Un'amara rivelazione
Sgomento, Erfëa risalì il pertugio segreto e attese che la casa fosse nuovamente silenziosa; non appena gli fu chiaro che i cospiratori si erano allontanati, afferrò le briglie del suo destriero e, con il cuore colmo di paura, lo condusse alla dimora di Palantir.
I servi del principe reale, meravigliati da quella visita notturna, esitarono dinanzi alla richiesta di Erfëa di aprirgli le porte e condurlo dal suo signore. Infine, mossi dalle sue accorate parole, gli fecero strada attraverso l'ampia dimora, sino alla camera di Palantir. Non appena fu introdotto al suo interno, il figlio di Gilnar lo trovò intento a decifrare antiche scritture delle quali punto o poco si curavano gli alti dignitari di Ar-Gimilzôr. Erfëa non pronunciò parole; il suo volto, tuttavia, era turbato e Palantir, sollevato lo sguardo dalle sue carte, credette di comprenderne il motivo. Non lo salutò, né lo invitò a prendere posto accanto a sé; con un greve cenno del capo, lo invitò a seguirlo in una piccola stanza attigua, ove nessuno li avrebbe disturbati. Il principe dello Hyarrostar lo seguì, e il suo sguardo non osò incrociare quello di Palantir. I servi erano andati via sin da quando Erfëa aveva fatto il suo ingresso nello studio del figlio di Ar-Gimilzôr; eppure, mentre abbandonava la biblioteca, gli parve di scorgere, per un istante, la bionda capigliatura di Miriel svanire dietro l'uscio della porta di ingresso a quella stanza.
Palantir attese che il giovane principe fosse entrato all'interno della saletta; infine, rinchiusa la porta, lo invitò a sedere dinanzi a lui. I due uomini si osservarono per alcuni momenti: severo ed impassibile era lo sguardo del principe reale, ché, sebbene la figlia non gli avesse rivelato alcunché di quanto era accaduto in passato, pure era lungimirante e scorgeva molti dei segreti che gli uomini celano nei loro animi. Il suo cuore, tuttavia, fu mosso a pietà, perché nessuna luce brillava negli occhi del giovane. Erfëa pareva assente, quasi che le sue forze si fossero esaurite in quella folla cavalcata che l'aveva condotto dinanzi al futuro sovrano di Númenor. Solo il petto, sollevandosi e abbassandosi ad ogni suo respiro, permetteva al suo anfitrione di riconoscerlo per creatura vivente. Palantir sospirò, eppure non pronunciava ancora parola; afferrata una brocca situata al suo fianco, versò un liquido, denso e ambrato, in un calice che offrì al giovane. Questi, presa la coppa fra le dita, l'avvicinò alle fredde labbra e, inghiottito qualche sorso, parve riprendere forza sufficiente per poter parlare.
"Non ti nasconderò, o re, che in questa ora buia desidererei non essere venuto al mondo o almeno non essere mai stato strappato dal ventre della madre mia; eppure, poiché il tempo stringe, vengo a raccontarti il motivo di questa mia inaspettata visita".
"Inaspettata, dici? Forse è così – rispose turbato Palantir – eppure, sai bene che non saresti mai riuscito a sottrarti a questo incontro, figlio di Gilnar, neppure se tu fossi stato più cauto e saggio di quanto l'ardore giovanile non permette di esserlo. In tal caso, tuttavia – aggiunse levandosi dallo scranno e avvicinandosi allo scranno ove l'ospite sedeva – non è a me che dovresti rivolgerti, bensì a colei che hai offeso".
Nulla rispose Erfëa e per un istante parve che egli stesse per abbandonare il suo scranno; infine parlò, e la sua voce, dapprima roca e bassa, crebbe di intensità man mano che egli narrava quanto era accaduto; non un particolare fu tralasciato, nessun nome fu occultato. Al termine delle sue rivelazioni il giovane principe versò lacrime amare, non riuscendo a tollerare la delusione e lo sconforto causati dalle sue colpe.
A lungo tacque Palantir, sopraffatto da quanto aveva appreso: alla rabbia, suscitata dalla colpa del giovane Dúnadan, si aggiungeva ora la preoccupazione per la sorte sua, della figlia e dell'intero regno. Il suo cuore, tuttavia, era più pronto al perdono di quanto non lo fossero i suoi pensieri: si avvide che le parole di Erfëa erano prive di menzogna e che il suo pentimento era sincero:
"Innumerevoli sono i dolori che patiscono gli Uomini e, sovente, a nulla valgono le parole consolatrici ed i saggi ammonimenti. Questo, tuttavia, è il destino dei Secondogeniti: soffrire per espiare le colpe commesse, perché, se forti ed orgogliosi appaiono i loro spiriti, deboli sono invece i corpi in cui dimorano.
Grande colpa hai commesso, Erfëa, figlio di Gilnar; io credo, tuttavia, che le tue amare lacrime siano invero una imperizia maggiore, ché esse sono sterili, né cancelleranno il tuo dolore; recati dunque ove quanto hai appreso possa condurre coloro che congiurano nell'Ombra al giusto castigo ed oblia rimorsi e rancori".
"Sagge sono le vostre parole, sire, né sarò io a metterle in discussione; pure, se la mia volontà fosse ancora vincolante in questa faccenda, vorrei porgere sincere scuse a colei alla quale rivolsi parole troppo imprudenti, ché infine caddi anche io nel medesimo errore, e tuttavia non fui in grado di scorgere gli oscuri abissi nei quali ero piombato".
Un lieve sorriso apparve nel volto di Palantir, ed egli non si sarebbe opposto a tale richiesta; pure, tarda era l'ora ed il giovane principe era impaziente, sicché, seppur a malincuore, così rispose il figlio di Ar-Gimilzôr ad Erfëa: "Sii paziente, figlio di Gilnar, ché ella è ora in preda all'ira e allo sconforto; attendi, dunque, che il suo volere si volga nuovamente a te, ché, se agissi in preda all'impulso e alla fretta, pure ne avresti a soffrire".
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