Piccardo - I
Giovannetto si è intrufolato nel suo letto.
Ancora.
Piccardo, dopo anni, ci ha preso l'abitudine e, comunque, gli serve da buon esercizio per affinare la virtù della pazienza.
Un frate dev'essere paziente, mansueto, amichevole. Accettare e sopportare con pazienza e calma tutti gli imprevisti che il Signore Iddio invia sul suo sentiero. Perfetta letizia, la definisce lo zio Francesco. Affrontare le sfide più ardue e non venirne scalfiti, anzi, gioirne lieti, di ogni insulto, di ogni sputo, giacché Cristo ha sostenuto pene maggiori delle nostre offese e scaramucce.
Piccardo tenta di applicarla anche quando Giovannetto è tirato in ballo.
Russa suo fratello, beh non proprio, ma il borboglio ci assomiglia. I riccioli biondicci gli mascherano gli occhi, ingarbugliati. Giovannetto sembra sorridere. Sorride costantemente, scattante, lesto, un malandrino, pronto al gioco, un folletto scalmanato che non conosce requie. Effettivamente andare assieme a lui a visitare lo zio Francesco a San Damiano costituirebbe una bella rogna, vispo e iperattivo com'è il suo fratellino. Disturberebbe la pace sovrana tra quelle mura.
Allo zio piacerebbe vederli? Vederli, ecco, magari non è il verbo ottimale. Non ci vede quasi più lo zio, accecato da un devastante glaucoma agli occhi contratto in Oriente. Al massimo sagome informi galleggeranno nella nebbia che ammanterà il suo sguardo, questo sì. O sarà come quando fissi troppo intesamente il sole e, passando all'ombra, granuli e particelle svolazzano, pulsanti, nel tuo campo visivo, e ti pare di stare scrutando il mondo attraverso una lente strana.
Potrebbe dargli consigli su come diventare un frate perbene! Uno santo, come lui.
Piccardo ha imparato che i santi sono quelle persone che compiono miracoli, prescelti dal Signore, e la santità è quel premio che pochi eletti riescono ad afferrare, ma a cui tutta la Chiesa anela e che, sempre nelle chiese fosche, dai pulpiti sporgenti, i predicatori instillano negli ignoranti, negli analfabeti, tramite le loro parole.
Sono come le pantere, i santi, dal fiato gradevole e soave, emananti una fragranza superlativa. Gli altri animali, sedotti dall'irresistibile profumo, cascano dritti dritti nelle fauci della pantera, che possiede un vello caleidoscopico, multicolore, a cerchiolini o a strisce, un arcobaleno di pelo. O come la balena, enorme, regina degli abissi. Dorme distesa a pancia in su, a filo sull'acqua, e il suo ventre si ricopre di muschi, erba, fiorisce di vita e vi nidificano gli uccelli. I marinai, stolti, la scambiano per un isolotto e ci attraccano il veliero. Ma, arenati, la balena avverte l'ingombro sulla pancia e si scrolla, rivoltandosi, inabissandosi a fondo, nei recessi del mare e ingurgitando i malcapitati come Giona.
Anche il suo fiato, simile a quello della pantera, adesca i pesciolini piccoli e incauti, la fauna marina che s'infiltra negli interstizi dei suoi denti, li ripulisce dalla sporcizia di schegge d'osso e tranci di carne umana e ne incontra la medesima sorte. La balena chiude le mascelle e li divora in un sol boccone.
I santi non trascinano irresponsabili avventati nei fondali tenebrosi e non sbranano in un carnaio, però conducono i puri, i responsabili e i devoti ai cancelli del paradiso.
In compenso la pantera è nemica del drago, in comunione con l'elefante. Queste due creature, capisaldi della natura cristiana, spaventano il demoniaco rettile, che, come sanno tutti, è messo del diavolo.
Zio Francesco è una pantera o un elefante? Difficile dirlo.
Ha dialogato con il nemico piuttosto che ucciderlo. Al-Malik Al-Kamik, sultano dell'esercito arabo, nipote del feroce Saladino, che in Terra Santa trucidò mille mila cristiani e conquistò il sepolcro di Cristo. Piccardo n'è meravigliato.
Solo i santi s'introducono nell'accampamento nemico e ne riemergono illesi.
I santi o i folli.
O entrambi.
«Com'era il Gran Sultano?» ha domandato una volta allo zio, sprizzante di curiosità.
«Un uomo onesto, acculturato, incline alla pace, ma guidato anche dalle priorità verso il proprio popolo. Abbiamo discusso di molto.»
«Tipo?»
«Di Dio, dell'ingiustizia barbarica della guerra.»
«Ma le crociate ti fanno meritare il Regno dei Cieli!»
«Allora perché i superstiti sperimentano le pene infernali?»
Piccardo non aveva saputo rispondere.
«Ma zio, sei riuscito a evitare il conflitto solo per un giorno!»
«Può valere molto un giorno.»
Era vero: imperi collassano, re vengono spodestati, bambini nascono e vecchi muoiono. Un giorno può bastare alla Storia come inchiostro dove intingere gli eventi.
Lo zio Francesco è santo anche perché dotato di una rarissima capacità, un dono celeste di quelli che l'Altissimo offre ai santi. È capace di intendere il linguaggio degli animali. Di tutti. Dalle belve selvagge ai docili addomesticati. Sennò come si spiegherebbe la sua predica agli uccellini? O il lupo di Gubbio che da fiera selvaggia e indomita, è stato rabbonito e adesso scodinzola accanto allo zio?
Saprà capire anche gli elefanti? E le pantere? E pure le balene?
I suoi fratelli animali hanno salvato Piccardo e Giovannetto una volta, anni fa, quando il suo fratellino non si era ancora ossessionato alla frenetica opposizione alle libellule. S'era intestardito di voler scoprire il reame del Prete Gianni.
Nessuno è mai giunto al favoloso impero del Prete Gianni, contemporaneamente sacerdote e monarca, situato da qualche parte nel lontanissimo Oriente. Abita in un palazzo d'ebano, oro e gemme, ma della qualità terapeutica, come lo zaffiro che induce alla castità o l'onice che stimola i soldati alla guerra. Ametiste, topazi, smeraldi e rubini sgorgano anche da una sorgente, in fonti miracolose i suoi sudditi s'immergono, ringiovanendo ogni cent'anni e le correnti rapinose delle sue terre trasportano latte e miele. Pigmei, ciclopi, satiri, fauni, amazzoni, gli sciapodi, abitanti dell'India dotati di una sola corposa gamba e un solo sproporzionato piede, che usano per farsi ombra nelle calde giornate e strisciano sulla schiena. E folletti, centauri, minotauri, i blemmi dalla faccia impiantata sul torace, nativi della Nubia.
Sono solo alcuni dell'incredibile, surreale, composizione dei suoi sudditi. Il Prete Gianni sorveglia i cannibali, comandati da Gog e Magog - aspettavano l'anno mille Gog e Magog, a cavalcioni sugli incubi neri e vischiosi all'estremità del mondo, aspettavano per infuriare allo scoccare dell'Apocalisse, ma l'anno mille è venuto e trascorso e il mondo ancora non li ha visti - sigillati aldilà della barriera montagnosa da Alessandro Magno. Alle volte si serve dei cannibali, Gianni, e, missione conclusa, li rinchiude subito aldilà della loro prigione di pietra.
«Lo troveremo e ci faremmo dare tante ricchezze!»
Piccardo, previdente, gli aveva segnalato un particolare non trascurabile. «Lo zio Francesco non ne sarebbe felice.»
«Vero... allora gli chiederemo di prestarci la pietra prodigiosa! Quella magica!»
È una pietra avente la forma di una vasca, dalle straordinarie virtù terapeutiche. Guarisce i cristiani o chi ha intenzione di convertirsi alla Vera Fede.
«Così lo zio starà meglio!»
Lo zio cominciava ad accusare i primi malesseri e aneliti di solitudine e, guarda caso, li aveva stanati nei boschi del Subasio, l'inselvatichito intrico fuori le mura d'Assisi. Erano scappati senza avvisare nessuno - gli adulti aborrono certe intrepide spedizioni uffa - e la loro esplorazione abortita ancor prima di cominciare sul serio.
L'ululato del lupo aveva gelato ai bambini il sangue nelle vene, salvo voltarsi e incrociare uno zio Francesco confuso dalla loro presenza, la fiera fraternamente strofinante contro il suo saio, avida di carezze.
«Piccardo? Giovannetto? Posso sapere che ci fate qui?»
Piccardo s'era preparato un articolato e convincente discorso. Giovannetto e il suo brio dirompente avevano rovinato tutto.
«Zio Cesco!» S'impappinava allora a pronunciare il nome completo. «Zio Cesco, vuoi partire con noi all'avventura? Andiamo dal Prete Gianni!»
Piccardo avrebbe voluto sotterrarsi dall'imbarazzo.
Lo zio aveva riso di gusto, scortandoli a casa dove la mamma li aveva travolti d'ansie e altre paturnie sulla loro sorte, il papà di ramanzine e punizioni.
Tutta colpa di Giovannetto e della sua linguaccia lunga.
Se c'è un fatto su cui, però, Piccardo intesse elucubrazioni, scervellandosi anche a tarda notte, è la presenza dello zio Francesco nella sua - nelle loro - vite.
Prima stavano separati, lui e il papà, Angelo indispettito dallo sgarbo immane, un po' come il nonno Pietro, del fratello fuggiasco, saltato di testa. Evidentemente all'epoca non contemplavano l'idea che fosse santo. Poi avevano fatto pace. Piccardo non sa quando, non riesce a rammentarlo. Giovannetto non era ancora nato, è sicuro di questo, quindi lui doveva essere piccolissimo, un lattante.
Ma coma mai è avvenuta questa riconciliazione?
Papà non ha mai sollevato l'argomento.
Piccardo pretende di conoscere la verità. Adesso. Fintanto che lo zio vive.
Giovannetto ronfa, spaparanzato nelle coperte attorcigliate. È un'occasione da cogliere. Solo Piccardo e il papà, liberi dal suo assillo pestifero.
Monta giù dal letto, la luna occhieggiante dal balcone incorniciato da eteree, impalpabili tendaggi, spettri danzanti. Argento lunare sbircia dalle bifore, tinge i pavimenti. Un tappeto, nel corridoio, mitiga il passo lesto di Piccardo.
Il papà e la mamma staranno dormendo nella loro stanza. Oppure consumando.
Piccardo non è tonto. I canonici di San Giorgio tacciono sull'argomento scabroso e indecente, dannoso, dicono, alla mente fantasiosa e, più di tutto, all'anima e alla salvezza eterna. Ma Piccardo ha ascoltato, assemblato i tasselli. Gli uomini bercianti sulle soglie delle taverne, stravaccanti e ciondolanti, rubicondi di vino e fomentati dalle scollature promiscue delle locandiere, lasciano poco spazio alle congetture. Poi li ha visti, una volta, un uomo e una donna fornicare.
Stava nei laboratori dei tintori - saturi di soluzioni e misture e batuffoli di lana gocciolanti, un inferno di canti cadenzati e dita adunche e impiastrate dal lavoro - e li aveva beccati, in disparte, in un angolo. Un uomo a torso nudo, tipico dell'abitacolo chiuso e tenebroso, che pompava da dietro una donna dai capelli avvolti in un fazzoletto, premendola contro la parete. Rantolanti, una teoria di gemiti.
I cani non si accoppiano diversamente con le cagne. O il maiale e la scrofa. Si fornica per riprodursi, aderendo al divino comandamento di moltiplicarsi. Ne deriva, quindi, che anche lui sia stato concepito in questa posizione. E Giovannetto. E il fratellino o la sorellina che a breve arriverà.
Non ci vede niente di degradante o inverecondo però, è solamente... bizzarro.
Se anche scovasse mamma e papà intenti a copulare Piccardo non si sconvolgerebbe. Tanto adesso dubita che potranno compiere qualsiasi genere di atto naturale. La mamma ostenta una pancia molto pronunciata.
La porta è socchiusa, uno spiraglio di luce sul corridoio. Sbirciare o origliare contravviene alle buone maniere, ma ha bisogno di accertarsi che-
«Piccardo?»
Il papà. Alle sue spalle. Gli si rizzano i capelli dallo spavento.
In camicia da notte e lumino a scacciare il buio pullulante di demoni, Angelo lo squadra perplesso. Piccardo ingerisce un gozzo di tensione.
Colto in flagrante nel pieno della sua avventura.
«Come mai sveglio a quest'ora?» Non c'è paternale sulle labbra, solo perplessità.
Piccardo non sostiene il suo sguardo, si strofina imbarazzato i piedi uno contro l'altro.
«Ero...» Accetterà mai di confidarglielo? «Ero curioso.»
«Di cosa?»
Adesso o perderà un'occasione. «Di te e lo zio Francesco.» sgancia tutt'ad un fiato.
Angelo assimila l'originale domanda, un frullo confuso di palpebre. Per un istante l'incertezza alberga nel verde puntiglioso, effervescente, di suo padre.
Piccardo irrigidisce le braccia lungo i fianchi, i pugni affondanti nei palmi. Attendendo. Pregando. Potrebbe avere istigato un capitolo che non andava aperto, liberato un'ordalia di sentimenti con cui il papà non è ancora completamente sceso a patti.
La compostezza e la calma successive lo spiazzano.
«V-Volentieri. Cosa, nello specifico?»
Piccardo è intontito. Papà non si arrabbiato.
«Della vostra riappacificazione, come avete ricucito la faglia.»
Gli balza all'occhio la titubanza che suo padre tenta, maldestramente, di occultare. Gli angoli della bocca flessi in una smorfia che si tramuta in un sorriso incerto.
«Ma certo, è del tutto lecito.» dice pensieroso, moderando il volume della voce. Gli oppone le spalle, sollecitandolo a seguirlo. «Vieni, discutiamone lontani da orecchie indiscrete.»
Si calano lungo la sdrucciolevole scalinata incavata nella pietra corrente sulla parete, i gradini piccoli e asimmetrici. La bottega è assediata dalle ombre, gli scaffali zeppi di mercanzia, tessuti e stoffe, che si mimetizzano, introvabili. Addentrandosi in mezzo a loro, Piccardo ha l'impressione di cogliere balenii aurei da un filato traspirante delle Fiandre o da un broccato con trame e decorazioni floreali di provenienza francese. Combatte un sussulto quando avverte una presenza sfiorargli la spalla. È un rotolo di velluto blu che penzola, storto, da una mensola.
La bottega non è l'antro di un mostro. E se anche fosse? Lui li sbaraglierebbe tutti!
Si appartano al bancone, lui e il papà, la candela una lancia sbudellante le interiora nere e pagane della notte.
Angelo trae un sospiro, fissando un punto remoto.
«Parlami pure figliolo.»
Piccardo ficca le unghie nel legno tarlato e vecchio del bancone, impaurito. Papà non s'altererà, l'imboscata a sorpresa di prima gliel'ha confermato.
Però, se posasse piede dov'è proibito...
«Perché la luce in camera vostra era accesa?» chiede prima, optando di sgravarsi dei primi brandelli di curiosità.
«Tua madre e i suoi acciacchi dell'ultimo termine. Ero uscito a scomodare i servi di prepararle un decotto o beveroni consimili.»
Acciacchi o avvisaglie? L'attesa si accorcia di giorno in giorno.
«Capisco.» Ispira, rilassando le membra. Può fidarsi di suo padre, si convince. Lui non è riottoso e permaloso come il nonno. Si può avere un confronto con Angelo. «Voglio sapere come tu e lo zio Francesco vi siete riavvicinati.»
Angelo poggia il gomito sul bancone, il sorriso brillante.
«Quella storia...» Lo pizzica sul mento, buffetto giocoso. «È merito tuo.»
«Mio?» Piccardo non può credere alle sue orecchie.
«Specialmente tuo. Nevicava che Dio la mandava quel giorno, lo rammento bene...»
Lo scandalo per eccellenza detenente il podio nella classifica degli scandali - non che Assisi, da paesino sperduto, ne abbia vissuti tanti - s'era espanso anche alle donne e, da un po' di tempo a questa parte, esattamente da quando Francesco e banda di manigoldi straccioni avevano ottenuto il beneplacito del Santo Padre, aveva smesso d'infiammarsi in quanto scandalo.
Era la norma.
Angelo non se ne faceva una ragione e, comunque, cercava di distrarsi. Francesco costituiva un ornamento sullo sfondo, un elemento di decoro ecclesiastico. Avrebbe giurato che li avrebbero condannati al rogo in qualità di eretici e il destino l'aveva contraddetto. Quanti ordini nascevano animati da buoni propositi di carità, compassione e riforma alle origini e poi finivano a vomitare astio, accuse inferocite, maledizioni catastrofiche sulla Santa Madre Chiesa?
Francesco, da quel poco che Angelo captava, non intendeva scindersi dalla Chiesa, ma entrarne in seno, custodito, tutelato, obbediente e servile.
In maniera simile a quell'altro ordine dilagante in Europa, quello fondato da quel Domenico, predicatori itineranti e dotti girovaghi. Che spirasse un vento di rinnovamento?
Bah, la fuga rocambolesca e disubbidente di Chiara aveva fatto sparlare, estinguendosi dopo pochi mesi. Le comari maliziose sostenevano, malignando ammiccanti tra i fili di panni stesi e le balconate straripanti di gerani, che l'innamoramento della giovane non fosse incentrato solo sulla croce. Si scambiavano certe occhiate languide, chiocciavano, lei e Francesco. Ma non era che sotto sotto...?
Baggianate. O, se fosse stato vero, ipocrisia dell'uomo che aveva un tempo denominato fratello. Ma una non prendeva i voti da monaca, contrapponendosi al volere di famigliari e costume, per allietare quella carne che dovrebbe mortificare.
Angelo ascoltava poco, s'indaffarava nel lavoro e cresceva suo figlio.
Piccardo sgambettava tra i piedi perspicace e circospetto, uno stecchino taciturno dalla zazzera castana e il suo verde d'occhio. Curioso a dismisura, pasticciava con i primi rudimenti di paroline e si pasceva sugli allori dell'attenzione della nonna, viziato, coccolato, il suo prediletto come Francesco ai tempi.
Servito e riverito in cavalleresche mollezze francesi suo figlio, scalante la piramide sociale lui. Associato da Papa, oramai affiliato nella gestione della bottega a tutti gli effetti, Angelo guadagnava caratura e rilievo agli occhi del Comune. Un cavalierato, seggio nell'amministrazione pubblica. Pietro di Bernardone ne gongolava, orgogliosissimo, riferendosi a quell'unico figlio sano come la sua fortuna.
Ma la fortuna è miope, una ruota che scende e sale, e come i suoi spuntoni t'hanno innalzato non ci impiegano molto a sfracellarti.
Piccardo si ammalò nell'inverno dei suoi due anni - anno dell'era volgare milleduecentoquindici - e la fortuna li irrise.
Ha imparato oggi, Angelo, che i soldi sono uno scudo debole. I soldi sono quelle carabattole che accumuli sperando che la fortuna ti assista.
Quale premurosa assistenza! Suo figlio dalla febbre spropositata, mugolante di lamenti e strazianti rantoli nel lettuccio, una membrana biancastra occludente la gola. I medici interpellati scuotevano nefasti la testa, alternandosi in un carosello di supposizioni, trattamenti, possibilità.
Le infantigliole sono comuni, affliggono i bambini riducendo le loro prospettiva di superare il primo lustro. Fintanto che hanno ricevuto l'acqua del battesimo non c'è di che disperare e il battesimo di Piccardo era stato una pompa opulenta degna del figliolo di un cavaliere, però...
Però suo figlio, il suo primogenito, accolto tra gli angeli.
No.
Pensieri blasfemi, se ne rendeva conto.
La neve cadeva fitta quel giorno, lo ricorda, il cielo sbiadito in un gregge lanoso di nuvole gonfie, sature di neve, il vento sibilante, l'inverno attutente il brusio sommesso della natura. Si proiettò trafilato in casa, sganciando il mantello al primo sottoposto, catapultandosi nella cameretta del bambino.
Medici fannuloni, incompetenti! Piccardo, il respiro lieve e il colorito esangue di una piccola salma, fece slittare gli occhi scintillanti del morbo febbrile, smeraldi nel manto nevoso, sulla sua figura boccheggiante, sfinita dalla corsa.
«Pa-pa...» Un gracidio.
Vanna e Maman facevano la spola al suo capezzale, alcune volte sostando in contemporanea. Dai primi accenni di malattia sua moglie non si era staccata due secondi dal bimbo in tutti i suoi momenti di veglia.
«Allora?» l'assaltò seduta stante lei. Maman, genuflessa sul bordo opposto del lettino, pregava incessantemente, velata e dismessa come una santa in un affresco. «Cosa dice l'ultima diagnosi?»
Angelo si morse le labbra, nervoso, infilando le dita nel ciuffo madido di sudore di Piccardo. Suo figlio s'agitò un poco, inarcando il collo in un mugugno.
«Messer Nardo, e-ecco... non pronostica esito favorevole.»
Gli costò ammetterlo e ancor di più vedere la flebile speranza ardente nell'azzurro sguardo di Vanna volatilizzarsi.
«L-Lui...»
«Purtroppo è così tesoro, me ne rincresce.»
Sua moglie si torse il grembiule, immancabile da quando era iniziata la degenza del piccolo. Un velo di pianto tremò, fuoriuscendo in un'unica lacrima solcante a lato del naso.
«No.»
Maman s'erse in piedi, il monile a foggia di croce tempestata di gemme oscillante come un turibolo. Il suo viso, inciso dal tempo e dalle angosce, eppur ancor emanante l'antica fierezza d'oltralpe, s'accese d'un sorriso,
«Una via c'è e dubito che le Seigneur non risponderà.»
Le Seigneur. Angelo aveva tracciato una linea decisa su quello. La Chiesa e la pietà religiosa gli avevano rapito suo fratello, andava bene recarsi a messa, prodigarsi in oboli e osservare i sacramenti, ma inginocchiarsi, umiliarsi come quello scemo si era umiliato e li aveva umiliati... mai.
«D'accordo.» sbuffò, accordante giusto questa stranezza femminile. «Quale somma comprerà più preghiere in duomo?»
Pica e Vanna lo fissarono allibite.
«La preghiera e il denaro stonano, marito.» lo redarguì la sua gentil consorte.
«E non mi riferivo ai canonici della cattedrale Ange.»
Ai benedettini del monastero arroccato sulla sponda opposta allora, quella chiazza bianca nel verde? O al priorato di San Paolo? O a quelli di San Pietro?
O... santi numi no. Non lui.
«Non starai adducendo a-»
«François, il nostro François...»
«Nostro?» sbottò Angelo, le ire rinascenti, il dolore perforante. «Non appartiene più a questa famiglia!»
«Comunque sia.» Vanna intervenne a stemperare l'acredine. «Ha fama di uomo di Dio, operatore di miracoli. Potrebbe guarire nostro figlio.»
E-E guarire lui magari... ma Angelo stava bene così, sì, sì, un figlio sdebitato con il padre nei confronti di tutto. Francesco l'aveva tradito. Francesco l'aveva abbandonato, preferendo fratelli di spirito all'unico carnale. Non avevano più niente a che spartire. C'era in ballo suo figlio però, la sua vita.
Piccardo si rivoltò nel lettino, tossicchiando. Stava male. Suo figlio, il suo erede, stava male e il cuore di Angelo sanguinava, angariato dal senso d'impotenza.
Era una soluzione, un sentiero papabile. Piccardo poteva salvarsi.
«Va bene.» s'arrese alla fine. «Manderò qualcuno a riferirgli il messaggio.»
«Nell'andare e tornare potrebbe già essere troppo tardi.» Vanna s'aggrappò al suo avambraccio, implorante. «Non lasciare che il tuo orgoglio comprometta anche la vita di tuo figlio. Vacci te, chiedigli la grazia. Ti scongiuro.»
Per la vita di Piccardo recarsi, dopo anni, dal suo folle fratello. Accantonare le discrepanze, i detriti di un rapporto.
Per Piccardo...
Angelo strizzò le palpebre e respinse i fantasmi del passato.
«Lo faccio per lui.» specificò acido. «Non per altro.»
Vanna lo trivellò di baci, estasiata. «Grazie, grazie, grazie.» Facendolo voltare, lo sospinse all'uscita. «Che indugi ancora qua? Muoviti!»
Angelo si mosse, nel ginepraio di vicoli innevati e chiassi strettissimi. Garzoni spalavano davanti all'ingresso delle botteghe, dalle frogie dei cavalli impastoiati salivano sbuffi vaporosi. Intercettò il canto rintronante e allegro dei frati elemosinanti a una svolta dalla piazza principale, fronteggiata dal Tempio di Minerva, riconvertito in abitazioni e botteghe dai benedettini.
Risate, uno scampanellio, il canto giocondo di quei matti.
«Per Sorella Neve, noi ti lodiamo! Per Fratello Freddo, grazie rendiamo!»
Sorella Neve? Fratello Freddo? Seh, e dov'erano Sorella Brina, Sorella Galaverna e Fratello Brivido?
Qualcuno teneva il ritmo sbattendo un bastone o altro alla ciotola della questua. Ma, nel guazzabuglio di voci, una le predominava, instaurandosi limpida, intonata e pulita. L'avrebbe riconosciuta tra mille.
Francesco.
Angelo si premette al muro, desiderando scomparire, il respiro imbottigliato in gola. Aspettò che le voci si diradassero, passando oltre.
La consapevolezza lo investì immediatamente: che aveva fatto? Si era spaventato? Poteva fermarlo e chiedergli di Piccardo! Scemo, scemo, scemo!
Immettendosi nella piazza vuota decise di seguire la scia rumorosa, dovunque fosse, quel rimasuglio armonioso pervadente l'aria. Forse erano ridiscesi verso Santa Maria degli Angeli. Imboccò la via, segugio sulle tracce musicali, procedendo piano sulle lastre ghiacciate incrostanti le arterie e le vene laterali.
Giunto in prossimità della chiesa di Santo Stefano - uno scrigno minuscolo incastonato di lato, tra ulivi e case, rispetto alla visuale spettacolare sulla piana - un rasoio di luce intagliava il tappeto nevoso.
C'era qualcuno al suo interno. Che fossero...?
Angelò osò. Al massimo, se le sue presupposizioni avessero fallito, poteva sempre proseguire il suo cammino. Spinse il battente, un cigolio di cardini.
Pregava in piedi, l'uomo che aveva amato come un fratello, circondato da un quartetto d'altri fraticelli. I capelli d'inchiostro scarmigliati, divampanti intorno al viso scurito d'una leggera barba, le mani scarne, escoriate dal lavoro, i piedi nudi, pastrani di fango, croste e violacei dal gelo. Il saio ampio, tenuto in vita da una corda annodata tre volte, grezzo e rattoppato.
Francesco, nato Giovanni, recitava muovendo le labbra, non una favella.
S'accorse della sua intrusione o forse l'avvertì interiormente. Angelo ancora adesso non ci si raccapezza a spiegarselo. Ma si girò, Francesco.
L'azzurro sconfinante nel grigio profondo incontrò il verde vivace.
Sorrise, come se l'aspettasse, e pose quella domanda demolente le sicurezze su cui Angelo aveva fondato la sua vita.
«Cosa vuoi Angelo?»
Cosa vuoi. Una banalissima, semplice domanda. Chiunque l'avrebbe interpretata come un travestimento di steccata cortesia per un'intimazione ad andarsene. Velata scocciatura. Francesco non la poneva in questo modo.
Cosa voleva? Veramente. Sinceramente. Nel profondo. Perché vibrava un'inspiegabile brivido di... di qualcosa in quella domanda. O forse... forse era da attribuirsi all'intonazione della voce, da impuntarsi a... a...
Si arrampicava sugli specchi e la domanda lo feriva, un coltello lacerante.
Cosa voleva sul serio?
Lui. Non suo padre. Lui. Angelo, figlio di Pietro di Bernardone dei Moriconi e di Madonna Giovanna detta Pica, fratello di Giovanni chiamato Francesco, pazzo, ribelle, avventuriero della vita e campione di Dio.
Cosa. Voleva.
Il raziocinio s'infranse, si sfrangiò in una miriade di brandelli ingarbugliati, impazziti, schizzanti in ogni dove. Angelo s'affacciò al baratro del vuoto. Vuoto. Tabula rasa. Era una domanda stupida eppure non ci riusciva ad accampare una risposta.
Voleva... voleva che suo figlio stesse bene, che Piccardo guarisse, che tornasse il bambino spensierato e guardingo di sempre. Che Vanna divenisse ogni giorno più bella, solare, i suoi amplessi un preludio di paradiso. Voleva riabilitare il sorriso sul bel volto, raffinato e sottile, di Maman.
Voleva la pace. Per gli altri.
Per se stesso.
Stava diventando irrespirabile la sua vita, il dolore avvolto da spine di rabbia, la piaga rivoltata dalla lama a ogni scorcio di Francesco. Era come ingurgitare - sforzarsi quanto meno - schegge di vetro, taglianti la gola. Dolore rovente e rabbia e imprigionarsi dentro quella rabbia, renderla tuo scudo, tua armatura, tua difesa, costruirsi da solo una cella e buttare via la chiave.
Voleva Francesco. Suo fratello. La sua libertà, la sua felicità incontenibile, provocante moti di stizza e furente gelosia. Voleva capirlo, raggiungerlo, le norme sociali, le convenienze, il ruolo di figliolo diligente, dettato dalla gratitudine sempreverde, l'avevano inaridito, spolpato della letizia, della serenità.
Sì, soprattutto agognava la pace Angelo.
«I-Io...»
Collassò impacciato in ginocchio, capo chino, singhiozzante. Le catene si squagliarono, liquefacendosi in un placido lago di liberazione.
Il calore del palmo gli circonfuse il capo. Con la vista sfocata e traballante delle lacrime, Angelo incrociò la mitezza sorridente di Francesco.
«Angelo.»
Morbido. Conciliante. Fraterno.
Era lui che si era allontanato da suo fratello, non il contrario. Il sostegno, la solidarietà... frenati da precetti vetusti, dalla convinzione di stare rappresentando il giusto, il più grande giusto sulla terra.
Sbagliava. Quello lo rappresentava Francesco.
«F-Francesco...»
Gli abbracciò le gambe, il saio raspante che grattava sulla guancia intarsiata di sale. Non esisteva vello più maestoso. Il paramento di suo fratello. Ne baciò l'orlo, bagnò i suoi piedi sporchi e schizzati di pianto.
«Perdonami fratello, perdonami...»
Francesco l'aiutò a risollevarsi, tenero e mansueto come un agnello.
«Vai a casa dal mio nipotino Angelo, ha bisogno di suo padre.»
Piccardo. Caspita era vero!
Lo cinse scosso in un ultimo abbraccio di congedo. «Ci rivedremo fratello! Non ti mollerò più, è una promessa!»
Aveva corso, i polmoni stremati, il cuore pompante a mille. Corso, scivolato sulle lastre ghiacciate di nevischio. Demolito, nella corsa, i cumuli impiccianti la sua via. Filato in casa, dritto, su alla cameretta di suo figlio.
«Papà!»
Piccardo, roseo e scatenato nel lettino, la salute personificata, gli tese braccine adoranti. Vanna, accostata al capezzale, piangeva tra i sorrisi. Maman ringraziava Nostro Signore. Papa... Papa mugugnava ombroso in disparte.
«Un miracolo!» esclamò sua moglie, coinvolta.
Angelo afferrò il suo saltellante bambino, lo scopiazzò di baci, coccole, scemenze, lo fece roteare in un gorgoglio di risate.
«Un miracolo di Francesco.»
Da allora in poi la serenità s'era impiantata dentro di lui, finalmente ritrovata, finalmente vera. Accozzato a Francesco, suo mediatore nei bisticci con il Comune, suo portavoce nei saloni politici. Non poteva abbandonare tutto, non con figli a carico, ma la Chiesa, la solennità di quell'Amore tanto incensato, lodato, da suo fratello amato, rientrarono dalla sua porta.
Giovannetto non è stato un tributo alla sua consorte o a sua madre.
Ma a suo fratello Giovanni, soprannominato Francesco.
Lui li ha, involontariamente, riuniti. Piccardo è esterrefatto.
«È merito mio perciò? E lo zio? Cos'ha... come ha... insomma, cos'aveva di tanto speciale quella frase perchè ti sciogliessi così?»
Angelo gli accarezza malinconico i capelli. «Non lo so.»
Non lo sa e neanche Piccardo lo sa. È troppo giovane per immaginarlo. Ma l'importante è che papà e zio si siano affratellati di nuovo, un nuovo inizio sbocciato nei rigori stringati dell'inverno.
E lui è stato miracolato! Da un santo! Come nei racconti di morti resuscitati dai santi o di infermità risanate o di vivande centuplicate!
Incredibile.
Invasato d'un'euforia incontenibile si butta dal seggio, cingendo il papà in un abbraccio, strusciando la guancia sul tessuto fine della camicia da notte.
«Sarò un frate esemplare, hai la mia parola.»
Suo padre rimanda il gesto, serrandolo possessivo, rassegnazione echeggiante nel tono. «Sei sicuro di questa tua volontà Piccardo?»
Piccardo si stacca, lo studia perplesso, aggrottato. «Voglio servire Dio, mettermi in gioco per lui esattamente come lo zio.»
«Ammirevole, davvero.» Si schiarisce la gola, tentennante sulla continuazione. «Ma, ecco, leggiamola sotto una diversa prospettiva: tu sei ancora giovane.»
«E con ciò?»
Molti santi si consacrarono al Signore da fanciulli!
«Potresti... e-e non lo prendere come una c-critica!... diciamo che... le tue capacità di giudizio e di discernimento non sono pienamente affinate. Ti consiglierei di crescere, maturare sia nel corpo che nella psiche. È una scelta chiave la tua figliolo, condizionerà il tuo avvenire.» Lo scruta fisso, serio. «Provi dentro di te la vocazione alla vita in comunità fraterna, votata alla carità e agli stenti?»
Piccardo non ha mai riflettuto con cotanta profondità e interezza. Se ne duole. Predicare giramondo, esportando l'Evangelo, l'aveva lusingato come missione buona e retta. Vivere come lo zio Francesco in povertà e semplicità, non nella povertà squallida, ma in quella gentile e amichevole e gioiosa. Salutare per sempre la casa natia tuttavia, separarsi dagli affetti più cari...
Papà sostiene una ragione: deve meditarci, approfondire le conseguenze e le necessità, con maggior vigore.
«Forse-»
«Angelo!»
Nonno Pietro è schizzato ansante giù dalle scale, sorprendendoli. La stempiatura canuta coperta dalla cuffia notturna, la vestaglia in racemi damascati, il nonno gronda sudore e allarme, scendendo goffo i gradini finali.
«Vanna.» annuncia conciso. «Il travaglio ha avuto inizio.»
La velocità d'un fulmine difficilmente eguaglierebbe quella del papà. Angelo saetta di sopra, figlio e padre lo tallonano. Una cacofonia di pensieri e stati d'animo si contorcono dentro Piccardo. La mamma in travaglio. Il bimbo sta per nascere.
E lei potrebbe morire.
«Avete avvisato le levatrici?» s'informa Angelo lungo il tragitto.
Avete, nota Piccardo. Il nonno e la nonna e i servitori.
«Immediatamente.» cheta i suoi dubbi il nonno, stranamente per nulla arrabbiato o sbraitante. È perché non stanno bisticciando sullo zio Francesco. «Saranno qui a breve, stai tranquillo.»
Giungono al limitare della stanza della puerpera. In teoria, ha letto Piccardo, una donna pregna di benestante estrazione dovrebbe recludersi nella clausura ombrosa, ammorbidita e addobbata di corredi sacri e sacre immagini, della sua stanza nel mese precedente al parto. Confinamento, si chiama. Ma la mamma ha sempre tanto da fare, da supervisionare. La casa da gestire, i conti da amministrare, Giovannetto a cui badare, anche se a quello può pensarci Piccardo.
Agli uomini è vietato l'accesso al luogo della nascita, ove non correre il rischio di contaminarsi con i viscidi, umidi e instabili umori femminili. La nonna sarà già dentro, ode un parlottio francese, sussurri e tenerezze. Poco dopo un esercito di donne si presenta a suo padre, invadendo la stanza e serrando la porta.
Comincia l'attesa.
Piccardo, per quanto si sforzi, non riesce a rievocare un lacerto di quando è nato Giovannetto. Aveva quattro anni, dovrebbe ricordarselo.
Niente. Sforzi vani.
Papà comincia a marciare inquieto, mani allacciate dietro la schiena. Il nonno sprofonda su una panca, rilasciando un gran sospiro. A intervalli irregolari urla devastanti, seguite da incoraggiamenti, rassicurazioni, sproni a non abbattersi, evadono, rimbombando tonanti.
La mamma sta soffrendo e Piccardo brucia d'impotenza.
Non può apportarle nessun sollievo.
È una questione riservata alle donne, il segreto della nascita. Ma se, come gli ha spiegato un prete di San Giorgio, gli organi riproduttivi femminili non sono altro che i genitali maschili rientranti all'incontrario, imperfetti, non dovrebbe essere campo di competenza anche maschile? O no?
Mistero. Pianta i piedi a terra, imbronciato. La mamma sta affrontando la prova di Eva e lui non può fare nulla, non può coadiuvare il suo fratellino o la sua sorellina nel venire al mondo.
Lui no, ma qualcun altro...
Illuminato dalla trovata si precipita in camera, saltando sul letto e scuotendo l'addormentato Giovannetto.
«Giovannetto! Sveglia! Svegliati!»
«Eh?» Il minore si stropiccia le palpebre, il visetto punteggiato di lentiggini che si distorce in un vistoso e scortese sbadiglio.«Che c'è? Stavo sognando di volare sopra una papera e di comandare un plotone di gatti!»
«Dobbiamo recarci dallo zio Francesco.» gli bisbiglia Piccardo.
«Cosa?!» Spumeggiante della consueta e malandrina allegria, Giovannetto si sveglia in un baleno. Piccardo gli tappa la bocca. Non devono farsi scoprire!
«Se parli sottovoce ti libero, capito?»
«Tatito!»
Gli leva il lucchetto dei palmi. «Il fratellino o la sorellina sta nascendo e la mamma ha bisogno di forza. Siccome lo zio è decantato come un santo possiamo chiedergli di pregare per lei e farci il miracolo d'un infante sano!»
«Ci sto!» Giovannetto ci sta a qualsiasi stravaganza che questo mondo ha da offrire, ma sorvoliamo sui dettagli. «Andiamo a San Damiano!»
«Sì!»
«E corriamo nudi controvento!»
«S-cosa?! No!» La proverbiale esuberanza di uno che voleva sterminare le libellule. Doveva prevederlo. «Giovannetto, non stiamo giocando. La posta in palio è la vita della mamma e del nascituro.»
Lui alza le spallucce. «Correre nudi controvento può aiutare ad alleviare la tensione, che ne sai?»
Sa che potrebbe averlo fatto, conoscendo il soggetto.
Piccardo lo spinge giù dal materasso, appioppiandogli il primo mantello raccolto dalla cassapanca addossata ai piedi del letto. C'è una porticina discreta che sbocca sul retro e da lì la discesa verso gli uliveti e la campagna è assicurata. Il cicaleccio petulante di suo fratello, grazie a Dio, non intralcia la loro fuga.
La notte primaverile è impregnata d'un trionfo di fiori. Ideale contorno a due baldanzosi cavalieri galoppanti all'avventura.
- La riconciliazione tra Angelo e Francesco è inventata. Non sappiamo come sia avvenuta, ma siamo certi che sia avvenuta. L'episodio di Angelo siniscalco-maggiordomo-responsabile del gathering al Capitolo delle Stuoie parla chiaro. Il biografo dice testualmente "suo fratello di sangue"
- Piccardo e Giovannetto sono gli unici figli di Angelo di cui abbiamo notizie. Avevo rintracciato un albero genealogico tempo fa (ora l'ho perso XD) dove, persino tra gli antenati, si enumeravamo solo i maschi della famiglia e le loro consorti. Visto che mi sembra assai improbabile che questi, per cinque generazione di fila, fino alla possibile Giovanna figlia di Giovannetto, abbiano scodellato solo e unicamente maschi, potete ben intuire il sesso di questo terzo, fantasioso, ma chi lo saprà mai veramente, figlio di Angelo.
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