Il processo

Annuì Erfëa e, preso congedo da Palantir, si recò nella dimora paterna ove attese che si succedessero gli eventi; l'indomani, una notizia percorse in lungo e in largo l'isola di Númenor, ché era stata scoperta una congiura contro i figli del sovrano ed i suoi mandanti erano i principi del Mittalmar; grande fu lo sgomento che prese Gilnar allorché apprese di tale novella ed egli, pur non facendone parola con Erfëa, sospettò, e a ragione, che egli ne sapesse più di quanto le sue scarne parole lasciavano intendere: voci contrastanti si levarono da entrambe le fazioni, l'una accusando l'altra di aver sobillato Arthol e sua sorella Gilmor ad obliare il nobile lignaggio di cui erano portatori, per compiere un disegno efferato e dalle conseguenze ardue da individuare.

Nei giorni seguenti, furono incriminati numerosi esponenti di entrambi i partiti e ciò fece nascere in molti il sospetto che vi fosse qualcun altro dietro tale congiura, qualcuno il cui interesse non era né in una fazione, né nell'altra; tuttavia, poiché gli uomini sono facili alla corruzione e all'oblio, tali vicende furono presto rimosse, e nessuno, eccetto alcuni, si domandò chi avesse consegnato la lista dei nomi dei congiurati al sovrano, né come costui fosse venuto in possesso di tale documento. Lesto fu il processo ed Arthol, Gilmor ed i loro seguaci furono giustiziati all'alba, contravvenendo, tuttavia, alle leggi di Númenor, le quali prevedevano che per i crimini di lesa maestà fossero interpellati tutti coloro che gestivano lo Stato e quanti erano del popolo, perché prendessero visione delle prove a favore o a danno degli accusati. Ritenendo, perciò, invalida tale sentenza di morte, Gilnar allora convocò il Consiglio dello Scettro e inviò rapidi messaggeri alle contrade di Númenor, affinché vi prendessero parte anche coloro che erano stati eletti dalle Gilde ed i capitani, ciascuno nel proprio ordine e con il proprio grado: a tale consesso prese parte una grande moltitudine, gli uni attratti dal sentore del sangue che presto sarebbe stato versato, gli altri dalla letizia di poter assistere alla sconfitta dei propri avversari. Molti levarono la propria voce in difesa della Corona e fra essi Akhôrahil ebbe a pronunciare un'agguerrita orazione:

"Signori di Númenor e voi, Custodi delle Tradizioni e delle Leggi che i nostri padri ci hanno tramandato, ascoltate ora Akhôrahil, principe dei feudi del Nord e fedele vassallo del sovrano, disquisire su quanto codesti servitori di menzogne e falsità avevano intenzione di perseguire a danno dello Stato e della Corona! Poiché mi sembra che Uomini probi e valorosi come voi non abbiano alcuna tema di adoperare i precetti che un tempo uomini giusti ebbero a stabilire, nulla, che non sia il timore e la codardia dei mortali, può spingere i vostri voleri a disconoscere quanto ciascuno di voi ha udito venir fuori dalla bocca di questi corruttori.

Non è mio scopo illustrarvi le mostruose macchinazioni e gli aberranti costumi di coloro che giunsero dinanzi a me in catene, ché essi sono noti, né vi è fra voi, o giudici, qualcuno che ignori la perfidia e la lussuria che mossero i principi del Mittalmar a muovere contro lo Stato! Eppure, sebbene ciò possa sembrare arduo da ascoltare alle vostre orecchie, vi sono tra coloro che vantano appartenenza al lignaggio del glorioso Elros Tar-Minyatur, uomini e donne la cui codardia è pari solo alla crudeltà che infiammò i cuori di coloro che i vostri voleri giudicheranno.

Una sentenza è stata ieri emessa, eppure, si badi bene, un giudizio fu già emesso dai Valar e dall'Uno che è sopra Arda: quale altra sorte, infatti, potrebbe condurre questi spregevoli esseri mortali alla condanna, se non fosse essa stessa decretata da menti savie e prive della malizia che uomini infami covavano nei loro animi? E non siamo noi stessi gli artefici dei voleri dei Valar? Perciò, o giudici, mi sembra che a noi sia stato solo demandato il portare a termine un verdetto che altri hanno realizzato per noi: una sentenza di morte".

Frenetici applausi si levarono dagli Uomini del Re e Gimilkhâd, primogenito del sovrano, così parlò dinanzi ai suoi sudditi: "Prendo la parola in virtù dei poteri di cui il padre mio ha insignito la mia persona; uomini di Númenor, punto o poco potrei aggiungere alle parole che il mio vassallo ha testé pronunziato dinanzi a voi; solo, se la volontà dei giudici fosse quella che tutti noi ci aspettiamo possa essere, allora io così li esorterei, ché non siamo qui per giudicare coloro i quali crimini hanno decretato il fato, ma per perseguire le leggi dei nostri padri. Arthol ed i suoi seguaci dovevano essere condannati a morte, oppure il regno non avrebbe avuto alcuna facoltà di sussistere nei cuori e negli animi degli uomini; infatti, non fu detto che esso si sarebbe preservato florido nel corso degli anni, se la stirpe di Elros fosse rimasta sul trono? Morti coloro che impedivano ai congiurati di condurre a termine i loro piani, non sarebbe venuta a mancare Númenor stessa?

Certo, molti fra voi potranno rimembrarmi che la stirpe dei principi del Mittalmar condivide il mio medesimo sangue ed essi sarebbero dunque miei fratelli; eppure, tale parentela non avrebbe forse dovuto scongiurare i loro animi dal perseguire un simile crimine, anziché indurli a tramare contro la mia casata? Posto che gli oscuri piani di costoro avessero trovato compimento, non sarebbe stato, il loro atto, tale da cancellare ogni loro pretesa sul sacro scettro di Númenor?

Or dunque, o giudici, abbiamo costì decretato la sorte di costoro, rimembrando le leggi dei padri e la virtù dei nostri animi".

Molti si levarono in piedi allorché l'orazione di Gimilkhâd ebbe termine e vi furono alcuni che presero a mormorare essere costui ben più capace del fratello maggiore nel detenere scettro e trono; sconcertati erano i volti dei Fedeli, ché essi avevano compreso quale malizia covasse nel cuore di Akhôrahil, ché egli, trucidati quanti si opponevano al suo volere e che – alcuni sostenevano e non a torto – egli stesso aveva in principio sostenuto, salvo poi rinnegare gli accordi presi allorché i principi del Mittalmar erano sfuggiti al suo controllo, avrebbe ottenuto grande autorità sulle sorti di tutti loro.

Forte si levò, allora, la chiara voce di Gilnar ed egli così parlò: "Uomini di Númenor, e voi, giudici dello Scettro, ascoltate ora le parole che Gilnar, figlio di Nardil, pronunzierà dinanzi a voi.

Gravi colpe sono state in procinto di essere commesse, né vi è alcuno fra noi che potrebbe mettere in dubbio la colpevolezza di coloro che si macchiarono di tali crimini; pure, se è mio diritto esprimere il mio giudizio su tale faccenda, non dirò che codesto sia stato un equo processo".

Mormorii di sorpresa si levarono allora dagli scranni e vi fu chi, fra quanti militavano nelle fila degli Uomini del Re, levò imprecazioni e accuse di codardia contro colui che aveva parlato innanzi a loro; eppure, Gilnar non ritrasse alcunché di quanto aveva pronunziato e, levata la mano per chiedere nuovamente la parola, proseguì:

"Vi è in tale consesso, o giudici, chi crede essere l'arte dell'emettere sentenze propria di coloro i quali siano pronti a sostenere ragioni personali a scapito della verità: chi, infatti, tra quanti hanno plaudito alla condanna dei due giovani, ha domandato che fossero accertate le responsabilità di quanti condussero i loro destini alla morte?

Akhôrahil ha giurato innanzi al Consiglio e all'erede al trono quanto ogni sua parola ed ogni suo atto fossero dettati dalla volontà di perseguire la verità; ebbene, dove sono le prove che testimonierebbero la colpevolezza di quanti la scure del boia ha giustiziato senza che noi fossimo avvertiti di tale atto? Gimilkhâd ha affermato di aver compiuto tale atto in virtù dei poteri che il sovrano gli ha concesso, eppure, uomini di Númenor, non credete che sarebbe stato suo dovere avvertire della propria scelta colui che un dì siederà sul trono marmoreo di Armenelos? Perché egli non ne fece parola con alcuno, tranne che con Akhôrahil, il quale, sebbene sia un principe, non è di sangue reale né è l'erede al trono?"

Un grave silenzio scese allora sulla sala e quanti erano presenti presero ad ascoltare con viva attenzione quanto il principe dell'Hyarrostar pronunciava; egli si arrestò per qualche istante, infine proseguì:

"Se io, o giudici, fossi colpevole di misfatti quali la giustizia di Akhôrahil e di Gimilkhâd hanno non meno di un giorno fa puniti con la pena capitale, pure potrei sedere sullo scranno ove mi trovo senza temere alcuna condanna, dal momento che coloro i quali si sono recati nelle aule di Mandos più non hanno facoltà di parlare e la dimora nella quale si vocifera tali misfatti ebbero avuto luogo, si dice sia bruciata in un grande incendio; ebbene, o giudici, non vi pare che tali eventi costituiscano una curiosa ed inquietante coincidenza? Che cosa rimane di quanto complottarono costoro, che sia sopravvissuta alla ferocia del boia e a quella delle fiamme corruttrici? Nulla, se non le parole che costoro pronunziarono dinanzi a noi, asserendo che esse corrispondano al vero, senza peraltro apportare prova alcuna se non le dichiarazioni di colpevolezza che i principi del Mittalmar avrebbero vergato di loro pugno nel tentativo – così è stato detto – di avere grazia; eppure, uomini di Númenor e voi giudici, è stato detto che il vorace lupo può tramutarsi in pecora, pur di non destare sospetti nel pastore e nel suo segugio".

In preda all'ira, così avvampò Akhôrahil: "Quanto hai testé pronunziato innanzi a noi, è invero grave, sicché nessuno fra quanti ricordano le antiche leggi dei nostri padri, muoverebbe contro la mia decisione, se essa fosse di accusarti di alto tradimento e di vilipendio; tuttavia, poiché mi avvedo che uomini onesti e probi quali noi siamo non abbisogniamo di macchiare nel sangue di un pari le proprie vittorie – e così dicendo si inchinò ironicamente al principe dell'Hyarrostar – nulla, che non sia il dolore di un animo ingiustamente provato da tali accuse – ché ben m'avvedo essere il bersaglio di ogni tua infame dichiarazione – potrà suscitare in me ogni tua parola".

Per ultimo prese la parola Palantir ed egli si espresse in questi termini:

"Figli di Númenor, lasciate che io parli dinanzi a voi, ché invero gravi crimini sono stati commessi ed altri sarebbero forse giunti se altri – e qui parve ad Erfëa che lo sguardo dell'erede al trono si posasse su di lui – non avessero rivelato le oscure macchinazioni che muovevano contro i sovrani di Elenna; gli uomini lungimiranti, tuttavia, sono soliti dichiarare che la verità, lungi dall'essere raggiunta, è una meta alla quale noi tutti dobbiamo costantemente tendere, ché essa potrà essere raggiunta solo con lo sforzo e la collaborazione di tutti.

Sia dunque aperta un'inchiesta per accertare le responsabilità di quanti operarono al fine di sterminare i reggenti di Andor; affinché sia una giusta indagine, si indaghi pure sul mio conto, se qualcuno crede esservi segreti occulti che la mia casata nasconde nel suo seno, ché non sarò io ad oppormi ad una simile richiesta: come può, infatti, un principe essere superiore alla legge del proprio Stato?

È nostro dovere perseguire, in pace e in guerra, quanto i nostri antenati hanno scritto di loro pugno sugli antichi manoscritti, né si deve invocare in maniera sì avventata il nome dei Valar – e quivi parve che il suo sguardo si posasse su Akhôrahil e che egli lo abbassasse in preda all'ira e alla paura – ché nessuno fra noi conosce gli intenti che animano le Potenze dell'Occidente, né alcuno fra i Secondogeniti può parlare in loro vece".

Furente fu Gimilkhâd, allorché si accorse che grande amore animava il cuore dei Fedeli nei confronti del suo fratello maggiore, né coloro che erano del suo partito sembravano contrapporre una valida risposta dinanzi alle dichiarazioni del sovrano; abbandonò dunque la seduta, ché aveva compreso essere segnato il suo fato, né egli avrebbe mai impugnato lo scettro di Númenor, ché suo padre era ormai imbelle e non aveva alcuna autorità né sui Principi del Consiglio dello Scettro, né sul popolo: imbarcatosi alla volta della Terra di Mezzo, accompagnato dal figlio e della moglie, egli vi si stabilì finché la morte non lo colse che era ancora giovane secondo il metro della longevità dei discendenti di Elros.



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