3. La rosa di Lebrook

Quel bardo l'aveva fatta incazzare.

Come aveva fatto a riconoscerla? Chi era? Col senno di poi, Jaira avrebbe potuto tenerlo fisso a quel muro e interrogarlo, ma non c'era riuscita. Aveva sentito il bisogno impellente di allontanarsi da lui e minacciarlo le era sembrata la cosa più intelligente da fare: funzionava sempre.

Mentre conduceva Gyles al passo attraverso il sentiero nel bosco, cullata dal tranquillo ondeggiare, Jaira non riusciva a togliersi dalla testa quelle parole, quello sguardo. Il dannato menestrello aveva l'occhio troppo lungo. Quando lo aveva sbattuto alla parete e si era avvicinata a lui, aveva subito notato come quelle iridi nocciola le stessero fissando la parte sinistra del volto.

Strinse i denti e le briglie; Jaira non avrebbe dovuto andargli così vicina, permettere che lui vedesse le sue cicatrici.

Nessuno doveva vederle.

Perché ci stava ancora pensando? In fondo lui non era niente, non poteva essere pericoloso. Però... in qualche modo l'aveva riconosciuta.

Forse anche lui veniva da Lebrook? Era troppo ben vestito per appartenere a quel villaggio di contadini e, da come l'avevano trattato, era evidente che fosse uno sgradito visitatore. Se, invece, fosse stato di Tareah? Stava cantando della morte del re, ma forse non era neanche un vero menestrello, magari era una spia mandata da qualcuno per controllare i dintorni della capitale.

Jaira non avrebbe dovuto andarsene senza chiedergli niente: i dubbi non l'avrebbero fatta dormire quella notte, ne era certa. Contando il fatto che gli aveva permesso di guardare l'interezza del suo viso, poi...

«Che stupida!»

Si passò la mano coperta dal guanto d'arme tra i capelli per toglierseli dalla faccia almeno lì, dove solo gli alberi e le bestie potevano essere testimoni delle sue menomazioni. Aveva lasciato l'elmo nella grossa sacca appesa alla sella di Gyles, grata di potersi fare una sana cavalcata senza quell'odiosa maschera. Ormai si era abituata a respirare attraverso il metallo, ma quando era sola amava essere libera.

Perché non riusciva a smettere di vedere ovunque gli occhi indagatori di quell'uomo? Il suo abbigliamento, il pizzetto curato e i capelli bruni tagliati corti con giusto dei ciuffi ribelli lasciati sulla fronte... tutto di lui le ricordava Lebrook, la nobiltà, la corte, il re.

La regina.

Jaira scosse la testa: doveva dimenticare, era acqua passata. Eppure le cicatrici bruciavano ancora e le memorie con loro.

«Dannazione.»

Spronò Gyles per aumentare l'andatura in modo che il trotto potesse aiutarla a scacciare i pensieri. Quel giorno non tirava un filo di vento e l'aria era secca persino mentre cavalcava. Il ritmico rumore degli zoccoli dello stallone copriva ogni altro suono potesse giungere dagli alberi; non pioveva da giorni e la polvere volava assieme ai loro movimenti, riempiendole i sensi dell'odore acre della terra. Tuttavia non bastò a scacciare lo spione dalla sua mente.

Doveva concentrarsi: cos'aveva letto nella bacheca cittadina? C'era una strana bestia immonda a minacciare i boscaioli di Beley, sì: un gigantesco urside con artigli indecenti, occhi da rapace e becco appuntito. Se lei lo avesse ucciso si sarebbe guadagnata qualche Zuli d'argento, in attesa di mettere le mani su una taglia più consistente.

Certo era che continuare a percorrere la via segnata nel bosco fissando la criniera di Gyles non l'avrebbe aiutata a trovare tracce del passaggio della bestia. Qualcosa le diceva che quella deconcentrazione non l'avrebbe portata da nessuna parte. Forse sarebbe stato meglio fare dietrofront e tornare al villaggio, dormirci su e riprendere la caccia con le prime luci dell'alba, anche perché quel pomeriggio, sotto all'armatura, faceva così caldo che sembrava di trovarsi tra i dannati percossi dalla frusta di Enoder; prima o poi Jaira avrebbe raggiunto uno dei due spiriti dell'oltretomba, ma non aveva intenzione di farlo tanto presto.

Persa a immaginare la sua anima a disperarsi tra i piani infernali, si accorse appena che davanti a lei stava lentamente procedendo un carro coperto da un telo bianco e lo affiancò in un battito di ciglia. Non aveva l'elmo a impedirle la vista periferica, quindi riuscì a scorgere i volti delle persone che lo stavano conducendo, due dal sedile e uno a terra. Non sembravano avere fretta.

Jaira li sorpassò e percorse qualche metro, prima che il cervello le mostrasse vivida l'immagine delle fattezze di uno di loro. Lei era brava a ricordare le persone e di certo un uomo dalle orecchie a punta si faceva riconoscere più degli altri.

Fece rallentare il cavallo e cercò nella sacca da cintura una delle pergamene che aveva staccato dalla bacheca cittadina qualche ora prima, la distese tra le mani e strabuzzò gli occhi: l'elfo che stava su quel carro era davvero somigliante al disegno che lei aveva tra le mani. Finron Halley, schiavista di Nortin, ricercato per aver rapito un gran numero di donne per portarle in quella terra di barbari. La taglia era di quattrocento Zuli d'oro: una cifra esorbitante.

Jaira fermò la sua corsa e raccolse una grande quantità d'aria nei polmoni mentre una rabbia profonda le riempiva le viscere. Non bastavano i loro fuorilegge, adesso anche gli elfi dovevano mettersi a rendere peggiori le vite della gente?

Quattrocento Zuli d'oro... per avere una taglia tanto ingente poteva significare solo che già in molti avevano provato a catturarlo o ucciderlo e avevano fallito. Tra l'altro, se ne andava in giro tutto tronfio per strade non proprio secondarie; doveva avere una sicurezza notevole.

Jaira tirò le briglie in modo che Gyles si girasse e, non appena si trovò di fronte al carro, l'elfo alzò il cappuccio del suo mantello fino a coprirsi il volto.

Dilettante, ormai Jaira l'aveva già visto.

Non aveva l'elmo e i capelli le cadevano scomposti sulla schiena; l'istinto le disse di coprirsi la faccia con le ciocche, ma sarebbe stato meglio non aver impedimenti davanti al viso se davvero quella gente era pericolosa come sembrava dal manifesto; le cicatrici avrebbero fatto capire loro che non c'era da scherzare.

L'uomo seduto accanto al ricercato fermò i cavalli, poi la osservò con espressione neutra.

«Buongiorno, cavaliere. Possiamo esservi utili in qualche modo?»

Jaira ascoltò quelle parole quasi senza udirle, troppo impegnata ad analizzare gli armamenti degli uomini che le stavano davanti: l'unico a indossare un'armatura di cuoio era l'elfo, ma tutti e tre portavano delle spade lunghe alla cintura; non sembravano esserci arcieri, ma Jaira non poteva escludere la presenza di altra gente dentro al carro.

Era rischioso.

Era da sola e non conosceva le potenzialità dei fuorilegge, ma mai avrebbe permesso che se ne andassero in giro a fare i loro comodi. Solo perché a Nortin la schiavitù era concessa, non voleva dire che quelli potessero andare a recuperare merce da scambio nelle altre due Terre, seminando il caos come emissari di Meg'golun.

Magari nel carro c'erano delle donne terrorizzate e tremanti proprio in quel momento. No, Jaira doveva intervenire a ogni costo.

Smontò da Gyles, poi mise mano alla spada dietro alla schiena; la sfoderò e la tenne per l'impugnatura con entrambe le mani.

«Finron Halley, vi siete macchiato di gravi crimini e sulla vostra testa pende una taglia. Arrendetevi adesso e potrò riscuoterla mantenendovi in vita.»

Non le erano mai piaciuti i convenevoli.

L'umano digrignò i denti, mentre l'elfo incappucciato emise un lieve verso di scherno e alzò le braccia al cielo.

«Beccato.»

Scese dal carro e mise mano alla spada, l'altro lo imitò e vennero raggiunti dal terzo, fino a poco prima rimasto di lato. Finron Halley tornò a scoprirsi il viso, sfoggiando un arrogante sorriso da schiaffi che Jaira avrebbe tanto voluto cancellargli dalla faccia.

«E ditemi, mia signora, come intendete competere con me e i miei uomini?»

A quelle parole un quarto individuo sbucò dal retro del carro e andò ad affiancare i suoi compagni. Ecco, quattro iniziava a essere un numero impegnativo.

Gyles nitrì, ma Jaira non lo ascoltò: lei non poteva tirarsi indietro, non se lo sarebbe mai perdonata. Attese un istante, squadrandoli dalla testa ai piedi per cercare di analizzare quale potesse essere la tattica migliore da adottare, ma optò per la semplicità. Lei aveva una spada bastarda, più massiccia e letale delle semplici spade lunghe in mano ai fuorilegge: avrebbe concentrato le sue energie sull'elfo e l'impeto dello scontro l'avrebbe aiutata a colpire anche gli altri uomini, se l'avessero accerchiata. Doveva solo stare attenta alla testa e l'armatura avrebbe fatto il resto.

Si mosse in avanti con rapidità e usò lo slancio della corsa per menare un potente fendente a due mani dall'alto. Non si stupì quando Finron alzò l'arma per intercettare il colpo e soppesò la sua forza nell'esatto istante in cui l'acciaio cozzò contro l'acciaio. Non male, ma lei aveva visto di meglio.

Gli umani non restarono a guardare e due le si spostarono ai fianchi, ma lei era preparata: la spada bastarda si mosse come un prolungamento delle sue braccia e le bastò fare un piccolo passo indietro per riuscire a schivare l'affondo che giunse da destra, mentre l'uomo a sinistra colpì, invano, lo spallaccio dell'armatura.

Jaira rialzò l'arma, attenta a fare in modo che anche una gamba di quello a destra si trovasse sulla sua strada; fu lui il primo a gridare di dolore, mentre l'acciaio si sporcava di rosso e scie liquide inumidivano quel secco sentiero boschivo. Gli aveva provocato una ferita grave ed era stato costretto ad arretrare, ma Jaira non aveva tempo per compiacersi, poiché Finron tentò un affondo alto, diretto al collo. Si muoveva davvero veloce e lei alzò un braccio, lasciandosi colpire lì; l'armatura la protesse di nuovo anche se l'urto fu così violento da arrivare a intaccare anche l'arto.

Ignorando il dolore, non riuscì a contrattaccare l'elfo poiché dovette occuparsi dell'uomo a sinistra: di certo non era troppo esperto, visto che provò a ferirla al fianco con un fendente piuttosto pigro, guadagnandoci soltanto l'abituale suono metallico di una buona armatura che fa il suo dovere. Jaira colse l'occasione e s'incupì nel notare con quanta facilità la sua spada andò a formare una lunga linea obliqua dalla pancia al petto del fuorilegge. Altro sangue venne versato e una seconda voce si unì alle grida del primo, disturbando la quiete del bosco.

Nella colluttazione, la donna si accorse per un soffio che il quarto uomo, fino a quel momento rimasto in disparte, le era arrivato alle spalle e, infido, le aveva colpito la giunzione del retro di un ginocchio, lì dove la corazza lasciava spazio a semplice tessuto per non intralciare i movimenti. Si era mossa per poter evitare una ferita profonda, ma il dolore fu comunque pungente e lei grugnì, mentre la sua attenzione venne catturata dall'elfo, per nulla intenzionato a lasciarla respirare.

Jaira si trovava in una posizione scomoda, anche perché Finron la stranì, menando un affondo alto e impreciso che lei schivò senza alcun problema, ma si accorse troppo tardi che si trattava di una finta e che lui aveva estratto con la mancina un pugnale nascosto chissà dove, mordendo con attenta voracità la sua carne nell'incavo tra la placca pettorale e il fianco. Il dolore le tolse il fiato e un colpo da dietro la costrinse in ginocchio, permettendo allo schiavista di poggiarle il filo della lama a un centimetro dal collo.

«Impressionante, non mi divertivo così da un po'!»

L'elfo sembrava genuinamente entusiasta, al contrario dell'unico uomo rimasto in piedi.

«Questa è pericolosa, Fin. Ammazziamola. Non lo so se la possiamo vendere.»

Jaira aveva ancora la spada in mano, ma l'arma al suo collo era un deterrente parecchio persuasivo per farla restare ferma e Finron si era dimostrato più rapido di lei. Si osservarono per attimi interminabili, poi lui sorrise.

«Tutto si può vendere, è la legge del più forte.» Il tono si addolcì, in netto contrasto col fatto che stesse minacciando la sua vita. «La gente pagherà parecchi Zuli per vederla combattere nell'arena, ne sono sicuro. Toglile l'armatura e legala, muoviti.»

La gola di Jaira si fece riarsa nell'osservare gli occhi dell'elfo misurare ogni centimetro della parte menomata del suo viso; la voglia di rischiare il tutto per tutto e provare a rialzarsi era tanta, ma la razionalità la obbligò a restare calma e controllata quasi in ogni parte di lei. Le labbra, però, si mossero da sole.

«Se credi di potermi sconfiggere, ti sbagli di grosso.»

Con quale forza d'animo aveva detto una stupidaggine del genere? Lui ormai aveva già vinto, a cosa serviva fare la voce grossa? Infatti, lo schiavista rise e si avvicinò, pigiando un poco di più la lama su di lei in modo da disegnare un sottile graffio vermiglio che prese a bruciarle all'istante. Aprì bocca per parlare, ma un suono fuori dall'ordinario lo interruppe, lasciandolo interdetto.

Attimo dopo attimo, risultò chiaro che non potesse trattarsi di nessun rumore naturale, poiché non c'era al mondo bestia, albero o cespuglio in grado di generare una melodia tanto bella: quelle erano le melanconiche note di un liuto e ben presto il suo proprietario si mostrò, superando il carro e fermandosi a pochi passi da loro.

Era inspiegabile, ma tutti si erano bloccati di colpo, ammutoliti e in estasi ad ascoltarlo cantare: quello era Allan Drayt e c'era la sua voce ad accompagnare lo strumento, anche se parlava in una lingua a lei sconosciuta. Finron lasciò andare l'arma e si voltò verso di lui, sedendosi a terra a bocca aperta; lo stesso fece anche l'uomo dietro di lei e persino quello ferito alla gamba smise di gridare per poterlo ascoltare.

Nonostante si rendesse conto di quanto meravigliosa fosse quella canzone, Jaira poteva muoversi. Un poco sconcertata, si alzò e colpì col pomo della spada la nuca dell'elfo, facendolo cadere privo di sensi. Lo stesso fece con gli altri due, in rapida successione, mentre quello che aveva ferito al torso aveva smesso di essere cosciente già da un po'; data la gravità dello squarcio che lei gli aveva provocato, era probabile fosse già morto.

Allan terminò il suo canto e la mente di Jaira riprese possesso dei pensieri. Lei veniva dall'isola di Rosendale e, sebbene non fosse un'utilizzatrice delle arti arcane, non aveva alcuna difficoltà a riconoscere quando qualcuno stava sfruttando la magia: il modo in cui il bardo aveva cantato alla taverna non c'entrava nulla con ciò che lei aveva appena sentito.

Lui allargò le labbra in un sorriso smagliante e s'inchinò in modo teatrale, poi pizzicò un paio delle corde argentate del liuto e sogghignò.

«Dovete perdonarmi, Jaira e basta, temo di non aver seguito il vostro consiglio.»

Jaira restò interdetta un istante, poi sospirò, rinfoderando la spada bastarda. La ferita al fianco stava sanguinando attraverso le placche dell'armatura, ma prima di togliersela per medicarla avrebbe dovuto rendere inoffensivi i fuorilegge.

Raggiunse Gyles e recuperò delle corde dalla sacca, poi cominciò a legare gli uomini e l'elfo svenuti. Allan teneva il liuto in mano e si era poggiato a una ruota anteriore del carro a braccia conserte, senza mollare lo strumento e osservando i suoi movimenti in modo piuttosto irritante. Jaira legò l'elfo per primo, poi si rilassò e si concesse un lungo sguardo di sottecchi al cantastorie, prima di trovare il coraggio di parlare, a voce bassa.

«Credo di dovervi ringraziare.»

Il viso di Allan s'illuminò un istante, poi chiuse le palpebre e scacciò con la mano una mosca invisibile davanti a lui.

«Oh, ho solo ripagato un debito. Piuttosto... ora che ho salvato la vostra vita, pare mi sia meritato il vostro rispetto!»

Jaira arrossì: il bardo aveva ragione, visto che lei aveva cambiato registro senza neanche accorgersene. Grugnì e riportò l'attenzione su ciò che stava facendo, mentre l'adrenalina a poco a poco le scemava via dal corpo.

Un momento: lui era tornato! Jaira avrebbe potuto ragionare a mente fredda e fugare i dubbi che l'avevano attanagliata fino a poco prima.

Come se le avesse letto nel pensiero, Allan le si avvicinò e strimpellò qualche nota.

«Ora me lo volete dire perché sulla vostra armatura è impressa la rosa di Lebrook?»

Non c'era traccia di malizia in quelle parole, ma Jaira sentì nuovo nervosismo montarle nell'anima. Non gli era bastato essere sbattuto al muro una volta? Voleva ripetere l'esperienza? Però, qualcosa era cambiato e lei lo sapeva: ora Allan Drayt teneva ben saldo tra le dita il suo strumento e stava già suonando. Sorrideva e pareva sereno, ma con il liuto in mano era probabile fosse molto più pericoloso di lei: la magia non era una cosa da sottovalutare.

I tre fuorilegge erano ormai inoffensivi, quindi Jaira si concesse di alzarsi per fronteggiare l'irriverente cantastorie, andandogli vicino. Ormai lui aveva già visto le sue cicatrici e, sebbene ne fosse infastidita, non aveva più senso nascondersi. Lo superava in altezza di un buon palmo e dovette abbassarsi un po' per puntargli un indice al petto.

«Dovrei arrestarvi, sapete? Utilizzare la magia è proibito a Reah.»

Allan strinse le labbra e inarcò le sopracciglia, dandole poi le spalle e allontanandosi di qualche passo.

«Magia? Oh, no. Cosa vi fa pensare che io abbia infranto la legge? Ho allietato un po' l'arsura di questo incantevole bosco, tutto qui! Non è colpa mia se quando canto le persone restano estasiate.»

Voltò appena il capo per guardarla e lei si morse una guancia; Jaira non aveva alcuna intenzione di metterlo nei guai, non prima di aver capito cosa lui sapesse e cosa no. Era riuscita a cambiare argomento e quello, al momento, bastava. Il nuovo discorso doveva preoccupare l'uomo, però, perché indicò col manico del liuto il carro.

«C'è qualcuno che piange, qui dentro. Non avete sentito?»

Jaira si riscosse e sbatté le ciglia più volte, prima di affrettarsi a raggiungere il fondo del carro.

Che sciocca: il combattimento, il cantastorie, le bugie... si era completamente scordata delle potenziali vittime di quell'elfo maledetto. Scostò il telo bianco che teneva chiuso il pianale di legno e si ritrovò davanti quattro donne imbavagliate e con le mani legate a dei paletti fissati alle assi. Tre stavano vicine e avevano gli occhi arrossati dal pianto, ma fu la quarta a pretendere con violenza tutta l'attenzione di Jaira. Era minuta, con il viso piccolo e zigomi alti; le lunghe orecchie appuntite facevano subito intendere la sua appartenenza alla razza elfica e spuntavano da voluminosi capelli candidi, nonostante lei sembrasse giovane.

Jaira aveva incontrato pochi elfi nella sua vita e non aveva idea se quello potesse essere un colore normale per loro, tuttavia non riuscì a pensarci a lungo, poiché venne rapita dall'intensità delle sue iridi. Era certa non potesse esistere un azzurro tanto limpido e pulito negli occhi di qualcuno e nella mente le rimase una sola verità: sebbene fosse vestita con abiti poveri e la stesse fissando con volto terrorizzato, quella era senza dubbio la creatura più bella che lei avesse mai visto.

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