La paura della morte

A lungo giacque nel proprio letto il giovane capitano, eppure il suo sonno era regolare e la luce dei suoi occhi non era annebbiata dalla follia; infine, all'approssimarsi del giorno di Mezza estate, Erfëa si ridestò dal suo lungo sonno. Gilnar attese che suo figlio fosse desto del tutto, infine, lentamente, quasi volesse sondare le profondità delle tenebre che salivano da ponente, prese la parola: "Tutto quanto hai appreso, accadrà fin troppo presto credo; sappi però che le Palantíri non mostrano quali sono le vie che le nostre menti e i nostri corpi devono percorrere, per scongiurare il pericolo o propiziarsi i benefici dei Valar. Tu stesso dovrai comprendere quale sarà il sentiero migliore, affinché il tuo destino possa essere compiuto; questa è la saggezza dei Númenóreani e degli Uomini liberi della Terra di Mezzo, saper esplorare i meandri della propria anima e trarne da essa le risposte. Ricorda quanto ti dico, onya, ché i dubbi e le certezze sono in te: è compito di ciascuno di noi saperle discernere. Come il contadino separa il biondo frumento dalla sterpaglia avvizzita, così tu dovrai estirpare il male che è in te: non siamo divinità e la nostra imperfezione è la condizione primaria dell'essere umano".

Erfëa annuì lentamente, riflettendo su quanto il padre aveva detto; infine alzò lo sguardo e rispose adoperando tali parole: "Non credere che io abbia obliato, ché la dolce quiete del sonno ha lavato via solo le ombre dal cuore, eppure le mie paure permangono. Tale sarà il mio destino, credo, che dovrò errare a lungo alla ricerca di quanto avrò smarrito: lunghe e dolorose saranno le mie peregrinazioni, e non sempre la fatica sarà ricompensata con quanto desidero. Raramente capita che i fini delle azioni degli Uomini siano compresi da quanti ne ambiscono il significato. Sono grato ai Valar – proseguì – per aver avuto la determinazione e la volontà necessarie per affrontare l'Oscuro Signore; il mio cuore teme però per il destino di questa terra".

Parole non pronunciò Gilnar e i due uomini evitarono di cercare l'uno lo sguardo dell'altro; il signore della casata degli Hyarrostar era conscio di quali pensieri occulti si celassero nelle ombre vespertine, eppure, nonostante l'aria grave e silenziosa della stanza, il suo cuore non poté fare a meno di gioire, ché comprendeva il valore dell'impresa compiuta dal figlio.

Erfëa, tuttavia, non rivelò mai a nessun altro Uomo quanto avesse scorto nelle profondità del Palantír e a lungo il suo cuore rimase turbato. Lunghi giorni trascorsero e il Morluin di rado si dimostrava loquace, immerso nelle silenziose angosce che le ferite del suo animo gli procuravano; infine, desideroso di fuggire la malinconia e la tristezza che l'affliggevano, si recò dalla madre, Nimrilien di Andúnië, signora degli Hyarrostar, nota in tutta Númenor per la sua conoscenza delle antiche arti della guarigione.

Affranto e teso parve Erfëa a Nimrilien, quando questi le fu innanzi; ella non pronunciò parola, ma fattogli cenno di seguirlo, condusse i suoi passi alla camera da letto della sovrana. La luce del luminoso Sole rischiarava le vele delle navi, ormeggiate nel vicino porto, eppure Erfëa poté scorgere le ombre annidarsi nella silenziosa dimora della regina di Númenor: una forte paura si levò in lui, l'atavico terrore che scuote gli Uomini quando si trovano innanzi alla propria fine; eppure la donna che aveva innanzi a sé non sembrava turbata, né affranta.

Una benedetta malinconia le incorniciava il viso, mentre le sue labbra levavano silenziose parole al cielo; l'azione del tempo corruttore non aveva deturpato con i suoi miasmi il corpo della sovrana, splendido ricordo della gloria trascorsa.

Nimrilien osservò per qualche istante ancora il volto sorridente della sovrana, poi sospirò: "Non hai fallito, onya! Lunga e dolorosa sarà la tua guarigione, tuttavia, quando sarà giunta a termine, avrai ottenuto la saggezza. Sappi però che un'altra prova dovrai affrontare, ché solo in tal modo non temerai più la morte". Erfëa avvampò per la rabbia: "Non ho superato indenne la prova! Perché mi dici questo? Perché vuoi prolungare la mia agonia? Non di nuove sofferenze il mio cuore necessita, ma di parole di conforto".

Mestamente Nimrilien si levò, sfiorando con le affusolate dita le bionde chiome di Silwen, consorte di Tar-Palantir: "Non temere le tue angosce, Erfëa. Sauron di Mordor ha allungato il suo artiglio grifagno sul tuo spirito, ferendolo. Non è vergogna o codardia riconoscere la propria debolezza; neanche il più saggio e lungimirante tra noi può prevedere quali saranno i fini ultimi delle nostre azioni. Non rimpiangere la scelta di sfidare la volontà del Palantír; molti eventi i tuoi sensi mortali hanno percepito, ai quali prenderai parte quando sarà giunta l'ora. Tuttavia, sebbene coraggio e valore tu abbia dimostrato nel parlare con Sauron, sappi che non puoi sconfiggere la sua nera essenza, né piegare al tuo valore il Palantír, senza doverne subire le conseguenze: la tua giovane età ti impedisce di agir con maggior saggezza".

"Ero consapevole dei rischi, madre – la interruppe Erfëa, triste in volto – ma nonostante ogni mio sforzo ho fallito".

Sorrise Nimrilien e il suo riso era acqua nella gola riarsa del pellegrino affranto: "Ti ho detto che acquisirai la saggezza e tale rimane il mio giudizio. Non puoi sperare di annientare il Signore di Mordor, non ancora – aggiunse rivolgendosi più a sé stessa che non al figlio. – Puoi tuttavia impedire al tuo spirito di soffrire inutilmente, obliando le tue paure, non soffocandole, ma affrontandole".

A tali parole Erfëa si levò in piedi, e nei suoi occhi baluginava la luce dell'ira: "Io ho fallito, madre! Sauron ha annullato la mia volontà! Forse, posso udire il canto lamentoso dei gabbiani giungere dall'oceano tempestoso o scorgere innanzi a me le profondità dell'animo umano, eppure esse ora paiono inghiottirmi e soffocarmi nella loro tumultuosa esistenza. I miei sensi indeboliti e mutilati sembrano essere attratti non già dalla luce, ma solo dal terrore e dalla paura". Lentamente Erfëa tornò a sedere, scuro in volto: "Non vi è destino che io non possa scorgere, ma a quale scopo? Nei miei pensieri danza macabra la morte e nelle sue mani rovinose io scorgo le vite di coloro che devono ancora essere disfarsi e consumarsi! Credevo – concluse tremando – credevo che la morte fosse un dono, eppure mi accorgo solo adesso della sua azione letale. I miei giorni trascorrono nel tedio e avverto il veleno scorrere lentamente nelle mie vene, impotente nell'agire. Non vi è altro destino che la morte. A che fin compiere valorose azioni? Anch'esse sono destinate a fallire ancor prima di essere concepite".

Grave divenne allora il volto di Nimrilien; tuttavia ella lo prese per mano e gli sussurrò lentamente: "Mira la morte! Sappi Erfëa, figlio di Gilnar, che niente di quanto tu affermi è figlio della tua volontà. Sauron di Mordor ha avvelenato il tuo essere e ingannato i tuoi sensi. Osserva e sii libero!" Lentamente Erfëa spostò il proprio sguardo fino a incontrare quello della defunta signora di Númenor. Meraviglia! La nebbia che avvolgeva il suo cuore si dissolse ed egli poté nuovamente godere dei dolci profumi della Primavera, dilettarsi ascoltando il tripudio dei delfini del mare, rattristarsi per la morte della sua sovrana: allora pianse lacrime purificatrici, che lavarono via il dolore che ancora sconquassava il suo cuore martoriato. A lungo pianse, infine levato il suo sguardo verso la madre, egli capì e il suo cuore fu pieno di speranza: "Comprendo – mormorò stupito – quanto sia stata saggia colei la cui anima aleggia ora oltre i confini del Mondo; se la mia vista non mi ha ingannato, innanzi a me ho veduto il suo spirito librarsi libero, privo dei dolori che affliggono i mortali. Tristezza non vi era nei suoi occhi, né il dolore albergava nel suo cuore; invero, una grande pace pareva avvolgerla e condurla là ove le menti umane non possono dirigersi. Ho appreso dunque la saggezza degli uomini".

Nimrilien l'osservò a sua volta, infine, gli prese la mano e la tenne vicino alla sua: "Non chiamare vana la morte! Ella è stata qui, ché la nostra sovrana ha infine compreso il significato profondo del Dono. Colei che ora rimpiangiamo, ha infine stabilito che fosse giunta l'ora di restituire quanto Eru le aveva concesso; tale è stata la sua scelta, per cui sofferenza alcuna ha provato ed essa ha lenito anche il tuo dolore. La maledizione di Sauron è spezzata".

"Sì – asserì lentamente Erfëa, assaporando la parola mentre la pronunciava – ho appreso la saggezza. Sono lieto di aver dato l'ultimo saluto alla sovrana di Númenor, ché, se non l'avessi fatto, per me sarebbe stato vano ogni altro aiuto".

"Ben dici, onya, quando affermi questo; sappi però che se la tua volontà non fosse stata forte a tal punto da parlare con Sauron, egli ti avrebbe consumato, avvinghiandoti al suo dominio. Saresti divenuto uno dei Númenóreani Neri, Uomini perfidi e arroganti, bramosi oltremodo di assaporare il dolce veleno del potere. Non chiamare vano l'aver guardato nel Palantír, ché se non l'avessi fatto, saresti senza difesa alcuna dalla minaccia dell'Oscuro Signore.

Va ora figlio mio – concluse Nimrilien – e ricorda quanto hai appreso oggi". Pronunciate queste parole, la signora degli Hyarrostar si levò dallo scranno e scomparve tra le fronde degli alberi, inoltrandosi lungo il sentiero che dalla reggia conduceva al mare. Erfëa la seguì con lo sguardo, infine sospirò e si diresse verso la sua dimora, ove impaziente l'attendeva il padre Gilnar.

Tale fu la conclusione della vicenda e nontrascorse molto tempo che Erfëa divenne noto ai Númenóreani per aver osato,appena compiuta la maggior età, discorrere con il Signore di Mordor, sfidandola sua malvagia volontà: taluni, nelle epoche successive, quando Númenor erastata ormai sommersa dalle acque del grande oceano, osservarono che la profeziarivelata da Erfëa a Sauron si era davvero realizzata, dal momento che ilcapitano dei Dúnadan sopravvisse alla caduta del discepolo di Morgoth, unicofra gli Uomini di quell'Era, eccetto Elendil di Andúnië, ad aver parlato con l'OscuroSignore senza essere stato tuttavia privato dell'intelletto e della capacità digiudizio.


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