L'incontro con Tom Bombadil


Un Uomo lo avrebbero definito coloro che l'avessero osservato saltare da un fosso all'altro, mentre intonava filastrocche e rime antiche quanto gli Alberi di Valinor o forse anche più. Pochi fra gli Eldar e gli Edain conoscevano il suo nome ed essi ignoravano le sue origini, né erano noti i suoi padri, sicché presero a chiamarlo Iarwain Ben-Adar, il più anziano e il senza padre. Presso le altre genti aveva nomi diversi: i Naugrim lo chiamarono Forn e  Ornald gli eredi di Hador Chiomadoro. Iarwain non rivelò a nessuno quale era il suo vero sembiante, né lasciava che i suoi rari ospiti lo chiamassero con altro nome che non fosse quello di Tom Bombadil, l'allegro vagabondo dei boschi.

Egli vagava per quelle selvagge contrade, badando che i sentieri che aveva tracciato anni or sono fossero liberi dalle radici delle piante che sovente ne occupavano il percorso; grande fu, tuttavia, la sua sorpresa, allorché scorse un giovane uomo e un mostruoso lupo giacere fianco a fianco, avvinti in una mortale lotta. Il guerriero tuttavia era sopravvissuto e Tom, uno spirito gaio e avverso ai servi di Morgoth, lo sollevò dal luogo in cui giaceva e lo condusse alla sua dimora. Un'impenetrabile barriera di arbusti la proteggeva da sguardi indiscreti: i rami spinosi, tuttavia, ascoltando le melodie di Tom Bombadil – suoni che i Númenóreani avrebbero definito senza alcun dubbio bizzarri – si aprirono, richiudendosi dopo il suo passaggio.

Una dama era sull'uscio della sua minuscola dimora e lo chiamava a gran voce, ché il Sole era calato all'orizzonte e il desco era apparecchiato. Gaia risuonò la risata del Messere della foresta, allorché udì la voce della dama richiamarlo a sé: dopo aver avuto premura di deporre il suo ospite su pesanti coltri, intrecciate di lana e di parole che lenivano il dolore in chi le udiva, le si inchinò sorridente in volto.

"Tom, hai forse obliato la dama del fiume? – lo apostrofò la signora ridendo - Un ospite hai infatti condotto alla nostra mensa, pure non hai avuto premura di avvisarmi: cosa offriremo, dunque, al giovane che giace esamine?"

"Mia cara Baccador – rispose quello - Tom è forse stanco, ma i suoi occhi sono ancora vispi! Non hai già preparato il desco per il nostro ignaro ospite?"

Lesta fu la risposta di Baccador: "Il grande sparviere è giunto stamani alla mia finestra, avvertendomi che vi era nella foresta un Uomo. Ho creduto fosse scortese da parte nostra non invitarlo a prendere parte alla cena".

Rise ancora Tom, infine osservò, quasi distrattamente, il giovane: "Egli è uno degli uomini di Númenor, mia cara, giunto sin qui per trucidare uno dei lupi servi della grande oscurità".

"Non sembra pericoloso – osservò la dama, posandogli sulla fronte la sua affusolata mano – pure, avverto che è stato a lungo sofferente nel corpo, mentre lo spirito è ancora lungi dall'essere guarito del tutto".

Tom allora sospirò e così le rispose: "Sono fragili i Figli Minori di Ilúvatar! Sappi però, Figlia del fiume, che Arda apparterà a loro quando sarà giunta l'ora. Il momento del loro dominio è ancora lungi dal giungere e costui non prenderà parte a tali vicende". Si alzò dalla seggiola che aveva posto dinanzi al camino e fischiettando un motivo allegro, prese a scuotere leggermente il Dúnadan.

Con un gemito, Erfëa si scosse dal profondo sonno in cui era piombato e sul suo viso erano dipinti smarrimento e una gran pena: "Credevo di averla persa per sempre" furono le uniche parole che riuscì a pronunciare per molto tempo, finché egli non ebbe posato il suo sguardo sulle due figure che gli erano accanto, domandando loro chi fossero.

Risero a lungo i suoi anfitrioni, infine Tom gli rispose: "Chi siamo? Io sono il Messere e questa è la dolce dama del fiume; non temere alcunché, giovane uomo, ché ora sei nella dimora di Tom Bombadil ove nulla può entrare, a meno che non sia io a desiderarlo".

Gemette Erfëa, infine si levò dalle graziose trapunte che l'avevano avvolto e parlò nuovamente: "Dov'è il lupo di Morgoth che trafisse le mie carni? A lungo vagai in queste contrade inesplorate, eppure codesta creatura si rivelò invero infida, sicché mi tese un agguato, ed io, provato dalla stanchezza, non seppi evitarlo". Amare risuonavano queste parole alle orecchie di Tom e della sua dama, tuttavia essi non replicarono nulla, sicché Erfëa parlò nuovamente: "Ebbene, immagino che egli sia fuggito o che il suo corpo giaccia morto laddove persi i sensi".

Lento, il Dúnadan tentò di alzarsi ed una volta che le sue gambe, ancora malferme per il dolore e la fatica, furono in grado di sorreggerlo, tentò un inchinò rivolto al suo salvatore. Goffo gli parve il suo tentativo e se ne rammaricò non poco: tuttavia, lungi dal deriderlo, i suoi anfitrioni si inchinarono a loro volta e lo invitarono a consumare la cena.

Grato per l'attenzione che costoro mostravano nei suoi confronti, per lungo tempo Erfëa non parlò, incuriosito dall'aspetto interno della dimora nella quale era stato alloggiato: minuta poteva apparire allo sguardo degli Alti Uomini di Númenor, eppure, le sua ampie finestre ed i suoi graziosi camini la rendevano calda ed accogliente. Tom e Baccador, cortesemente, attesero che il loro ospite si fosse rifocillato: in seguito, allorché lessero sul suo volto ampia soddisfazione per la cena consumata, lo invitarono a prendere posto accanto a loro, dinanzi al grande braciere posto al centro della sala.

"Perdonate la mia ingordigia, signori del bosco: non è corretto per l'ospite mostrare a colui che l'ha accolto all'interno della sua magione la propria fame ed il proprio sonno. Permettetemi, dunque, che riveli il nome del vostro ospite, ché io sono Erfëa, figlio di Gilnar, principe dell'Hyarrostar in Númenor".

Risero graziosamente i suoi anfitrioni, eppure non vi era derisione nella loro letizia, ché essi erano stupiti di sentirsi chiamare signori: "Sappi, figlio di Númenor, ché nessuno ospite ha mai assunto comportamento così nobile dinanzi al nostro cospetto". Risero ancora e ad Erfëa parve che le fronde degli alberi assecondassero il loro riso. Infine Tom parlò nuovamente, rivolgendosi a sé stesso, più che al Númenóreano: "Sarebbe invero un compito troppo gravoso per le mie membra, né io desidero imporre alcuna legge su quanti dimorano nelle selve e nelle radure di questa contrada. Io sono il Messere, non il Signore". Fischiettò allegramente alcune strofe, le quali parvero ad Erfëa intrise dell'acqua di rapidi ruscelli e dello stormire delle fronde degli alberi. Il dolce torpore, cui fece seguito il sonno ristoratore, prese il figlio di Gilnar ed egli si addormentò esausto; infine, allorché il Messere smise di cantare, si destò e osservò nuovamente le fattezze di Tom Bombadil. Lieto pareva il suo volto, né su esso erano impressi i crudeli artigli del tempo corruttore, pure Erfëa avvertì che era anziano; con sgomento e sorpresa, si rese conto che Tom lo fissava a sua volta ed egli non riuscì a reggerne lo sguardo. Tremante, nonostante il calore del fuoco si propagasse attraverso le sue giovanili membra, il Dúnadan rabbrividì, ché mai gli era capitato di scorgere all'opera un simile potere.

Sorrideva Tom, la mente immersa nel ricordo di eventi remoti; infine, ascoltò la voce dell'uomo cantare un canto quale mai il suo udito – che pure aveva compreso i feroci barriti degli orsi e il quieto ronzare delle api nei meriggi estivi – aveva ascoltato. Profonda e malinconica si levava la voce del Dúnadan ed egli cantava della sua terra; infine, allorché il canto si concluse, così gli parlò Erfëa: "Perdonate il mio ardire, signore, tuttavia, non avendo altro da offrirvi ed essendo il mio cuore preso dalla malinconia, ho voluto donarvi un simile canto".

"Invero, principe di Númenor, voi avete portato alla dimora del Messere della foresta, un omaggio gradito: Tom non dimenticherà le vostre parole e le custodirà nel suo animo".

Baccador, la quale era intenta a filare, levò allora il grazioso capo e parlò dolcemente: "Giovane uomo, non temere la malinconia; essa non è altro che il dolce nettare istillato dalla nostalgia negli animi dei Figli di Ilúvatar".

A lungo Erfëa ponderò tali parole, infine parlò nuovamente: "Mia graziosa dama, non comprendo appieno le vostre parole, eppure vi sono grato per avermele rivolte". Esitò per un istante; infine si rivolse a Tom: "Perdonate il mio ardire, eppure non posso fare a meno di notare quanto voi siate simile ad una donna che un tempo conobbi".

Una curiosa luce baluginò nello sguardo del Messere ed egli posò il suo sguardo sull'ospite: "Simili e dissimili allo stesso tempo sono le creature che hanno preso dimora in Arda allorché Sauron ancora dormiva e nessun Elfo si era destato nelle contrade orientali".

Annuì Erfëa, sebbene non comprendesse appieno quanto il Messere gli avesse rivelato ed il dubbio si insinuasse nel suo cuore.

"Non nutrire nel tuo animo simili sentimenti, figlio di Gilnar! Potresti apparire saggio, secondo il giudizio dei Figli di Ilúvatar: sappi, tuttavia, che hai discernimento solo su quanto i tuoi sensi mortali hanno appreso nel corso della tua breve esistenza, e molto ti è ancora ignoto. Non dolerti per aver mancato la preda: avventato fu il tuo gesto e questo tu lo sai bene. Gioisci, piuttosto, perché ti è stato concesso di apprendere una simile lezione: in altre circostanze, infatti, non l'avresti accettata".

Chinò il capo Erfëa ed egli infine comprese: "Messere, il mio cuore ha mostrato infinita arroganza e scarsa umiltà. Permettetemi, dunque, di donarvi le spoglie del servo di Morgoth, qualora giaccia morto nella radura. In caso contrario – aggiunse – null'altro avrei da regalarvi, se non la mia eterna riconoscenza".

Risero Tom e Baccador, infine il primo parlò: "Il vecchio Tom Bombadil non conserva simili cimeli! Le creature di Morgoth non sono ben accette nella sua dimora; tuttavia, Erfëa, sono certo che altri gradirebbe un simile trofeo".

Annuì il Dúnadan: "Grato è il mio animo, ché ora conosco il nome di colui che mi ha salvato la vita non già una volta, bensì due".

Risero ancora i suoi anfitrioni, infine lo invitarono a prendere riposo, ché l'ora era tarda e le sue membra bisognose di sonno ristoratore: lesto, il principe di Númenor cadde preda del dolce oblio ed il suo riposo non fu turbato da alcun sogno molesto.

Al mattino, egli prese congedo dal Messere e dalla sua dama, inchinandosi profondamente dinanzi a loro, allorché giunse l'ora dell'addio. Baccador porse al Númenóreano una veste che aveva intrecciato con le sue abili mani e sulla quale erano ricamati delicati intarsi; seta pareva, eppure Erfëa ignorava con quale arte era stata tessuta, ché non erano visibili punti di giuntura ed essa riluceva alla calda luce del sole. Bianco pareva il suo colore, tuttavia, allorché l'ombra di un albero o di una nube passeggera si posava su di essa, mutava colore ed assumeva tonalità scure; se questo mutamento fosse dovuto al tessuto o ad altra causa, Erfëa non era in grado di affermare.

Stupito, il principe dell'Hyarrostar la ripose con grande cautela nella sua sacca, infine domandò alla dama del fiume a chi dovesse destinare un simile dono:

"Nulla posso dirti a riguardo, giovane Uomo, eppure sono certa che il tuo cuore saprà rispondere a tale quesito meglio di quanto non possa fare la mia voce".

Grato, Erfëa allora le prese la mano e la baciò dolcemente, parendogli la creatura più graziosa sulla quale egli avesse posato lo sguardo e non osando domandargli il suo nome. La Figlia del fiume, tuttavia, parlò nuovamente: "Baccador io sono, custode della Selva e del Fiume. Addio, Erfëa di Númenor, possa il nostro ricordo accompagnarti lungo il tuo cammino, ché esso sarà arduo e difficile da percorrere; tuttavia, se il tuo cuore sarà saldo, giungerai sino al suo termine".



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