Capitolo Nono: Nell'ora più buia

L'ufficio del preside era piccolo e sobrio. Riflettevo, seduto di fronte alla sua scrivania mentre il professor Giglio parlava con mamma e l'ormai onnipresente Paolo fuori in corridoio. Alla mia sinistra c'era una libreria enorme che occupava l'intera parete. Titoli che conoscevo si alternavano a quelli che presumevo essere trattati sull'educazione e sulla gestione amministrativa di un istituto scolastico. Qua e là facevano capolino delle letture un po' più anomale o, se vogliamo, esotiche. "Le qualità terapeutiche delle erbe di montagna", "Il culto del thé", "Paesaggi scandinavi", "Fiabe liete e leggende oscure della mitologia norrena", "Io speriamo che me la cavo". Quest'ultimo titolo mi strappò un sorrisetto. Speriamo che io me la cavo sul serio.

Avevo passato il mattino e la prima parte del pomeriggio al pronto soccorso. I due calci del Parini avevano centrato perfettamente il bersaglio: il primo mi aveva rotto il labbro, il secondo aveva colpito la "zona occipitale" (così mi aveva detto il medico) facendomi perdere momentaneamente conoscenza. Avevo un'immagine vaga del Parini che veniva buttato a terra dai suoi stessi compagni di merende del giro dei Crucchi, un'ombra che credevo fosse Arianna assolutamente ferma in piedi, Andre che si buttava sopra di me e Beppe che andava a piazzarsi di fronte facendomi scudo. Poi l'arrivo dei bidelli, di qualche professore non so quale, l'ambulanza sopra la quale mi ripresi e il pronto soccorso dove mi ripresi del tutto. La prima cosa che feci, una volta che fui in grado di reggermi in piedi, fu di andarmi a guardare allo specchio. Non male. Labbro inferiore gonfio come una pallina da golf, due lividi grandi come uova a destra e a sinistra quasi all'altezza degli zigomi e poi una bella macchia violacea tendente al nero sulla "zona occipitale" sinistra. In quel momento entrò mia madre che non appena mi vide iniziò a piangere a dirotto.

- Faccio schifo, eh? -

Mi abbracciò forte e allora iniziai a piangere anch'io, non a dirotto, non per il male, ma per tutto il resto. Per Bendini, per la Sensi, per Arianna che era rimasta impassibile mentre Parini mi massacrava. Sapevo che in fondo ne avrei tratto una grande lezione, ma non capivo bene quale. Erano circa le tre del pomeriggio quando tornai a scuola. La mia classe e quella di Andrea e Beppe erano impegnate nel turno pomeridiano, due ore di italiano la mia, due di algebra quella dei miei amici. Per cui dalle finestre tutti mi videro tornare a scuola. Ero stanco, addolorato, affamato, deluso e incazzato. Che non è un buon mix per presentarsi davanti al preside Roberto Giglio.

Mia madre, Paolo e il preside rientrarono in ufficio. Il professor Giglio andò ad accomodarsi sulla sua poltrona di pelle umana mentre mamma e il suo fidanzatino rimasero in piedi dietro di me.

- Jacopo, scusa se ti chiamo per nome. Jacopo, dicevo... hai molto male? -

Insomma, veda lei come sono conciato...

- Sì, abbastanza. Insomma, fa male. Parecchio, anche. -

-Ti informo che ho provveduto a sospendere Parini per cinque giorni da questo istituto. Non posso tollerare questo comportamento inqualificabile. Poi mi dicono che Parini sia piuttosto incline a un atteggiamento da "bulletto". -

- Grazie. -

Il preside si guardò le mani e poi tornò a guardare me. Fece una smorfia quasi facesse fatica a parlare.

- Per lo stesso motivo devo sospendere per due giorni anche te. -

Rimasi sbalordito. Accennai una protesta.

- Ma come io... -

Intervenne mia madre.

- Jacopo, tutti ci hanno detto che sei stato tu a colpire per primo Parini. -

- Certo ma lui ha insultato Bendini. -

Mi madre si mise in ginocchio di fianco a me.

- Tesoro, non so cosa abbia detto Parini. Ma tu hai lasciato partire un pugno. Cribbio, Jacopo, un pugno in faccia. -

Non dissi nulla. Era innegabile.

- Io e tuo padre abbiamo cercato sempre di spiegarti che la violenza non risolve nulla. E tu hai picchiato per primo, ma che diavolo ti prende? -

Soffocò un singhiozzo. E mi disse:

- Andiamo. Grazie signor preside. Ci scusi ancora. -

Io non mi mossi.

- Andiamo Jacopo, dai. -

- Dov'è papa? -

Mia madre si fermò dietro di me. Potevo sentire la sua rabbia e il suo sconforto crescere in modo palpabile.

- Jacopo, ti prego. -

- Hai detto che tu e papà mi avete insegnato a non picchiare. Bene. Dov'è adesso papà? -

Mi girai verso di lei.

- Te lo dico io. Non c'è. -

Mi alzai e uscii dall'ufficio. In quel momento Andrea e Beppe erano usciti dalla loro classe per la fine delle lezioni. Andai verso di loro lasciando mia madre e Paolo dal preside.

- Jac, Jac. Cazzo che faccia Jac. -

- Mi hanno sospeso. -

Espressione sbalordita sul loro volto.

- Noooooo... -

- Eccheccazzo. Ma allora vaffanculo, no? Va bene tutto, ma anche un po' vaffanculo alla fine. E al Parini cosa gli han dato la medaglia? -

- No lui sospeso cinque giorni, io due. Ho iniziato io. -

- No ha iniziato lui quando ha detto che Bendini è un frocio e pure minacciandoti. -

- Non importa, ho dato io il pugno a Parini. -

Restammo in piedi a guardare il pavimento, quando uscì Arianna dalla mia classe, quasi correndo per scendere le scale e sparire fuori dalla scuola. Andre si avvicinò e mi disse in un sibilo:

- Jac... Quella è una puttana, una mignotta... Te l'ho sempre detto io... -

Beppe rincarò la dose:

- Sta stronza manco si è avvicinata. -

- Basta , ragazzi, ok? Basta davvero. Vado a casa, ci si vede... dunque oggi è lunedì. Ci si vede giovedì. Prendetemi i compiti per favore. -

A casa mia madre non mi parlò per tutta la serata. Finita cena sparecchiammo la tavola e ci piazzammo davanti al televisore. Dopo un po' mamma si alzò e andò a frugare da qualche parte in cucina. Tornò con una bottiglia di vino rosso, credo di marca, ed un bicchiere. Io mi alzai e me ne andai in camera.

Dopo un po' suonarono alla porta. Sentii mia madre che fece entrare una persona, e poi una discussione. Scesi per vedere cosa stesse succedendo. Paolo era in salotto e aveva preso la bottiglia di vino in mano.

- Lasciamela. -

- Neanche per sogno. -

Andò in cucina e la svuotò nel lavandino.

- Non puoi permetterti di venire in casa mia e fare quello che ti pare. - Gridò mia madre.

- Certo che posso. L'ho appena fatto. -

Mia madre paonazza in volto lo guardò torva e poi corse sopra in camera sua. Paolo rimase in salotto imbaccalito. Poi mi disse:

- Le passerà. -

Andai a sedermi sul divano.

- Paolo. -

- Sì, dimmi. -

- Tutto sommato le fai bene. Dacci una mano per favore. -

Sorrise.

- Sono qui apposta. -

Passai i due giorni seguenti a studiare e a meditare. Ero scoraggiato ed infelice come non mai. Mi sentivo di peso ed insopportabile. Se non fosse stato per Paolo mia madre avrebbe ricominciato a bere, non ero riuscito a salvare Bendini, non avevo idea di dove fosse quel dannato quaderno e la ragazza che potevo anche pensare di amare si era rivelata una delusione totale. Pensare di amare. Altro che pensare: mi ero innamorato. Era il momento più buio ed oscuro della mia vita, non vedevo una sola cosa positiva che mi riguardasse.

Il secondo giorno di sospensione, il pomeriggio verso le tre, ero da solo a casa quando sentii suonare alla porta. Era una giornata grigia e ancora fredda, una di quelle giornate dove il sole proprio non vuol saperne di uscire. Scesi ed andai ad aprire ma non vidi nessuno. Stavo per chiudere quando sentii una specie di singhiozzio provenire da dietro l'angolo di casa mia. Presi di casa un ombrello. Non per la pioggia, ma perchè temevo che l'ombra che mi aveva inseguito in quel palazzo fosse tornata per vendicarsi. Girai l'angolo.

- Io... Ciao... - dissi sorpreso.

Seduta a terra Arianna stava piangendo disperata le mani davanti al volto.

- Ari... ma che fai? -

- Non parlarmi, Jac. Non parlarmi più. Io sto male. Sto male. Giorgio è morto e tu sei l'unico che si è dato da fare per cercarlo. E io ho lasciato che quel cretino di Roberto ti picchiasse. Io non sapevo cosa fare. Scusami Jac. Io non volevo comportarmi così. Sono rimasta in piedi come una stupida. Ero arrabbiata e delusa. Volevo solo che finisse tutto, volevo che vi faceste male. Volevo odiarti. Ce l'avevo con te perchè non avevi salvato Giorgio. Invece mi sono comportata come una bambina. Ho fatto una stupidaggine. Sono stata una persona terribile. Quando ti ho visto lunedì pomeriggio a scuola con la faccia in quello stato mi sono sentita morire. Sono scappata via. Io... Io... -

Mi chinai e l'abbracciai forte.

- Smettila Ari, alzati con me. -

Riuscii ad alzarla ma con fatica.

- Per.. do.. na.. mi. -

Singhiozzava e mi appoggiò la testa sulla spalla piangendo.

Rimanemmo abbracciati davanti a casa mia per diversi minuti mentre un timido raggio di sole fece breccia tra le nuvole.

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