| Capitolo 8 - Parte 3/4 - Fuga |
Il Pallido giustiziò chi ancora agonizzava. Tutti, nemici o alleati che fossero, si ritrovavano le sue unghie ficcate nel costato e un biglietto di sola andata per gli inferi. Era metodico e pulito nell'uccidere: un automa che colpiva con la stessa pietà con la quale si castiga il pollo che ha assassinato la tua famiglia. Alcuni storsero il naso, altri pensarono che si trattasse di un sacrificio necessario alla comune sopravvivenza. Brillo strinse le mascelle, allontanandosi per non assistere a quelle esecuzioni: molte di quelle persone potevano essere salvate o erano diventate così innocue da non costituire più un problema. Perchè si ostinava a rinforzare le fila dei suoi non-morti?
Guadagnate la sala da pranzo e quella da cucito, il Pallido ordinò che a piccoli gruppi si andasse a esplorare le stanze adiacenti; chiese anche che gli si portassero due mele croccanti e una bottiglia di grappa, ma chi si offrì volontario approfittò di quella mansione per arraffare quel che poteva e darsi alla fuga.
«Non hanno neanche salutato. Che ingrati» disse il negromante, affacciandosi alla finestra e vedendoli disperdersi per i campi.
«Ci pensi tu cara?» chiese a Rea, vedendola allontanarsi in direzione delle cucine. La donna rispose con un cenno.
Seguì Brillo in silenzio, massaggiandosi le nocche.
«Zoe farà una faccia quando ci vedrà insieme» ghignò la donna, preparandosi all'azione «...la sua gratitudine e... aspetta!»
La spora sgusciò sotto alla porta e dall'altra parte trovò la cuoca in compagnia di una guardia, corpulenta e baffuta come un tricheco.
Nella cella frigorifera i cani reclamavano sangue.
Il barrito di guerra dell'orco gli smosse le viscere. Le corse incontro e, evitando due fendenti orizzontali del suo coltellaccio, si avvinghiò all'anca, come un koala abbraccia il tronco di un albero. Avrebbe scalato il busto fino alla giugulare se la guardia non l'avesse afferrato per la collottola e lanciato contro al muro.
I due orchi si scambiarono grugniti e schiocchi d'intesa, coordinandosi per accerchiarlo. Brillo si slanciò sotto alle gambe della cuoca, sparendo sotto alla gonna della divisa e riapparendo sopra banco da lavoro, dall'ombra di una teiera. La lama da cucina tagliò l'aria in due, fischiando. La spora venne travolta da una ventata d'aglio e prezzemolo prima, da una manata della guardia poi.
Smise di usare il salto nell'ombra, ripromettendosi di utilizzarlo solo se necessario: anche i suoi nemici iniziarono a pesare le energie e attaccare solo quando sicuri di riuscire ad arrecar danno. Passarono gli ultimi minuti a digrignare i denti, in affanno. La vista s'appannava e ogni respiro bruciava in gola.
Fu in quel momento che tutti e tre si accorsero che la cucina era invasa dal fumo. Spirava da ogni lato della porta, circondandola di un bagliore angelico; i suoi contorni brillarono più intensi prima di sbriciolarsi in un mucchietto di cenere.
Dalla foschia cinerea si erse una figura femminea. Stringeva tra i denti una pipa, che sbuffava tondissime nuvolette bianche. L'altra mano, nera come il carbone, ardeva.
«Fa caldino eh?» disse Rea, imprimendo il palmo infuocato sul petto della guardia. La mano affondò come un cucchiaio nel budino. Morì in fretta, guardando la piromante dritta negli occhi.
Rea gli leccò i baffi ispidi prima di scalciarlo a terra. Gettò il suo cuore ancora pulsante in un pentolone.
Quando la cuoca emise l'ennesimo urlo di guerra, Brillo scattò in avanti, sparendo fino a guadagnarsi l'ombra tremula di un obelisco di piatti. Con una zampata glieli fece cadere addosso, piombandole sulla schiena e affondando i canini sul suo collo morbido. Dilaniò le sue carni finché non crollò a terra.
Rea le diede il colpo di grazia, raccogliendo dal suo corpo esanime un mazzo di chiavi.
«Saran mica là dentro mele e grappa, eh Brillo?» chiese, senza attendersi una risposta della spora. Aprì la porta e un fascio di luce pulviscolare illuminò una bimba, una guardia e un cagnetto, un chihuahua, tremante tra le sue braccia. Era un cucciolo di tartarre, una tartarughina. Una criniera di boccoli color ciano incorniciava una testolina salata dalle lacrime. Vestiva un abito d'importazione, ricamato dai più talentuosi bruchi del continente di Etacan. Dovevano essere gli stessi che aveva fiutato giocare a palla nel cortile fuori dalla sua cella.
La bimba invocava il nome di Miss Lilibeth, singhiozzava poi quello dei genitori, che l'avevano abbandonata in quel posto freddo, brutto e puzzolente quando la ribellione era divampata. Quando vide la porta aprirsi infilò la testa nel guscio, continuando a piagnucolare.
«Tu!» disse Rea alla guardia, lanciandole il mazzo di chiavi. «Aprile, e liberali tutti»
Ordinò, prendendo in braccio la bimba.
I cani prendevano a spallate le sbarre delle loro celle.
La guardia tentennò.
«Fallo».
Aprì ogni cella e i cani si dispersero per la stanza. Qualcuno fuggì, qualcun altro rimase nella stanza e circondò il chihuahua. Il labrador, in disparte, annusava in direzione di Brillo.
«Va via, non le faremo del male. Ma lo faremo a te se se proverai a fermarci» disse Rea. La guardia, spogliandosi della sua divisa, fuggì inneggiando al licenziamento per giusta causa, e al fatto che fosse il suo primo giorno.
La spora si frappose, ringhiando, tra loro e l'animale da compagnia della tartarre. Non poteva farci nulla, era più forte di lui mettere a repentaglio la sua vita per chiunque puzzasse d'innocenza. Era un impulso più forte di ogni istinto di sopravvivenza. Sì sentì il ragazzo con le gambe lunghe e le gote arrossate, quando nei sogni difendeva Meringa dalle pietre dei ragazzini. E ancora lui, quando poi anni dopo proteggeva quegli stessi carnefici dalla pena capitale. Sì sentì Thelon, che si faceva sempre gli affari dei più deboli. Ringhiò così forte da intimorire ogni bestia nella stanza. Alcuni si spalmarono pancia a terra e Brillo poté odorare tutti i loro sederi in segno di amicizia.
Intanto Rea si occupava della bimba.
«È finita tesoro, non ti faremo nulla» le disse la piromante, melliflua. «Ma se vuoi un consiglio, tagliati questi capelli, sono scomodi. E chiunque te li può afferrare per farti cacciar fuori la testa dal guscio.»
La mise a sedere sul tavolo della cucina, ripulendole il guscio come una badante ben pagata. «Oppure impara a non metterla più la testa nel guscio, e porta con fierezza i tuoi bei boccoli.»
La bimba annuì, che avesse capito o meno. Smise di invocare Lilibeth, tirando su col naso.
«Vedi i miei capelli?» scosse il capo, smuovendo la sua chioma bianco perla. Erano in disordine a causa del combattimento e puzzavano di sporco e di fuligine. «Pensavo ti tagliarli corti corti, però perchè dovrei se mi piacciono?»
«Sei vecchia signora, sono bianchi.»
«Non sono vecchia!» rispose subito, stizzita ma gentile. La bimba aveva toccato un nervo scoperto «Sono nata con i capelli bianchi.»
«Sarai nata vecchia, signora.»
Una vena le pulsò ai lati della tempia, la infossò con le dita e sorrise.
«Hai parenti in città? Qualcuno a cui tieni?»
Chiese dei genitori.
«Sono via, sono stati molto cattivi con tutti gli altri e adesso sono in punizione» sorrise.
La bimba si affacciò, nascondendosi ancora alla vista di guardia e cuoca stecchiti.
«Cattivi» ripetè.
«Sì, come ti chiami tesoro?»
«Mei» la sua vocina risuonò, amplificata dal guscio.
«Mei, la zia Rea adesso ti porta al sicuro.»
«Può venire anche Ettore?» chiese balbettando.
Brillo lasciò Rea e Mei in cucina e tornò dal Pallido. Il chihuahua lo seguì fino alla soglia, inchinandosi a lui. Quella sera Brillo sentì il suo vecchio cuore un po' più leggero.
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