Verde

Quella notte, sognai il giorno in cui il verde divenne il mio colore preferito.

Non per merito di Betsy, stavolta, e nemmeno di papà.

Per merito di Joanne.

Avevo dodici anni ed ero in cucina di casa George insieme a lei, per portare la merenda a Betsy, intenta a fare i compiti di matematica su mio ordine. Joanne stava tagliando le fette del plumcake allo yogurt che avevo cucinato quel mattino stesso così da portarlo a loro.

Era una donna bellissima, Joanne, identica alla mia amica: minuta e magra, col volto quasi un pasticcino, il nasino all'insù. Non aveva i boccoli rossi della figlia, bensì un caschetto castano, ma gli occhi erano identici e così il sorriso.

Spesso, quando andavo a trovare Betsy, mi ritrovavo molto a invidiarla, perché mai prima di Joanne avevo pensato che una mamma potesse essere così: gentile e buona, delicata, capace sì di arrabbiarsi costantemente con la figlia, ma di amarla proprio in quel modo.

Ed era stata anche una dei pochi adulti che mai aveva storto il naso o mi aveva guardata con quegli occhi stupefatti, una volta scoperta la mia afefobia.

«Agatha» mi disse, mentre sistemava le fette di plumcake su un piattino, sul tavolo della loro cucina, «un giorno io e Lucas faremo una statua in tuo onore non solo per riuscire a far studiare quell'incurabile idiota di mia figlia, ma anche per viziarci sempre con tutti i tuoi dolci.»

Le mie guance si fecero rosse come al solito, e Joanne sorrise, ben conscia di quella mia particolarità. «Sei davvero un piccolo pomodorino, sei adorabile.»

«Non sono... così carina» balbettai con un filo di voce, stringendomi nelle spalle, ancor più scarlatta in faccia, Joanne ridacchiò di nuovo.

«Oh sì che lo sei, tesoro» mi smentì subito. «E sai qual è la cosa più carina di te?»

La guardai confusa, il suo sorriso si allargò. «Quei begli occhietti verdi che hai» mi disse, facendomi l'occhiolino, ed io sussultai, stringendo in modo spasmodico le mani in due pugni. «A te non piace il colore dei tuoi occhi, Agatha?»

Chinai il capo per terra, per impedire alla mia paura di venir smascherata da lei, così attenta e accorta in ogni situazione.

I miei occhi appartenevano a una sola persona, e non ero io.

Appartenevano a uno sguardo che si trovava sempre nel riflesso di quello specchio, alle mie spalle, lì per assicurarsi la mia più totale e assoluta confessione dei peccati.

«Non... Non tanto» bisbigliai con un filo di voce. «Penso... che i tuoi... sono molto più belli... Joanne.»

La udii ridacchiare, e quando risollevai appena il capo, mi accorsi che si era inginocchiata davanti a me, così che le nostre teste fossero alla stessa altezza. Il suo sorriso gentile, quella curva morbida delle labbra che prima di papà mai avevo conosciuto per davvero, alleggerì il peso improvviso che aveva gravato sul cuore.

«Non paragonarti mai agli altri, tesoro» mi disse con voce delicata, dolce, quel genere di voce che vorresti ascoltare prima di addormentarti, sdraiata sotto le coperte. «Non pensare mai a chi è più bello di te o a chi è più bravo di te, guardati sempre per ciò che sei.»

Allora io mi dondolai sui talloni, indecisa, torturandomi le dita tra di loro, quel giorno coperte da un paio di guanti azzurri. «Ma se lo faccio...» squittii indecisa, «poi divento... viziata.»

«Assolutamente no» mi garantì Joanne. «Diventi solo una bambina dolcissima che si vuole bene, ed è questo ciò che più importa. Anche il tuo papà te lo dice, no?»

Mi era difficile non crederle, quando mi sorrideva in quel modo, con la stessa naturalezza di papà.

Era così diversa da lei, così diversa dal concetto di mamma che sempre avevo conosciuto.

«A me piacciono molto i tuoi occhi» proseguì con la bocca sempre arcuata, ed io mi sentii sprofondare nel calore di quella carezza visiva. «Il verde, sai, porta speranza.»

«Speranza?»

«Sì, è un colore portafortuna» mi garantì. «E tu sei il portafortuna di Betsy, da quando ti conosce, è migliorata un sacco a scuola e si diverte molto di più. Sei un piccolo quadrifoglio, tesoro, sarà per questo che hai gli occhi verdi.»

Arrossii così tanto che la vampata di calore mi arrivò al collo, Joanne ridacchiò.

Sapevo che non era vero, sapevo benissimo quanto si sbagliasse, ma sapevo anche che lei non stava mentendo, lo pensava davvero, e ciò, pur consapevole di quanto fosse sbagliato, mi rese felice, così tanto che il cuore mi parve sul punto di esplodermi dentro il petto.

«Allora...» balbettai, «per portare... ancora più fortuna a Betsy... il verde... diventerà il mio colore... preferito.»

Joanne scoppiò a ridere. «Sei troppo buona, tesoro» bisbigliò, «la prima persona a cui devi portare fortuna sei tu.»

«Sono già... troppo... fortunata. Ho... papà e Betsy... e anche te e Lucas, Joanne.»

E lei... lei sorrise ancora di più.

Ai miei occhi parve magnifica, la creatura più bella che avessi mai visto in tutta la mia vita.

Mi ritrovai a pensare: "Avrei voluto che anche tu mi sorridessi in questo modo, anche solo una volta."

Era la mia bambina! E tu me l'hai portata via! Era la mia bambina!

Era la mia bambina!

Una bomba mi esplose in testa, facendomi ridestare dal sonno tutto d'un colpo, con il fiato contratto e ogni muscolo così avvitato da dolermi come se qualcuno gli avesse dato fuoco.

Nell'oscurità della notte che allagava tutto il mio monolocale, riuscii a stento a percepire il rumore sconnesso del mio respiro affannato, gli spasmi del corpo ancora in parte assopito, devastato da quell'ultimo grido che aveva dato vita al proverbiale mal di testa di sempre.

Mi accorsi di essere sudata dalla testa ai piedi, un peso gigantesco mi schiacciava i polmoni, impedendo loro di lavorare a dovere, e tremendi brividi di freddo mi fustigavano ogni cellula, facendomi tremare sul materasso.

Tutto di me soffriva come se avessi corso per ore e ore senza mai fermarmi, il cuore marciava in petto a una velocità folle e freddo puro mi scavava le carni, lasciandomi stordita sul materasso.

Mi costrinsi ad accendere la luce della lampada del comodino al fianco al letto, per poi sollevarmi in piedi da esso. Non appena lo feci, il mondo intero mi vorticò attorno, rischiai di perdere l'equilibrio e dovetti aggrapparmi al tavolo in legno, poco distante da lì, per non cadere a terra.

Conoscevo molto bene quei sintomi che adesso mi stavano attraversando tutti insieme ed ebbi la conferma di quanto mi stesse accadendo quando in bagno il termometro rivelò il numero: 39.2

Era la classica febbre che mi veniva da quattro anni, di tanto in tanto, nei momenti meno opportuni. Non ero mai andata dal medico a farmela controllare, visto che di solito passava nel giro di un paio di giorni, e poi lo ritenevo inutile, dato che curare una come me non serviva a granché.

Supponevo fosse una febbre dovuta allo stress, visto che passava in fretta e non presentava altri sintomi che lasciassero intendere malattie o influenze nascoste.

Faticai a ritornare al letto, ad ogni passo che facevo mi pareva che le mie gambe fossero diventate gigantesche colonne di cemento, portarle avanti mi affaticava tantissimo, e il mal di testa che mi squarciava le tempie si faceva man mano più forte con i secondi che passavano.

Mi rimisi a sedere sul materasso, presi il telefono ancora sul comodino. Erano le quattro e trentadue di notte.

Riuscire a pensare in maniera lucida era difficile, se il respiro mi si squassava sempre e i brividi continuavano ad attraversarmi, ma mi costrinsi a farlo.

Dubitavo che quella febbre sarebbe riuscita a scendere in fretta nel giro di quattro ore, per le otto del mattino, quando mi sarei dovuta presentare a casa dei gemelli. Ed era rischioso anche solo presentarmi da loro. Per quanto certa fosse dovuta solo allo stress, non volevo comunque correre il pericolo di contagiarli.

Ci sarebbero rimasti senz'altro male per la mia assenza, quella domenica, e per non poter più assaggiare le pappardelle al ragù di cinghiale, ma forse... forse era meglio così, avrebbe permesso di mettere un po' più di distanza tra di noi.

Un'altra emicrania mi deflagrò in testa, mentre cercavo il numero di Dante per potergli scrivere. Avrei preferito scrivere a Rosemary, ma se l'avessi fatto, Dante avrebbe pensato che lo stavo evitando di nuovo, avremmo potuto finire per discutere un'altra volta.

Era ancora notte fonda, di certo stava dormendo e mai avrebbe letto quel messaggio, ora che glielo stavo mandando, lo avrebbe fatto quel mattino, ma era meglio comunque mandarglielo adesso, perché non ero certa che sarei riuscita a rimanere sveglia fino ad allora.

Finito di scrivere e una volta inviato tutto, mi sdraiai di nuovo sul materasso, la faccia ad affondare nel cuscino, il petto travolto dai brividi e gli spasmi della febbre, l'aria che mi entrava e usciva a singhiozzi.

Era la mia bambina! La mia bambina!

E tu me l'hai portata via!








In sogno, di nuovo, incontrai Dio.

Lo incontrai nel mio monolocale, stavolta, proprio mentre ero incatenata a letto, con la testa ad esplodermi fino a farmi credere di avere un ipernova al posto del cervello e il respiro che si trasformava in fumo caldo nei polmoni, le tenebre della notte a scivolarmi dentro insieme all'aria rovente.

Dio era seduto accanto al mio letto, l'oscurità lo nascondeva ai miei occhi come un mantello a farGli da seconda pelle, di Lui scorgevo soltanto il profilo d'inchiostro: fu l'unica certezza salda nella cappa densa di dubbi che mi s'incarnava in mente, in quel mondo di brividi e gelo che mi era scivolato sotto la pelle e si era fuso con le ossa.

«Dio?»

Mi rispose qualcosa, ma non riuscii a sentirlo, la sua voce si annacquava nelle mie orecchie come una goccia di profumo nella vastità interminabile dell'oceano.

Provai un'emozione, una sola, la stessa che aveva sempre caratterizzato ogni nostro incontro, quella che mi era impossibile mascherarGli, non a Lui che era l'essenza di ogni mia cosa, l'origine del mio crimine e debito.

Pura e semplice agonia.

Quella che mi tormentava da ben più degli ultimi quattro e che aveva concluso il nostro patto segreto.

Mi colse alla mente il frammento del giorno in cui tutto era stato scoperto, quelle foto in sala interrogatori, il cranio di Betsy, di mia sorella. Una sfera rovinata d'osso, denti e buchi profondi per naso, fosse nere al posto degli occhi.

Non so dove trovai la forza per supplicarlo, con le lacrime a scalfirmi il viso senza mai riuscire a confortare il dolore che mi dilaniava dentro, a fermare il vortice infinito in cui il mondo si era trasformato tutt'attorno a me e di cui ero il nucleo centrale, la bocca di tenebre che aspirava tutto.

«Ti prego, basta, Dio, basta, per favore. Non mi lamenterò più, non dirò più niente, non oserò mai più provare ad essere amata. Non spererò mai più di poter essere felice. Lo so che avevo detto che avrei accettato qualsiasi prezzo, se Tu avessi realizzato il mio desiderio, ma così è troppo, Dio. Sono sempre stata io il mostro da che sono nata, non Betsy. Lei non c'entrava niente con il nostro patto, non c'entrava niente con il nostro giuramento. Perché me l'hai portata via? Perché hai voluto che fosse proprio papà ad ucciderla? Perché? Non era suo quel desiderio, non è stata lei a chiederti di realizzarlo, sono stata io. Per favore, fermati. Accetterò qualsiasi altra punizione e prezzo da pagare, soffrirò fino alla fine, ma non far del male alle persone che amo. Hai ragione ad odiarmi, hai ragione a volermi punire, ma ti scongiuro, Dio, per favore, fermati.»

Mi parve che disse qualcosa, ma di nuovo non fui in grado di sentirlo, il peso dell'intero universo mi gravava sul petto, le lacrime mi lucidavano gli occhi e il viso, faticavo a respirare, frustrata da continui brividi.

Sorse nei pensieri il ricordo di quando da bambina mi beccai l'influenza, il calore di quei giorni in cui a letto venivo coccolata dalla persona che più avevo amato al mondo.

E forse era proprio lì, accanto a Dio, ad ascoltare le mie suppliche, chissà.

«Papà?»

Un suono confuso, come di un canale radio non sintonizzato.

«Papà, sei qui?»

Non rispose, o forse lo fece, forse non lo sentii soltanto.

«Papà, aiutami, ti prego... Ho paura, ho tanta paura, papà... I primi guanti che mi hai regalato...»

Mi si appesantirono tutto d'un tratto gli occhi, l'oscurità andò ad allagare anche loro.

«... non mi entrano più.»







La luce del giorno mi accecò per qualche istante, quando riaprii gli occhi, fui costretta a strizzare le palpebre più volte per abituarmi ad essa.

Mi sembrava che il corpo fosse stato investito da un treno, ogni muscolo, persino quelli che neanche credevo esistessero a livello anatomico, era così indolenzito da pulsarmi dentro e contrarre i nervi, e quando mi misi a sedere sul letto, un'altra emicrania mi colpì alla tempia sinistra, con la stessa violenza di una puntura fatta con una siringa gigante dall'ago grande quanto il becco di un uccello.

Il respiro si era fatto più tranquillo, il peso sui polmoni si era in parte alleggerito, ma ero comunque intontita e faticai a riordinare i pensieri di modo che potessero tornare lucidi. La gola mi bruciava, era una vera fornace, e quando vidi un bicchiere d'acqua venirmi porto da una mano, davanti ai miei occhi, lo afferrai in fretta, per poi rendermi conto solo dopo aver preso un paio di sorsi quanto accaduto.

L'acqua mi andò di traverso, rischiai di soffocare, mi ritrovai a tossire con le lacrime agli occhi, fissando stupefatta la figura che si trovava sulla sedia accanto al mio letto.

«C-Che cosa ci fai qui?»

Dante inarcò un sopracciglio. «Per davvero? È questa la prima domanda che te viene in mente da fare?»

Continuai a tossire un altro po', mi costrinsi a sorseggiare un altro po' d'acqua dal bicchiere, per poi riprendere a guardarlo sconvolta.

Stavo avendo le allucinazioni a causa della febbre?

Non riuscivo a spiegarmi in altro modo la presenza di quel ragazzo nel mio appartamento, in un momento del genere, vestito con un maglione nero e un paio di jeans. Aveva i capelli un po' arruffati e un aspetto senz'altro migliore del mio, anche se non avevo potuto guardarmi ancora allo specchio, e nel rendermi conto della situazione in cui mi trovavo, subito avvertii il viso venir attraversato dallo stesso fuoco che adesso mi stava divorando la gola. A fatica trovai la porta di posare il bicchiere vuoto sul comodino accanto.

«Io-» Ero senza parole, non riuscivo proprio a comprendere, mi guardai attorno. Il cielo fuori dalla finestra era limpido e splendente, ma già aranciato dal calare del sole, doveva essersi già fatto pomeriggio. «Che cosa-Io...» Fissai il bicchiere quasi vuoto che stringevo in mano. «Io... Che cosa ci fai qui?»

Lui aggrottò la fronte. «Sul serio? Che t'aspettavi dopo il messaggio che m'hai scritto?»

Continuai a guardarlo confusa. «Era... Era un messaggio... normale. Ti ho solo detto... che avevo un po' di febbre.»

«Di' un po', ma l'hai riletto?»

«Che... Che intendi?»

«È pieno di errori e tutto confuso, pareva il messaggio di uno che s'è ubriacato.»

Sgranai gli occhi, stupefatta, e d'istinto, nonostante i migliaia di dolori al corpo, afferrai il telefono sul comodino e andai a controllare. Pura umiliazione mi investì quando mi resi conto di quanto aveva ragione: a stento si capiva cosa volevo dirgli, tant'era sconclusionato e pieno di errori grammaticali, la febbre mi aveva intontita così tanto da farmi credere di averlo scritto per bene, quando in realtà somigliava più al delirio di un folle.

«M-Mi dispiace» balbettai, immersa nella vergogna più totale. «Volevo solo... avvisarti sul perché... non sarei potuta andare da voi...»

«Sì, l'avevo intuito» rispose, ed io arrossii ancora.

«Ma...» Mi sforzai di tornare a guardarlo, con la faccia vermiglia. «P-Perché sei qui?»

La sua fronte si corrugò. «Per davvero?» domandò ancora. «C'hai pure il coraggio di chiedermelo dopo che te sei letta?»

«È solo... solo un po' di febbre.»

«Un po'» ripeté ironico. «Di', lo sai che quasi hai sfiorato i 40 gradi? Sono riuscito a fartela scendere quasi per miracolo fino a 38»

I muscoli indolenziti si contrassero di nuovo davanti a quella sua affermazione.

Più parlava, più la mia vergogna dilagava. «S-Scusa, non volevo-»

«Non te sto ad accusa' perché tu te scusi, te sto a fa' notare in che situazione eri messa.»

Mi umettai le labbra secche con la lingua, ma non servì a nulla se non a raddoppiare l'umiliazione. «Sarebbe... Sarebbe scesa da sola.»

«Da sola?» ripeté, e di nuovo io avvampai. «Di', ma che te credi di esse Superman?»

«N-No, è solo che... a volte... mi succede di avere questa febbre... ed è sempre...» Mi bloccai, non sapevo proprio come giustificarmi. «Non volevo... Non volevo di-disturbarti così, mi disp-»

«Non voglio che te scusi, t'ho detto» mi bloccò di nuovo, ed io mi irrigidii come sempre, specie sotto il suo sguardo irritato. «Non so' infastidito da questo, non me da' nervi venì qui, me da' nervi vede' come te ne fotti della tua salute.»

Lo guardai smarrita, le sopracciglia gli si aggrottarono di nuovo. «Non c'avevi manco medicinali in casa» dichiarò severo, le mie spalle sussultarono. «Nemmeno un po' de paracetamolo o ibuprofene, e me stai pure a di' che te capita di avere 'sta febbre di tanto in tanto. Hai avuto almeno la decenza de parla' con un medico per capire perché?»

«È solo... un po' di stress.»

«E dato che è "un po' de stress", non te importa de compra' le medicine che te servono per abbassartela?»

«Ho-Ho... dimenticato... di acquistarle. Ero convinta... di averne ancora un po'.»

«Non mi prendere per il culo. Sei 'na perfezionista che sta' attenta pure alla calligrafia dei due flagelli, non c'è possibilità che non te ne fossi accorta.»

Era imbarazzante al massimo esser subito smascherata in quel modo, e proprio non riuscivo a comprendere perché fosse così irritato. Davanti al mio evidente smarrimento, quella sua irritazione raddoppiò ancora. «N-Non... è così grave, non c'era bisogno che tu-»

«Non è così grave?» Sobbalzai ancora nel sentirlo tuonare in quel modo. «Lo sai che manco m'hai sentito, quando t'ho suonato prima al citofono e poi al campanello de casa? Stavo per sfonda' la porta, non l'ho fatto solo perché uno degli inquilini che usciva per anda' a lavoro m'ha visto e m'ha dato il numero del proprietario. Grazie a Dio quel tizio me conosce, è venuto subito qui e m'ha aperto con le sue chiavi, dopo che gli ho detto ch'era un'emergenza.»

Mi morsi l'interno delle guance con violenza.

«Non te sai prende cura de te stessa e non sarebbe così grave

«M-Mi so prendere cura di me stessa» obiettai, con il mal di testa che si faceva sempre più acuto, «te l'ho detto, si abbassa da sola pian-»

«Sentiamo un po', se io non c'avessi manco 'na medicina in casa, che me faresti gli applausi? Me diresti che me so prende cura di me stesso?»

Serrai la mascella, chinai lo sguardo sulle mie mani nude, tremanti sopra le cosce. «È... è diverso.»

«In che modo sarebbe diverso?»

Avrei voluto dirgli la verità, cioè che lui non era il figlio di Lawrence Reid e nemmeno un mostro come me, ma avevo la sensazione che avrei aumentato ancor più il suo nervosismo, pur non comprendendo perché. Mi chiesi se fosse dovuto al fatto che si era dovuto svegliare presto per venirmi a controllare e per aver dovuto badare a me.

«Non... Non mi ammalo mai, io» tirai fuori a casaccio, «solo... di tanto in tanto ho questa febbre e... ho imparato a gestirla facendola abbassare da-»

«Me stai a di' che consapevolmente tu te stai così male, quando potresti riprenderti prima con un po' de farmaci?»

Strinsi le dita tra di loro, non osavo più guardarlo in faccia, la vergogna mi dilapidava, e non ero certa se era dovuto al fatto che l'avevo costretto a prendersi cura di me o se a quanto mi stava dicendo. «D-Dico solo che... c'è il metodo naturale e quindi-»

«Perciò, se lo facessi io, tu saresti d'accordo?»

Le mani tremarono con più forza. Perché tornava sempre a quel punto? Adesso non era più solo la gola a bruciarmi, ma anche gli occhi. «C-Come decido... di curarmi... non è affar tuo» dissi alla fine, la voce scartavetrata dal mal di testa e la febbre che mi era rimasta.

«Ah, quindi vuoi che me sto zitto mentre te guardo scavatte la fossa da sola e buttartici dentro con tanto de triplo carpiato?»

Il bruciore agli occhi si intensificò a dismisura. Non comprendevo nemmeno più quello che provavo, un'angoscia profonda mi stava rivestendo, andando a coprire il sudore che ancora mi ammantava la pelle.

«Di' un po'» ripeté di nuovo, «che t'aspetti che a me, Rosemary e ai due flagelli non freghi niente se te stai male così? Che ce ne fottiamo altamente?»

Serrai la mascella ancora, le gengive avevano preso a farmi così male che faticavo a sentirle.

«Hai idea de quanto stanno preoccupati adesso, quei due demoni, quando m'hanno visto anda' via alle cinque de notte, sapendo che era perché tu stavi male? Ho dovuto chiede a Rosemary de trattenelli perché me volevano inseguì in macchina, so' riuscito a convincerli a starsene a casa solo dicendogli che se se fossero ammalati dopo esser venuti qui, te saresti sentita in colpa al massimo. C'ho il cellulare che me sta a esplode per via dei loro continui messaggi.»

Il cuore si era trasformato in un buco nero che risucchiava ogni cosa, non avevo il coraggio di ammettere a me stessa quanto scoprire ciò mi confortasse, il terrore che ne patissi atrocemente le conseguenze più tardi era così profondo da farmi battere i denti.

«N-Non c'è bisogno che vi preoccupate così pe-per me, io-»

«Non sei tu a decide per chi ci dobbiamo o non dobbiamo preoccupare.»

Trattenere le lacrime si faceva sempre più difficile di secondo in secondo, le costringevo a cadermi in gola, ma ormai erano così tante che nemmeno potevo deglutire.

«Non volevo... Non volevo preoccuparvi... mi dispiace.»

Anche se non potevo vederlo, avvertii lo stesso la vampata di collera che andò ad attraversarlo. «Se non vuoi preoccuparci» affermò, il tono così funesto da farmi rabbrividire, «compra i fottuti farmaci, curati a dovere e non ce prova' manco morta a prendermi per il culo minimizzando la situazione.»

Contorsi la fronte pur di impedirmi di scoppiare a piangere. «Non... Non credevo... che vi avrei... fatto preoccupare così, io volevo solo-»

«Non credevi o ne eri certa?»

Un'altra pugnalata in pieno cuore, le lacrime adesso erano diventate pure gocce di brace in gola.

«Appena m'hai visto eri sconvolta, manco t'aspettavi che sarei passato a controllare come stessi, non hai proprio contemplato l'idea in quella testa de coccio che c'hai, persino dopo che te sei riletta il messaggio che m'hai inviato. Che te credi che te frequentiamo per sport? Per hobby? 'Na specie de passatempo di cui non ce ne fotte nulla a conti fatti? Che quei due demoni davvero te vogliono solo perché glie cucini bene e c'hai i soldi?»

Avevo catrame al posto dell'aria, nei polmoni. «N-Non sto dicendo questo.»

«Lo stai ad insinua' pensando ce ne saremmo sbattuti i coglioni sapendo che tu stavi male.»

«N-Non è quello che intendevo, io-»

«Non mi prendere per il culo, Agatha.»

Trasalii nel sentire la rabbia con cui pronunciò il mio nome. Era persino più furibondo di quanto non lo fosse stato al nostro primo incontro, e questo mi stupiva così tanto che faticai a camuffarlo. Avrei solo voluto esplodere nelle lacrime, ma non ne avevo il coraggio, sentivo i suoi occhi addosso e così come i suoi, sentivo anche quelli di Dio, pronto a punirmi nell'istante stesso in cui mi sarei lasciata accogliere da quel conforto.

Lo udii inspirare a fondo, per poi buttare fuori l'aria con veemenza. «Te lo ripeto per l'ultima volta» dichiarò, il tono più calmo, «quello non è il mondo, è casa mia. Ficcatelo in testa, perché se succede di nuovo 'na cosa del genere, non mi limiterò a sfondatte la porta e a incazzamme così, te trascino direttamente in ospedale e te ficco le medicine a forza in gola, se necessario, so' stato abbastanza chiaro?»

Sbattei le palpebre per rinfrescare gli occhi infuocati, disperandomi nel tentativo di non provare quello che invece stavo provando, il desiderio di esser guardata in quel modo, di esser accolta in quel modo.

Quella... doveva essere senz'altro un'altra tentazione con cui Dio mi stava mettendo alla prova, per vedere se avrei ceduto di nuovo alla speranza di considerarmi una ragazza qualunque come tante ce ne sono al mondo.

Dio non avrebbe-

La memoria confusa e distorta del sogno avuto prima mi travolse l'istante dopo, persi tutta l'aria dai polmoni, con il panico a pompare il cuore al posto del sangue, tremiti più profondi che si inerpicavano nelle vene, il mal di testa un vero e proprio scoppio di sangue e orrore. Non ricordavo neanche bene cosa avessi detto e cosa fosse successo in particolare, in quel dannato sogno, ma di una cosa ero sicura: avevo parlato troppo.

Mi voltai a guardare Dante, il cui viso era ancora contratto, con il gelo a ramificarsi nello stomaco, pronto a mandarmi in iperventilazione, un altro manto di sudore a ricoprirmi la carne. «Ho-Ho detto qualcosa... me-mentre do-dormivo?»

Lui aggrottò ancor più la fronte, non riuscivo a decifrare proprio quello che stava pensando, mentre mi scrutava, non ero sicura di cosa stava provando, ed io tentai in ogni modo di non far trapelare l'incubo che mi stava sventrando gli organi, uno ad uno, con una lentezza agonizzante.

«Perché lo chiedi?»

I battiti di ghiaccio si fecero ancora più violenti.

«I-Io ricordo di aver avuto... un incubo... molto strano e sai... a volte pa-parlo nel sonno e dico... dico cose molto stupide o... o imbarazzanti» balbettai, afferrando la croce del mio rosario tra le dita, rigirandomela senza fiato coi polpastrelli.

Mi osservò per dei secondi che mi parvero secoli, e mai come allora desiderai saper leggere nella mente, perché davvero ero del tutto incapace di capire cosa stava pensando. Alla fine, sospirò di nuovo: «Davvero te stai a preoccupa' per robe che puoi ave' farfugliato nel sonno de una febbre del genere? Tutto quello che t'ho appena detto dove l'hai ficcato in testa, eh? Hai balbettato qualcosa, ma non se capiva niente, ed ero troppo preso a trova' un modo per convincerti a prenderti le medicine da sola senza toccate troppo per badarci.»

Il sollievo fu talmente bestiale che rischiai di perdere i sensi, il ghiaccio si sciolse d'improvviso sotto una gettata feroce di calore, andando a districare tutti quei nodi che avevano contratto i muscoli e i nervi. «S-Scusa» balbettai ancora, mentre quel fuoco ritornava a pitturarmi le gote. «Starò più attenta... d'ora in poi.»

«Non te devi scusa', t'ho detto, ficcate solo in quella testa de coccio che te devi prendere cura de te per bene.»

Lasciai andare la croce, i cui contorni avevano quasi perforato la carne dei polpastrelli e a stento trovai la forza di annuire. Il suo sguardo ricadde su di essa, il che era inevitabile, visto quanto l'avevo maltrattata, ma lui ormai sapeva che era un mio difetto ogni qual volta mi imbarazzavo. «Non rischi che la gente te riconosca, se la indossi sempre?»

«Oh, è... difficile.» Il suo commento era più che lecito, visto che l'avevo sempre al collo. «È un rosario... molto comune, di quelli che si vendono... dappertutto, persino nelle bancarelle.» Esitai per qualche istante. «Papà... me lo comprò... poco dopo che mi ero trasferita da lui.»

«Se non ricordo male, lui non è credente.»

«No» confermai. «È ateo... da praticamente... sempre.» O almeno così credevo, visto quanto mi aveva detto in merito a sua madre: doveva aver finto la sua fede, mentre lei era ancora in vita, proprio come aveva mentito su tutto il resto.

Ci fu un secondo di silenzio da parte sua, il volto un po' severo di ogni giorno.

«Capisco.»







Nota autrice:

Iniziamo coi punteggi di questo capitolo e del precedente:

+ 90 punti per Agatha per ratattouille

+ 400 punti per Agatha perché, quando lei ha parlato di Dante di come è nata la passione per la cucina, lui subito ha compreso perché avesse smesso di cucinare e lo sforzo che ha fatto per riprendere a farlo solo per render felice i gemelli.

+ 90 punti perché, mentre erano al mercato, amoreggiava dentro nel vedere Agatha così presa a chiacchierare con gli altri.

+ 90 punti perché ha subito notato la signora dalla nuora celiaca e quella del cocomero.

+ 200 punti per la cicatrice di Dory all'orecchio.

+ 100 punti perché s'è di nuovo reso conto di quanto è stata plagiata Agatha dal mondo, quando ha visto il modo in cui era sorpresa nel ritrovarselo lì a casa sua, gli è scattato de novo il senso de protezione.

Passiamo poi al punteggio di Agatha per Dante:

- 50 punti perché non ha capito perché minchia s'è incazzato in quel modo quando lei s'è spacciata per la sua SORELLA LESBICA AMICA D'INFANZIA quando gli stava a fare un favore.

+ 100 punti (SUPER INCONSAPEVOLI) perché ha insistito perché lei si rendesse conto delle sue qualità.

+ 300 punti per la domanda che lui le ha fatto su suo padre (se cucinava anche lui), perché da lui proprio non se l'aspettava e soprattutto, non l'ha giudicata.

+ 100 punti (anche questi SUPER INCONSAPEVOLI) perché s'è divertita a stare al mercato con lui.

+ 300 punti (SUPER MEGA IPER EXTRA INCONSAPEVOLI) perché s'è presentato a casa sua e l'ha voluta aiutare a riprendersi dalla febbre e le ha fatto il cazziatone.

Sì, per la prima volta, nonostante fosse incazzato a bestia con lei, invece che perdere una fracca di punti, Dante ne ha guadagnati una fracca.

(Il problema è che così come lui ha guadagnato punti, così li ha guadagnati l'immenso senso di colpa di Agatha per esser stata felice di ciò)

Andando a riassumere:

Agatha: + 2810 (agli occhi di Dante)

Dante: + 1308 (agli occhi di Agatha)

So che ve state a chiede, muffins, la risposta a ciò che già di sicuro avete capito è tutta qui, in questo ultimo punteggio:

- 2000 punti per la mamma di Agatha (agli occhi di Dante)

Attendo i vostri pareri in merito a ciò con mooolta curiosità 😎

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