Chiara - IV
Sta pregando, china e fronte a terra, immedesimandosi nella polvere che vela vecchie carabattole sugli scaffali, nel pulviscolo che volteggia nelle lame di luce. Candele fioche punteggiano la cappella, altrimenti sprofondata nelle tenebre, d'un arcipelago di puntini luminosi.
Lucciole, le paragona Chiara. Come quella notte di tanti anni fa.
L'urlo di Francesco infrange la contemplazione, un coltello che squarcia la membrana del suo raccoglimento.
Chiara non è l'unica a scattare al suo richiamo. Le sue consorelle - Benvenuta e Pacifica forse, accompagnate da altre, non le identifica bene tra ombre e luci - si mobilitano a frotte di sai e veli alla capannina di frasche.
Non osano entrare, attendono lei. Ma l'urlo continua, spezzato dai singhiozzi, rantoli, altalenante e doloroso. A un suono disarticolato segue un nome, un'invocazione.
Il suo.
«Chiara! Chiara!»
La chiama. La vuole. Un bambino disperato che cerca la mamma. Chiara striscia all'interno, l'oscurità trafitta dalla candela che si è portata. Francesco è un ammasso lamentoso, una prominenza di pelli ruvide e coperte che si gira e rigira e contorce.
Ricaccia a forza un urlo giù per la gola.
Sangue. Ovunque. Fresco e rosseggiante, imbrattante la paglia, le coperte, l'erba. La candela ne intensifica il colore. Sangue che sgorga dalle ferite aperte, le bende zuppe. Sui palmi, sui piedi, sul costato. Il saio ne è fradicio.
«F-Francesco...»
Miracoloso che non perda i sensi, spiritato e cadaverico. Al bagliore della candela è spaventoso, gli occhi gonfi e irritati dalle lacrime.
Quelle ferite. Il loro segreto. Non rivelarlo ti prego, non dovrà mai saperlo nessuno tranne te e pochi altri finché sarò in vita. Il timbro vivente dell'Amore. Chiara ha giurato, non lo dirà mai a nessuno. Angelo lo stesso. Ma tutto questo sangue...
Chiede pezze pulite, acqua e un cambio per Francesco, precisando perentoria che nessuno dovrà avvicinarsi alla capanna finché lei non sarà uscita. Si avvicina lenta quando riceve quanto richiesto. Devota, atterrita.
Le ferite estreme, il dolore e l'amore suggellati sul corpo martoriato di Francesco. Chi è lei per toccarle? Per curarle e fasciarle e intingere palle di tessuto nella carne angariata di un uomo che ha patito la passione di Cristo? Solo un'allieva, una timida, ignorante allieva. Lui il suo Maestro.
Nessuno. È nessuno.
Controlla le lacrime, lotta contro il pianto incombente. Non riavranno mai più quei giorni felici, non in questa vita. Appartengono a un tempo morto, al relitto di una nave affondata.
«A n-n-nessuno...» Francesco è debolmente aggrappato al filo della lucidità. «R-Ricorda... a ness-nessuno...»
«A nessuno.» rinnova la sua promessa Chiara, fasciando il grumoso chiodo di carne, un'escrescenza rappresa. Tutto ciò che venera, che ama, parla attraverso quei segni. «Ti andrebbe di raccontarmelo ancora una volta?»
Le parole di Francesco si dipanano limpide, un ruscello scorrente e dilaniante la terra. Chiara se lo accoglie in grembo, la nuca sul guanciale delle ginocchia. Abbassa le palpebre e immagina, rievoca.
Rievoca le foglie avvizzite e ardenti d'autunno, l'impervia scalata di Francesco sul monte della Verna, scuro e folto di boschi, una bestia irsuta in agguato in mezzo alla valle. Venuto a commemorare la festa di San Michele, Principe delle Milizie Celesti.
Rievoca il Sasso Spicco, la roccia in bilico sopra la gola che spacca in due un pezzo di montagna. Il brusio della natura, il suo respiro e affanno segreto nel cuore della foresta. Rievoca Francesco in perenne, implorante preghiera su quel Sasso, supplicante al Signore di palesarsi, di irrompere a inondare di luce e gioia la sua angustiante, terribile notte della Fede.
«Parlami! Dove sei? Dove sei?! Parlami!»
Rievoca, trascinata dal racconto, il mondo sospeso, cristallizzato, il maestoso Serafino alato incendiante il cielo, un Serafino in croce, il ventaglio piumato delle sue sei ali. Il muschio bagnato, il mondo che riprende a girare, la vita a scorrere in ogni creatura. Francesco che si accascia estenuato, sopraffatto dal dolore e dall'estasi. La realizzazione, il compimento. Il centro di tutte le cose.
«E-E poi...»
«Ssh...»
Il sonno lo sconfigge, una stanchezza stremata, prima di giungere a conclusione. Va bene così. Ha già dato abbastanza per oggi.
Un soffio, un raggio, un brivido. Un fuoco d'amore, l'Amante che diventa ritratto dell'Amato, si congiungono, si fondono. Metamorfosi d'amore. Francesco reca impresse nelle carne le piaghe gloriose di Gesù crocifisso.
Il principio e la fine. Sta tutto lì. Tutta lei stessa, tutto il mondo.
Chiara le bacia, attenta a non destarlo, le irrora di lacrime. È indegna di sfiorarle, di ricoprirle di baci. Miserabile, striminzita pianticella.
Cosa, cosa Elia, Ugolino e i riformatori non hanno compreso?
La notizia del successo di Francesco alla corte papale, la validità orale della sua proposta, s'era propagata a macchia di leopardo in tutta la regione.
Il cielo dei suoi diciotto anni era una tavola turchina e Chiara lo scandagliava conquistata, la parola di Francesco sedimentante nel suo cuore alle prediche che il vescovo gli aveva accordato in duomo.
Smorta la derisione, cementato il rispetto, gli assisiani, soprattutto giovani, confluivano a frotte, incantati dalla sua semplice, volgare eloquenza. Volgare come volgo, popolo. Parlava il loro linguaggio, lo arricchiva di canzoni, lo abbelliva d'una gioia contagiosa. In Assisi si scatenava una rivoluzione giovanile. Figli dicevano addio agli agi e ai lussi del secolo per devolverli ai poveri, agli affamati, correvano scalzi e spediti, sgravati dagli affanni della vita passata, accoglievano i suoi ideali, il Vangelo vissuto nella sua forma più pura e genuina.
Chiara lo seguiva, l'aiutava con i mezzi che riusciva a raggranellare a sua disposizione. Fondi, vivande, soccorso ai poveri. Segreta, come aveva sempre agito fino a quel momento. Bazzicava nella campagna, oltrepassando il Rivotorto - nucleo primario della fraternità, costeggiante il fiume e il suo schiumare rabbioso - lo strascico che s'ingrossava di brezza e melodie ariose. Portava pagnotte cedute in eccedenza dalle cucine, nuove bende, soluzioni e intrugli con cui applicare impacchi e cataplasmi alle piaghe dei lebbrosi. Pietre, per risollevare altre chiese.
Fasciava le mani annerite, i polpastrelli spellati dal lavoro di Francesco. Lui ne rideva, punzecchiandola se stesse prosciugando l'intero corredo.
«Valgono così tanto le mie mani?»
«Dovresti averne maggior cura.» lo rimproverava materna Chiara. «Sono uno dei pochi strumenti attraverso i quali Nostro Signore ci permette di esplorare e conoscere la sua creazione.»
Alla menzione del corredo saltava un battito. Corredo. Fidanzamento. Matrimonio.
A diciotto anni si fluttua nell'anticamera dello zitellaggio. Suo zio e suo padre avevano intessuto relazioni con importanti famiglie durante la lontananza perugina, la sua mano era ambita. L'argomento, in un modo o nell'altro, spuntava immancabilmente fuori a cena e lo zio Monaldo lo foraggiava, sottolineando come molte fanciulle alla sua età avessero scodellato eredi da un pezzo, come non ci fosse, per una donna di nobile lignaggio, mansione più nobile e onorevole dell'apportare lustro al proprio ramo convolando a sposa a un fruttuoso partito.
Chiara li ignorava, volante sulle ali della mente a Francesco, ai suoi gesti inconsueti, al suo temperamento limpido, spontaneo, assurdamente appagato. Da Dio. Dall'amore che non tramonta mai.
Francesco parlava di Dio e quel Dio la corteggiava, irresistibile, più lusinghiero e allettante di qualsiasi spasimante strimpellasse ballate alla sua finestra a Calendimaggio, tripudio di fiori.
Il Dio dell'amore, del servizio, della carità, il Dio impostante un nuovo, universale comandamento d'amore verso il prossimo.
Chiara lo cercava, sperava che si palesasse. La creatura trapiantata nel cuore quella mattina di emancipazione, seme di Francesco, si torceva inquieta, impaziente, smaniosa di spiegare le ali e librarsi in solitudine.
«Che cos'è l'amore?» gli domandò un pomeriggio, assetata di sapere, di risposte, della chiave alla felicità che scaturiva dai suoi occhi.
Sostavano a ciondoloni su un muretto a secco, la pianura scivolante dolcemente nella sua aerea, impalpabile leggerezza, una poesia di terra, aria e cielo. Il verde acerbo del grano immaturo era picchiettato di fiordalisi e isole avvampanti di papaveri. Gli ulivi rifulgevano in una pioggia di bagliori argentati.
Ronzavano api, un bruco s'attorcigliava al pendulo filamento d'una betulla.
Francesco s'immergeva nella natura, lo sapeva. Non alla sdolcinata e fiabesca maniera dei racconti, ma ridendo, ballando, trattando la natura come emanazione dell'Amore. Si celava anche in essa, l'Amore.
«L'amore...» Si lambiccò, pensieroso. «L'amore è la linfa della terra, la scala verso le stelle, la pazzia dei sani e la sanità dei pazzi.»
Allora stava ammattendo pure lei, trasognante quell'amore immortale, un tesoro che né' tarme né' ruggine avrebbero corroso.
Chiara confortava, portava supporto. Il lebbrosario impestato dai miasmi dei lebbrosi, scuola della vera vita. Bambini malnutriti dalla pancia vuota e gonfia, madri dalle orbite incavate, seno floscio e capezzoli bluastri e rancidi di latte. Vecchi dagli sguardi acquosi e l'andatura claudicante. Malati a un soffio dall'incontro con l'Altissimo. L'Amore stava anche lì. Stava ovunque. Ma le sue ricchezze, i suoi pizzi, le sue sete sgargianti le precludevano il sapore soave.
Francesco le diceva quanto il Signore fosse un marito geloso: le avrebbe dato ogni cosa, ma in cambio esigeva lei nella sua totalità.
Avere il niente per trovare il Tutto. Frasi che miravano a segno, si accavallavano, martellandole le meningi durante gli orari della sua amata preghiera domestica.
Il crocifisso era un corpo ossuto, travagliato nella Passione. Indistinguibile da quello di un lebbroso, d'un reietto schivato dalle persone perbene, di un viandante con un abisso nell'animo. Un corpo che amava negli spasmi dell'agonia.
Come poteva la Chiesa adorare un emarginato e poi condannare quelli simili a lui? Formava un paradosso. Ammira i grandi, ma venera il piccolo.
«Tu sei più esperto, più maturo.» implorava Chiara, sempre più convinta del taglio netto che doveva subire la sua esistenza. «Guidami, ti prego.»
Si vedevano, all'infuori del servizio, nelle periferie boscose di Assisi, sul limitare della selva, lei accompagnata dalle sue amiche d'infanzia e vicine di casa Bona e Pacifica di Guelfuccio, Francesco da Frate Filippo Longo e altri.
«Bisogna saper morire Chiara.» le replicava vago.
«Come?»
«Sulla croce, con Cristo.»
Sulla croce. Appenderci lì i propri sogni, speranze, paure, incertezze. Caricarsi le croci altrui sulle proprie spalle. È amando che si è amati, donando che si riceve.
Il tumulto, la decisione, esplose in lei un giorno e corse a perdifiato alla Porziuncola, fiancheggiando il filare verde opaco di cipressi solcante la campagna, i muretti scrostrati e cotti dal sole, le spighe ancora teneramente verdi. D'estate i braccianti avrebbero mietuto, arrotolando balle corpose come riccioli di dama.
Glielo sparò a dirotto, risvegliata, a momenti posseduta da un ardore incontenibile.
Sì, era giunto il momento. Che la strada di Francesco s'allargasse anche a lei. Perché escluderla in quanto donna? Le donne amano più intesamente, si concedono, spalancano il proprio essere all'amore, con cuore, grembo, il coro del corpo.
Francesco l'accettò, non se lo fece ripetere una seconda volta. Sprigionava un'energia dirompente, vivace, irresistibile. La prese per mano e le comunicò ch'era opportuno informare anche gli altri della bella notizia.
«Chiara intende vivere come noi.»
Leone, Egidio, Ginepro, Bernardo, Pietro, Silvestro, Masseo e gli altri, gli amici della brigata di combina pasticci, come li scimmiottava altero suo zio Monaldo, all'adunata nell'ombra proiettata dalla chiesetta.
«Seguendo il nostro stile di vita?» Rufino, suo cugino, naturalmente ebbe da ridire.
Chiara si preoccupò di sopire i suoi timori. «È il mio ardente desiderio.»
«Capisco, ma, cugina cara, una donna non può predicare il Vangelo!»
E la Maddalena allora? La Vergine Immacolata? Le intrepide, irriducibili martiri dei primi secoli? L'ammonizione di San Paolo risorgeva. La donna impari in silenzio, in piena sottomissione. Ma da una donna era sorta la Salvezza, dal ventre diffamato e imbestialito di umori e viscida bile d'un donna.
Dalla perseveranza d'una ragazza etichettata dalla comunità.
«Cristo si rivolse anche alle donne. Il suo messaggio è universale.» Pose le mani sui fianchi. «La scorza del mio corpo è debole, ma il mio spirito indomito. Rivestita della corazza della fede chi potrà attentarmi?»
«Il mondo Chiara.» Rufino marciava perentorio sulla sua linea di principio. «Lo sai cosa mormora la gente se vede una donna insieme a un gruppo di uomini? O se la scorge diffondere e insegnare la Parola di Dio nelle piazze, per le strade, vagabondando da sola? Quale pensiero licenzioso fermenta nei malintenzionati? Fiuto puzza di rogo per noi tutti, eresia. Scomunica.»
Francesco intervenne a sedare il battibecco, calmando le acque.
«Dobbiamo prima predicare il Vangelo tramite le nostre azioni, i nostri gesti, la nostra vita e in seguito, se necessario, usare anche le parole. Cristo parlò a tutti, la sua novella d'amore non conosce confini. Donne e uomini, ignoranti e dotti, ognuno nella sua diversità benedetto con vari talenti e doni. Non è necessario che Chiara massacri i suoi piedi sulle strade polverose del mondo.»
L'Amore non abitava forse qualsiasi cosa? L'amore nasce nella disperazione e quanta disperazione aveva osservato nei dintorni d'Assisi, dietro le maschere ornate e meticolose dei più abbienti tanto quanto negli stracci dei più poveri!
Meglio essere invidiati che compatiti, sosteneva lo zio Monaldo.
Meglio essere derisi che indifferenti, rimodellò adesso Chiara.
«Il Vangelo è amore e l'amore abita anche nello sguardo disperato di un malato, nel pianto di un bambino.» affermò solida nella sua posizione. «La carità è testimonianza e la preghiera una sorta di carità.»
Una rotazione di busto, il sussurro di Francesco nel suo orecchio. «Ho in serbo un progetto speciale per te.»
«Quale?»
«Lo scoprirai.»
«Qualsiasi cosa purché io mi consacri a quel Cristo povero.»
Al corpo macilento che si stacca dalla croce e s'incarna nei relitti umani arenati ai bordi delle strade, che si amalgama nei cuori mesti in un concentrato nero di abbandono e desolazione.
Francesco la prese in disparte, quel pomeriggio ceruleo, le radici aggrovigliate e carnose d'un ulivo loro ritrovo.
«San Damiano.»
La sola nomina le accapponò la pelle. Chiara era incredula, scombussolata.
«San Damiano?» chiosò, illudendosi d'aver compreso male. «La chiesetta che hai ristrutturato con le tue stesse mani?»
«Sarà il vostro ritiro, nido della tua comunità.»
«Vostro?» E aveva accennato a una comunità?
Le labbra di Francesco s'arcuarono in un sorriso complice, lo sguardo vagante di un furfantello che finge di non sapere nulla. «Un faro attira molte navi, rivisitiamola in quest'ottica...»
Chiara lo spintonò amichevolmente, un pugno leggero sulla spalla.
«Io non sono un faro!»
«Ma lo diventerai, trasfigurata da Lui, dal suo amore.» Francesco riacquisì apparente contegno, il suo sorriso la quintessenza della dolcezza. Le prese le mani, la differenza tra i due evidentissima. Tanto candide, lisce e curate quelle di Chiara, quanto callose, trascurate e sporche quelle di Francesco. A lei sembrarono le gloriose mani d'un cavaliere. «Luminosa davvero, non solo di nome.»
Era stabilito, dunque, il suo avvenire, la vita che sceglieva, abbracciava, motivata a non mollarla mai più. I ripensamenti e i rimorsi? Fastidio punzecchiante altri, ma non Chiara. Era radiosa. Finalmente aveva individuato la sua strada, seppur spinosa, impervia e irta di ostacoli.
La sua famiglia, ad esempio, la loro salda opposizione.
Per questo era indispensabile agire in segreto, nel soppiatto della notte e con la complicità del vescovo. Guido I approvava la sua decisione, glielo fece intendere chiaro e tondo la Domenica delle Palme successiva quando, volevasi la convenienza che le ragazze di buon ceto salissero sull'altare a munirsi d'un ramo di palma, i pensieri avevano imbrigliato Chiara alla panca.
Era impaziente, scalpitante. Quella sera sarebbe fuggita a Santa Maria degli Angeli, alla Porziuncola, esordendo in una nuova avventura di vita. Si esaminò l'abito, le sue più appariscenti, pacchiane e pompose ricchezze che le evocavano il voltastomaco. Si sarebbe congedata da questa pagina, strappandola, accartocciandola.
Recidendo il filo e buttandoselo alle spalle.
«Chiara.»
Sussultò, estirpata bruscamente dai suoi voli mentali. Il monumentale mantello di Sua Eccellenza che le torreggiava sopra, culminando nel suo faccione tondo e rubizzo. Chiara temette d'aver commesso qualche oltraggio alla casa di Dio.
Si era dimenticata d'ascendere all'altare e ritirare il suo frondoso ramo di palma. Furono le manone del vescovo Guido a deporlo sopra le sue ginocchia.
«Procedete.» Il segnale in codice, bisbigliato mentre si reclinava a conferirle il ramo.
Procedere con la sua scelta, la sua rinuncia. Protetti dal suo benestare.
L'altro ostacolo? La porta dei morti.
Quella sera - era il ventotto marzo milleduecentoundici - si adornò dei gioielli più splendenti, grondando sfarzo e luce sulla veste sanguigna, un motivo di colombe tramato sull'orlo, in uno sfondo rosa tenue. Fili di perle nei capelli, trine, collane e ghingheri tempestati di gemme, rubini, zaffiri, lacrime di fuoco e schegge di ghiaccio. Lo strascico lungo, immenso, una pozza rossa che svolazzava sulle pietre, i boccoli biondi acconciati in elaborate trecce.
Era pronta.
«Chiara, presta attenzione.» Caterina e Beatrice, dismesse per la notte, l'abbracciarono. L'ultimo abbraccio del secolo, del vecchio. Chiara l'assaporò affondando nelle loro pieghe, gustando i loro profumi.
«Nostro Signore mi protegge sorelle mie.»
Loro sapevano, il resto della famiglia ignorava. Lo zio Monaldo sarebbe montato su tutte le furie all'apprendere della sua fuga. Stava addentrandosi su un terreno pericoloso e inesplorato: l'ira dello zio, più animalesco, brutale di suo padre.
Non importava. Non importava più nulla.
Esisteva solo Cristo, la povertà della croce. Il sogno di Francesco.
Ora anche suo.
In punta dei piedi, quatta quatta come un topolino nell'antro di un gatto, Chiara aggirò l'imponente portone d'ingresso al palazzo, bullonato e tenuto sotto serrata, costante vigilanza. L'avrebbero scoperta nel tempo di un respiro.
La porta dei morti soltanto le permetteva la libera uscita.
Una porticina laterale, il cui nome derivava dallo scopo preposto: passando attraverso di lei i morti davano il loro ultimo addio. La si utilizzava nei funerali, il resto del tempo massi, travi e sbarre la sigillavano.
Chiara corse nei bassifondi del palazzo, il cuore in gola, frenetico. La porta dei morti sprangata, una trincea di sbarre ferrose, pietre, mattoni e un ciarpame di robaccia ostruiva il passaggio.
No. Non adesso. Non ora che stava per compiersi il suo destino.
Si fece forza, sollevò le pietre pesanti, sganciò i catenacci sferraglianti, sfilò i mattoni. Uno alla volta, in fretta, gettandosi ogni tanto uno sguardo alle spalle, assicurandosi che nessuno l'avesse scoperta o la stesse pedinando.
Mancava la trave principale, trasversale al battente. Chiara infilò le dita sotto la sbarra lignea, piegandosi, facendola scivolare verso l'alto. Si meravigliò di lei stessa. Non aveva mai esternato una prestanza fisica simile, una forza che l'incoraggiava a togliere, rimuovere. A liberare il suo cammino verso Cristo.
Sgomberato il passaggio anche dall'ultimo intoppo, spalancare la porta fu una vittoria, fiotti d'aria frizzante le investirono il viso.
Ce l'aveva fatta.
Iniziava la corsa.
Si fiondò a dirimpetto nel contorto labirinto di vicoli e crocicchi di Assisi, la luna ammiccante sopra i tetti, una cortina di nubi sfilacciate, fini. Il fiato le bruciava nei polmoni, le orecchie le fischiavano dalla corsa, l'aria rombava, tagliente, graffiante le guance con gelide lame. I piedi, inguainati nelle babucce imbottite, spruzzate di perle, incedettero sul pietrisco cittadino come se dotati di volontà indipendente. Lo strascico si gonfiò dalla foga, una vela ingravidata d'aria, risaltando contro la piena, butterata, rotondità lunare.
Si tuffò nell'uliveto, scapicollante nel buio, la Porziuncola e lo stuolo di frati una costante indelebile, suo obbiettivo. Sfrecciava carica, rinnovata d'una vitalità fresca, giovanile, dirompente.
Il suo sogno a pochi passi, a pochissimo.
La sua consacrazione. La povertà. L'amore devoluto al prossimo.
Francesco e la vita che avrebbe intrapreso.
Vivo. Vero. Autentico.
Gli ulivi, nembi balenanti argento al bagliore della luna, si diradarono, cedendo alla pianura florida, spezzettata in campi, un rattoppo in toni d'ocra, terra, sabbia e oro brunito di giorno. Le tenebre, trapunte di stelle, camuffavano il creato in un'univoca massa scura, indistinguibile.
Torce fendevano la notte, Francesco e i suoi frati radunati sul punto in cui il declivio s'appiattisce. L'aspettavano.
E Chiara aspettava loro.
«Sorella Chiara.» L'appellativo di Francesco vibra ancora, risorgendo dai meandri della memoria. Si era rivolto a lei in quel modo, avanzando tra i fratelli. «Sorella Chiara, prima pianticella, balsamo degli afflitti, fuoco dei valorosi.»
«Fratello Francesco.» gli rimandò nell'identica pacatezza. Fratello e sorella. Padre e madre. Figlio e figlia. Francesco e Chiara. Da quel momento si sarebbero appartenuti, affini nell'amore, più che collaboratori, più che innamorati della Parola. Lo sentì in quell'istante, l'aveva sempre sentito. «Sposo di Madonna Povertà, minore dei fratellini minori, mitezza degli umili.»
Il suo sorriso è impresso, indelebile, dentro di lei.
«Vieni.» Braccio teso, un invito. «Andiamo a scortarti dallo Sposo.»
Lo Sposo venne nella chiesina angusta, ammorbata dal fumo sprigionato dai moccoli retti dai frati. In quel firmamento di fiammelle, lacrime di cera e tremuli balenii di luce, Chiara seppellì la ragazzina, la bambina che era stata.
È tutto così nitido, ultraterreno, fragrante di mistero. Prepotentemente rampante dal passato: lei che si sveste, la cuffietta di trine casca a terra, l'abito ricamato volteggia nell'aria e s'ammassa accanto, le scarpe, i gioielli sprofondano nella polvere. A preservarla dalla naturale nudità ci scampa la sbuffante camiciola candida, eterea e finissima, ordita in filo d'argento.
Chiara fuoriuscì dalla sua pompa, un bocciolo di vesti spiegazzate, lei purissimo pistillo. Le piante nude batterono il primo passo sulla terra vergine.
Si prostrò in ginocchio, reverenziale, le mani giunte, esibendo la chioma biondissima, un oro eguagliante i riflessi fatati di quella nottata storica.
Offerta a Francesco.
È stata l'unica volta certa, ci ripensa, dove le mani di lui le hanno sfiorato il viso. Il ticchettio delle forbici, lo schiocco arrugginito delle lame, più un forbicciotto da giardiniere che un delicato utensile da sarto.
Ciocche svolazzanti, che si librano, illuminando d'oro la pietra scura. Una nuvola di fili incorporea, leggerissima, morbidi boccoli di sole.
«Rinuncio.» Il suo giuramento stentoreo, sopraffatta dall'emozione. «Rinuncio a tutto per amore del Santissimo Bambino.»
Francesco le spazzò via i nodi finali, garbugli d'oro sul suo scalpo oramai rasato. Diafana di viso, l'immensa chioma tagliata corta sulla nuca, sbarazzini riccioli che soffiavano sulla fronte, una nuova Chiara, una donna, lo fronteggiava adesso.
Le consegnarono una tunica ruvida, scomoda, un velo, le cinsero i fianchi con il capestro della promessa.
Era fatta. Sancita in eterno. Ultimata.
Non si tornava - non si guardava - indietro.
Mai più.
Un'alba lattiginosa avvampava lungo l'orizzonte, il nero che svaporava in un rosa ameno, quando riemersero all'aperto. I grilli acclamavano il coraggio di Chiara. Lucciole orbitavano nell'istante cristallizzato, faville lucenti.
Aveva osato, come Francesco. Aveva trasgredito, come Francesco.
Si era conquistata il suo posto nel mondo che quest'ultimo era reticente a conferirle.
Inalò una boccata. Persino l'aria sembrava più pura, monda dai miasmi della corruzione mondana, dai lussi, dall'egoismo.
«Occorre sbrigarci.» Il monito di Francesco. «Presto i tuoi parenti s'accorgeranno che sei scappata.» Lo zio Monaldo più di chiunque altro. «Dobbiamo metterti in salvo.»
«San Damiano non è ancora pronto?»
«Necessiti la tutela d'un luogo consacrato, inviolabile. Non ardiranno rapirti da un concistoro di sacre vergini se temono Dio.»
Monaldo avrebbe ardito. Oh eccome. La nobiltà del casato non si sposava con la sua ribelle, umile bassezza. Sarebbe giunto a riprenderla, prima o poi.
Chiara non si sarebbe spostata d'un centimetro dalla sua posizione. Che la battessero, che la ingiuriassero, abbaiando i più spregevoli e meschini epiteti, la sua ingratitudine, la sua ingenuità nel lasciarsi manipolare da uno scriteriato come Francesco. Che venissero.
Avrebbe difeso il suo desiderio di vita a costo di quella stessa vita.
«Va bene.»
Era discesa e adesso risaliva, inerpicandosi in fila, i frati un convoglio di protettori. Bastia Umbra, le comunicò Francesco durante il cammino, il convento di San Paolo delle Abbadesse. Un rifugio temporaneo. Chiara acconsentì, le motivazioni di questo ripiego giuste e dettate dalla volontà di proteggerla. S'arrampicarono sui pendii irsuti di boschi del Subasio, la foresta lussureggiante, pullulante di vita intorno a loro.
«Siamo io e te adesso.» si rivolse Chiara a Francesco a metà del percorso. Lui l'occhieggiò spaesato. «Colonne di Cristo.»
«Oserei dire più sassolini.» ironizzò lui.
I sassolini spianavano la strada al passaggio altrui. Anche i sassolini sono liberi, nudi nel loro grigiore. Smantellati i filtri, le maschere, l'amore che sgorgava, traboccando vorticoso nelle vene.
«Minuscoli, ma immancabili.» Chiara balzò su un tronco riverso sul fogliame. «Stammi vicino Francesco.»
«Un fattore non dimentica mai la sua pianticella.»
Lei ricambiò con un sorriso smagliante. Un fattore coltivava la sua pianticella e Francesco non l'avrebbe abbandonata. Mai.
In quel momento lo percepì, il nodo che li univa, intrecciato tra di loro.
Sarebbe stati sole e luna, complementari e paralleli. Il maschile e il femminile della povertà. Ambivalenti e vicini, compagni di viaggio sulla via dissestata e impervia che conduce a Cristo Gesù.
Lui per lei, lei per lui.
Francesco e Chiara. Indissolubili. Come due cervi che balzellano e brucano nella radura screziata di sole. Chiara e Francesco.
Staziarono un istante in un anfratto tra i massi sporgenti e aguzzi del Subasio, arabescati di muschio. Albeggiava, la striscia madreperlacea più marcata e visibile, baciante Assisi nell'immanenza sospesa del mattino.
Da lì si ammirava bene l'acrocoro di case, l'imponente Rocca Maggiore, sede del rappresentante dell'imperatore, che sovrastava sul gomitolo disorientante di vie e piazze. Una cane da guardia in pietra e calce sorvegliante la sua preda. Il duomo di San Rufino, il suo campanile slanciato al cielo, un dito inanellato di fregi, smaltato della soffusa pietra rosata del Subasio, rimbombante di rintocchi.
Casa sua. Il suo palazzo prospiciente la piazza battuta dal sole. Chiara accantonò quell'improvvisa fitta di nostalgia.
Era un calderone di vanità inutili, ridicole. Umane. Il suo desiderio era stato esaudito: votarsi alla Povertà, al Dio degli ultimi, dei dimenticati.
I ripensamenti sono per i deboli.
«Ti abituerai presto a camminare senza scarpe.» Francesco si sedette al suo fianco, porgendole del pane da un involto. «La piante s'inspessiranno.» Si cacciò in bocca un tozzo quando la vide accettare cibo. «Che hai?»
Aveva osato, alle ciance le ripercussioni. Ribelle per amore di Cristo.
«Sono felice, forse per la prima volta nella mia vita.»
Chiara masticò il pane stantio, crostoso. Il sostentamento giornaliero di un povero.
Il sapore ricercato del più succulento dei banchetti sbiadiva al confronto.
Era libera e liberamente si sfamava d'un pane duro, elemosinato. Liberamente s'arrampicava tra il fogliame turbinante del Monte Subasio. Liberamente sceglieva.
Le si inumidirono gli occhi.
«Francesco?»
«Mh?»
«I primi tempi saranno duri, non è vero?»
Le pose una mano sul dorso della sua. «Testeranno la tua fede, è normale.»
«Non vacillerò, resterò salda nella mia decisione.» Lo fissò profondamente, nuotando in quei laghi aleggianti di nebbia. «Tutto per lui.»
«Lui e gli altri.»
Chiara si inebriò un ultimo, fugace istante del panorama d'Assisi dall'alto.
«Lui e altri.» ripetè certa.
Il convento benedettino di Bastia Umbra, San Paolo delle Abbadesse, l'accolse, inviolabile terreno d'asilo. La badessa, una donnina tarchiata, emanante un'autorità vigorosa e ingioiellata dei simboli del suo rango - nonché attestato della dote con cui era entrata al servizio del Signore - la mise, venendo Chiara sprovvista di tutto, una qualsiasi somma che la ponesse tra le consorelle esentate dalle fatiche manuali, ai lavori più vili e umili. Rassettare nelle cucine, spaccare legna, pulire il chiostro.
Anche nei conventi, magioni dell'amore in Cristo che uguaglianza predicava, la vita era scandita dalla fortuna toccata a ognuno. Specchio della società esterna, gli strati sociali dettavano legge. La preghiera, per lo meno, dettava pace, silenzio, contemplazione come sarebbe dovuto essere.
Stava pregando, Chiara, sola davanti all'altare, quando la disapprovazione dei suoi parenti le piombò addosso.
Udì un baccano all'esterno, smorzato dai battenti di legno rinforzati da viticci metallici. Tramestio di uomini, strepiti, martellante furia di zoccoli, nitriti, latrati fragorosi di bracchi.
Erano venuti. Suo padre e lo zio Monaldo,
Si regolavano i conti.
Supplicò il crocifisso d'infonderle coraggio. Il momento era giunto.
Sfondarono le porte, gli zoccoli d'un muscoloso baio pestanti la pietra levigata della navata. Suo zio Monaldo alle redini, incenerendo ogni cosa con lo sguardo di fuoco, due spioncini sull'inferno rutilante.
«Tu! Tu ignobile sgualdrina!»
Chiara si rimise in piedi, ritta, inespressiva.
«Come hai potuto darci un disonore simile?! Eri promessa, gli accordi già presi, la dote già stabilita.»
«Denaro sporco.» sputò Chiara, senza battere ciglio. «Gramigna del demonio che allontana da Cristo e dalla sua Parola.»
Suo padre volteggiò giù di sella. Favarone di Offreduccio degli Scifi non mosse un passo, preoccupato. «È quell'idiota di Francesco che ti ha ficcato certi perniciosi grilli in testa?»
«No padre, è stato Dio.»
Dio sottoforma di reietti, di invisibili. Nel piagnucolio di un bambino dalle nudità scarne, nella macilenta e stanca mano chiazzata d'un vecchio.
Monaldo scoppiò a ridere, privo di ritegno e pudore. «La chiamata di Dio! Seh! Credibile!» Riprese l'arcigno grugno. «Chiara, finiscila con queste frottole. Siamo disposti a perdonare e dimenticare tutto se adesso ti togli di dosso quegli stracci e te ne ritorni a casa con noi.»
Chiara s'irrigidì. Testare la sua fede, l'aveva avvisata Francesco.
«No.»
«Saresti disposta a buttare via la tua giovinezza, la tua bellezza, il tuo splendido avvenire per inseguire un povero scemo e le sue corbellerie?» Favarone stava perdendo le staffe. «Niente storie, torni a casa con noi!»
«No!»
«Hai idea della figuraccia che tuo padre ha subito davanti a tutta Assisi?» ringhiò lo zio Monaldo. «Non ti persuadiamo con le buone? E sia. Magari la capirai con le cattive!»
S'avventò in avanti, mano guantata sul pomolo sortente dal fodero. Voleva prenderla, strapparla alla sua scelta. Chiara agì più in fretta, salendo sull'altare.
S'aggrappò alla tovaglia che lo copriva e si scoprì il capo.
Rasato. Ciuffi impertinenti, radi al cranio come setole. L'invidiabile biondo maestoso reciso. Un segno inequivocabile.
Monaldo si bloccò, scioccato.
«Tu...»
«Sì.» Chiara lo sfidò sollevando il mento, fiera. «L'ho fatto.»
L'avevano, una combutta comune.
Monaldo strinse il pugno, lo agitò in aria, storcendo la bocca in una smorfia bestiale, e, subito dopo, lo fece ricadere molle, sconfitto, lungo il fianco.
«Tu, piccola, insolente-»
«Fratello!» Favarone contemplava imbesuito, lacrimante. Deluso. «Monaldo, contieni la tua collera. È consacrata, non possiamo opporci.»
«Ma-»
«Preferisci la scomunica? Ha vinto lei, ciò che è fatto è fatto.»
Monaldo la fulminò in tralice, gli occhi fiammeggianti di disprezzo, onta. Giudizio. Favarone aspettò che il fratello avesse condotto i cavalli all'esterno prima di rivolgersi alla figlia fuggiasca.
«È-È una tua scelta.» Gli tremolava la pappagorgia. «La tua vocazione. Mi addolora, mi è incomprensibile, m-ma... ti auguro di non doverti mai pentirtene.»
«Cristo non si pentì mai del supplizio della croce padre.»
Si lasciarono così, tra poche parole e uno scandalo da tappare.
Caterina riaprì la ferita quindici giorni dopo, quando Francesco aveva trasferito Chiara nella comunità, sempre accampata alle pendici del Subasio, di Sant'Angelo in Panzo. Scappata di casa, illuminata dal suo esempio. Gli Scifi non perdevano solo una figlia, adesso pure due!
Infangata nella veste, rami e foglie impigliati nei capelli, la determinazione della sua giovane sorella sbalordì Chiara nel momento in cui le comunicarono del suo arrivo inaspettato al convento.
Ruppe gli indugi, fiocinandola di domande.
«Sai cosa comporta questo?»
«Lo so, ma sono sicura della mia chiamata. Dio, tu e Francesco mi avete ispirato Chiara! Fammi essere come te, fammi seguire le orme di Nostro Signore nella povertà giubilante e lieta!»
«Nostro zio non tollererà una seconda monacazione.»
«Cosa può nostro zio contro l'amore che arde in me, mi sconvolge e mi divora?»
Le parole di Caterina erano risultate profetiche.
Venne Monaldo, capeggiando dodici uomini armati, spada al fianco e vergogna nel cuore, ombroso, cupo.
Caterina, non ancora tonsurata - aspettavano Francesco, rievoca Chiara - sedeva sul prato fiorito, l'ornamento della chioma scura che le spioveva, rigogliosa, sulle spalle. Un pesce da cogliere all'amo per Monaldo.
Lo scandalo suscitato stava ledendo al buon nome della famiglia, alla dignità del casato e rispettabilità delle sue donne. Chiara non tornava? Contenta la stupidina. Caterina non era ancora consacrata. Caterina poteva tornare.
Almeno lei, almeno una!
Individuarono Caterina, illanguidita sull'erba, tra fiori e insettini ronzanti, e la prelevarono a forza, di peso, tirandola per la fluente massa di capelli. La rapita urlò spaventata, sferrando unghiate, opponendosi a calci, dibattendosi, issata contro il suo volere sulla spalla di uno degli scagnozzi.
Una sberla la mise a tacere, il baccano a squarciagola si spense in un guaito piagnucoloso. Sangue le colò dal naso, un rivolo brillante.
«Chiara! Chiara aiuto!»
Chiara sfrecciò all'esterno, ammutolendo, gettandosi sullo zio, cercando di strappare la sorella ai quegli sgherri infami. Lo schiaffo violento assestato da Monaldo le fece tremare i denti negli alveoli, capitolando a terra.
Il palato contaminato del sapore metallico del sangue, lo zigomo pulsante nel punto in cui il guanto ferrato aveva colpito. Stavano compiendo un'ingiuria alla Chiesa, il sequestro d'una giovane intenzionata a porsi al servizio di Dio! Doveva impedirlo. Ma di che armi disponeva? Un corpo svantaggiato, una forma esile...
Preghiera.
Recitò sottovoce, stralci di preghiere partorite sul momento.
Improvvisamente, il corpo di Caterina cadde con un tonfo a terra. Gli armigeri di suo zio tentarono di risollevarlo, la tirarono. Sudore vano. Caterina era pesantissima.
«Hanno gusti fini queste monache!»
«Questa secondo me stanotte dev'essersi ingozzata di piombo!»
Ironizzarono laide, le canaglie, ritentando, grugnendo, bestemmiando all'impresa impossibile. Monaldo non rise. Chiara arretrò, riconoscendo quell'espressione.
Il furore esplose, suo zio snudò lo spadone, la lama assorbente la luce. Non tornava? Bene, l'avrebbe uccisa lì, lui sul posto, lei e l'onta arrecata alla famiglia!
Alzò la spada, pronto a calare, a squartare la carne di Caterina, a porre la parola fine a quell'insulsa storia una volta per tutte...
... e lanciò un acuto strillo di dolore, la spada cadde, riversa sull'erba.
Il braccio di Monaldo era paralizzato, fermo a mezz'aria nella posa da combattimento con cui stava per derubare Caterina della vita.
«Ma, cosa-»
Chiara strisciò a carponi dalla sorella pestata, i lividi violacei e turgidi, il sangue rappreso dalla narice. Caterina s'arpionò a lei, affannata.
«Streghe!» urlò Monaldo, gli uomini se l'erano data a gambe levate. Si tratteneva il braccio immobilizzato, sconcertato. «Siete delle streghe! Vi bruceranno al rogo! Voi e i vostri scapestrati amici eretici! Streghe!»
Che Monaldo ne fosse convinto oppure no, da quel momento le lasciò in pace.
Francesco venne poi, Chiara ce l'ha ben presente. Tagliò i capelli a Caterina, le fece indossare l'abito, pronunciare i voti e le cambiò nome in Agnese. Agnus, poiché aveva dimostrato mansuetudine e temerarietà nel superare la tribolazione.
San Damiano giunse poco dopo. Una sorpresa, la descrisse Francesco, mentre scortava Chiara e Agnese alla dimora definitiva. Ammiccava birbante, il sorriso vispo di quando s'è piantato in testa qualcosa e si ostina finché non lo porta a termine.
La sorpresa era un fabbricato annesso alla chiesa madre, un appendice in mattoni dalle sfumature ocra, rosate, il rosone un occhio di vetro contornato di motivi. Fiori davano l'assalto alle mura, s'avviluppavano alle colonnine del chiostro, sbucavano in vampate di gerani negli angoli più inaspettati. Si godeva - come si gode tutt'ora - d'una vista privilegiata sulla valle spoletana. Il verde dei boschi, il mosaico raffazzonato dei campi, toppe di terriccio, l'azzurro vertiginoso del cielo. I monti degradanti dolcemente, le morbide colline ondulate. I papaveri trillanti, incendianti i campi, l'immensità dorata del grano estivo.
San Damiano. Castello delle vergini, sorgente a cui dissetare i mali dell'esistenza, ritiro dello spirito, convegno della pace, contemplazione e penitenza.
«Il seme della tua comunità.» le disse Francesco. A gambe incrociate, nell'uliveto, si rigeneravano insieme della vista meravigliosa. «Le sorelle dei fratelli.»
«Due a malapena.» ridacchiò Chiara. «Una comunità alquanto scarna.»
«Verranno Chiara, sarete in molte e tu le guiderai.»
«Io?» Aveva abbandonato tutto per servire, umile tra gli umili. Porsi sullo stesso piano, non salire di posizione. «Io badessa?»
«La prima pianticella deve garantire ombra ai nuovi virgulti.» Francesco non si girò a incrociarla, assorto nella bellezza. «Tu ne hai la capacità.»
«Io sono solo una piuma trasportata dalla brezza divina.»
Il calore del suo palmo le s'insinuò nella stretta di dita. «Lo siamo tutti, se accettiamo di abbandonarci alla danza del vento.»
Tutti. Altre parole vibranti a segno. L'entusiasmarono. «Compresi noi due.»
Di nuovo quell'incrocio di sguardi, la fusione, la simbiosi, il calcare uno i panni dell'altra. Sole e luna e complementari.
Inspiegabile e magico.
Un'energia frusciò sull'ulivo vicino, baluginante argento sfumato. Colombe si staccarono dai rami con un frullo d'ali. Il creato cantava.
«Verrai a trovarmi, a porci una mano?» A porla a lei, giovane e inesperta?
«Basterà chiamarmi e io mi precipiterò da te.»
«I tuoi fratelli uccellini ti cinguetteranno per conto mio?» sviolinò con falsa malizia, la testa cascante sulla spalla di lui.
«Sono molto intonati se ti interessa saperlo.» si finse, goliardicamente, offeso.
«Ah davvero?»
«Beh, mai quanto sorella rana-ehi!» Francesco si spanciò a terra, nell'erba, nella polvere, un sospiro verdeggiante, gorgogliante di cristalline risa. Chiara gli scompigliava i capelli, parodiando il gracidare della grassa, cisposa ranocchia. Respinse i colpi tirandosi il cappuccio sulla parte lesa. «L'hanno inventato per questo il cappuccio, lo sapevi?»
«Salvaguardare le teste?» Signore, quale insuperabile compagno d'avventura le aveva piazzato accanto nelle scorribande della vita!
«Oltre che ripararci dalla pioggia, ma quella è una necessità secondaria.»
Se la rideva bene, il burlone.
Comunque fosse, le sue previsioni si avverarono: crebbe la schiera di seguaci, una folta schiera di spose alla rinuncia, alla povertà e al Redentore. Spirato Messer Favarone, vennero Ortolana, la madre di Chiara e Agnese, e Beatrice, la loro sorella più piccola. Vennero Bona e Pacifica di Guelfuccio, le carissime amiche. Benvenuta, Cristiana, Amata, Illuminata, Consolata, Benricevuta, Egidia, Aurea, Filippa, Anastasia, Cecilia, Stella... numerose.
Donne anelanti la libertà, sognanti la pace, amanti Cristo nella sua più piagata, sofferente, umana incarnazione.
La pianticella si fortificava, affondava radici e induriva la sua corteccia.
L'Ordine invece? S'ingrandiva parallelamente, lanterna alle falene, le capannucce di fango e paglia crescenti intorno a Santa Maria degli Angeli. Ma, come suole pontificare l'adagio, quando il gatto è assente i topi ballano.
O gli sgranocchiano il cibo.
Francesco salpava per l'Oriente insanguinato dalle crociate, nel milleduecentodiciannovesimo anno dall'Incarnazione, dialogando con il Gran Sultano di pace, fratellanza e amicizia, e frattanto, in Italia, la situazione s'ingarbugliava. Nuovi venuti protestavano della durezza della condotta di vita, si sentivano sminuiti nei loro studi, nella loro universitaria, prestigiosa carriera. Pretendevano rigore, leggi definite. Il Vangelo e solo il Vangelo era un fondamento scarso, la libertà di Francesco una fantasia.
Rientrato nei confini italiani, per trovare un terreno comune indisse la prima riunione generale dei Fratres, il Capitolo delle Stuoie, nell'anno di grazia milleduecentoventuno. Fino a cinquemila persone confluite da tutta Europa! Chiara n'era rimasta sbigottita all'apprenderlo.
Aderire al Vangelo, alla povertà cristiana, Francesco era inamovibile. Ma, le rivelò poi, non intendeva porsi in contrasto con i novellini, che dopotutto, come qualsiasi altro essere vivente, considerava suoi fratelli.
Rassegnò le dimissioni dal vertice dell'Ordine, quindi, affidando la direzione a Pietro Cattani, il buon Pietro sapiente e dotto. Le responsabilità gli scavarono la fossa da lì a un anno. Scomparso Pietro, Elia lo sostituì.
Insistendo, con la presenza assidua del Cardinale Ugolino, affinchè mettesse per iscritto una regola più appagante, distensiva.
«Non capisco cosa vogliono!» Francesco si sfogò con lei, l'inverno nevoso che soffocava San Damiano in una cappa bianca. «Il Vangelo contiene la Regola già dettata e finita, ci segnala di vivere in povertà e letizia! Non... non immusoniti e torvi in monasteri bui! Cosa vuole Elia? Perché è cobelligerante di Ugolino?» Camminava avanti e indietro, un tondo di piedi scalzi, congelati dal freddo, il fiato condensante in una nuvoletta. «Se io incontro un povero più povero di me mi vergogno! Cosa vogliono che io faccia? Ti rendi conto? Cosa? Questa è sempre stata la nostra vita, nessuno li obbliga a vivere come noi!» S'arrestò, stralunato. «Come noi? C-Che ho detto? Non c'è nessun noi, non siamo una cricchia esclusiva!» Si prese la testa tra le mani, pestando esasperato la fronte a una colonna del chiostro. «Aaah! Sento di stare smarrendo il senso dell'orientamento, la rotta giusta? Qual'è la rotta giusta...»
Chiara, le piante intirizzite dal freddo, il vento che ululava tra i rami spogli e scheletrici, gli trasmise il suo conforto, una mano sulla spalla.
«Io sono piantonata sempre qui, questo è assodato.»
Gli restituì un caduco sorriso. «La mia pianticella radicata in San Damiano.» Dita salirono a strofinarsi le palpebre, un tic ripetitivo.
Non scampò all'attenzione di Chiara. «I tuoi occhi.»
«Sì?»
«Te li tocchi in continuazione.» Il contorno era arrossato, lo palpò preoccupata, servendosi della punta dell'indice.
«In Oriente ho beccato certe febbri cattive.» Francesco sorrise per tranquilizzarla. Le febbri intermittenti lo perseguitavano da sempre, ma, ragionò Chiara, la Terra Santa doveva averle peggiorate. «Il medico del Sultano mi ha scovato un'infezione oculare. Mi ha curato. Sono molto competenti e preparati gli studiosi saracini, azzarderei più dei nostri medici. Fuga le tue paure, non è nulla.» La sua mano, bianca al pari del biancore ovattante il creato, segregante la natura, le circondò le dita. «Ho abusato anche troppo della tua ospitalità e pazienza. È tempo che io vada.»
Di già? Era ancora presto! Chiara sostenne il suo passo, contrita. La vicinanza di Francesco la rassenerava, il suo consiglio era prezioso! L'allievo vaga alla cieca senza il maestro!
«Quando ci rivedremo?»
La neve fioccava rapinosa, i rami del roseto erano irrigiditi, sfibrati. Francesco vi gettò uno sguardo. «Quando fioriranno le rose.»
A primavera inoltrata. Un tempo lontanissimo. Una separazione sofferta.
Chiara gli ha giurato obbedienza e non obbietterebbe mai a un comandamento di Francesco. Fece per ritirarsi, dimessa, all'interno del convento, quando il suo occhio scorse un prodigio.
«Francesco!»
Si schiudevano spirali di petali, il rosso brillante, acceso, che erompeva dal bocciolo turgido. Rose fiorite in pieno inverno.
Chiara corse trafelata a raccoglierle, accalorata, delirante di gioia. Le consegnò a Francesco, il cespo pieno, prospero di vita. Lui se le premette al cuore, saggiò il loro inebriante profumo nell'aria pungente di neve.
«Dovrò rimandare i viaggi lontani, allora. Nostro Signore desidera che io rimanga nei paraggi ad assillarti ancora Chiara.»
Nei paraggi dell'Umbria, di Assisi, nelle campagne brunite di sole e gaudio.
Lo pensava addormentato, il soffice respiro dissolto sopra il guanciale delle sue ginocchia. Non proprio.
«Sono dannato!»
Chiara scatta sull'attenti, rizzando il collo. Francesco scivola via, nascondendosi il volto, in preda a una disperata isteria.
«Francesco?»
Contorni di luce risaltano la sua forma ingobbita, le gambe premute al petto, rincantucciato in un angolo.
«Sono dannato...» mormora, più a se stesso, al suo io tormentato, che a lei. Geme, un rantolo strozzato. «Dannato! Condannato agli inferi! Ai demoni!»
Deve stare delirando. Chiara non ha controllato la febbre, se ne rammarica. Ma improvvisa, inaspettata, così...
Si approssima, cautela la sua alleata. Tiene il moccolo di cera con una mano, ravvivando la capanna di luce, le frasche si tramutano in bande bronzee.
«Francesco, cosa vaneggi?»
«La verità!» ansima, il fiato corto.
Chiara avvicina lo stoppino, contenendo a malapena lo spavento. Lacrime spillano dalle palpebre infiammate dell'amico, lapilli di lava arroventanti il malore. Brandisce il primo panno nelle vicinanze, depone la candela e lo placca per la spalla, imbevendo il tessuto nell'acqua, rimediando anche con la sua stessa saliva.
Francesco è insofferente al trattamento. Si dimena, scalcia. Non sa da dove tragga la forza, ma una manata l'atterra, tramortendola allo stomaco. Chiara annaspa sulla paglia, retrocendendo, sbigottita.
L'ha colpita. Francesco l'ha colpita.
Francesco che ricomincia a piangere
Il dolore si attenua dal polo. Sorgerà un livido, pazienza. Non è in lui, non sta bene. Un amico debilitato, frustrato, ha bisogno di sostegno.
Chiara non si arrende. L'ha promesso: suo bastone, sua guida, suoi occhi. Il buio sta inghiottendo Francesco, lei gli lancerà la corda.
Ora e sempre.
«Lo vedi? Lo vedi?» strepita, mani cacciate nella chioma scapigliata. «Sono un peccatore, un orribile, vizioso, disonesto peccatore! Ho travisato la parola di Dio, l'ho insozzata, disonorata di povertà! Ho sbagliato tutto!»
Se l'avesse fatto Domine Iddio l'avrebbe frenato anni or sono.
«Ascoltami-»
«Tutto! Ho sbagliato dall'inizio! Scorgere Dio nei malandati, nei p-pulciosi, nella povertà... ho sbagliato, ho fallito, il gregge è disperso.»
«Francesco...»
Prende a dondolarsi, la collana di gemiti che si sformano in un piagnisteo accorato. «Dio mi punirà, lo so. Sono un peccatore e ho sbagliato, ho commesso un errore, un peccato mortale. Mi dannerà e me lo merito.»
«Francesco!»
La nenia s'interrompe. Chiara avanza, lo circonfonde nel ruvido abbraccio del suo saio, il suo velo graffiante contro i capelli di lui.
«Tu non hai sbagliato. Se il Signore decreterà il castigo eterno dovrà spedirci all'inferno in massa.» Le rimonta il riso. «Una torrida scampagnata.»
Il suono aspirato del moccio. Francesco struscia la guancia nella depressione del suo torace. «Insieme a cuocere nei calderoni.»
Sta riprendendo la serenità. Lacrime di sollievo imperlano le ciglia dorate di Chiara.
«E infilzati sugli spiedi dai diavoli.»
«Ma stiamo dipingendo l'inferno o un banchetto?» borbotta ironico lui, la pace calata. La stretta s'intensifica. È dipendente da lei. «Sono stanco Chiara, tanto stanco... tutti questi dissidi, questi disaccordi, le incomprensioni...»
«Lo so.» L'accarezza dolce, baciandogli la nuca. «Passerà, abbi fede.»
«Io ho fede, anche se in certi momenti mi domando se il Signore abbia disertato il suo gregge. I frati... chiedono la sicurezza dell'uomo e respingono la sicurezza di Dio. È un'utopia bucolica per loro.» Un lento dissentire, scuote il capo. «No, non lo è. Dio è la comunione di bellezza e sofferenza, d'estasi e dolore. Il dolore più intenso ci aiuta a godere della pace che ad esso segue. Forse sono io che non sono riuscito a impormi, la mia voce sovrastante. Ma chi sovrasta, chi si impone, è per antonomasia superiore. Io non sono superiore a nessuno! Sono il più piccolino, il misero, l'ultimo dei fratelli!»
Minore dei frati minori.
Francesco s'accartoccia a tossire, espettera sangue, maculante le larghe maniche in eccesso. Si rialza, scaricandosi contro di lei, esausto.
«Il Vangelo è amore e-e d-dove c'è chiusura, dove c'è indifferenza, non vive amore. L'indifferenza è il v-vero veleno del cristiano, dell'uomo m-mondiale!»
«Dio percorre sentieri all'uomo ignoti.» Chiara lo ripone sul pagliericcio. Sta tremando, un brivido raggelante. «Opererà lui Francesco.»
«Dio...» Chiude gli occhi, mormorando insonnolito. «Dio m-mio, mio t-t-tutto...»
Gli prova la fronte, uno strato di sudore luccica. «Ti va del latte caldo? Mh? Che ne dici? Dormiresti più sereno.»
Un accenno lieve, una riga di sangue sgocciola dal labbro. Chiara la spazza via, la manica suo fazzoletto.
«V-Va bene...»
«Riposa Francesco piccolino, ultimo degli ultimi.» Lo massaggia a ripetizione, cerchi concentrici sulla discesa della schiena, rincalzandogli la coperta sgualcita, volata via nella concitazione di poc'anzi. «Riposa e sogna il nostro Signore.»
«D-Dio della pace...» Gli collassano le palpebre, pastose di sonno.
«Dio dell'amore.»
Chiara gli soffia un bacio dal palmo quando ha la certezza che ronfi, rannicchiato alla stregua d'un bambino. Esce, la candela suo ausilio, avvisando Leone, Masseo e gli altri frati accorsi di badargli un secondo, ora che s'è ripreso. Starà via poco.
Ravviva le braci cineree, ponendo a scaldare un sorso di quel latte che oggi un caritatevole contadino ha elargito alle monache. Versato in una sbeccata tazzina di terracotta, baluardo contro il gelo penetrante della notte, Chiara s'avvia.
«Stava dormendo quando abbiamo sbirciato a controllare.» le riferisce Leone.
Chiara, la tazzina in bilico nelle mani attornianti, annuisce grata.
Allora come mai, appena s'imbuca nella capanna, di Francesco nemmeno l'ombra?
- La fuga di Chiara oscilla tra due date, comunque sia era una Domenica delle Palme. La notte tra il 28 e il 29 marzo 1211 o la notte tra il 18 e il 19 marzo 1212
- Caterina, anzi Agnese, divenne santa come la sorella, sopravvivendole solo pochi mesi.
- Francesco ebbe molte notti tormentate nei suoi ultimi anni, in preda allo sconforto, ma da questa in particolare nascerà qualcosa di speciale...
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