Canto I
Signori e signoria,
dei dolori addominali
dei golosi son in balìa.
Spero di non scivolare in banali
rime ridicole e rideremo e
ricorderemo restii e
piangeremo per il canterino
colto in corsa verso il vasino.
Languiva sull'erba il Sole,
caldo e soffocante stamattina.
Assonnata, s'alzava Carolina
dalle lenzuola del candor delle viole.
In paese s'affollava e s'accalcava
una turba per salutarlo. Se n'andava
quel bizzarro cavalier solingo,
uomo mansueto ma malato e ramingo.
L'aveva lasciato andare.
Carolina l'avrebbe atteso,
quel suo padre amante del viaggiare.
La vita sedentaria gli era un peso,
e l'amata figlia n'era consapevole.
Il vento tremava e fievole
carezzava il mantello
del cavalier dal fulvo capello.
E partì, s'un cavallo
mai domato se non
da lui in un frenetico ballo;
sulle spalle l'amata fodera con
la spada immersa nel suo sopore
profondo e indisturbato torpore.
Non l'aizzava da anni
per a qualche poveretto recare danni
o lacerarne i ruvidi panni.
Non era più un giovinetto
e dell'età non mostrava gli affanni
seppur sull'addome avesse già qualche etto.
Quando la smania di gloria l'aveva spinto
a vagar per mondi, fu vinto
dall'amore d'una gentil dama
avvolta d'una nobile fama.
Eran volati i tempi e i giorni
gli avevan levato
quella passione incontrata nei dintorni
del suo paese, ma gli han donato
una figlia più bella
d'una graziosa e luminosa stella.
E la voglia d'andare ed errare
lo colse e lo riportò a viaggiare.
Ed eccolo ripartire,
in preda ai suoi umori
e al suo patetico patire.
Qualcuno gli porse dei fiori,
gli fece gli auguri,
gli fece un pronostico sui mali futuri.
Lui sfoderò sfavillante un sorriso
in cui gli s'accartocciò l'intero viso.
E volò giù dal colle, s'addentrò
nelle viscere d'una fitta foresta,
tra olmi e frassini e faggi s'inoltrò
nelle fauci dell'oscurità più mesta.
Nell'intreccio di foglie e rami
vide tronchi dai più curiosi ricami,
piante e arbusti alti fino al cielo.
Trottò per ore fino a raggiungere un melo
nel cuore d'una rigogliosa radura.
Si fermò e ne rubò i dolci frutti,
quando vide non lontano, cupa un'insenatura.
Si spalancava tra i massi brutti
e le pietre d'una rocciosa
parete ai margini dell'erbosa
spianata col melo carico
di splendidi pomi. Con rammarico,
il cavalier scoprì la vuotezza
della fessura, povera
della più mera bellezza.
Rimasuglio d'un'altra era,
era un grigio cunicolo in rovina.
E in lacrime vi trovò una bambina,
aggredita da un feroce pianto,
intenso e lamentoso canto.
"Cos'hai?" Le chiese
rassicurante il cavaliere.
"Han bruciato le chiese
e le case. Mio padr'era cameriere
per la ricca gente di quel paese
e quando il governatore s'arrese
era già fin troppi tardi!
L'han ucciso quei bastardi!"
Pur scandalizzato dall'aguzzo
lessico della bambina,
pensò di non fare lo struzzo
e domandò dove fosse la cittadina.
"Cinquanta passi scarsi
da quella parte e i tetti arsi
potrai scorgere.
Vorranno insorgere
se leverai l'arma su di loro.
Sta' attento, sanno
bene quel che fanno.
Riprendi e riportami l'oro,
ti potrò ricompensare
dandoti d'amare."
Il cavaliere ammutolì
e, senza aggiunger altro, le ubbidì.
Signori santi e
belle dame, finito
ho il tempo adibito
alla recitazione e
me ne torno in bagno casa mia.
Se d'ascoltarmi v'assalirà la mania
e non saprete tenervi i piedi tra le mani,
m'incontrerete qui a quest'ora, domani.
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