Il Lupo

Aveva più di cento anni e nonostante non lo avesse scelto, era un solitario. Il suo branco si era diradato di anno in anno, complici gli agguati dei cacciatori e la scarsa reattività dei suoi compagni. Aveva scelto una sola compagna per la vita ma per lei, quella vita, era stata ahimè troppo breve, lasciandolo presto solo come non avrebbe mai voluto sentirsi.

Anche gli animali soffrono di solitudine, sapete? Ebbene sì e dato che socializzano solo con altri della stessa specie, dato che il Lupo era rimasto l'unico della sua nel bosco, non aveva più avuto modo di socializzare.

Cento anni sono tanti, specie quando la metà sono trascorsi solo con te stesso. Gli ultimi poi erano stati parecchio difficili da superare: il clima impazzito, la scarsità di cibo, la morsa dei cacciatori.

Il Lupo era stanco, di sopravvivere, di vivere. Non ricordava più ormai cosa volesse dire essere felice, non ricordava più la gioventù, non ricordava più l'ultima volta che aveva sentito i lamenti giocosi dei cuccioli nel suo branco; non ricordava nemmeno più il suo branco.

Forse l'ultima volta in cui aveva avvertito un pizzico di gioia, era stato quando aveva trovato quel cumulo di carcasse che l'uomo alto e gentile gli aveva lasciato accanto all'alta roccia ad est del grande pino mugo.

Era abbastanza esperto da sapere che, per sicurezza, era conveniente restare nascosto nelle ore di luce e cacciare di notte ma lasciando via libera ai cacciatori, che facevano man bassa delle sue stesse prede, la notte, quando finalmente usciva dalla sua tana, tutto quello che poteva comporre il suo banchetto erano topi di campagna e qualche serpente poco scaltro per tentare la fuga.

Aveva fame, sempre più fame. La stagione non era d'aiuto perché il caldo, che anni prima terminava puntuale come un orologio, adesso proseguiva per altri due o tre mesi, mandando in confusione tutta la fauna e la flora del bosco. Oltre alla fame soffriva il caldo e non potendo levarsi il pelo, come faremmo noi con un cappotto, spesso dal nervoso prendeva a grattarsi con le unghie e con i denti, arrivando a levarsi ciuffi interi di pelo grigio.

Era magro, troppo e il fatto di avere il pelo a chiazze, lo faceva sembrare ancora più smilzo, mettendo in risalto occhi e orecchie che parevano invece enormi.

L'unico modo per cercare di tirare avanti, era provare a cacciare di giorno, sfruttando la presenza dei cacciatori che mettevano alle strette le prede più grosse come cervi, daini e cinghiali. Aspettare poi che questi venissero uccisi dagli uomini e in modo ahimè vile, rubare le carcasse prima dell'arrivo dei loro segugi.

Una volta era stato un vero alfa, un capo branco, bellissimo e fiero. Ora, quando si specchiava nelle acque del ruscello più nascosto del bosco, faticava a riconoscersi.

Sarebbe stato più facile arrendersi alla vita, porre fine alla sofferenza, arrendersi ai cacciatori ma anche se nell'aspetto non ricordava più il vero se stesso, dentro, non poteva non sentirsi chi era veramente: un lupo dal carattere forte, un combattente, che mai si sarebbe arreso, che avrebbe dato la vita per ogni lupo del suo branco.

Con questa consapevolezza iniziava e terminava la giornata, trovando la forza di sperare che presto o tardi qualcosa sarebbe cambiato.

Un giorno infatti sentì nell'aria l'odore dell'uomo alto e gentile. Sperando di trovare un dono come quello che gli aveva fatto settimane addietro, si caricò di entusiasmo e con orecchie vigili, scivolò dietro la sua traccia.

Lo vide finalmente ma di carne non ne fiutò nell'aria.

L'uomo parlava con un esemplare della sua specie ma di sesso opposto, accanto ad una casetta di legno di larice che profumava di zenzero e cannella.

Il Lupo sforzò ancora un poco i suoi sensi, in particolare l'olfatto, andando oltre il profumo delle spezie e lo sentì: il profumo più invitante che avesse sentito negli ultimi anni.

Lasciò che gli umani continuassero a parlare e con la leggerezza di una farfalla in volo, si avvicinò al retro della casetta.

Lentamente, alzò il lungo muso verso la finestra aperta. Drizzò le orecchie e cercò di contenere la saliva che, per l'acquolina, iniziava ad inumidirgli la grossa bocca.

Individuò la fonte di quell'irresistibile tentazione: stufato di cervo ancora caldo.

Con un primo balzo superò la finestra, con il secondo fu ai piedi del grosso tavolo della cucina, gli occhi puntati sulla grossa scodella fumante.

Si leccò i baffi con la lunga lingua e con le lacrime agli occhi per l'emozione, non indugiò ulteriormente spalancando le fauci, ingurgitando, in men che non si dica, tutto il suo contenuto.

Quando poco dopo la nonna rientrò in casa, pronta a godersi la colazione, trovando la scodella linda come panni appena lavati, senza darci troppa importanza, imputò alla vecchiaia la dimenticanza: convinta di non aver mai preparato la succulenta pietanza che ora invece riempiva (un poco) lo stomaco del povero lupo, per non restare a bocca asciutta, in men che non si dica, si preparò un'insalata verde con aggiunta di carote e olive nere (le sue preferite).

Fuori dalla finestra, nascosto tra i cespugli, il Lupo tirò un respiro di sollievo e fu grato alla buona sorte: aveva mangiato e anche se in fondo aveva rubato per farlo, non si sentiva poi tanto in colpa.

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