mondo diverso.
Esplora le mie membra
Con labbra mai sazie,
Uno spicchio di Luna,
Nuvole filanti,
Non rincorrere il futuro,
Non rinnegare il passato,
Non sfuggire il presente.
Danza con me
Sul soffice terreno
di un bosco di betulle.
Nell'ultima parte si erano uniti tutti al canto. Elias aveva le lacrime agli occhi. Non sapeva se la causa fosse la bellezza della melodia, o la voce armoniosa della fata, oppure il testo con le sue suggestive immagini. La meraviglia della passione lo aveva invaso. Quando il canto fu terminato, le fate si alzarono tutte in volo, si presero per mano e da quell'unione scaturì un'onda che sembrò espandersi come se dovesse andare ad abbracciare tutta la Terra.
Era ancora frastornato quado Titione si avvicinò a lui, eccitato, dicendo «Finalmente si può mangiare». Prese Elias per mano e si lanciò verso la tavola imbandita di ogni vegetale di stagione che fosse commestibile. Inoltre erano presenti strane radici e tuberi che Elias non aveva mai visto, di svariate forme e colori. La voracità di Titione gli fece venir fame. Decise di assaggiare i cibi che non conosceva, per gustare nuovi sapori. Chissà se avrebbe mai avuto la possibilità di mangiare ancora quelle pietanze.
«Come si chiama lo strumento che stavi suonando?».
«Launeddas, è uno strumento molto antico».
«Il suono che emette è molto coinvolgente, sembra quasi che ci sia più di una persona a suonare, è fatato?».
«No, è il modo in cui è costruito che lo rende peculiare. Se vuoi ti insegno come si suona».
«Molto volentieri» rispose Elias. Fece in tempo a mettere in bocca uno strano tubero viola allungato, che Titione lo aveva già sollevato in aria e lo stava portando da qualche altra parte.
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