Chiara - III
«Voglio andare da Nostro Signore.»
L'ombra dell'ulivo si frammenta sul corpo rammolito e disarticolato di Francesco, abbarbicato sui cuscini e tra le radici aggrovigliate. Bendato, una stretta fascia intorno agli occhi irritati, cosicché il sole non devasti un già di per sé accecato apparato visivo. Piedi insaccati nelle pantofole realizzate da Chiara, le calze a riscaldare le gambe deboli, incapaci ormai di sostenere il suo peso.
Inginocchiata a rammendargli il saio, costume consolidato negli anni - Domine Dio solo conosce l'esatto numero di toppe di sua provenienza rappezzate sulla veste rozza e grezza di Francesco - lei solleva il capo.
«Francesco! Cosa dici?»
Un sorriso scappa dalle labbra screpolate. «Intendevo il crocifisso Chiara...»
Le era sobbalzato il cuore, carità divina! Si sporge a ribattergli un colpetto sul braccio, negli unici punti liberi dal dolore. «Specifica la prossima volta!»
«Provvederò!» E ride, ride lieto.
Nella sofferenza trova sollievo, gioia. Tipico di Francesco. Quanti si lascerebbero deperire, cupi e tenebrosi? Tanto bene è quel che aspetto che ogni pena m'è diletto, è solito canticchiare, contrito negli affanni, nelle angherie dei suoi mali. Un giullare, la spensieratezza leggiadra di un trovatore, intramontabile.
«Sei uno spudorato burlone! Un buffone! Mi hai fatto prendere un colpo...» Si pone una mano al cuore, riprendendo il lavoro di cucito.
«Inutile che ci inganniamo.» Francesco ridiscende alla serietà. «Sorella morte giungerà un giorno, busserà alla porta e io sarò pronto ad accoglierla.»
Sorella morte. L'oblio conducente al Padre altro non è visto se nelle sembianze di una sorella buona, mite, stimata, operatrice del suo dovere. Non la falce smunta e decrepita che trancia vite e miete respiri. Un angelo meno splendente, ma incarnante l'amore di Dio.
«Un giorno.» continua Chiara. «Ci rincontreremo nell'eternità sconfinata. Danzeremo e giocheremo e ci crogioleremo dell'Amore.»
«Dove il sole bacia la terra.» Una punta di malinconia contraddistingue il tono di Francesco. «In quella linea persa all'orizzonte, laggiù ci rivedremo.»
Lei si augura di non dover aspettare molto.
È una pianticella, chi le baderà? Chi l'innaffierà e la poterà dalle angustie? Francesco suo fattore, l'ha coltivata nel concime di San Damiano. Non sente d'aver affondato radici abbastanza profonde. Chiara ritrae le labbra, se le succhia nervosa, grata che Francesco non possa assistere al suo disagio. È armata solamente d'una regola malvista, uno stuolo di sorelle e la volitiva forza della sua determinazione. Non è ancora grande, sviluppata, corrente sulle proprie gambe.
Quando Francesco esalerà l'anima a Dio dovrà proseguire la sua battaglia da sola.
Non che adesso stia agendo diversamente, avendo a che vedersela con lui confinato a letto e attorniato dai medici a ogni ora. Ma non ci sarà più. Volatilizzato. Santificato, sicuro. Incastonato in un altare remoto, nella penombra soffusa e olezzante d'incenso di una qualche basilica mostruosamente mastodontica e diametrale all'insegnamento della povertà.
Rimarrà sola. Deve adeguarsi alla situazione che si stabilirà.
«Il crocifisso non l'avete spostato, vero?»
Ha accusato un leggero e promettente miglioramento, la febbre calata, assillando le loro meningi e virtù di pazienza con la richiesta pressante di voler uscire all'aria aperta. Stufo, arcistufo, di starsene barricato dalla Compieta alle Lodi in un buco oscuro di graticci e paglia. Sorretto da Leone e Chiara - Angelo scenderà da Assisi con l'approssimarsi del meriggio - è fuoriuscito dopo giorni, beandosi della fragranza floreale di primavera, del sole intiepidente il terreno.
«È sempre al suo posto.» Gli spazza una ciocca sbarazzina dalla fronte. «Affisso sopra l'altare.»
«Voglio risentire la sua presenza.» S'issa seduto, un tentativo scadente. Le mani trapassate cedono, Francesco crolla. «P-Posso?»
La distanza è breve, ma Chiara calcola lo sforzo che lo prosciugherà, assicurato solo a lei. Percorrere il tratto dalla capanna all'ulivo è stato spossante. Per lui. Valuta velocemente le condizioni di Francesco, lo spessore robusto delle pantofole, la pianta una barca rovesciata, cosicché la ferita non strusci sul piano, foce di fitte atroci. Sarebbe fattibile, intervallando piccole soste.
«Se ti sfianchi premurati di dirmelo.» l'avvisa. «D'accordo?»
«D'accordo.»
«Andiamo, appigliati a me.» Gli tende la mano, si curva, Francesco le si accolla alla schiena. «Sei pronto?» Rialzarlo comprende sempre la parte più ardua. Francesco assente. «Uno, due... tre!»
Combatte contro un gemito, stroncandolo, pesando sbilanciato addosso a lei, il fiato greve. «Ci s-sono.»
«Come stamattina Francesco, lo rammenti?»
«Andatura lenta e moderata.»
«Lenta e moderata.» ricalca Chiara fiduciosa. S'appone il suo braccio intorno alle spalle. «Pian pianino.»
Camminano a passo di lumaca, arrancando accozzati, inoltrandosi all'interno del convento. Il chiostro ordisce un disegno d'ombre e luci, fiammelle vaporose dei gerani. Francesco striscia i piedi, deponendo solo la punta e il tallone, la pianta forata esentata dall'incontro traumatico.
Hanno percorso un buon pezzo, Chiara propone una pausa. La rallegra poco la brutta cera di Francesco, la fronte imperlata di sudore e il pallore regnante. Si siedono sul muretto inframezzato tra le colonne, sgomberandolo dai vasi.
«Ci sei? Preferisci tornare indietro? Riprovarci un'altra volta?»
«No...» Sugge l'aria, annusando, imbastendo un sorriso bonario. «Col Signore si va fino in fondo.»
Si scala insieme il Calvario. Chiara gli sistema il bendaggio oculare, restringendo, annodando ben bene. Non è cambiato una virgola in tutti questi anni. Francesco si reclina sulla sua spalla, assaporando l'istante intenso, cristallizzato.
Loro due e la Creazione dispiegata nella sua piena, totalizzante bellezza.
Fino in fondo Francesco c'è andato, con Dio e con l'uomo. Anni prima, una piazza incredula, uno scandalo con i fiocchi. Involontariamente provocatore.
«Nella sua amorosa pazzia.» mormora Chiara, naufrangando nei ricordi.
La pazzia del Vangelo, il trionfo di un Dio perdente. L'apparenza della morte e la sublime, abbacinante, vittoria della vita. Storie di vita e vita che vive. Sotto la pergola, pigolante, nello stormo d'allodole idolatranti la luce, nel fremito d'ali, nell'alito di vento scarruffante il mantello fiorito.
«Siamo due folli.» Francesco sbadiglia. Sosteranno per poco alla cappella, Chiara lo prevede. «Incendiati d'amore di Dio.»
A debuttare nel manicomio è stato lui. Oh sì. Se lo ricorda molto bene.
Francesco aveva rinnegato casa e agi e il brusio sommergeva la bottega dei Bernardone, s'insinuava nelle fenditure, s'arrampicava sui rampicanti d'edera e le pietre arabescate di sole e polvere.
Era partito di testa, matto, proprio matto, il cervello fritto dall'afa. Regalava e chiedeva l'elemosina, lui che era nato tra i fiocchi di lana! Inaudito, incredibile. Assisi rideva e lo compativa. Ciuco d'un ragazzo, stolto d'un giovane! S'era incaponito di voler restaurare le vestigia di San Damiano, quella chiesetta decadente! Possibile? Bah, gli Assisiani non si risparmiavano critiche, muovevano dubbi e scuotevano il capo, deridendo quell'ammattito, sciocco di Francesco.
Al palazzo degli Scifi i commenti fioccavano. Lo zio Monaldo brontolava, bocciandolo come un viziato, coccolato bamboccio. Ma si poteva? Trattare tanto sgraziatamente i propri genitori - chiudendo un'occhio che Pietro di Bernardone fosse solo un volgare mercante, per quanto ricco - e sputare sui loro sacrifici!
Chiara avvallava un'ipotesi diversa. Conosceva Francesco e interpretava i connotati d'un cuore in evoluzione, fulminato d'amore divino, ispirato dalla Provvidenza. Francesco non si era scervellato, sbucando pazzo senza un senso. Francesco aveva scoperto Dio e la sua presenza negli ultimi.
Zio Monaldo, ovviamente, non la considerava.
«Voi ragazze statene lontane.» ammoniva Chiara, Caterina e la piccola Beatrice, le tre aderenti ancora al nubilato e alle mura paterne. «Quello squilibrato vi potrebbe plagiare con le sue patetiche favolette.»
Chiara sprofondava nel suo seggio, ricamando in silenzio, annoverando mentalmente una lunga lista di ragioni per cui, nella sua ottica, erano gli altri, superbi e arroganti, a essere i veri squilibrati.
Finché, una mattina, la pentola sulla brace si scoperchiò.
«Strano. Non è ancora mezzogiorno.»
Ortolana, capeggiante il circolo di figliole macchinanti al telaio e al ricamo, lo colse per prima. Il rumoroso, persistente scampanio inglobante l'intera Assisi.
Scardinò i vetri dell'arcuata finestra, sporgendosi a rintracciare la fonte di tutto quel rintoccante fragore. Chiara e sorelle, curiose, accorsero, sgomitandosi e disputandosi la visuale migliore.
«Giovanni!» Giovanni di Vettuta, loro lontano parente e inserviente, correva sul selciato. I cittadini convenivano al richiamo della sede vescovile. La baritonale, densa scoccata del campanone primeggiava sui più argentini scampanelli. «Giovanni, si può sapere che succede?»
«Francesco! Il figlio di Pietro di Bernardone!»
«Di nuovo lui?» Occhi rivolti al cielo. «Che ha combinato stavolta?»
«Suo padre Madonna! L'ha denunciato per furto!»
«Cosa?!»
Alcune donne, di ritorno dal pozzo, i palmi escoriati dall'insaponare, aggiunsero il loro parere. «È matto! Fuori di melone!»
E pepato l'invettiva con un pizzico d'informazione. «C'è pure il vescovo!»
«Andiamo in piazza!»
«Lo giudicherà!» Il parere di Giovanni. «Davanti a tutta Assisi!»
Poco e lacunoso materiale. Chiara aggrottò la fronte. Messer Pietro avrebbe intascato una vittoria schiacciante sul figlio fedifrago in un'aula di tribunale, tutelato da avvocati competenti, dotti in legge. Invece, a occuparsi della faccenda, interveniva il vescovo. Direttamente la Chiesa. Sforava l'abituale norma delle cose.
Perché Francesco non seguiva l'abituale andamento delle cose! Certo! Era lampante! Lui aveva contattato il vescovo, Sua Eccellenza Guido I, parandosi le spalle nell'ambito ecclesiale e il padre, a cose fatte, non aveva potuto che assecondarlo.
Ricorrere all'aiuto del vescovo avrebbe impegnato meno entrambi.
«Avete sentito madre?» Chiara non si sarebbe persa lo spettacolo. La liberazione di Francesco dai suoi vincoli. «Possiamo andare?»
Madonna Ortolana appariva titubante. «Bambine...»
«Ti prego!» Caterina, implorante, puntante sul suo talento: occhioni dolci.
«Vogliamo assisterci!» Chiuse Beatrice a rincarare la supplica. «Per favore!»
Messa con le spalle al muro, Ortolana acconsentì riluttante. «Suppongo che non si ripeterà un evento simile.» Valeva come permesso, le ragazzine saltarono, esultanti di gioia. «Ma non allontanatevi!»
Mantelli affibiati, una scusa con cui rabbonire Favarone e Monaldo talora fossero rincasati in loro assenza e il trio di sorelle scalpicciò, concitate, nel labirinto di stradine, viuzze e chiassi, vicoli e piazze scanalante Assisi, la madre faticante a mantenere il loro passo, intimante sovente di rallentare.
Lo spiazzo antistante il palazzo vescovile, stemmi garrenti dai suoi balconi, sopra il portale, pendenti dalle bifore, era gremito. Tutta Assisi stipata nella circonferenza di pietra rosata. Posti a casaccio, dove capitava. Sui leoni ai basamenti delle colonne, sopra gli sbocchi delle fontane, in bilico sui pozzi.
Facendosi largo a gomitate e scuse, imbottigliate dalla ressa, Ortolana, Chiara, Caterina e Beatrice si aggiudicarono posti esclusivi in prima fila.
Vedendolo, il cuore di Chiara s'arrestò d'un battito.
Francesco, insudiciato, evidentemente bombardato di sterco dai monelli, sporco, riparato a malapena da una tunica sdrucita, stinta e logora. Indugiava in ginocchio, atteggiamento da penitente, dinanzi alla mole massiccia del vescovo Guido, ingigantito dal voluminoso mantello impreziosito da trame in oro e argento.
Era difficile indovinare quale espressione stesse predominando sul viso pacifico e amichevole di Francesco. Chiara aguzzò la vista.
Nulla. Piatto come una tavola.
Non provava niente, non il minimo accenno di rimorso o felicità. Stava per purificarsi da tutte le sue nefandezze passate... almeno così Chiara credette. Non si capiva. Da Francesco non trapelava la benché infinitesimale emozione.
Il vociare spassionato nella piazza venne spento dal vescovo, il pastorale battuto a imporre il silenzio. Guido I, corpulento omaccione d'una veneranda età, sapeva come far valere il rispetto al suo ufficio.
«Veniamo dritti al sodo e districhiamo questo bandolo una volta per tutte.»
Il suo cipiglio canuto si piantò su un livoroso Pietro di Bernardone, affiancato dalla gentil consorte e dal figlio minore. Angelo, rimembrò Chiara. Meno celebre del godereccio fratello. Non ci aveva mai parlato insieme.
«Francesco di Bernardone.» Il nome rimbombò ovattato nel silenzio di tomba. «Sei consapevole dell'onta che il tuo gesto incosciente getta sulla tua famiglia?»
L'accusato, testa china, non proferì risposta.
Un silenzio stizzente il vescovo Guido. Vocione schiarito, dissipante l'imbarazzo.
«Hai capito la mia domanda?» virò su un tono neutro. «Perché fai questo? Ti vuoi mettere in ridicolo davanti a tutta la città?»
«E, soprattutto, vuole mettere in ridicolo la sua famiglia Eccellenza!» Senza che nessuno l'avesse chiamato in causa, Pietro di Bernardone si inserì nel pieno del processo. «Ha sempre avuto tutto quello che voleva! Sempre! Gli ho sempre dato tutto, non gli è mai mancato nulla, e...»
Il coraggio, la voce, gli vennero meno. Un pianto incombente. Era comunque suo figlio, pensò Chiara. Gli dispiace, è umano che gli dispiaccia.
«... e potete chiederlo a chiunque in città di quando io l'abbia viziato!» Messer Pietro rimontò, vomitando accuse, veleno. «Di quanto amore paterno l'abbia sommerso! Di quanto abbia pagato per esaudire ogni suo desiderio! Accontentare qualunque suo capriccio! Vuole spassarsela con gli amici? Bene pago io. Vuole andare a giocare alla guerra? Bene pago io. Deve essere liberato di prigione? Bene! Pago io.» Un dito innalzato ferocemente. «Deve fare il poverello straccione che chiede l'elemosina per strada e prosciuga il mio patrimonio? No! È diventato pazzo!» Quasi a comprovare la colpevolezza di Francesco, sventolò davanti a tutti mazzi di stoffe, teli. La merce rubata. «La mia roba, le mie stoffe nelle mani di quei putridi lebbrosi e mendicanti...»
A chetare il piagnucolio paterno provvide uno sguardo infuocato da Sua Eccellenza. Ingobbendosi, mastodontico, sulla segaligna figura di Francesco, il vescovo Guido si corrucciò, ponendo la fatidica domanda.
«Tu cosa vuoi Francesco?»
Palpebre sbattute. Si ridestò, ripiombato nella folla.
«Cosa voglio?» ripetè flebilissimo, innocente.
«Hai inteso bene.»
Cosa Francesco volesse. Chiara, ancorata al suo sguardo, lo sondò, sfogliato in ogni pagina, letto.
Capito.
Francesco rinasceva, un fiore sbocciante a vita nuova.
«Voglio essere libero.»
Libero. Libera. Fu una ventata di brezza epuratrice, un tempesta interiore, rullante di lampi e tuoni. La libertà agognata, spezzante le catene di matrimoni e obblighi, di doveri che erano attesi da lei.
La libertà di Dio.
«Libero di vivere da selvaggio, da accattone?!» tuonò Pietro di Bernardone.
«Libero d'essere povero, cosicché io possa cantare le lodi di mio padre!» Braccia tese al cielo, un sorriso rapito.
Negli assisiani proliferarono sussurri, mormorii, si rincorrevano pareri, risate, canzonatori e ilari. Fuori di zucca, letteralmente. Il ragazzo stava delirando, che qualcuno chiamasse un medico! Ma no, che lo scagliassero in gattabuia!
Era una lotta infinita, quella tra padri e figli. Un alterco che si perpetua dalla notte dei tempi, il divario tra vecchio e nuovo, antiquato e innovativo. Rivoluzione e tradizione. Il figlio rispecchia il padre, lo tramanda, l'unica eredità che permane è quella della carne e va rigenerata di continuo. Si figlia, si costruisce, si lascia. Doveva essere un normale conflitto famigliare, di quelli che suscitano tanto clamore e poi si chiude lì, una riconciliazione, il perdono e la città riprende il suo decorso.
Non quella. Il figlio degenere, il padre infuriato, offeso, che le aveva tentate tutte ed era stato ricompensato con la pazzia.
L'imperfetto va escluso, allontanato, bandito o infetterà il mondo con la sua imperfezione.
Dio non esclude, ruggiva il cuore di Chiara, Dio include.
«Stai svergognando tuo padre Francesco.» La critica aspra del vescovo.
Padre terreno, a lui alludeva. Non più un genitore a cui Francesco potesse dirsi legato.
«Un padre che ci ha benedetto tanto, ma talmente tanto!» Dio. Il cuore di Chiara batteva all'impazzata. Parlava di Dio. Aveva trovato Dio. «Ha creato i ruscelli rapinosi, adornato d'oro i campi, agghindato a maestosità i gigli, i quali non cuciono, non mietono, non accumulano tesori. Un padre che ha tanto amato il mondo da immolare il suo unico Figlio per la nostra salvezza!»
Sì, sì, sì! Chiara s'infervorò assieme a lui, le loro anime intonanti all'unisono una canzone di lode e pace. L'ammirazione esplose in lei, violenta, roboante, rivoluzionaria. Francesco sceglieva. Francesco osava.
«Gli è dato di volta il cervello...»
«Dissennato, un dissennato.»
I suoi concittadini sussultarono indignati.
«Silenzio.» intimò il vescovo Guido, sibilante, addolcendosi al suo protetto. «Covi la vocazione al sacerdozio?»
Al sacerdozio universale. Francesco, esile e scuro, un corvo in uno stormo di rapaci, di falchi maestosi. Un sano in una gabbia di matti. Rialzò il mento, in controluce, fiero come un monarca. Un cavaliere.
«Vivere tra la gente è la mia vocazione. Aiutare gli indigenti, gli sfortunati, i soli. Lodare la magnificenza del Signore che tante volte ignoriamo, serrati nei nostri bozzoli, schiacciati dal folle ingranaggio di una vita meccanica, vuota, ingrigita dal superfluo. Loro non sono superflui, sono esseri umani. Nostri fratelli. E io non bramo altro che servirli, spendermi per loro, sobbarcarmi le loro sofferenze.»
Cosa serve per essere un uomo?
Chiara, quella mattina che si sarebbe ripercossa nei secoli, una frustata sullo stagno della Storia, che increspa e schizza, se la pose.
Serve avere il coraggio di vivere.
Vivere e addentare la linfa della vita, rincorrere e catturare la propria libertà. Togliersi la maschera assegnata da questa fiera di mascherati, di truccati. Il circo delle falsità. Rivendicare la libertà e trattenerla, divorarla, sposarla.
Francesco, quella mattina accaldata, la maschera se la sarebbe tolta.
Per sempre.
Perché dovevano vedere questi guitti della vita, questi attori mediocri, questi lebbrosi nascondenti le loro piaghe, vergognosi dei loro difetti, come un uomo restava libero al mondo. Come nasceva, come rientrava.
Come si conquistava il coraggio di vivere.
Nudo.
Nudo e senza coperture, nessun filtro. Nudo e il suo essere uomo.
Essere argilla. Essere cenere. Fango. Saliva.
Nudo e libero.
Ed essere una donna? Risuonava prepotente in Chiara. Era una domanda su cui lambiccarsi in altri tempi, in giorni futuri.
«Attraverso quali fondi li aiuterai?» vibrò roco il timbro di Pietro di Bernardone.
«La Provvidenza, l'amore.»
«Nella vita nulla è scontato. Soprattutto l'amore.»
«L'amore non si compra. Dio non si compra.» Perle grigie, lucenti, infervorate, si appollaiarono sul vescovo Guido. «La ricchezza allontana l'uomo da Dio, il fratello dal fratello. Dio sta nei fratelli, ci aspetta, e noi, incrostati e soffocati dai nostri ori, dai nostri lussi, lo sorpassiamo e voltiamo lo sguardo.»
Libertà non implica solo recidere qualsiasi filo ti connetta al passato.
Implica recidere i fili e poi disfartene.
Il mercante di lane e tessuti digrignò, rosso di pianto, tristezza, disperazione. Erano giunti a tanto. Al capolinea. Al bivio della vita.
«Se te ne vai ora non ti considererò più mio figlio!»
A Francesco non importava. A mani giunte, sguardo serafico, una pace sconvolgente irradiata dal suo viso, si rivolse al padre.
«Ho un altro padre a cui sono lieto di dire: Padre nostro che sei nei cieli. Lui mi renderà ricco! Sarò ricco! Sarò...» Suo araldo, suo messaggero, cavaliere consacrato nello spirito. Chiara si artigliava la gonna, coinvolta, senza fiato. «Ricco di povertà!»
E recise il filo, lo appallotolò e se lo buttò alle spalle.
Calate le cenciose braghe da contadino, sganciata la cintura a cui penzolavano i tre spiccioli serbati nel borsello. Sfilata la tonaca bigia.
Nudo.
Nudo e padrone della sua esistenza. Espulso dal mondo, adottato da Dio.
Dalla folla salì un moto di sdegna. Madri occultarono la scenata ai loro figli, morigerate signore si tracciarono il segno della croce, orripilate. Non mancarono le risate, le derisioni, le facezie.
«Ma guardatelo!»
«Complimenti al sederino!»
«Bella soddisfazione i figli!»
Francesco non li ascoltava più. Roteava su se stesso, capitombolando, ridendo, ridendo spontaneo e naturale per la prima volta in una vita che ora vita poteva davvero definirsi.
Chiara tremava d'emozione, commossa, impressionata. Messer Pietro tremava di collera, dalla tentazione d'uccidere quella disgrazia vivente, quel tormento, quell'ingrato. Assisi contemplava la diatriba, un contenzioso tra padre e figlio, tra ragione e istinto, sentimento. Vita. In questo mondo malato d'uniformità, insofferente d'amore, allergico al diverso.
Era insostenibilmente stupendo. Francesco incideva la Storia con l'impeto della sua volontà, della sua tenacia, della sua grinta. Francesco rompeva i rigori e si denudava. In un angolo, accuratamente piegate, stavano le vesti pregiate, intessute con gli emblemi, che doveva al padre, secondo la legge.
Interruppe la danza, le prese, gliele lanciò ai piedi.
Giubba e calzari, camicia e braghe. Tutto. Nella polvere.
«Ti rendo il denaro e le vesti! Ti restituisco i tuoi averi!»
E riprese a volteggiare, libero e leggero. Lacrime appannarono gli occhi di Chiara. Cosa serve per essere una donna? Non lo sapeva. E per imitare Francesco? Non lo sapeva. Ma il mistero dell'inspiegabile si dimenava dentro di lei, graffiava, raspava per uscire, infrangere le convenzioni, riscrivere le regole. Un fuoco appiccato da Francesco, la sua ribellione seminante nell'orto del suo cuore.
Essere come lui. Vivere, azzardarsi come lui. Camminare fianco a fianco, librarsi in volo e annegare nell'azzurro, nelle sfumature del turchino e del viola quando il cielo s'assopisce e la luna s'arroga la supremazia celeste.
Marciare sullo stesso sentiero.
Percepì Chiara, in quell'istante - fugace e insignificante, un granello di tempo come sono spesso gli istanti cardine - che la sua vita subiva una virata, una svolta.
Grazie a Francesco che aveva impennato sul cammino di Dio.
«Servi dei servi, ultimo degli invisibili, dei vagabondi, dei randagi!» rideva intanto lui, spoglio e canterino, danzando in un'Assisi in subbuglio, scottata dallo scandalo. «Un buffone a cui sputano e beffeggiano! Diventerò un giullare! Il giullare di Dio!»
«Scemo del villaggio!» Pietro di Bernardone, crudele, ferito. Chiara scorse Angelo, gli angoli della bocca distorti dalla vergogna, dileguarsi nella parapiglia, tirandosi la madre appresso. La famiglia lo ripudiava. «Ecco quello che sarai!»
Il vescovo, inebetito dal gesto, arginò la falla puntando sulla sola risorsa di cui disponeva: il suo mantello.
«Copritelo!» rimbrottò ai canonici del suo codazzo. Quelli si precipitarono a sciorinargli dalle spalle ampie il mastodontico manto. «Per la miseria, copritelo!»
Tonnellate di stoffa ricamata inghiottirono Francesco, mingherlino e asciutto ci sarebbe stato dentro tre volte. Non contribuì ad altro che fomentare la risata.
Chiara, quella mattinata in apparenza indistinguibile da tutte le altre, respirò l'aria arroventata e, sorda agli appelli di madre e sorelle sul rifugiarsi immediatamente dentro casa, seguì il ragazzo ammantato della Chiesa con lo sguardo, arpioni di zaffiro, finché non svoltò l'angolo e scomparve alla vista.
Evaso dal mondo.
Libero.
Lo accompagna all'altare, entrando nella cappella dismessa e sobria, in sintonia con il resto dell'abitato.
Francesco la ferma con una mano sul braccio. Aspetta, è evidente l'intenzione, voglio procedere da solo. Chiara tentenna, assalita dai dubbi. E se cadesse? Sbattesse da qualche parte o gli mancasse l'equilibrio?
Lui quieta le sue angustie.
«So che, dovessi scivolare, tu ti precipiteresti a sorreggermi mia pianticella.»
Va bene. Gli lascia spazio, separandosi da lui. Il passo di Francesco è strascicato, un affaticato, barcollante arrancare, lo sforzo colossale. Non vede, ma è come se la memoria gli indicasse il tracciato a cui attenersi. Arriva all'altare e ai gradini che sovrasta, una manciata da nulla per una persona sana, un macigno da valicare per un infermo nelle condizioni in cui versa Francesco.
Chiara è pronta a lanciarsi in suo soccorso, spire d'ansia che l'avvinghiano. L'amico, in quella che ormai è una consueta circostanza, annulla la paura e le cattive previsioni, puntellandosi all'altare e tirandosi su, grugnendo di fatica e sospirando di vittoria. In un balzo solo ha superato tre scalini alla volta.
Si appunta che dovranno controllargli i piedi più tardi, verificare che la mossa non abbia provocato danni o aggravato la ferita nella carne.
A pochissimo dal suo Signore, Francesco esplora l'ambiente, tastando a casaccio nell'aria. Con la punta delle dita sfiora il contorno ligneo della pala, il basamento laccato in oro scroscrato - il tempo e l'usura l'hanno ridotto a un giallo sporco - e il fondo rosso dove, minuscoli, conversano i patroni dell'Umbria. Chiara indovina le ali spennacchiate di un San Michele, la giovinezza brandente un cartiglio illeggibile dell'apostolo Giovanni, le vesti clericali sbrindellate di San Rufino, patrono associato anche di Assisi. L'ascetico corpo provato dai digiuni del Battista si confonde nelle macchie fuligginose. San Pietro e San Paolo spiccano, forse, tra quelli meglio intuibili, intenti a rimandare lo sguardo allo spettatore.
Il loro crocifisso. Il crocifisso della chiamata.
Francesco, va' e ripara la mia casa, che come vedi è tutta in rovina.
L'ha riparata, il suo fedele operaio, la casa di Dio. Rinforzandola con nuove fondamenta, chiudendo crepe, tappando falle. La Chiesa non sarà più la stessa dopo Francesco d'Assisi.
Il suddetto sorride, accertata la vicinanza del crocifisso. Leva una mano, accarezza il legno, appoggiandosi alla pietra grezza dell'altare.
«Mio Dio, mio tutto...» bisbiglia nell'intimità isolata e solenne della cappella, l'originale San Damiano che ricostruì da un cumulo di macerie traballanti. Il crocifisso, mosso, oscilla leggermente nel vuoto. «Mio Dio, mio tutto!»
Loro Dio, le andrebbe da aggiungere, il Dio dell'amore, della povertà, della sofferenza, della semplicità fiorita e gioiosa, contagiosa di bruciante entusiasmo. A lui e agli ultimi è stata orientata la loro vita. Bussola e pietra miliare.
Scendere si rivela più difficoltoso e sfiancante che salire. Chiara sopraggiunge, Francesco s'accozza a lei, riguadagnando il fiato, il capo ciondolante preludio di stanchezza. Si siedono sul pavimento in pietra, lastre rudimentali e ruvide, Francesco rannicchiato nel suo abbraccio, la nuca nella rientranza del suo collo. Depone il mento sopra la sua testa, ciocche solleticanti.
Altri frati recherebbero il cerchio della tonsura, un anello di setole stoppose. Francesco è a malapena un diacono. Nei capelli nerissimi, assorbenti quasi i ritagli di luce che s'intrufolano nella cappella, un singolo filo argenteo notifica al mondo i quarantatré anni che compirà al declino di settembre.
Appena quattro lustri, venti dei quali trascorsi a testimoniare la Parola, e Dio Padre lo pretende per sé.
Oh Francesco...
«Chiara?»
«Sono qui Francesco, dimmi.»
Struscia le tempie sul tessuto rozzo del suo saio, uno sbuffo leggero. «È bizzarro.»
«Che cosa?»
«Come la soluzione ad ogni domanda dell'umanità affranta, raminga e sconfitta stia in un condannato a morte.»
Cristo, criminale innocente che ai veri criminali viene negato, nonostante sia sceso in terra per consolare, asciugare le lacrime, raddrizzare i torti.
«Vero.» concorda Chiara e non fa tempo a ponderare sulla cosa che Francesco riattacca bottone.
«E poi si tratta di un uomo che muore. Non veneriamo formidabili guerrieri o straordinari monarchi, l'uomo inchiodato alla croce non fomenta rivoltosi o surriscalda lo scontento popolare. L'uomo sulla croce è un uomo morente, un uomo che ha amato, totalmente, intensamente. Un falegname dimentico del suo mestiere che predica scalzo e guarisce ferite di diversa sorta. Veneriamo un uomo che si affloscia nudo e striminzito, ruscellante sangue, un sobillatore silenzioso e un uomo che ha mostrato al mondo la potenza illimitata dell'amore. Questo si scontra con l'orgoglio umano. »
Un uomo morente. Un uomo che ha amato. Espressione stessa, magistralmente compiuta, veramente realizzata, dell'amore. L'uomo, il Dio, la fusione mirabile di entrambi, a cui Chiara si è votata.
A quell'amore inesauribile, gratuito, annichilente. A un uomo morente come tutti gli uomini muoiono. Al figlio giramondo di una ragazza spaventata.
Alla sua povertà che azzera l'arroganza, annulla le distanze, spegne l'odio e l'indifferenza tra umano e umano, sacco molle e acquoso di carne e umori e bile e altro sacco. Alla povertà dove non esistono confini, solo cuori da curare.
E ambiscono a privarla di tutto questo.
Una pianticella non può crescere da sola, ha bisogno d'un sostegno che l'aiuti a maturare dritta, a fortificarsi fino a quando non potrà svettare libera, puntante alla cupola celeste. Altrimenti si storterebbe, ondeggiante e insicura, rachitica e rinsecchita. Appassirebbe, abusata dalle intemperie.
Francesco ha coinciso con il suo palo per anni. Lui e la croce di Cristo. Avvilluppata a loro, la pianticelle sbocciava, s'arricchiva d'arbusti frondosi, di foglie delicatamente pizzicate dalla brezza.
È questo che ha sempre desiderato. Sempre e ardentemente voluto. Una vita povera, poverissima, da miserabile vicino ad altri miserabili. Nella sequela di Cristo. Sulle orme di Francesco. Il suo amico strada conducente all'imitazione perfetta delle parole del Vangelo. Ma come può ricalcare il solco di Francesco, allieva dietro il maestro, quando quest'ultimo più che camminare striscia, sfinito, estenuato, naufrago in un maremoto di malanni? E concretizzare materialmente la povertà evangelica quando i braccianti nella vigna di Dio cospirano per abbattere la pianticella?
Sarà sola Chiara, senza la protezione di Francesco, senza una garanzia, ricercante un'approvazione che la Curia è reticente a dispensare.
Un germoglio, un alberello giovane e inerme, allo scoperto.
Le trema il mento, lotta per trattenere le lacrime, un singhiozzo discreto, sommesso. Francesco, grave com'è, si merita solo un disturbo ulteriore.
Ma le sfumature minime che non coglie la vista, le cattura l'udito.
«Chiara.» l'appella, i lembi svolazzanti delle maniche celanti le stimmate che le coprono le mani, stringendole. «Chiara, perché piangi?»
Perché sarò esposta, vulnerabile e non avrò armi con cui contrattaccare.
Perché Dio non manifesta la sua volontà in questo conflitto e se non la manifesta io non so se sto lottando in nome del mio egoismo o del suo volere.
Perché ho paura e il mondo senza di te mi spaventa, ignoto.
Tira su col naso, aspirando, variando su toni più materni, vivaci. «Perché vogliono distruggere tutto ciò in cui crediamo e per cui ci siamo battuti Francesco.»
Vogliono uniformarli, incasellarli in un ordine alle dipendenze della Curia. Ordini dove circola denaro, il voto di povertà è smorzato da beni, le comunità posseggono, i loro discepoli si colorano di vesti ricercate e sontuose. Isolati dal mondo, dal suo grido accorato, dai bisogni dell'umano, barricati in monasteri e conventi che più che oasi dell'anima ricordano castelli fortificati. Muratura e rigidità, schemi ed erudizione che, se maneggiata male, insuperbisce l'ego e nutre la superbia.
Un ordine come gli altri. I benedettini nei loro studioli e steccata compostezza. I cluniacensi, inamidati e col naso sempre seppellito nei libri. I camaldolesi, eremiti in comunità, un alveare di cellette e contemplazione. E monache murate nei loro conventi, una roccaforte di vergini abbienti, disponenti di una dote con cui ingraziarsi lo sposalizio a Cristo. Dotte e lontane, così lontane dai turbamenti imperversanti nel mondo, dagli affanni della gente comune...
Francesco avvicina il viso al suo, un sorriso strano e adorabile con la benda che gli protegge gli occhi.
«Un raggio di sole è sufficiente a spazzare via molte ombre.»
Chiara punta lo sguardo al crocifisso. Un singolo raggio di sole. Un solo uomo morente. Un uomo semplice, umile, che annienta la Storia e scrosta la ruggine dal tempo. Un solo uomo.
Grazie alla forza del suo amore, alla sua tenacia. Gesù Cristo ha prevalso sui secoli, ridondante, onnipresente. Il suo amore ha sconfitto la polvere dei millenni.
Non un'arma magica, non una guerra clamorosa.
L'amore.
Nei gesti, nelle parole.
Un singolo uomo.
Era Cristo, particolare, unico, irripetibile, profetizzato e atteso da volumi e tomi di profezie, da fiumi d'inchiostro. Ma era uomo tra gli uomini, predicatore, insegnante, modello, maestro, salvatore.
Uomo tra gli uomini e solo un uomo.
E lei è solo una donna, una piccola, infima donna collocata in un paesino sperduto nella campagna umbra, ma infervorata d'amore, amante devota, sconsiderata, amante gelosa del suo Amato e del suo stile di vita. Crede in lui, altrimenti non si troverebbe qui. Crede nella linea propinata da Francesco, sulla quale ha improntato l'intera sua esistenza.
Cristo, fedele ai suoi ideali, subì l'ignominia della croce, dei chiodi, degli insulti. Sposò la sua causa fino alla fine. Chiara, sua seguace, sua figlia, sua sposa, non può sottrarsi alla chiamata.
Andrà fino in fondo. Combattiva, risoluta, guerriera sbandierante il vessillo stracciato e lacero della Povertà.
Come Cristo, consorte speculare al marito.
Elia, Ugolino e la Curia hanno indebolito la resistenza di Francesco. Il voto dell'obbedienza è sia un nodo che un cappio ai propri sogni. Per obbedienza accetta la nostra Regola rielaborata. In nome della sacra obbedienza scrivi. E Francesco ha assolto al dovere impartito. Ha scritto, ammorbidendo l'asprezza primitiva del Vangelo seguito alla lettera, della povertà indiscussa e radicale. Povertà felice, lieta, autentica e spensierata, serva della Provvidenza. E il suo fisico, già malridotto, ne ha risentito, acuendosi le infermità.
Non si può negare che non si sia ribellato, almeno all'inizio, quando odorava ancora dell'Oriente speziato ed esotico, di fresco ritorno dall'accampamento del Gran Sultano. Venuto a conoscenza dell'acquisizione di una casa - in muratura, guarnita di tegole e finestre! - intestata ai frati, attaccata alla Porziuncola, è salito direttamente sul tetto e, come anni fa si era disfato delle stoffe paterne, adesso gli è girato il ghiribizzo di demolire l'abitazione oltraggiante Madonna Povertà.
Infuriato, e i frati le hanno giurato di non averlo mai visto così nero d'umore, ha cominciato a staccare una per una le tegole dal tetto, gettandole a terra in uno schianto infranto di cocci e schegge, inveendo sul grave torto arrecato a Madonna Povertà, alla vita conforme agli insegnamenti evangelici e una miriade d'altro.
Sono dovuti intervenire i messi del Comune, le guardie cittadine, delegazioni del podestà e vescovo congiunte, per fare cessare quello sfogo. Angelo, incaricato dagli alti vertici in persona, consacrato cavaliere da tempo e nominato dal fratello riconciliato, in sua assenza, una commistione di ruoli tra il maggiordomo-siniscalco-amministratore dell'incredibile affluenza di frati e curiosi al Capitolo, il primo, detto delle Stuoie - facile intuirne il perché - ha pacificato le bizze di Francesco, puntualizzandogli come quella casa non sia di proprietà dei frati, bensì un regalo del Comune d'Assisi.
Ripigliato a terra, imbronciato, Chiara scommette che Francesco non è stato accontentato appieno da quella risposta.
E ora, tramortito Francesco nei suoi dolori, la verga della Curia, dell'austerità di Elia e Ugolino, si prepara a sferrare il prossimo colpo a lei.
Li può quasi udire, contrari, melliflui.
«Chiara, non è consono a delle dame timorate di Dio che un gruppo di donne viva indipendente e indifeso, sprovviste di un gruzzolo con cui far fronte alle necessità. Terreni che provvedano al loro sostentamento, il silenzio riflessivo della clausura, questo è indispensabile! E poi, cos'è questa storia delle questuanti? Donne che fuoriescono dalla grata e vanno a mendicare? Come potete sopravvivere affidandovi esclusivamente alle elemosine? Sono i frati quelli tenuti ad andare per il mondo, a curare e ascoltare gli afflitti, i decrepiti, non voi! Femmina e povertà sono incompatibili, lo capisci? La donna è indifesa, preda e predatrice. Dovunque si rechi porta scompiglio e devastazione. Deve tacere come Maria tacque.»
Maria, nel suo silenzio, compì, istruendo e amando il figlio, più di quanto mille poemi, strofe e canzoni potrebbero mai esprimere.
La vogliono zitta? E sia.
Urlerà il suo silenzio.
Urlerà la sua osservanza pura e ferma alla povertà predicata dal Redentore, adottata da Francesco. Alla polvere e al terriccio appiccicaticci alle piante nude e callose dei piedi. Al cilicio di setole di porco che indossa sotto la veste, che dilania e mortifica la carne. Al saio rozzo e contadino che le abrade la pelle bianca. Ai sedili sudici e vomitevoli, stagnanti di bisogni delle consorelle inferme e degli ammalati. Alla preghiera a orari smarriti nella notte e all'alba. Allo sguardo pietoso di un bambino affamato. A quello supplichevole di una madre. Alla lavanda giornaliera dei piedi delle sorelle rientranti dalla questua, giacché Chiara non tollera piedi sanguinanti e piagati nelle schiere delle sue figliole.
Al servizio completo ai paria tra i paria. All'amore di un uomo crocifisso che muore nudo, senza niente, nemmeno un grammo d'oro!
Il silenzio di quell'uomo appeso alla croce parla, eloquente nei secoli. Chiara farà lo stesso. Per lui, con lui. Sostenuta da lui.
Anche per Francesco.
«Hai ragione.» Cala nuovamente la pace su di lei e si chiede come mai sia così bravo ad ammansire lupi, la belva feroce che in lei ululava dubbio, ringhiava incertezza. Nera, irsuta, umida. «Grazie Francesco.»
Uno sbadiglio s'infrange contro il suo petto. È stanco, il tragitto l'ha sfiancato.
«Ribadisco solo il vero...»
Se potesse si stropiccerebbe gli occhi, assolutamente sconsigliato da medici e affini, vista la pessima condizione del glaucoma. Fungerà da occhi per lui, ora che la cecità lo ghermisce, pensa Chiara. Suo bastone.
Francesco guidò lei. Deve ricambiare il favore.
Gli imprime un bacio in fronte, saggiando il bruciore sotterraneo languente. Febbre, spera innocua, una di quelle che riaffiora ciclica e fastidiosa.
«Araldo del Gran Re, giullare di Dio, paladino di Madonna Povertà.»
«Chiara di nome, più chiara per vita, chiarissima per virtù.»
Un colpo di tosse lo spezza. Chiara se lo ragguaglia, gli scioglie la benda. Palpebre gonfie, arrossate, si strizzano, irritate dalla luce. Gli solleva il cappuccio, oscurandolo, incuneandosi Francesco al fianco e, ripetendo il conteggio, rizzandosi in piedi. Si capisce che è stanco. Resta in piedi per puro sforzo di volontà.
«Ti riporto a letto.»
La punta del cappuccio, tessuto più largo, che si accavalla molle intorno alla testa di Francesco come una corolla di tela, gli dondola sulla fronte.
«N-Non sono stanco...»
«Infatti quello non era uno sbadiglio, ma un'artistica orazione rivolta a Nostro Signore scommetto.» Gli attornia, attenta, il fianco con il braccio. Non deve premere eccessivamente, il costato sgorga in maniera inaspettata, un doloroso squarcio. Sta foderandogli il saio con un'imbottitura di pelliccia di volpe, solo la parte interna rivolta al fianco martoriato. Francesco insiste perché lo scampolo sia visibile anche all'esterno. Non vuole che lo accusino d'ipocrisia se lo nasconde. «Andiamo piccolo poverello, mentire è peccato.»
Escono nel chiostro, lui riesce a reggere un buon tratto, alla soglia della cucina. È sfinito, poverino. Nell'ambiente angusto un fuoco giocondo ride nel forno. Sorella Benvenuta sta impastando, in un coacervo di farina e gusci ammonticchiati, il pane da distribuire ai mendicanti. Forme tondeggianti, ordinate, disposte in fila.
«Frate Asino indolente, amante dell'ozio.» rimprovera Francesco il suo corpo traditore. Chiara, chiamando la sorella, sistema una pila di sacchi a giaciglio di fortuna, salendo a prelevare la coperta dal saccone di sarmenti che le funge da letto. Una misera, scucita coperta di lana. «Godi dei tuoi piaceri!»
«Anche i somari devono riposare.» Chiara lo fa distendere, lo rimbocca, misurando, palmo contro fronte, l'innalzamento preoccupante della febbre.
«Ma gli sfaticati non h-hanno...» Si rivolta sul fianco buono, lo sbadiglio compresso nei sacchi. «... lavorato...»
Lo zampettio soffice, vellutato, della gattuccia del convento s'imbuca nel locale. Il mantello bianco, una nuvola corredata di magnifici occhi azzurri, affilati, dal taglio sottile dei felini. È ospite e sorella, amata dalle monache, che la rimpinzano con quel poco che la Provvidenza pone a disposizione. Il suo nome? Sora Gattuccia basta e avanza e al momento, immacolata quanto il suo pelo.
«I gatti non mangiano la mollica.» la punzecchia Chiara, carezzandola in mezzo alle orecchie.
Sora Gattuccia miagola, profondendosi in fusa ruffiane intorno alle sue gambe.
Le sue iridi fessurate si sgranano notando Francesco, sonnecchiante nell'ingombro di sacchi, la coperta tirata al naso. Inclina il capo signorile, miagolando a iosa.
«Sorella gatta...» Ridestato un poco nel dormiveglia, l'amico protende una mano alla gattina, la quale sfrega la testa contro il lembo in eccedenza della manica, emettendo il brontolio compiaciuto delle fusa.
Spicca un balzo atletico, Sora Gattuccia, acciambellandosi sopra l'angolo interessato dal costato aperto. Chiara non l'apostrofa, sorridente. Francesco l'accarezza come può, soccombente al sonno. Carezze lente, misurate.
«Grazie... s-sorella gatta.»
La pezza in pelliccia volpina può aspettare, fintano che Sora Gattuccia si occupa di riscaldare e sopire i dolori di Francesco.
È indaffarata con le faccende del convento per il resto della mattinata, approfittando del sonnellino di Francesco, vegliato dai frati e dalla loro coinquilina a pelo. Vesti da lavare, strigliare e insaponare - un tozzo di sapone rustico e giallognolo che lentamente si va esaurendo, dovranno procurarsene una nuova scorta - malati da curare, bambini da visitare o benedire. Il telaio che sbatacchia, dettando il ritmo, intrecciando fibre, cardandole, sbrogliando nodi. Fascine e legname da accatastare, immagazzinandoli per l'inverno. Il chiostro da scopare, colpi di ramazza secchi sulle piastrelle. Sai e veli da rammendare. Preghiere da recitare.
Tante. Una collana di preghiere da snocciolare all'Altissimo, le ginocchia contuse e scorticate dalle ore trascorse a rivolgersi all'altare.
Francesco si risveglia a mezzogiorno, le campane d'Assisi che assordano dall'alto, un festa di rintocchi sublimanti nell'etere azzurro, salvo da nuvole, a momenti accecante. Mentre le monache desinano a monconi di pane e sorsi d'acqua, ravvivati quest'oggi da un porcello lesso consegnato da Frate Filippo Longo al suo giro d'elemosine, oramai tutta Assisi si svenderebbe sapendo di Francesco, il loro santo a cui si sono affezionati - Chiara lo imbocca a cucchiate d'una ritemprante brodaglia di verdure.
«Niente pappa oggi, sei contento?»
«Fratello appetito esulta!»
Angelo scende dalla città nel pomeriggio, come aveva annunciato. Suo fratello confabula pimpante con Frate Leone e Frate Masseo nella capanna di stuoie e racemi. Chiara non indaga su cosa siano in combutta, ma Angelo inarca un sopracciglio, combattuto tra il perplesso e il meravigliato.
«Che state macchinando con tanta foga?»
Chiara cuce defilata, ridente dell'inventiva fantasiosa di Francesco. Pure afflitto la fantasia lo ispira, non lo diserta di certo.
Somarello poeta.
«Un canto destinato alle Povere Dame di San Damiano Angelo!» esclama Francesco, brioso come un bimbo.
Chiara si blocca, il ricamo sospeso a metà. Ha sentito bene?
«Per noi?»
«Un'ammonizione, un promemoria alla vostra vocazione.» le illustra Francesco, sollevando un poco il capo dai guanciali. «Tutto per voi!»
Che ami la musica e il canto, e che li sfrutti per infiammare le sue prediche in pieno stile giullaresco, non è segreto. Francesco canta nelle campagne, lungo il cammino, fratelli uccelli sua orchestra, raccatta due bastoni e imita l'andamento soave e dolce della viola, trotterellando lieto, spensierato e libero. Quando poteva. Il letto non ha arrestato la sua giubilante vena propensa alla canzone.
Chiara è colta disarmata, imporporandosi di sorpresa. «Beh, visto che ci tieni tanto... ascoltiamola.»
Detto fatto. Le voci dei frati squillano, un coro ridotto, riempiendo l'aria di note.
Audite, poverelle dal Signore vocate, ke de multe parte et provincie sete adunate:
vivate sempre en veritate
ke en obedientia moriate.
Non guardate a la vita de fore,
ka quella dello spirito è migliore.
Io ve prego per grand'amore
k'aiate discrecione de le lemosene ke ve dà el Segnore.
Quelle ke sunt adgravate de infirmitate
et l'altre ke per loro suò adfatigate,
tutte quante lo sostengate en pace
Ka multo venderi(te) cara questa fatiga,
ka cascuna serà regina en celo coronata cum la Vergene Maria.
Un inno alla povertà, un invito a proseguire integerrime sulla strada che hanno imboccato. Uno sprono a non mollare.
Chiara temeva e Francesco l'ha rassicurata in musica.
Si azzanna il labbro, sopraffatta dall'emozione, un singulto le occlude la gola. Riuscirà a imporre la sua Regola, a trionfare. Ne è pienamente convinta.
Con l'aiuto di Cristo, l'intercessione paradisiaca di Francesco... e la determinazione battagliera della Povertà.
- Il canto Audite Poverelle è di recente riscoperta: gli anni settanta del secolo scorso.
- La presenza di una gatta a San Damiano, nome, mantello e altri connotati sconosciuti, ma alle quale erano tutti molto affezionati, è attestata dalla biografia di Chiara: "Si racconta che Santa Chiara, inferma nel letto, avesse bisogno di una certa tovagliola, ma non essendoci chi gliela portasse, ecco un gatta, cominciò a tirare e trascinare la tovagliola per portagliela come poteva. Ma la Santa la rimproverò perché la gatta la trascinava per terra. Allora la gatta, come se avesse compreso, cominciò ad avvolgere la tovagliola perché non toccasse a terra e gliela portò."
- L'episodio della casa ci evidenzia come Francesco non si sottomettesse, almeno in principio, alla conformazione dell'Ordine. Certo, accettò i cambiamenti e non osò mai imporre, criticare o sgridare nessuno. Ciò contrastava l'umiltà: chi sta in alto comanda e Francesco aveva scelto il basso, il più basso che c'era.
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