31. La mia scelta
Non sei stanco di nasconderti, Othen? Non brami forse la giustizia per tutti gli innocenti detenuti e uccisi a causa della paura?
Sì, Zellania ha ragione.
Con le labbra nascoste tra le dita e i gomiti sul tavolo, fisso un punto imprecisato nella sala da pranzo privata di mio padre. Le membra ancora mi tremano al ricordo di quella donna terrificante: quando questa notte è apparsa in camera mia, c'è mancato poco che collassassi.
Ma era viva o morta? Aveva la pelle che si staccava dalla carne, per Galadar!
Comunque non è importante, visto che le sue parole continuano a tormentarmi. Posso davvero fidarmi di lei? Se faccio ciò che mi ha detto, potrò finalmente vivere libero?
«Stamani ho ricevuto una lettera da Kayleen! Dice che a Gareah il clima è splendido, in questa stagione.»
La voce squillante di Sylas mi trascina fuori dai ricordi e metto a fuoco la stanza che mi circonda. Gli arazzi pomposi che decorano le pareti mi danno il voltastomaco e sento le viscere contratte, tanto che l'odore che mi assale le narici dal piatto di carne tra i miei gomiti mi pare tutto fuorché invitante.
«Hanno trovato una nuova via nei Monti Splendenti: pare che l'oro trabocchi dalle rocce!»
Il lungo e stretto tavolo in mogano lucido riempie la maggior parte dell'area della stanza e io sono costretto a guardare mio fratello, seduto proprio davanti a me; il suo entusiasmo non riesce a essere contagioso.
L'osservo mentre mangia con aria trasognata e mi rendo conto che ormai è maggiorenne, ma la pelle liscia e i lineamenti del viso lo fanno sembrare un ragazzino, nonostante siano spigolosi quanto i miei. I lunghi capelli corvini gli cadono ordinati dietro alle spalle e, come me, indossa una tunica blu, i colori dei nostri vessilli.
Deve piantarla di imitarmi.
Quando lo guardo, mi pare di specchiarmi nella mia versione più giovane e ora capisco quanto mi infastidisce; se non fosse per l'età e per le iridi scure che Sylas ha preso da nostra madre, la gente ci scambierebbe per gemelli.
Come posso fargli questo?
Non sei stanco di celare te stesso?
Stringo i pugni, abbassando il capo senza guardare nulla mentre la voce suadente di Zellania non mi dà tregua.
Sono stanco, sì, davvero stanco.
«Sono ovviamente al corrente di questo fatto. Vostra sorella non dovrebbe scrivere informazioni delicate in semplici missive. Se qualcuno l'avesse intercettata, sarebbero potute accadere cose spiacevoli. Le spie del nemico sono ovunque.»
Il re, a capotavola, si è espresso sibilando con gli occhi sottili saettanti tra me e Sylas. Assapora il cibo con misurata lentezza, attento a non insudiciare di briciole la curata barba ingrigita dall'età, anche se le mani gli tremano ormai da anni a causa della malattia.
Quanto gli resterà ancora da vivere?
Comprendo che sia straziante, ma è necessario.
Lotto contro l'istinto di portarmi le mani alla testa: non servirebbe a far tacere quella voce. Sylas sbuffa in modo sonoro e si gira verso di lui, poi gli sorride.
«Padre, siamo in pace. Perché vi ostinate a vedere nemici ovunque?»
Mi spingo contro allo schienale della comoda sedia imbottita e incrocio le braccia al petto, ascoltando, ombroso, la risposta piccata del re.
«La pace è un usignolo che canta su un ramo solitario, circondato da corvi in attesa; alcuni lontani, altri molto vicini.»
Mi sto martoriando le labbra coi denti e non riesco a guardarlo. Le sue parole mi costringono a deglutire, mentre nel petto sento formarsi un peso indicibile. Sylas, però, ride.
«Come siete fatalista!»
Il re sospira, afferra la campanellina dorata che tiene accanto alle posate e la suona. In meno di dieci secondi, sette domestici entrano dai portoni della sala da pranzo; tre ci tolgono il piatto da davanti, altri tre lo sostituiscono con uno vuoto e l'ultimo adagia sul tavolo un grosso recipiente d'argento colmo di frutti maturi. Poi spariscono, richiudendo l'uscio alle loro spalle.
È da sempre che il re ama pranzare da solo coi suoi figli. Lascia passare qualche istante, poi afferra una mela.
«Non è questione di essere fatalisti, figlio mio. Sono vecchio, malato, e quello zuccone di tuo fratello ancora non si è degnato di prendere moglie. Il popolo ha bisogno di certezze e non immagini in quanti siano in attesa di un piccolo passo falso, per entrare nella giostra del potere.»
Sento lo sguardo di entrambi su di me, anche se non li sto guardando con attenzione. È tipico di mio padre parlare di me come se non fossi presente e so che lo fa per smuovermi, per spronarmi ad agire per il bene del regno.
Certo che dovrei sposarmi, ma come posso? Come potrei generare degli eredi in questo ambiente? Se in qualche modo infondessi in loro la mia magia, sarebbero costretti a nascondersi e soffrire. Non lo sopporterei.
«Othen, cos'hai? Sei silenzioso.»
Sylas prova a smuovermi e io mi ritrovo a ondeggiare una mano davanti alla faccia.
«Padre, cosa sareste disposto a fare per mantenere la pace? Per seguire la giustizia?»
Mi alzo per allentare la tensione che sento crescere nei muscoli, poggiando i polpastrelli di entrambe le mani sulla superficie del tavolo, e non mi stupisco nello scorgere le rughe sulla fronte del re inasprirsi, mentre lui apre appena la bocca. Sylas appare confuso e inclina il capo, ma dopo qualche secondo d'esitazione nostro padre risponde alle mie domande.
«Ogni azione compiuta per inseguire l'armonia è un'azione giusta e saggia.»
Faccio schioccare la lingua sul palato, stortando la mascella: me l'aspettavo.
Presto sarai re, ma nulla potrai se mostrerai la tua vera natura. Verrai rinchiuso, verrai ucciso. Da troppi secoli Reah disdegna e teme le arti arcane. Fai ciò che ti ho detto, e vedrai che raggiungerai il tuo scopo.
Come? Come potrebbe la morte del re condurmi a far valere la mia voce? Zellania ha detto che serve una scossa, un evento enorme, eclatante. Ha detto che mi aiuterà, che incolpare Sylas è la chiave di tutto. È davvero giusto e saggio accendere la miccia della guerra, per poter vivere libero?
«Othen, stai... piangendo?»
Assottiglio le palpebre e, colmo d'indignazione, fisso in viso mio fratello che ha appena parlato sbigottito, schiacciato contro allo schienale della sedia. In me cresce l'odio, lo sento: un sentimento bruciante e terribile verso questa società ingiusta, ma lui non ha colpe. Assieme all'odio divampa la vergogna per queste lacrime silenziose che mostrano quanto io sia ormai perduto.
Sì, perduto, perché ho compiuto la mia scelta.
«Figliolo, quali sono i pensieri che ti turbano?»
Il re è calmo e forse sarebbe riuscito a farmi ragionare, se questa fosse una situazione normale. Se sapesse che ha generato un figlio incantatore, resterebbe così quieto e serafico?
Cinque rapidi passi e annullo la distanza che mi separa da lui; mantengo il capo chino, i capelli mi circondano i lati del volto, annullando la visione periferica, ma non ho bisogno di scorgere altro se non l'oscurità crescente nel mio animo. Mi disgusta, ma devo abbracciarla o non troverò mai il coraggio di agire.
«Othen?»
Sylas mi chiama, allarmato. Troppo tardi.
«Mi dispiace.»
Bisbiglio e, fulmineo, afferro uno dei tanti coltelli presenti al lato del piatto di mio padre e lo conficco nel suo cuore, spezzando carne e ossa senza alcuna fatica. Sylas grida il mio nome mentre il re si abbandona a un ultimo rantolo strozzato, prima che la faccia gli cada nel piatto vuoto.
Tremando, mi allontano in fretta e fisso lo sguardo terrorizzato di mio fratello, ora in piedi; con le mani al petto e la bocca spalancata, lui indietreggia fino a sbattere contro alla parete.
«Assassino!» Urlo, indicandolo, mentre sento la porta aprirsi alle mie spalle. «Assassino!» Ripeto, guardando lui e accusando me stesso.
«Avete visto? Avete visto cosa le arti arcane sono in grado di compiere? Come abbiamo potuto permettere che ciò accadesse? Deboli e inermi di fronte al potere, di fronte alla forza pura e semplice sprigionata dalla magia.
Io sono Othen Reah, principe di questa nostra bella terra ora devastata. Io sono Othen Reah e sono un incantatore. A lungo mi sono nascosto, a lungo ho temuto me stesso. Ma è finito il tempo della paura! Io sono Othen Reah, principe e incantatore, accusato di regicidio dal mio stesso fratello assassino e incolpato a causa del potere che in me cresce e vive, sicuro, sincero.
Lo chiedo a voi, brava gente di Neley: io a voi chiedo cosa sarebbe successo se oggi non fossi stato qui. Se oggi non mi fossi mostrato per ciò che sono, se oggi gli altri figli della magia, padri, madri, mariti e mogli rispettabili, non avessero risposto alla mia chiamata, uscendo allo scoperto dopo una vita celati nell'ombra.
Guardatevi intorno! La follia del principe Sylas ci ha portati a una guerra contro Rosendale! Avete dimenticato il passato? La fatica di battaglie inique dove solo i mercenari arcani di Nortin sono riusciti a permetterci di non soccombere? Io dico basta e a pieni polmoni invoco Varodil affinché possa tornare a benedire questa terra che troppo a lungo l'ha rinnegato!
Incantatori, soldati, guerrieri e gente semplice; uomini e donne di ogni razza: tutti voi io chiamo fratelli. A tutti voi io ora domando: qual è il senso nel dividerci e abiurare i doni dello spirito della magia? A che scopo sedarne il potere? Marciate con me, seguitemi, ora! Liberatevi dai beceri dogmi del passato e seguite Othen Reah, principe, incantatore, affinché la giustizia possa regnare oggi, domani e per altri mille secoli!»
Alzo la spada infuocata verso il cielo, ergendomi al di sopra delle genti poiché ho parlato dall'alto piedistallo della statua di Galadar ormai distrutta e riversa in pezzi, al centro della piazza bianca di Neley.
Il popolo grida, esultante, unendo cento voci a una sola, chiamando il mio nome. In prima linea ci sono loro, gli incantatori, infine liberi di esprimersi senza più timore; uomini e donne comuni, ma anche qualche miliziano. Sono tanti e mai me lo sarei aspettato: Varodil è stato rinnegato, ma la magia non ha mai abbandonato la mia terra.
Ce l'ho fatta. Loro sono liberi; io sono libero ed è il popolo a volerlo.
Tengo il braccio alzato e sorrido, anche se sono distrutto per la battaglia appena conclusa. Zellania ha controllato gli incantatori di Rosendale che questa notte mi hanno aiutato a uccidere Allan, a spedire Eatiel da lui.
Era necessario: dovevano morire perché sapevano troppo e la negromante può mantenere a lungo ottenebrate un numero limitato di menti. Finché ci converrà, basterà avere solo Re Helmund sotto controllo diretto, in modo che il suo esercito agisca secondo il suo volere, che è il nostro. Ora non mi resta che marciare su Tareah e imprigionare mio fratello. Sarò incoronato re e farò finire questa stupida e falsa guerra in fretta. Tutto andrà al suo giusto posto.
Sento qualcosa di liquido scendere lungo il braccio teso al cielo e corrugo la fronte, osservando che si tratta di sangue. Per qualche istante lo fisso mentre il popolo mi acclama, ma è così tanto che sono costretto a lasciar cadere la spada.
Da dove arriva? Non si ferma.
Anche l'altro braccio gronda sangue e, tremando, mi porto i palmi davanti alla faccia. Le mie mani non sono ferite, eppure è da loro che sgorga questo fiume cremisi; mi cola lungo il corpo, forma una pozza gigantesca sotto di me e riempie la piazza. La gente non se ne accorge, anzi, continua a tenere alti i pugni al cielo, felice, anche se i loro volti sono pallidi e scavati, le loro orbite buie e vuote.
«No!»
Othen gridò, alzandosi con tanta furia da cadere giù dal letto, ansante. Il primo istinto fu quello di guardarsi le mani e si calmò un po': erano pulite.
Un incubo, quindi, si era mischiato ai ricordi del passato. Da giorni, ormai, il principe chiudeva gli occhi e vedeva il sangue sulla pelle, tra le dita. Le strinse, strette, fino a sentire le unghie corte segnare i palmi in profondità.
Perduto solo a causa di sé stesso.
Ogni inganno e tradimento, ogni menzogna pronunciata con vigore era stata utile al suo scopo e pesava enormemente. Othen avrebbe resistito, però, portando quel fardello fino alla morte e anche oltre, quando infine sarebbe giunto innanzi al giudizio di Ilimroth. La frusta di Enoder si sarebbe abbattuta su di lui e sarebbe stato giusto; lui avrebbe sopportato, serbando nella testa i ricordi dei volti sorridenti delle persone che era riuscito a liberare e di tutti coloro che aveva dovuto sacrificare.
Più e più volte in quei giorni si era chiesto cosa sarebbe successo se avesse rinunciato, se avesse scelto di cambiare nome e fuggire in un'altra terra.
Se lo avesse fatto, avrebbe reso inutile il sangue già versato. No, si era spinto troppo oltre per tirarsi indietro.
Si alzò, spostando lo sguardo sui tendaggi candidi delle immense finestre della stanza, dai quali filtrava in modo tenue la luce del giorno. Aveva deciso di riposare nella sua vecchia camera e non in quella del re.
Era probabile che non l'avrebbe mai fatto.
Raggiunse lo scrittoio adagiato contro a una delle pareti decorate dai dipinti che aveva amato in giovinezza e si appoggiò sulla superficie liscia, mantenendo le braccia tese e abbassando il capo.
Quando il giorno prima era giunto al castello non era neanche riuscito a guardare in faccia suo fratello. Zellania aveva fatto un ottimo lavoro e la notizia di ciò che era accaduto a Neley si era sparsa ovunque, tanto che al suo arrivo a Tareah aveva trovato un gran numero di persone ad attenderlo, gioiose. Incantatori, ma non solo.
La città pareva divisa tra chi gli aveva creduto e chi, invece, era ancora restio ad accettare le arti arcane, dopo secoli di tradizionale astio. Tuttavia la minaccia di una nuova guerra magica era stata abbastanza pressante da permettergli di marciare senza scontri verso il castello. Anzi, le fila degli uomini e donne a lui fedeli era accresciuta a ogni passo e pareva che persino la caduta della lacrima avesse contribuito a farlo accettare: si vociferava che la stella collassata su Rosendale fosse un segno degli spiriti che richiedevano un cambiamento, e Othen avrebbe scommesso la corona che a mettere in giro quella voce fosse stata Zellania.
Del resto, lei era molto abile a entrare nelle menti delle persone.
Il principe non aveva trovato resistenza nemmeno al castello e le stesse guardie che l'avevano imprigionato, settimane prima, si erano arrese in modo spontaneo nel vedere il popolo riunito dietro di lui.
Lo avevano incarcerato con l'accusa di regicidio, credendo a Sylas solo perché era trapelata la natura da incantatore di Othen, ma ora che la situazione si era capovolta a suo vantaggio a passare nella parte del torto era stato il fratellino.
Othen si era limitato a ordinare che lo rinchiudessero nelle prigioni, situate nei sotterranei della struttura a est del castello. Non voleva vederlo, non voleva che gli parlasse o che gli rivelasse il motivo per il quale non aveva mai fatto trapelare la vera causa della morte del re. Non voleva chiederglielo perché già conosceva la risposta: Sylas lo aveva sempre adorato, per lui era un modello di riferimento, e quello era stato l'ennesimo stupido modo per proteggerlo.
Lui era l'unico che conosceva la verità e forse aveva sperato che, catturandolo silenziosamente, avrebbe potuto in qualche modo redimerlo o comprendere le sue motivazioni. Povero, ingenuo fratello... mentendo al popolo non aveva fatto altro che peggiorare la sua attuale posizione.
Othen sospirò, tirandosi indietro i capelli e perdendo qualche attimo per passarci in mezzo le dita, districando i nodi causati dal sonno. Si diresse all'armadio accanto alle finestre e aprì le ante, sorprendendosi del fatto che tutto fosse come l'aveva lasciato prima di diventare un assassino.
Quel giorno era importante: sarebbe andato alla grande piazza antistante i templi di Ilimroth e Galadar e avrebbe parlato alla gente come aveva fatto a Neley. C'era bisogno di un vestiario adeguato e fu quasi sul punto di scegliere gli abiti più sontuosi che possedesse, ma cambiò idea. Non voleva mostrarsi lontano e aristocratico.
Aveva basato la sua presa di potere sulla guerra, quindi così si sarebbe mostrato. Pantaloni lunghi, camicia di lino e l'armatura di cuoio cerimoniale con inciso il drago dormiente, dipinto poi d'oro.
Una volta vestito, aprì le tende e venne accecato dai raggi del sole ormai alto; aveva dormito parecchio e doveva essere quasi l'ora del pranzo, ma l'appetito l'aveva abbandonato da un pezzo. Legandosi i capelli di fronte all'enorme specchio all'angolo, lo sguardo gli cadde nel riflesso del letto a baldacchino drappeggiato di blu, troppo grande e vuoto.
Staccandosi coi denti l'ennesima pellicina dalle labbra, non riuscì a impedirsi di pensare ad Eatiel. Era certo fosse viva e avrebbe voluto averla al suo fianco, ma era ben conscio fosse impossibile.
Era stato costretto da Zellania a mandarla sui Monti Splendenti e forse era un bene, perché era cento volte meglio pensarla lì, al sicuro, invece che nello stesso edificio della negromante.
Era stato bello averla vicina e ancora sentiva il cuore fremere nel ricordare il suo viso. Con ogni probabilità, l'emissaria lo stava odiando a dismisura. Come darle torto? Il cuore di Eatiel era grande, puro, e lui gliel'aveva spezzato.
Non avrebbe dovuto legarsi a lei in quel modo: sapeva benissimo che avrebbe anteposto la sua missione a qualsiasi cosa, quindi perché illuderla? Perché amarla, nonostante tutto? Avrebbe dovuto saperlo e far tacere i sentimenti: luce e oscurità non potevano condividere un bel niente.
Dei pesanti colpi ai portoni lo fecero sobbalzare.
«Principe Othen! Siete in piedi? Principe!»
Era Craig, uno dei primi tra gli incantatori di Neley che erano usciti allo scoperto durante la battaglia, dimostrando spiccate capacità arcane: i suoi dardi di pura forza si erano rivelai grezzi, ma molto utili. Il modo nervoso e affrettato con cui l'aveva chiamato fece scattare Othen alla maniglia e la sensazione di allarme che aveva percepito si acuì, osservando quanto tirati fossero i lineamenti del giovane biondo e ansante di fronte a lui.
«Craig, cos'è successo?»
Il ragazzo tentennò come a ricercare le parole, poi indicò un lato del corridoio.
«Un uomo e una golunnar, principe! Li ho visti nelle prigioni mentre liberavano la spia di Rosendale e vostro fratello!»
Othen sgranò le palpebre e fece un passo indietro, perdendo un battito.
«Cosa? E le guardie?»
Craig scosse la testa con violenza, portando poi una mano a sorreggerla.
«Sono andate via da sole e non c'è stato verso di farle tornare alle segrete! È proprio vedendo loro abbandonare la posizione che mi sono deciso a scendere le scale e li ho visti. Pensavo di essermi sbagliato, ma ho capito che era proprio della musica quella che avevo sentito quando mi sono accorto che l'uomo aveva un liuto, con sé.»
Il principe restò impietrito con le labbra dischiuse.
Non era possibile, non poteva crederlo.
Si fiondò nella stanza e recuperò dal cassone ai piedi del letto la borsa da cintura che aveva portato con sé durante il viaggio, estraendone un pezzo di carta e tornando dall'incantatore di Neley, fermo sull'uscio.
«Era lui?»
Mostrandogli il manifesto da ricercato di Allan, Othen si accorse che la mano era preda di piccoli tremori. Craig lo indicò, annuendo con vigore.
«Sì, era proprio lui!»
Il principe lasciò cadere il foglio e si portò le dita alle tempie.
Gli aveva infilato una lama nel petto, lo aveva fatto impiccare, ma Allan era vivo.
Come? Per le stelle di Alanmaeth, come cazzo era possibile fosse ancora vivo?
Craig aveva detto che c'era una golunnar, con lui. Che avesse stretto un patto con Meg'golun per tornare dall'oltretomba appositamente per tormentarlo? Era ovvio fosse lì per lui, per avere vendetta.
No, no, stava delirando e il cuore gli batteva troppo veloce.
Strinse le dita attorno all'ametista che portava al collo e non si era mai tolto, vagliando l'ipotesi di teletrasportarsi in quel momento stesso nelle segrete per farla finita una volta per tutte.
Raggiunse la spada posata al muro accanto al letto e quasi menò il fendente che avrebbe aperto lo squarcio, ma desistette. Allan aveva un liuto. Se, per qualche odioso scherzo del destino, il bardo fosse già riuscito a recuperare quel dannatissimo strumento arcano, Othen non avrebbe resistito alla sua forza distruttiva. Certo, avrebbe potuto usare la gemma, ma non poteva rischiare affrontandolo da solo.
Tornò con l'attenzione sul ragazzo, rinfoderando l'arma e legando il fodero alla cintura in un misero tentativo di calmarsi.
«È rimasto qualcuno a fronteggiarlo?»
Craig non aveva ancora smesso di ansimare.
«Non lo so, cioè... Sono corso da voi più in fretta che ho potuto e ho visto la guerriera muta scendere le scale mentre io le stavo salendo.»
Othen tornò a sperare. Allan non avrebbe mai potuto far del male a Jaira, mentre lei aveva un compito preciso a cui non si sarebbe potuta sottrarre: proteggere il liuto arcano e le prigioni dalle minacce. Qualsiasi cosa fosse successa, Jaira gli avrebbe fatto guadagnare tempo.
Il principe recuperò da sotto ai cuscini la piccola sacca contenente l'oggetto più prezioso che avesse e la legò alla cintura, infilandoci dentro anche un paio di pozioni che gli aveva dato la negromante, per ogni evenienza. Compiendo quei rapidi e sicuri movimenti, si rivolse a Craig con voce finalmente ferma.
«Raduna le guardie, i soldati, gli incantatori: voglio che una buona metà lo aspetti fuori dall'ala est, compatti, in un ambiente ampio. Gli altri nella sala del trono, con me. Quell'uomo è instabile, pericoloso, e vuole me. Se riuscirà a uscire intero dalle prigioni, cosa che non stento a credere, ci faremo trovare preparati.»
Il ragazzo parve meno agitato e sorrise.
«Sì, mio principe!»
Othen si era lasciato trasportare dall'assurdità della notizia, arrivando a pensare che Allan fosse in qualche modo immortale, ma non poteva essere così: no, quel bardo era fortunato, nient'altro, ma la fortuna non gli sarebbe servita contro un esercito.
«Craig!»
Bloccò il giovane prima che sparisse nel corridoio, poi estrasse la spada, incanalandovi il potere.
«Fai chiamare anche Zellania.»
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