Capitolo Trentaquattresimo: Sei anni dopo.

Sono fuori dal Politecnico di Torino. Andre ha La Stampa in mano e legge le ultime notizie sul Gioco del Lupo. 

- Condanne minori. Tre tipi spariti dalla circolazione. Ve lo dico io ragazzi dovevano metterci in un programma... Come si chiama? Ah sì. Programma di protezione testimoni. Come l'FBI. Questi adesso ci vengono a prendere a casa. -

- Ma non dir cazzate, Andre. Sono sei anni che vai avanti così. - risponde Beppe. Si è lasciato crescere una barba da hipster. Appare molto più intellettuale ma continua a fregarsene delle ragazze.

- Avete visto la gnocca della facoltà di Ingegneria Aerospaziale? Eh? L'avete vista? - chiede Andre.

- Ma dai. Stamattina si è messa su un gonnellino che sembrava uno dei mignottoni che ci sono sulla strada per Montalenghe. Ah ah ah. -

- Beppe, tu di figa non hai mai capito una fava. Rimani pure lì a masturbarti il tuo computer. Gli unici che cucchiamo qui siamo io e James Bond, qui. -

- E piantala Andre con sto James Bond. Sono sei anni che ripeti le stesse cose. Finiscila. - rispondo io. Che palle. Tutti i giorni, tutti i santi giorni che il Buon Dio manda sulla terra Andrea attacca con la storia del James Bond, agente segreto che salva il mondo.

- Ma guardali i miei tre universitari preferiti! - La voce di Clara ci ha interrotto. Splendida con il suo pancione. E' proprio vero che La gravidanza rende le donne bellissime. Adesso ha i capelli biondi corti e le lentiggini sul viso. E' una persona serena.

- Clara! Il nostro commissario preferito! - dico io e vado a darle un bacio sulla guancia. Siamo diventati amici di un'amicizia straordinaria. L'avventura del Lupo ci ha legato talmente tanto da renderci inossidabili.

-Ma come stai? - chiede Beppe.

- Clara, che ci fai qui? -

- Sto bene ragazzi. Tutto procede bene e Guglielmo è felice come un bambino. Premuroso, attento. Mi vizia. Sono venuta a prendere te, Jacopo. Tua madre mi ha detto che eri qui. Scusate ragazzi, devo portarvelo via. -

- Scusate? Ma tientelo. Finalmente ti arrestano, pirla. Te l'ho detto che non dovevi farti quella canna l'altro... -

- E finiscila. - e mentre lo dico assesto un calcio sulle chiappe a Andrea. E' sempre più insopportabile.

- Dove andiamo? Mi offri un caffè? - Siamo in auto e ci barcameniamo tra le strade caotiche del centro.

- Sì in un bar qui vicino. Come va? -

- Bene. Gli esami vanno benino, me la cavo. - Guardo il fiume sonnacchioso mentre lo superiamo.

- Sì me l'ha detto tua mamma. Sei ancora andato dallo psicologo? -

- Ci vado una volta ogni due mesi. Però adesso dormo bene. Se continua così non dovrò più andare. -

- Che bello ne sono davvero felice. Anche tua mamma sta davvero bene. E' rinata negli ultimi due anni. Ecco siamo arrivati. -

Parcheggiamo vicino alla Gran Madre. Sono le tre di un pomeriggio di maggio spettacolare. Fa caldo. Il Po scorre placido lì vicino e Piazza Vittorio splende di luce propria. I murazzi sono pieni di gente che passeggia. Sorprendentemente ci sediamo in uno dei tavolini del Gran Bar.

- 'zzarola Clara. E' il giorno delle grandi occasioni? Viene tutto un botto qui. -

- Beh, sì. Diciamo di sì. E' un giorno particolare. -

Ordiniamo e poi chiacchieriamo del più e del meno. Davanti a due caffé a Clara appare sul volto un sorriso che conosco.

- Che mi devi dire? -

- Jacopo. Io e Guglielmo siamo figli unici. Non abbiamo cugini con i quali siamo in confidenza, abbiamo molti amici e tutto. Però... ti volevo chiedere, e te lo volevo chiedere solo io perchè è una cosa mia. Vuoi far da padrino a Paolo? -

La domanda mi sorprende e mi lascia senza parole. Credo di aver fatto una faccia eloquente ed ebete perchè Clara scoppia a ridere. Poi mi alzo in piedi, vado dalla sua parte e piazzo una mano sulla sua pancia.

- Hai sentito Paolo? Io sono tuo padrino. Ti porto io a vedere la Juve e ti spiego io che musica bisogna ascoltare. I REM, gli Arctic Monkeys... Roba buona. -

- Ah ah ah. Ma smettila che mi sto già pentendo gobbo di merda. Siediti! -

Passiamo i successivi dieci minuti a ridere e a prenderci in giro. Ad un certo punto Clara guarda l'orologio.

- E' quasi ora. -

- Dobbiamo andare? -

- No. C'è un'altra cosa. -

- Cosa? -

Diventa seria tutto d'un tratto e guarda verso il Po. Ci sono parecchi passanti, molti turisti che attraversano la strada per andare alla Gran Madre. Torino è diventata un'altra cosa negli ultimi anni.

- Speriamo... -

- Ma cosa? -

- Quante ragazze hai avuto in questi ultimi anni? - mi chiede con brutale sorpresa.

- Mah, non lo so. Qualcuna. -

- E con quante di loro ti sei aperto. Come con me. Come con i tuoi amici. -

- Che domanda bastarda, Clara. - stava rovinando una giornata perfetta.

- Jacopo, sai che non parlo mai di quei giorni. Sono stati giorni difficili che entrambi non dimenticheremo mai. -

Divento serio anche io e faccio cenno di sì con la testa.

- Tu sei stato un ragazzo coraggioso. Cretino come una rapa ma coraggioso come un guerriero. Te l'ho sempre detto. -

- Sì. Cretino però. -

- Ecco appunto. L'ultimo giorno hai commesso un errore. Perchè eri giovane, molto giovane, provato, stanco, stressato e impaurito. Non è colpa tua. -

- Me lo ha già detto lo psicologo. -

Guarda di nuovo verso il Po e sorride.

- Ora è venuto il momento di rimediare. -

La guardo e non capisco di cosa stia parlando. Mi fa cenno verso il Po.

Vedo un sacco di gente. Poi una coppia. Lui tiene lei per mano. Lui parla, parla, parla. E' un figaccione palestrato, vestito all'ultima moda. Lai è mora, bellissima e ha una camminata che conosco bene. Guarda da un'altra parte. Ha lo sguardo perso nel vuoto. E' Arianna.

- Questo è il mio regalo Jacopo. E' qui per qualche giorno e poi vola via. Non hai altre occasioni Jacopo. Lei non sa che sei qui. - Clara parla con le lacrime agli occhi. - Quel giorno alla villa hai sbagliato Jacopo. Lei era solo una ragazzina confusa e aveva bisogno di un vero guerriero vicino. E tu hai bisogno di lei come l'aria. 

Sono talmente emozionato da aver perso la forza di ragionare, connettere, decidere, parlare. Lei passa ad una ventina di metri da noi e si dirige verso la Gran Madre.

-E se ora non alzi il culo da quella sedia ti giuro che io e Paolo veniamo lì e ti prendiamo a calci. -

-Ma come hai fatto... Ma lui... -

- Sono un poliziotto, Jacopo. E lui... Ma guardalo: lui è una comparsa. -

Mi alzo al rallentatore, cammino verso di lei. Non c'è più la Gran Madre, il Po, Torino, il figaccione. E' tutto svanito. Ci siamo solo io e Arianna. Attraverso svelto fuori dalle strisce e aumento il passo. Vado a piazzarmi davanti a lei, a tre metri da lei.

Arianna si ferma. Si ferma anche il suo accompagnatore. Si ferma il mondo. Si ferma l'aria. Si blocca il cuore. Si smorza il respiro. Il figaccione non capisce cosa stia succedendo, guarda prima me e poi Arianna. Lei apre la bocca sorpresa e poi si stacca dal ragazzo, chiude i pugni e assume un'espressione rabbiosa. Butta lo sguardo a terra e poi alla sua destra pur di non guardarmi, ma gli occhi le si riempiono di lacrime. Io sono davanti a lei senza fiato. Allargo le braccia.

- Oh, ma cazzo vuole questo? - chiede il figaccione.

Arianna vorrebbe rispondere ma non ci riesce. Il mento imbronciato comincia a tremarle. E' arrabbiata con me e con se stessa per il tumulto di sensazioni che sta provando. Il fuoco è tutt'altro che spento e io mi rendo conto che avrei potuto evitare un paio di anni di analisi se mi fossi reso conto di quanto provavo ancora per quella ragazza.

- Oh, 'zzo vuoi? - ripete il figaccione che proprio non vuol capire di essere fuorigioco, passato remoto, svampato.

- Scusa. - dico io con un soffio di voce.

Arianna si porta le mani alla bocca. - No. -dice.

-Scusa. - ripeto un po' più forte.

Lei ormai è in lacrime e fa no con la testa, sempre imbronciata, confusa. Il figaccione vorrebbe prendermi a pugni, ma è in mezzo alla gente e ha il serio dubbio di prenderle da un fessacchiotto che è la metà di lui tanto è palpabile la cascata di emozioni che sta pervadendo me e Arianna. Lei alza lo sguardo verso di me e ora mi guarda negli occhi. Sembra una supplica. Lasciami stare. No, non ti lascio stare penso io.

Mi avvicino piano.

- Scusa. Ora sono qui. -

- Jacopooo. - abbandona borsetta per terra, il figaccione impalato, una scarpa le si sfila e mi salta al collo. Mi bacia sulle guance, sulle labbra, sulla fronte. Mi inonda di lacrime. - Ho pensato sempre a te. Ogni giorno. Tutti i giorni. Ti amo. Da sempre. -

- Anch'io. - e cadiamo a terra abbracciati mentre una turista giapponese ci fa una foto e poi applaude.

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