C'era una volta...

C'era una volta, tanto tempo fa (ma non troppo), in una terra lontana lontana (ma poi non così lontana), un piccolo villaggio di circa cento anime o poco più, di quei villaggi in cui tutti conoscono tutti ma in fondo non sanno poi tanto di nessuno. 

Lì, in quel villaggio dal nome non così importante, viveva un uomo gentile che di mestiere faceva il cacciatore. Viveva in una piccola casetta fuori dal centro del paesino, isolata e ben distante dalle altre casette. 

Al Cacciatore non piacevano troppo le altre persone e per un motivo ben preciso: faticava a fidarsi. Più di una volta gli era accaduto di incontrare gente che appariva in un modo per poi, a fatti, rivelarsi in tutt'altro. 
Per questo era spesso sospettoso e timoroso verso chi conosceva appena; a dirla proprio tutta non aveva veri e propri amici perché non aveva mai avuto la fortuna di incontrare le persone giuste di cui appunto potersi fidare per davvero. 

Era più il tipo a cui piaceva ascoltare piuttosto che parlare, una dote rara nelle persone, bella sì, ma solo per i pochi che la sanno apprezzare; qualità che invece, per la maggior parte delle persone comuni, è difficile da capire e spesso viene confusa con la superbia. 

Il Cacciatore invece era da sempre un uomo umile, semplice e appunto gentile. 

Aveva quarant'anni, non era brutto ma non era ancora sposato, cosa che per le abitudini dell'epoca e per il paesino dedito allo spettegolezzo in cui viveva, non era proprio normale o meglio, non era normale per la gente che si considerava normale. 

Se eri diverso eri strano. E il Cacciatore, suo malgrado, era sulla lista di quelli che facevano un po' troppo la differenza. 

Il villaggio si trovava in un Reame popolato da tanti villaggi, tutti più o meno simili tra loro, in cui la gente pensava tutta (o quasi) con la stessa testa.  

L'epoca non era tra le più facili. Se si tentava di fare la differenza si rischiava la pena di morte! Erano davvero rari coloro che cercavano di emergere dal gregge. Molto più comodo adeguarsi alla massa e tirare avanti. 

Fortunatamente non tutti nascono per seguire a testa bassa la linea comune.
Alcuni nascono per emergere e far sentire la propria voce e tra questi, anche se ancora più rari, ci sono quelli capaci di avere il coraggio di fare davvero la differenza. 

Il Cacciatore era diverso o per lo meno sapeva di volerlo essere ma ahimè non era mai riuscito a trovare il coraggio di dare la svolta definitiva al proprio sé stesso. 

Aveva preso in mano il fucile, per la prima volta, a otto anni. Figlio di cacciatore, discendente da una famiglia che per secoli non aveva fatto altro che quello di professione, come da tradizione, aveva seguito le orme paterne. 

All'epoca ai bambini non veniva mica data la possibilità di scegliere il lavoro da fare da grandi né si pensava che i piccoli eredi potessero avere idee sul futuro diverse da quella di seguire l'esempio dei genitori. 
Era logico che il figlio del fornaio facesse il fornaio, quello del contadino il contadino e via dicendo. 

Fu per questo motivo che il Cacciatore divenne cacciatore (anche parecchio bravo) ma quasi fin da subito, anche se ancora bambino, capì che non gli piaceva uccidere gli animali e che odiava sentirsi in colpa ogni volta che, con il suo fucile, spegneva la vita di un povero cervo o di uno sfortunato cinghiale. 

È vero, con il lavoro poteva guadagnare i soldi necessari al sostentamento della sua famiglia ma secondo la sua logica (e a ragione), poteva fare lo stesso facendo il contadino o il fabbro o un qualsiasi altro lavoro che avrebbe potuto imparare con la stessa dedizione con cui aveva imparato a cacciare. 

D'altra parte però, come confessare alla propria famiglia che quel lavoro, così meticolosamente portato avanti di generazione in generazione, era ciò che lui detestava più di ogni altra cosa?  

Se lo avesse saputo, suo padre lo avrebbe preso a schiaffi e calci nel sedere e lo stesso avrebbero poi fatto i suoi fratelli maggiori, subito dopo averlo deriso in coro per il colpo di testa e rimproverato per la calunnia pronunciata.  

Non gli avrebbero creduto e l'avrebbero picchiato e l'indomani lui sarebbe dovuto ritornare, come ogni giorno nel bosco, fucile alla mano, a fare ciò che era giusto fare per rispetto alla famiglia.  

Due erano le possibilità che la sua mente laboriosa gli aveva suggerito: ferirsi gravemente ad entrambi gli occhi o scappare di casa. Diventare cieco gli avrebbe impedito sì di cacciare ma anche di fare qualsiasi altra cosa, rendendolo un peso per la famiglia mentre la fuga avrebbe significato sì libertà ma lontano dalle persone a cui teneva di più. 

Gli anni passarono, il padre del Cacciatore morì e lui decise di intraprendere altrove la sua vita, lontano anche dai fratelli ma non riuscì comunque a smettere, del tutto, di essere un cacciatore. 

Il Reame non era poi tanto grande e se un membro di una nota famiglia di cacciatori si mette improvvisamente a fare il fruttivendolo, presto o tardi, tutti gli abitanti del Reame lo verranno a sapere. 

Così il Cacciatore, vittima del possibile giudizio degli altri, continuò a cacciare fingendo però di non esserne propriamente capace. La mattina si alzava prestissimo per essere il primo ad entrare nel bosco e non faceva mai squadra con gli altri cacciatori del villaggio. 

Gli piaceva (e molto) stare nel bosco perché lì c'era il rumore del silenzio che al villaggio e in città non si poteva di certo trovare.  

Nel bosco, era come se il tempo rallentasse e la natura si facesse sentire con prepotenza, con i suoi suoni unici ma non forti da far male alle orecchie bensì forti da scuoterti dentro.

Il Cacciatore, di norma, sceglieva un punto dove appostarsi, ben nascosto, depositava a terra il fucile, chiudeva gli occhi e ascoltava. 

Dei giorni rientrava al villaggio senza prede, altri era costretto a portare qualcosa, anche per venire pagato per il suo servizio e poter quindi mangiare e vivere a sua volta. Sceglieva però con cura le sue vittime, animali anziani o deboli che aiutava a morire. 

Sia chiaro, non passava quelle ore ad occhi chiusi e orecchie aperte ma si dedicava al suo, per così dire, secondo lavoro.  Al Cacciatore piaceva scrivere, così aiutava di buon grado, i giovani studenti dell'Accademia del Reame a preparare compiti e tesine. 

Di solito, chi frequentava l'Accademia erano giovani di ricca famiglia, costretti anche loro a seguire le orme dei genitori, per diventare politici, magistrati, contabili o semplicemente nobili di corte. Ma anche loro, spesso, avevano lo stesso problema del Cacciatore, con la sola differenza che, in prospettiva di una vita ricca e agiata, si facevano piacere i ruoli cui erano destinati ma non avendo voglia di studiare, preferivano pagare qualcun altro (con i soldi dei genitori e a loro insaputa) per il disbrigo di quelle noie. 

Per la sua apparente inabilità a cacciare, al villaggio le malelingue lo avevano soprannominato lo strabico, imputando ad un difetto della vista l'incapacità di fare centro nei bersagli. Nel bosco infatti di prede ce ne erano, anche se non più tante come prima ma dal macellaio gli altri cacciatori riportavano almeno cinque prede a testa mentre lui, troppo spesso, si presentava a mani vuote. 

Si era accontentato per anni di quella vita vissuta fingendo di essere qualcuno che, in cuor suo, aveva smesso di essere da parecchio tempo; ancora non sapeva però che, di lì a breve, avrebbe fatto più di un incontro che l'avrebbe aiutato a mettersi sulla giusta via per essere finalmente sé stesso.

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