11. Brucia da impazzire
Quando Allan suonò l'ultima nota, nessuno ebbe il coraggio di parlare.
Quella che Jaira aveva appena sentito non era una delle canzoni fastidiose che il bardo era solito cantare non appena ne aveva l'occasione. Le sue parole erano state permeate da qualcosa di mistico e sfuggente, un'antica verità perduta che la stava pressando con un senso di vuota inquietudine.
Jaira non aveva idea che esistesse uno spirito della follia, né che Celenwe fosse nata come spirito della vita o che i mortali potessero ascendere. Non aveva mai sentito parlare delle lacrime di Alanmaeth. Aveva il respiro pesante e non riusciva a staccare lo sguardo da Allan, che aveva appoggiato il liuto a terra e chiuso le palpebre. Sembrava provato.
«Quindi Serendhien mi ha scelta per recuperare la lacrima di Alanmaeth.»
La voce di Eatiel riscosse la guerriera dal torpore e le permise di voltarsi per osservare lei e il principe, fermi sul pagliericcio con espressioni perplesse. Allan tossì, scuotendo la testa con gli occhi al pavimento, poi li rialzò e si fece serio.
«Eatiel, prima avete detto che è stata Ilimroth a parlarvi, non solo Serendhien.»
«E con questo?»
Fu Othen a parlare, col volto incupito; pareva piuttosto irritato.
«E con questo penso che siamo vicini a qualcosa che sconvolgerà l'equilibrio delle tre Terre, no, di tutta Endel.» Allan rispose concitato, tradendo eccitazione. «Gli spiriti hanno già scelto i loro emissari, nonostante la lacrima non sia ancora caduta.»
Eatiel si portò una mano al petto, mordendosi un labbro.
«Quella negromante combatte per Celenwe.»
Il principe si alzò e li osservò a turno, poi incrociò le braccia al petto.
«Non capisco come questo possa c'entrare con me. Ciò di cui parlate sono solo leggende.»
Jaira sentì una stretta al cuore e si girò d'istinto verso Allan, scoprendolo a racimolare aria dalle narici coi pugni stretti sulle ginocchia; lui emise un verso basso e parlò con lentezza, come a volersi trattenere.
«Ogni volta che qualcuno prega un falso spirito, ogni volta che qualcuno dice sono solo leggende, una nuova pugnalata viene inferta al cuore di Alanmaeth e la sua disperazione si avvicina.»
Othen restò interdetto un istante, poi assottigliò le palpebre e lo indicò.
«Com'è allora che nessuno conosce questa storia a parte voi? Come fate ad affermare con certezza che sia vero?»
Allan lo guardò, poi sospirò e si mise in piedi, affrontandolo faccia a faccia.
«Le visioni di Eatiel non vi bastano? E poi... neanch'io ne sapevo nulla, fino a che non ho conosciuto Luther.»
Othen fece un passo indietro e portò due dita a stringersi l'attaccatura del naso, abbassando la testa.
«State dicendo che è stato un liuto a raccontarvi questa fantasiosa storia?»
Allan posò le mani sui fianchi e sorrise.
«Sì.»
Jaira era incredula tanto quanto il principe, ma non riusciva a capire il motivo di tutta quella rabbia repressa che lui mai aveva mostrato prima di quel momento. Sembrava anche che stesse tremando e non le piacque affatto il modo in cui un lato del suo labbro superiore si alzò, mostrando i denti.
«Siete folle. Questo è troppo.»
Othen parlò in un sussurro e Jaira s'intromise, staccandosi dal muro e raggiungendo i due uomini al centro della piccola cabina per poter afferrare una spalla di ognuno e tenerli distanti.
«Non capisco quanta verità ci sia in ciò che ha raccontato Allan, ma oggi Eatiel è stata attaccata. Inoltre, le sue visioni non possono essere frutto dell'immaginazione, visto che anche il sommo cultista le ha creduto.»
I due uomini la guardarono, ma un gemito alle loro spalle li costrinse a girarsi; Eatiel si era faticosamente messa seduta e le sue guance erano rigate da scie liquide, pure e trasparenti.
«Othen, vi prego, smettete di litigare a causa mia. Non riesco a sopportarlo. Ci deve essere un motivo se Serendhien ha voluto che io viaggiassi assieme a voi. Gli spiriti vedono più lontano rispetto ai mortali.»
Il volto del principe s'ingentilì e lui tornò accanto all'elfa, prendendole una mano tra le sue.
«D'accordo, Eatiel. Vi aiuterò a scoprire il significato di questa faccenda e vi proteggerò dai vostri nemici, ma vi chiedo di venire con me a Lebrook.»
Il sorriso dell'emissaria illuminò la cabina più della luce creata da Allan e lei annuì.
«Ci andremo tutti.»
Jaira deglutì e la realtà le piombò addosso più pesante di una montagna. Si era detta che avrebbe sfruttato quel passaggio per raggiungere Rosendale e poi sparire, ma non ne era più sicura. L'angoscia che sentiva nell'anima era reale, così come lo erano le ferite di Eatiel.
Avevano lasciato Allan da solo per qualche minuto e lui era quasi morto, come nella visione. Era saggio allontanarsi dall'elfa? No, la vera domanda, quella che Jaira cercava di nascondere a sé stessa, era se volesse davvero separarsi da lei. Vederla in fin di vita era stato straziante e anche ora soffriva, nell'osservare la sua pelle diafana e i capelli candidi macchiati di rosso.
Jaira non avrebbe più potuto lasciare il gruppo.
«Non mi è permesso entrare a Lebrook.»
Parlò monocorde, attirando l'attenzione. Le fu difficile pronunciare quelle parole, ma il problema maggiore sarebbe stato giustificarle.
«Per questo avete lasciato il regno? Siete un'esiliata?»
Allan era accanto a lei e fu il primo a chiederle spiegazioni, guardandola con le sopracciglia ravvicinate.
Dannazione, ecco il giudizio che Jaira odiava; lì, negli occhi di chi le stava intorno. Le cicatrici bruciavano, ancora, sempre, e lei era stanca di fuggire, di nascondersi. Sarebbero andati a Lebrook, la sua Lebrook, e lei avrebbe potuto soltanto scrutarla da lontano. Il mondo forse sarebbe presto crollato, gli spiriti erano in fermento, ma Jaira non riuscì più a trattenere il dolore che quelle cicatrici le causavano, ricordandole ogni giorno chi era stata e chi non sarebbe stata più. Nonostante si ostinasse a indossare la rosa, non avrebbe rivisto la sua città.
Non avrebbe rivisto lei.
«Che cosa vi è accaduto?»
Fu Eatiel a porre quella terribile domanda e Jaira si fece forza. Si tolse l'armatura pezzo dopo pezzo e la lasciò in un angolo, restando con i leggeri abiti maschili, logori quanto lei stessa si sentiva. Liberata da quel peso, si sistemò a terra a gambe incrociate e sospirò, prima di tirare all'indietro le spesse ciocche che le nascondevano la metà del viso. Le cicatrici non erano una novità per i compagni, ma lei sentiva il bisogno di mostrarsi per quello che era.
Allan s'inginocchiò davanti a lei e la spronò con lo sguardo, per una volta restando in silenzio. Fu proprio guardando lui che Jaira trovò la forza di compiere quel passo di fede e cominciare il suo racconto, incapace di trattenersi oltre.
«Sono nata a Lebrook, da una donna del nord e da un uomo di grande virtù, tanto che divenne il comandante delle Rose Reali, la guardia privata dei sovrani di Rosendale. Sono stata addestrata alla battaglia fin da bambina e, alla sua morte, a me è stato affidato il ruolo di mio padre.»
S'interruppe e diede una fugace occhiata al pettorale dell'armatura, a quei drappi blu che cercavano di nascondere l'incisione, poi continuò.
«Quella era la sua armatura, per questo non posso liberarmene. Per anni ho servito lealmente i miei sovrani, ma, nella mia infinita pochezza, ho deciso di seguire ciò che il cuore mi bisbigliava e ho compiuto un grave errore. Un'onta imperdonabile.»
♪ ♫ ♪
Potrei stare ore a perdermi nelle sue iridi, come se stessi volando in un cielo azzurro, privo di nubi.
Lei osserva il soffitto a cassettoni e io so che lo sta facendo perché ama i dipinti lì raffigurati. Li conosce a memoria, ma non può sottrarsi al fascino dell'arte. Così come io non posso sottrarmi al suo.
Distesa di lato sul grande letto a baldacchino senza tende, non mi stancherei mai di contemplare il suo corpo nudo. Abbiamo arrotolato in fondo al materasso le coperte scarlatte e le preziose lenzuola di seta perché ci basta stare vicine per scaldarci a sufficienza. Una sola candela è rimasta accesa sulla mensola attaccata alla ruvida parete di pietra grigia, proprio accanto a lei. La penombra invade la camera, tuttavia conosco bene la posizione della libreria, della grande sedia da lettura invasa da cuscini variopinti e degli armadi in legno di quercia, austeri, con le maniglie d'oro. Le luci e le ombre oscillano anche sui nostri corpi e non mi serve altro, poiché le mie mani hanno percorso ogni sua valle e collina tante e tante volte.
Mai abbastanza.
Lei guarda il soffitto e sorride, beata, rigirandosi tra le dita un boccolo biondo lasciato libero dalle pesanti acconciature che è costretta a mostrare di giorno. Di notte, i suoi capelli possono distendersi liberi tra i cuscini, senza vincoli o costrizioni, come noi.
Sorreggendomi la testa con il palmo di una mano, mentre il gomito mi tiene un poco sollevata dal materasso, passo l'indice libero nel contorno di un suo orecchio, provocandole un brivido e un risolino. Lenta e inesorabile, scendo lungo lo zigomo alto, la linea del mento delicato e il collo sottile. Indugio sulla clavicola che sporge un po', prima di girare intorno ai suoi seni, disegnando infiniti sempre più stretti finché non raggiungo un capezzolo, già turgido; lo solletico, divertita, e godo nel vederla chiudere le palpebre e aprire le labbra, bisbigliando il mio nome.
So bene che più vado lenta e più lei impazzisce, quindi mi prendo il tempo necessario; dopotutto, la notte è ancora lunga. Mi raddrizzo per liberare l'altra mano e, mentre la prima continua a occuparsi con maestria dei seni, inizia il viaggio della seconda.
Col corpo invaso da brividi e pelle d'oca, lei allarga le braccia e le porta dietro alla testa, cominciando a compiere quei piccoli movimenti scattanti che fanno accrescere in me il desiderio di averla, di sentire il suo sapore. Resisto, però, perché torturarla in quel modo dolce mi manda in estasi.
Scendo lungo il ventre, giro intorno all'ombelico e infine raggiungo il pube; indugio con le dita e stringo un capezzolo un po' di più, come a chiedere un violento permesso. Lei apre le gambe all'istante e con esse anche le palpebre; mi guarda in viso e io so perché. Ama osservare la mia faccia compiaciuta quando mi rendo conto di aver fatto un ottimo lavoro. Ridiamo insieme e alzo la mano per mostrargliela, muovendo le dita umide.
«Non riesci proprio a contenerti, eh.»
La prendo in giro e le sue labbra si allungano in un sorriso furbo. Si punta sui gomiti e fa schioccare la lingua sul palato.
«Scommetto che tu non sei da meno.»
Alzo un sopracciglio in segno di sfida, poi mi porto la mano pulita tra le gambe e sono costretta ad alzare gli occhi al cielo e sbuffare per finta, poiché forse io sono addirittura più bagnata di lei. Il suo sorriso si accentua e lei gongola, rimettendosi supina.
«Conosci le regole, ora devi pagare pegno.»
Come se la cosa mi dispiacesse.
In realtà non vedevo l'ora ed è con foga che mi sposto ai suoi piedi e le allargo le gambe di più, tuffando poi la testa tra esse. Con i polpastrelli ben saldi a quelle cosce perfette, comincio a leccare, avida, e i suoi versi mi galvanizzano. Lei non riesce a stare ferma; geme, ansima, e arriva a inarcare la schiena quando mi stufo di lavorare solo di lingua, infilo due dita in lei e comincio a succhiare, martoriandole la clitoride ora fattasi rossa, pulsante.
Lei è calda, accogliente, e sento che potrei vivere in questa posizione, col suo sapore fino in fondo alla gola, per l'eternità.
Grida e sento che vorrebbe chiudere le gambe, ma io sono proprio nel mezzo e non glielo permetto. Rido, anzi, e continuo senza alcuna pietà. Arrivata allo stremo, lei irrigidisce gli addominali e si mette seduta, mi afferra la testa e prova ad alzarmi di peso.
È così tenera quando cerca di superare la mia forza, nonostante sia gracile e minuta. La lascio fare, come sempre, e mi sollevo in ginocchio, osservando per un attimo il modo ossessivo in cui il petto le si alza e abbassa alla ricerca d'ossigeno, prima di tornare sul suo viso.
Apro la bocca per parlare, ma lei mi blocca e mi salta addosso, intrappolandomi le labbra tra le sue, invadendomi con la lingua, bramosa di esplorare. Ancora, la lascio fare e non oppongo resistenza fino a quando mi spinge col suo peso e la mia schiena tocca il materasso. Su di me, lei comincia a strusciarsi senza la minima intenzione di liberarmi le labbra. Le accarezzo i fianchi, poi, però, mi concentro sui glutei, accompagnando i suoi movimenti. A lungo i nostri corpi strisciano l'uno sull'altro e noi giochiamo a stuzzicarci fino a gemere insieme, fiato nel fiato.
Deve essere notte inoltrata ed è ora che io vada, ma adesso sono sdraiata nel mezzo del letto e lei è a cucchiaio davanti a me: un pulcino accoccolato tra i miei muscoli. Le bacio il collo, inebriandomi del profumo floreale dei suoi capelli, poi faccio per alzarmi, ma mi blocca afferrandomi un polso.
«Resta altri cinque minuti.»
«Lisandra, si è fatto tardi.»
Fa tremare il labbro inferiore, ingigantendo gli occhi in quell'espressione da cucciola indifesa che mi fa venire voglia di ricominciare ad averla all'istante. Sospiro e torno accanto a lei, incapace di disobbedirle. In fondo, posso aspettare altri cinque minuti, anche se il mio respiro si è fatto più lento e le palpebre mi sembrano davvero pesanti.
La luce mi colpisce il volto, l'urlo di un gabbiano mi rimbomba tra le orecchie e io arriccio il naso, infastidita. Che ore sono?
Per le stelle di Alanmaeth, la luce! È giorno?
Scatto seduta sul letto e mi accorgo giusto che Lisandra è ancora addormentata, acciambellata al mio fianco, mentre la vista si abitua al risveglio. Un movimento mi fa voltare la testa e mi ritrovo a fissare un'attonita cameriera che si è appena accorta di me, dopo aver aperto le pesanti tende scarlatte che avevano tenuto il sole distante dalla stanza fino a quel momento. Non riesco a dire nulla e ci guardiamo per attimi tesi e interminabili, prima che lei si renda conto sul serio di ciò che sta vedendo.
Sì, sono proprio il comandante delle Rose Reali e sì, sono nuda in questo letto, accanto a Lisandra che si è appena svegliata. La cameriera urla e fugge, terrorizzata, e il mio cuore perde un battito.
«Jaira, fermala!»
Lei indica la porta con un dito e mi sprona, ma ormai è troppo tardi. La consapevolezza mi fa alzare, raggiungo la mia tunica verde e la infilo di fretta, lasciando perdere le mutande di lino. Non ho tempo.
«Jaira!»
Lisandra è in lacrime; si è nascosta dietro le lenzuola e le stringe sotto al mento, rannicchiata con le gambe al petto. Ho la gola secca, la bocca impastata, e sono consapevole che potrei correre più veloce della cameriera, bloccarla e metterla a tacere in eterno, salvandoci.
Salvandomi.
Ma non posso farlo. Quella donna non ha fatto nulla di male, è stata la mia superficialità a tradirmi e ora so che dovrò pagarne il prezzo.
Lisandra trema ed è in preda all'angoscia, quindi mi prendo qualche secondo per avvicinarmi a lei.
«Dirò che ti ho ammaliata, che tu non c'entri niente. Non ti accadrà nulla, è una promessa.»
Questa è di certo l'ultima volta che potrò parlarle; mi sento calma, nonostante tutto, come se una parte di me avesse sempre saputo che questo momento sarebbe arrivato, che la favola non sarebbe durata. Alzo le maniche della tunica e le fisso ai gomiti, in modo che i polsi siano bene in vista. In lontananza, sento lo sferragliare delle armature dei miei uomini che si avvicinano.
«No, non puoi farlo!»
Raggiungo il portone e lei cerca di fermarmi, tra i singhiozzi, restando accucciata nel letto. Sorrido, amara e in solitudine, abbassando il capo davanti al legno della porta. Volto appena la testa a guardarla e imprimo ogni centimetro della sua figura nella testa, in modo che possa donarmi il coraggio di andarmene con dignità.
«Sì che posso. Io non sono nessuno, mentre tu devi uscirne pulita, Lisandra. Addio.»
Avanzo e mi chiudo la porta alle spalle, sentendo ancora i suoi gemiti, non più di piacere. Percorro qualche passo nel salotto dove il camino è spento e le finestre aperte per far circolare l'aria primaverile di questo mattino soleggiato. Almeno, me ne andrò col bel tempo.
Scosto una panca proprio al centro della stanza e mi sistemo la gonna in modo da inginocchiarmi sul pregiato tappeto del Cintira Yasa che occupa buona parte del pavimento. Do le spalle ai portoni del corridoio e metto già le mani unite dietro alla schiena, pronta. Ascolto i passi pesanti avvicinarsi e non mi sorprendo quando entrano due uomini.
«Jaira Hammon, siet—»
La guardia ha cominciato a parlare entrando e si è bloccata da sola, forse nel vedermi lì ad attenderli. L'ho riconosciuto dalla voce e resto immobile con lo sguardo fisso alla stanza da letto, immaginando lei in ogni particolare, anche se c'è un pesante muro di pietra a dividerci.
«Non temete, Rodny. Fate come vi ho insegnato.»
La mia voce prorompe pacata e autoritaria, com'è quando mi rivolgo ai miei sottoposti, e sento che lui tentenna un attimo prima di rinfoderare la spada. Qualcuno avanza e mi ammanetta i polsi, mentre il giovane Rodny si schiarisce la gola, un poco esitante.
«Jaira Hammon, siete accusata di aver aggredito la nostra regina e pertanto sarete condotta a giudizio. Vi scorteremo alle prigioni, in attesa che si compia la volontà del re.»
Rodny è l'ultimo arrivato tra le Rose Reali, eppure ha ripetuto la formula d'arresto senza sbagliare neanche una parola; in fondo, un po' ne sono orgogliosa.
La frusta mi lacera la schiena e le labbra ormai sanguinano da quanto le sto mordendo per trattenermi dal gridare. L'umidità di questa cella, il tanfo di liquami e sporcizia, persino il lieve fumo che si sprigiona dalle torce appese ai muri non mi aiuta. Un altro colpo e sussulto; ho perso il conto.
La parte alta della tunica è a brandelli e rimane a coprirmi il petto solo grazie alle maniche. Sono ferma contro alla muschiosa parete coi palmi e la fronte pressati sulla pietra all'inverosimile per riuscire a sorreggermi, a resistere al dolore. Non mi hanno neanche incatenata: sanno che non opporrò resistenza. Re Helmund dovrebbe ormai essere tornato in città; avrà ordinato lui che mi torturassero in questo modo? A che scopo? Ho già confessato tutto, mi sono persino data della strega da sola.
Un altro sibilo, lo schiocco.
Dannazione, questa frustata l'ho patita più delle precedenti.
Le gambe cominciano a farsi molli, la schiena pulsa e posso sentire i lembi di pelle che si staccano. Greg ci sta andando giù pesante. Non mi stupirei se si fosse offerto volontario per questo compito, dato che è sempre stata evidente la sua insoddisfazione nell'essere comandato da una donna.
Dalla gola mi esce un verso strozzato dopo l'ennesimo schianto e trattenere le lacrime diventa impossibile.
Perché non mi hanno ancora giustiziata per alto tradimento? Che il re voglia punirmi? In effetti, non deve essere stato piacevole scoprire l'amore tra me e Lisandra. È la sua seconda moglie, è molto più giovane di lui e l'ha presa in sposa perché la prima è deceduta senza generare degli eredi, ma immagino che questo non voglia dire che scoprirla a letto con qualcun altro faccia meno male.
Lisandra meritava l'amore e io li ho amati entrambi e li amo tuttora. Lui è il mio re, la persona a cui ho giurato fedeltà e per il quale sarei disposta a dare la vita. Lei è la mia regina e mi ha incantato l'anima giorno dopo giorno finché non ho ceduto. È per lei che morirò, ma non riesco a pentirmene. Merito questa punizione, merito qualsiasi cosa che re Helmund deciderà di farmi perché io l'ho tradito, invece di proteggerlo.
Il mio sguardo è vacuo, i contorni della realtà sono confusi a causa del dolore, ma ho il viso di Lisandra a illuminarmi la mente. La frusta di Greg grida un'ultima volta e vince la mia resistenza: crollo in ginocchio, distrutta e ansante. Lo sento emettere un verso di scherno.
Non m'importa.
Mi lascia sola, chiude la cella, passano minuti, ore che non riesco a contare. Il sangue mi si asciuga sulla schiena e così fanno anche le lacrime. Mi assopisco, forse svengo, ma è la voce del mio re a riportarmi alla realtà.
Non sono più nella cella, ma adagiata su una sedia nell'anticamera delle prigioni. Lo schienale pigia sulle ferite e fa male anche se ora ho delle bende a fasciarle.
Hanno tolto il tavolo e anche il cassone che stava a impolverarsi nell'angolo, forse perché altrimenti non avrebbero potuto stare in cinque in uno spazio tanto piccolo. Due guardie sono dietro di me, due ai miei fianchi e il re mi guarda dall'alto al basso; la folta barba corvina non riesce a nascondere le sue labbra strette all'ingiù, le sopracciglia folte fanno ombra agli occhi scuri, incupiti dalla rabbia, ma non solo. Non sono molto in me, ma riconosco il rammarico quando lo vedo.
«Jaira, dovrei uccidervi entrambe per quello che avete fatto.»
Abbasso la testa e resto zitta: non ho diritto di parola.
«Confesso che sono stato molto tentato, ma non posso che considerare ammirevole il tuo prodigarti per addossarti la colpa. Ho parlato con mia moglie che mi ha riempito la testa di belle e inutili parole su voi due.» Mi alza il mento con due dita, costringendomi a sostenere il contatto visivo. «Se tu fossi stata un uomo, avrei già decorato il mio scranno con la tua testa. Ma siete donne, in fondo... gli inganni e l'isteria sono parte di voi.»
Mi lascia e mi dà le spalle, fa un cenno nel corridoio e dall'ombra appare un uomo che riconosco come uno dei medici di corte con in mano un lungo coltello seghettato. Deglutisco e re Helmund torna a fissarmi con le mani dietro alla schiena.
«Ho deciso di lasciarti vivere, in ricordo della memoria di tuo padre e per onorare gli anni in cui mi hai servito fedelmente.»
Fa una pausa e il medico si avvicina, le guardie ai miei fianchi mi bloccano dai lati, quelle alle spalle mi tirano indietro i capelli e mi tengono ferma la testa. Il cuore comincia a pompare frenetico e gli occhi mi bruciano visto quanto le palpebre sono spalancate. Il re sembra addolorato, un padre costretto a redarguire il figlio prediletto.
«Ti lascerò vivere, ma non ti sarà più concesso percorrere le strade di Lebrook. Potrai dare l'ultimo saluto a tua madre, recuperare l'occorrente per il viaggio e il tuo cavallo dalle stalle, ma al tramonto dovrai essere sparita.»
Io lo ascolto, ma la mia attenzione vacilla perché il medico si è abbassato su di me, mi ha appoggiato la lama sulla pelle e mi infila in bocca un pezzo di legno, sussurrandomi di morderlo.
«Inoltre, lascerò su di te un segno affinché ogni giorno tu possa ricordarti della sofferenza che mi hai causato. Affinché nessuno più venga ammaliato dal tuo viso.»
Il medico mi affonda il coltello nella guancia e lo muove con lentezza, scarnificandomi. Percorre la parte sinistra del volto, tracciando linee dalle labbra alle tempie, dal mento all'estremità delle sopracciglia. È una fortuna che mi tengano ferma, perché il desiderio di sottrarmi a quel supplizio è tutto ciò che sento. Mordo ciò che ho in bocca, affondo i denti nella corteccia e il sapore legnoso si arricchisce di sangue, mentre rantoli grotteschi mi fuoriescono dalla gola.
Brucia, brucia da impazzire.
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