Unica
Io non mi innamoravo mai davvero.
Anche nelle occasioni in cui in testa mi dicevo "lo amo follemente" nei confronti di una delle mie cotte, sapevo benissimo che non era così.
Perché per innamorarsi di qualcuno bisognava conoscerlo sul serio, parlare con lui, vederlo da una prospettiva diversa da quella unicamente visiva.
Un amore che si basava solo e soltanto sulle apparenze forse non era falso e sbagliato, no, ma di certo non poteva essere considerato assoluto.
Così era stato per tutte le mie cotte, prima che si scoprisse la verità su mio padre.
Io mi ero sempre limitata a guardarle da lontano, amoreggiare per loro proprio come una fan con il suo cantante preferito, non importava se erano miei coetanei, compagni di scuola o di classe. Di tanto in tanto sì, mi capitava di parlare con loro, ma erano briciole di parole, conversazioni che non potevano essere definite tali, puri e semplici scambi di voci che duravano per poco, pochissimo.
C'era sempre una distanza incolmabile che mi impediva ogni volta di annegare davvero in un sentimento viscerale e profondo, una distanza che io stessa mi guardavo bene dal ridurre, perché pienamente conscia che, se anche l'avessi fatto, non avrebbe prodotto alcun risultato se non il mio cuore in frantumi.
Le rare volte in cui finivo per chiacchierare con le mie cotte, mi limitavo sempre ad assaporare quel momento, a dirmi di esser grata anche per quei piccoli istanti, perché erano il massimo che avrei potuto ricevere nel corso degli anni.
Come un'assettata d'amore, mi accontentavo delle poche gocce di sentimento che mi erano concesse.
Perché sapevo di non potermelo permettere, come sapevo che, anche se me lo fossi permessa, ciò non avrebbe mai portato a nulla di buono.
Tremavo al pensiero di come mi sarei potuta trasformare, se mi fossi arresa ancora a un altro desiderio, di come avrei potuto esserle sempre più affine e simile, sempre più vicina.
Talmente identica che avrei di nuovo corso il rischio di vedere solo e soltanto lei nello specchio.
A lei piacevano molto i fiori.
Papà, prima di tornarsene nell'Arkansas, quando ci veniva a trovare, ci lasciava sempre un bouquet incredibile, di quelli che si vedono solo nei film più romantici o assurdi. Lei, allora, metteva quel bouquet nel vaso più bello che disponesse in casa, al centro del tavolino del soggiorno, e passava ore e ore a rimirarlo, canticchiando sottovoce canzoni dolci che si inventava sul momento.
Si accorgeva anche del più minuscolo, infinitesimale, invisibile cambiamento di quel bouquet: quanti petali i fiori perdevano, quanto velocemente stesse svanendo il loro profumo, se uno di loro era troppo soffocato dagli altri, se aveva bisogno di più luce, se stava soffrendo per poca acqua. Quell'attenzione assurda, quasi ossessiva, che dedicava loro, la dedicava anche a me.
Notava tutto, qualunque cosa, non importava quanto tentassi di nascondergliela, anche il dettaglio più inutile e insensato subito veniva scoperchiato dai suoi occhi da rapace. Io provavo a mascherare e nascondere, provavo a seppellire, ma di risposta lei scorgeva quel piccolissimo puntino di dissesto tra la mia menzogna e la verità e subito lo scavava a fondo per poter ribaltare le zolle ed esumare ciò che avevo secretato.
Perché ai suoi occhi l'unica differenza tra quel bouquet e me, era che il bouquet, almeno una volta, l'aveva resa felice.
Il ricordo di quei giorni mi era sufficiente per indurmi a pensare che mai sarei diventata come lei, mai le sarei stata simile anche in quel modo.
Ma inesorabilmente mi ghiacciavo nella paura, consapevole di quanto le fossi affine, di quanto le nostre due anime fossero uguali come lo era il colore degli occhi, trapiantate da un dolore identico.
Il seme che condividevamo era lo stesso, non potevo proprio immaginare un futuro in cui sarei sbocciata come un fiore diverso da lei.
Mi sarei ossessionata allo stesso modo, sarei caduta nell'abisso di quell'amore folle e delirante, più non avrei saputo scorgere la bellezza generale di un bouquet, solo tutti i dettagli con cui notare sempre di più il suo ineluttabile avvizzimento.
Questo era il motivo per cui mai mi ero avvicinata troppo ai ragazzi per cui mi prendevo le mie assurde sbandate, oltre che perché consapevole di quanto sarebbe stato inutile, io che col mio aspetto e la mia fobia mai sarei potuta interessare in quel modo a qualcuno.
Ma c'era un cactus, davanti a me, adesso.
Un mini cactus, sul davanzale della mia finestra, a venir illuminato dalle prime luci dell'alba. Una peluria di spine bianche addosso, un manto verde e sgargiante a coprirlo, un vasetto in terracotta grande quanto un bicchiere di plastica.
Di mini cactus ne avevo avute a centinaia, in passato, ma a comprarli ero sempre stata io, al massimo mio padre.
Mai un ragazzo.
Un ragazzo a cui non avevo rivelato in nessun momento la mia passione per le piante grasse, semplicemente se n'era accorto da un banale dettaglio, mentre eravamo al mercato: i miei occhi che scrutavano la bancarella.
Tutti i dettagli di me di cui la gente, lei soprattutto, si era sempre accorta erano i petali che perdevo, le foglie che mi marcivano, gli steli che si spezzavano.
Nessuno si era mai preoccupato di guardare la mia corolla nella sua interezza, ero arrivata persino a credere che neanche l'avessi.
Ma quel cactus adesso era lì, la prova inconfutabile di quanto mi fossi sbagliata.
Lo guardavo, in piedi davanti ad esso, e non potevo che sentirmi squarciare dentro. Un dolore arcaico mi perforava le arterie, arrivava al cuore e lo annegava nell'agonia, ma tanto era grande quella sofferenza, tanto lo era il sollievo di esser stata vista in un dettaglio che mai finora era stato noto a qualcuno.
Allungai le mani nude, iniziai a rigirarmi il vasetto tra le dita, il respiro che s'incatenava sempre più ai latrati bestiali che sostituivano i battiti del cuore. Mi sentivo scerpare di petalo in petalo, percepivo tutto il sangue che perdevo copiosamente da quegli strappi violenti, eppure era anche un piacere, una pace vera e propria, perché neanche più ricordavo da quanto tempo qualcuno avesse mai ammesso che anche io potevo sanguinare, anche io potevo rimanere ferita.
Te lo farò vedere pure a te, quel fiore, me ne sbatto i coglioni delle spine.
Mi sembrava che nello stomaco si stessero accumulando sempre più massi giganti pronti a sostituire tutti i miei organi. Paura profonda e desiderio massimo mi gridavano in testa, un alterco bestiale in cui le memorie più crudeli andavano ad accavallarsi ai momenti più belli e felici della mia vita.
Dopo quella sua dichiarazione, lo sentivo, lo sentivo dentro: andando avanti in quel modo, con Dante, correvo sul serio il rischio di conoscere quel sentimento che tanto avevo faticato per evitare sempre e comunque, in passato.
Non importava quanto provassi a scansarlo, a fingere di non sentirlo, io lo percepivo: il principio di un'emozione che fino ad allora mi era sempre stata ignota, una particella d'umanità che iniziava già a scuotersi tra le altre per diffondere e trasmettere il suo sapore.
Ma non potevo, non dovevo.
Era la mossa più stupida che potessi fare.
Sei forte tu, Agatha, sei molto più forte di quanto credi. Sarai così forte e coraggiosa da peccare di blasfemia e infrangere il tuo giuramento.
Le lacrime ripresero a bruciarmi gli occhi, mi sforzai di rimandarle giù, ad ustionarmi la gola. Lasciai andare il mini cactus e mi strofinai le mani sulla maglia del pigiama.
Non ci riuscivo, ne ero incapace per natura.
La sola idea di spezzare quella promessa mi squassava dentro, mi terrorizzava, mi sentivo sul punto di svenire solo al pensiero di come avrei potuto pagarla cara per aver violato quel sacramento tra me e Dio.
Sarai magnifica, Agatha, te lo assicuro.
L'essere umano più umano di tutti.
Chiusi gli occhi, strizzai le palpebre per dieci volte, contando i miei respiri, cercando di raffreddare l'aria ustionante che mi stava ribollendo nei polmoni.
Riuscii a confessare a voce la sola verità che mi ero sempre negata, quella per cui il mondo intero mi avrebbe condannato, se l'avesse sentita, se mi avesse visto pronunciarla ad alta voce.
«Betsy, mi manchi da morire.»
Dante mi aveva convinta (o per meglio dire, costretta) ad accettare il suo arrivo perché potessi trasferire tutti gli ingredienti necessari per il pranzo del Ringraziamento da casa mia al loro appartamento. Avevo provato in ogni modo a ribellarmi a quella sua decisione, ma non avevo potuto negare il fatto che, stavolta, le buste da portare erano davvero tantissime e difficilmente sarei riuscita a cavarmela da sola.
Quando venne da me, quel mattino, per prendere le cose, mentre stavamo sistemando le buste nel bagagliaio della sua macchina, mi accorsi che era particolarmente accigliato. Strano ma vero, non sembravo io la causa di quel suo stato di cruccio, il che non ero certa se prenderla come una buona o una cattiva notizia.
«È... è successo qualcosa?» trovai alla fine il coraggio di chiedergli, mentre partivamo dal parcheggio sotto il mio condominio per andare a casa loro.
Lui esitò qualche istante, le mani rigide sul volante, i pollici a tamburellare su di esso. Aveva lo sguardo rivolto alle stradicciole sgangherate del quartiere, con i vari edifici rovinati a fiancheggiarci mentre le attraversavamo, la luce del primo mattino a illuminarne la decadenza e la rovina.
«Dory sta a comportarsi in maniera strana» mi confessò alla fine, mentre svoltavamo una curva a destra in un incrocio.
Un brivido di preoccupazione mi attraversò la schiena. «S-Strana?»
«Non parla proprio o al massimo insulta. S'è chiusa in camera e non vuole uscire per nessun motivo. Manco ha detto una sola volta "Come dice una gran donna, cioè io" da quando s'è svegliata. Il che è il primo sintomo de qualcosa che non va.»
Era davvero grave, in effetti, visto che quella frase era praticamente il suo motto di vita e ci teneva sempre a ricordarla a tutti. «Dorian non ne sa niente?» gli domandai, e lui scosse la testa, riprendendo a tamburellare le dita sul volante.
«Non vuole parlare manco con lui. Dice che vuole stare da sola a letto fino a quando il pranzo non è pronto. Gli ho chiesto se hanno litigato, ma lui m'ha detto de no. Ha detto solo che stanotte l'ha sentita alzarsi per anda' in bagno, ma nient'altro. Tornata a letto, s'è riaddormentata subito.»
Mi accigliai. Era in effetti un comportamento piuttosto strano da parte di Dory, soprattutto visto come aveva insistito nell'assistere alla "sacra infarcitura del tacchino", come lei stessa l'aveva chiamata più volte. Non aveva molto senso, da parte sua, rinunciare così a quella visione, se non per un motivo particolare.
Il motivo particolare, però, lo intuii non appena arrivammo nell'appartamento di casa Mitchell. Ad accoglierci fu Dorian, ancora in pigiama, con un'espressione preoccupata e smarrita quanto il fratello maggiore. Mentre Dante sistemava tutte le buste e i loro ingredienti in cucina, lui mi si avvicinò, ancora all'ingresso della porta, e mi chiese: «Thaty, che Dory t'ha detto nulla negli ultimi giorni?»
«No» ammisi, mentre mi sfilavo la giacca e la abbandonavo sull'appendiabiti lì accanto. «Mi sembrava stare bene fino a ieri. Ti ha detto se ha qualche dolore?»
Dorian scosse la testa, affranto. Dietro di lui, Dante si avvicinò alla porta della stanza dei gemelli e bussò con forza. «Lilith!» la chiamò a gran voce. «Ce sta la tua Thaty! Non vuoi uscì manco ora?»
Ci furono molti secondi di silenzio, e poi, la voce forte di Dory: «Ho sonno! Lasciami dormire!»
Dante bussò alla porta con più forza. «Non me prende' per il culo! Voi due flagelli c'avete il contratto col demonio che ve bastano due ore de dormita per pote' tornare a rompere i coglioni quanto volete! Che sta a succede?»
«Fatte i cazzi tuoi, scopacimici! Pensa ai coglioni rotti tuoi, non ai miei!»
Dorian osservava con me la scena in un misto di incredulità e smarrimento. Tornò a guardarmi, sempre più affranto. «Di solito ce diciamo sempre quando qualcosa che non va» mi spiegò. «Prima de dillo a scopacimici pure, ce lo diciamo prima tra noi. Non so perché mo' non vuole fallo.»
Gli insulti che Dante e Dory si continuavano a lanciare attraverso la porta si stavano facendo sempre più forti. Scrutai Dorian, il viso afflitto per l'ingiustizia di non poter comprendere per la prima volta la gemella, e la preoccupazione che già si era radicata in me si fece sempre più forte. «Hai notato qualcosa di strano?» gli chiesi, e di nuovo lui scosse il capo.
«No, niente, te giuro. Solo stamattina, mentre ero ancora rincoglionito dal sonno, l'ho vista un po' diversa.»
«Diversa?»
Lui annuì, gli occhi ancora fissi su Dante che bussava a ripetizione sulla porta, mentre Dory, dalla loro stanza, continuava a insultarlo oltre ogni misura.
«Se rigirava davanti allo specchio» mi spiegò. «Le ho chiesto che stava a fa' e me ha detto de famme i cazzi miei.»
Rigirava davanti allo specchio?
Dory?
Mi sembrava strano. Lei non era una bambina che badava chissà quanto al proprio aspetto, men che meno da appena sveglia. Si era mostrata a me più e più volte con i capelli spettinati, ancora non lavata e in pigiama. Proprio come il suo gemello, non le interessava molto controllare come apparisse agli occhi degli altri.
Controllare...
La memoria di un giorno passato, molto, molto lontano, mi sbocciò dentro tra spine violente e corolle profumate e soffici. Sbattei le palpebre, mentre iniziavo a collegare i vari puntini, e un sorriso amaro mi attraversò le labbra.
«Forse ho capito» dissi alla fine, Dorian mi guardò confuso. «Non ti preoccupare, non dovrebbe essere nulla di grave.»
«LILITH!» La voce profonda di Dante si stava facendo sempre più forte.
«Non rompere, scopacimici!» Anche quella di Dory si stava facendo sempre più acuta.
Esitai per qualche secondo. Dubitavo di essere in diritto di intervenire in quell'ambito familiare di cui ero una totale estranea, ma a giudicare come si stava comportando Dante, lui, a differenza mia, non aveva intuito il reale problema. Il che era anche piuttosto naturale, considerato il tutto.
Forse... avrei dovuto discuterne prima con lui? Ma... Dory ne sarebbe stata felice? A giudicare da quanto lo stava insultando, era evidente che non si sentiva pronta a parlarne con il fratello maggiore e men che meno col gemello. Rosemary non era ancora arrivata ed era comunque una donna molto più anziana di lei, non era detto che si sarebbe sentita a suo agio.
Mi rigirai la croce del mio rosario tra le dita, presi un grosso respiro e mi costrinsi a tirar fuori il coraggio che da anni dubitavo di avere e che solo quella famiglia mi aveva fatto riscoprire. Con la borsa a tracolla ancora sulla spalla, raggiunsi Dante proprio mentre lui stava minacciando di entrare lo stesso in camera. Cercai di nascondere il timore che mi sviscerava le interiora, mentre gli domandavo: «Mmm... Posso... Posso provare a parlarle io?»
Lui mi guardò smarrito, ma non parve... particolarmente sorpreso. Indietreggiò di un passo senza dire niente, sbigottendomi. Non pensavo certo avrebbe ceduto così facilmente alla mia richiesta, ma non era quello il momento di analizzare la questione. Mi costrinsi a concentrarmi sulla porta di legno, dopo un attimo di tentennamento, bussai a mia volta.
«Dory?» la chiamai. «Sono... Sono Thaty. Ho una cosa che... ti può servire molto. Posso entrare... così te la do?»
Un minuto intero di silenzio. Un minuto intero che le servì per comprendere tutto. «Non fai entrare lo scopacimici assieme, vero?» mi domandò, e per la prima volta sentii preoccupazione e vergogna nella sua voce, così profondi da intenerirmi il cuore.
«No, entro solo io, te lo prometto» le assicurai.
Un altro minuto di silenzio.
«Allora va bene. Ma non accendere la luce.»
Sorrisi di nuovo con amarezza. Quella situazione mi era così nostalgica e familiare da farmi credere di star sognando. Schiusi l'uscio a passo lento, con gli occhi dei suoi due fratelli puntati su di me, eppure non potei preoccuparmene, avanzai nella stanza con passo deciso, per poi richiudere la porta alle mie spalle.
Non era la prima volta che entravo nella camera dei gemelli. Era una piccola camera dalle pareti azzurre coperte da centinaia di poster sui loro cartoni animati preferiti, un tappetino di Super Mario a coprire il pavimento dal parquet rovinato e una grossa finestra verticale che si affacciava sulla strada principale del condominio. Sulla parete sinistra, le due scrivanie sobbarcate dai giochi, i libri e i quaderni dei gemelli, sulla destra, i due letti a castello dal telaio in legno, a fiancheggiare il grosso armadio verde che occupava il resto del muro. Uno specchio verticale e piuttosto vecchio era stato attaccato su una delle ante.
Tuttavia, quel mattino, la stanza era allagata nell'oscurità. Dory aveva abbassato le tapparelle e solo pochissima luce mattutina filtrava dai loro bucherelli, andando a illuminare di pochissimo l'ambiente oscuro, decorandolo con bagliori di aranciati che somigliavano a lucciole.
Feci scivolare gli occhi sul letto più in basso, quello poggiato sul pavimento, in cui si era creato un viluppo di lenzuola e piumone di Dragon Ball. Una vera e propria crisalide dentro cui Dory si era nascosta, a stento individuabile in quell'oceano di tenebre.
Le mie labbra si sollevarono ancora per la melanconia del ricordo di anni e anni prima, mi avvicinai a quel letto a passo lento, per poi inginocchiarmi davanti al grosso torciglione di lenzuola e piumone. «Ehi, Dory» la chiamai. «Non c'è nessuno qua, ci sono solo io. Puoi uscire, se vuoi.»
La crisalide tremò, la voce di Dory ne uscì fuori spezzata, così tanto che mi sentii spezzare anche io: «Non mi va.»
«Ok» risposi con un sussurro. «Hai mal di pancia o mal di testa?»
Il bitorzolo si mosse un po', forse stava scuotendo la testa da sotto le lenzuola. Attese ancora qualche minuto, prima di tornare a parlare: «Come hai fatto a capirlo?»
Mi bloccai, frenata dalla preoccupazione. Non ero certa se rivelarglielo l'avrebbe aiutata, anzi, temevo che invece l'avrebbe fatta soffrire ancora di più, ma... proprio come il suo gemello, lei era sempre stata disposta a difendermi, persino contro il suo stesso fratello maggiore, quando si trattava della mia relazione con mio padre.
«Anche io feci la stessa cosa che stai facendo tu ora, la prima volta che mi arrivò il ciclo» confessai alla fine. «Ero un po' più grande di te, avevo tredici anni, e mi vergognavo da morire. Mi arrivò mentre ero a casa e mi rinchiusi in camera mia, proprio come te. Papà... Papà capì in fretta cosa stava succedendo e mi parlò dalla porta chiusa della mia stanza.»
Nelle tenebre, la udii tirare su col naso. Un moto di amarezza mi colpì in pieno petto, mentre scrutavo per quel poco che potevo il viluppo di piumone e lenzuola tremare sempre di più.
Ciliegina, hai paura?
«Hai paura, Dory?» le domandai. «Per questo non vuoi dirlo a Dante e Dorian?»
Non me la sento, papà, non me la sento ancora. Non sono pronta.
Ci fu un singhiozzo a stento udibile, un'altra ferita nel mio cuore. «Lo sapevo che prima o poi l'avrei avuto» mugolò a fatica, la voce impastata dalle lacrime. «Voglio di', so' una femmina, quindi lo sapevo che l'avrei avuto, mica so' scema. Però volevo che arrivasse più tardi, non ora, è presto, so' ancora una bambina, non mi va di diventare adulta ade'.»
Ciliegina, è naturale essere spaventati.
«Ed è più che giusto che tu ti senta così, Dory» mormorai a fatica, con il cuore ad agonizzarsi per il suo dolore e il mio, quel ricordo sofferente di tanti anni addietro che, pur ampolla di grande tragedia, conservavo dentro come un tesoro prezioso. «Ma... Il fatto che tu abbia avuto le tue prime mestruazioni... non ti rende subito un'adulta. Sei ancora una bambina, Dory, anche ora che hai il ciclo. Quello che stai vivendo... è solo la tua crescita, come tutti i bambini. Ci vorrà del tempo, molto tempo, perché tu diventi un'adulta, tanti anni e tante emozioni che vivrai intensamente.»
Ricordati, Ciliegina...
«Crescere non vuol dire smettere di essere noi, vuol dire soltanto diventare ancora più noi.»
Finalmente, il piumone e le lenzuola caddero sul materasso, rivelando la figura inginocchiata sul letto di Dory. In quel poco di luce che ci era concessa, scorsi il luccichio delle sue lacrime ad abbagliarle gli occhi carichi di spavento, il tremore del suo corpo e del suo respiro. Mi guardò in quell'assenza di colori, solo lacrime sue a vedersi e lacrime mie a nascondersi.
«Ma...» balbettò alla fine, le labbra le vibravano così tanto da non riuscire a restare ferme. «Ma non sarò... più come Dorian... e nemmeno come Dante. Cioè...» Chinò il capo verso le sue ginocchia piegate, il pantalone nero del pigiama. «Lo sapevo già... che ero diversa da loro perché so' femmina mentre loro so' maschi... ma ora... sarò più diversa. Cambierò troppo... e non saremo più...» Un altro singhiozzo le scosse le spalle.
È vero, Ciliegina, tu sei una donna e io sono un uomo, ma questo non c'entra nulla. Tu sei mia figlia, io sono tuo padre. Nemmeno ora che stai crescendo ciò cambierà, non dubitarne mai.
«Voi tre siete fratelli» sussurrai ancora. «Non importa quanto crescerete e cambierete, continuerete ad esserlo fino alla fine.» Non avrei mai creduto che un giorno mi sarei ritrovata a ricordare di nuovo quelle parole di mio padre con... gratitudine e sollievo. «Non sarà il ciclo, i brufoli, i peli sotto le ascelle che tanto desiderate a farvi smettere di esserlo.» Le sfuggì un sorriso, riuscii a notarlo persino nelle tenebre. «Rimarrete comunque fratelli, una famiglia.»
Continuò a fissarsi le gambe piegate, i tremori a travolgerle tutto il corpo, e poi, dopo almeno cinque minuti di silenzio, con voce guaita disse: «Ho paura... Ho paura di cambiare, Thaty.»
Esitai. «Di cosa hai paura?»
Lei sbatté le palpebre, lacrime giganti le scalfirono il viso. «Papà...» Sussultammo insieme. «Papà... prima ci voleva un sacco di bene, sai?» bisbigliò a fatica. «Eravamo piccoli, sì, però ce lo ricordiamo eccome, io e Dorian. Lui... Lui ci faceva ridere un mondo... Pure la mamma rideva un sacco... Eravamo felici.»
La fronte le si contrasse, benché nascosta in gran parte dalle tenebre, riuscii comunque a immaginare il tormento che la stava devastando in viso, perché era lo stesso con cui io convivevo da quattro lunghi anni. «Poi...» balbettò allora. «Ha iniziato a bere... e all'improvviso non era più il nostro papà, era cambiato. Ogni tanto... sembrava riprendere ad esse' lui, però dopo di nuovo ritornava 'no sconosciuto, manco la mamma lo riconosceva.»
E io lo capivo, lo capivo benissimo.
Erano le stesse sensazioni che provavo ogni martedì mattina, nella sala incontri, a quel tavolino a cui Lawrence Reid si sedeva.
Perché nemmeno io sapevo chi avevo davanti, in quei martedì, se mio padre o l'assassino spietato. Di tanto in tanto scorgevo il primo, di tanto in tanto il secondo, fin troppe volte entrambi nello stesso momento.
Come due colori opposti che si erano contaminati a vicenda ma non erano riusciti ad amalgamarsi bene, a mischiarsi del tutto, e così le tracce originarie di ciò che erano stati una volta restavano, frammenti di un tempo talmente lontano da poterlo ritenere mitologico e che eppure davano prova di esserci davvero stati, di esser davvero esistiti.
A volte il Minotauro, a volte Arianna.
Spesso entrambi.
«Ho paura, Thaty, ho tanta paura» farneticò con strazio. «Non voglio cambiare... Quando papà è cambiato, ha smesso di volerci bene e ha iniziato a farci tanto male.» Un altro singhiozzo le scosse le spalle. «E se succede anche a me? Se anche io... smetto di volervi bene ora che sto cambiando? Se divento come lui e inizio a farvi male?»
Stai pensando: "Sono davvero identica a mio padre, in tutto e per tutto, abbiamo persino lo stesso passato. Sono sul serio un mostro come lui."
Mai avrei pensato possibile che proprio quelle parole di mio padre avrebbero potuto incidersi in me in quel modo profondo, un modo diverso da quello che conoscevo, che non generava terrore, odio, paura, agonia.
Ma sollievo.
Sollievo profondo, viscerale, primitivo.
Scorto negli occhi di Dory, nel bagliore del pianto che li dipingeva.
Perché c'ero anche io, in quelle lacrime.
C'ero io in quella bambina che mi confessava i suoi crimini, quelli che riteneva essere i suoi crimini.
Un sollievo talmente dilagante che trattenermi dal lasciarmi andare ad esso fu una violenza vera e propria, uno stupro alla mia anima e i miei pensieri.
Ma lo sentivo dentro.
Qualcosa di esso mi era rimasto.
Un seme minuscolo, sì.
Ma era rimasto.
E proprio non avrei saputo dire se esserne grata o al contrario spaventata.
Sapevo solo che quella bambina davanti a me, quella dodicenne che era stata la prima a difendermi col suo gemello, la prima a comprendermi e a capire il mio affetto per l'uomo più odiato del mondo, adesso pativa una cicatrice tanto grande quanto simile alla mia e proprio non sapeva come medicarla, proprio non aveva idea di come sbiancarla. Fresca, rossa e dolorosa, la cicatrice bruciava, ancora e ancora, senza darle tregua.
Le mie labbra si mossero da sole, la voce uscì fuori quasi accordata: «Non accadrà.»
Risollevò il capo per guardarmi con indecisione. «Come fai ad esserne sicura?» domandò, la voce inspessita dal pianto.
Avere passati simili non ti rende in automatico persone simili. Sono le differenza a contare, in questo caso, e la differenza tra noi due e te, bambina...
«Al mondo...» Faticai a comprendermi, a pensare, sapevo solo di doverlo fare, di dover pronunciare quelle esatte parole. «Al mondo... tantissime persone si ritrovano a subire dolori simili, ma li affrontano... sempre in maniera diversa.»
Scrutai le mani che aveva ancora posate sulle sue cosce piegate, e proprio non seppi spiegarmi perché, ma le mie andarono a cercarle. Strinsi le sue dita con le mie, e pur indossando i guanti, mi sembrò il contatto più umano e sincero che avessi mai avuto.
«Perché davanti alla stessa sofferenza... ci sono esseri umani unici e irrepetibili, come le loro impronte digitali. E così come sono unici loro... così lo sono i modi in cui reagiscono a quella sofferenza. E tu...» Tu non sei me, bambina, e non lo sarai mai. «Tu non sei tuo padre, Dory, e mai lo sarai. Tu sei solo tu, la nostra Dory, nessun'altro che questo.»
Lo sai cosa devi dire allo specchio, Agatha?
No, non lo sapevo più.
Perché non c'era più nessuno specchio davanti a me.
C'era solo una bambina, una dodicenne, che mi era tanto simile quanto diversa, e proprio non avrei saputo scorgere la linea che separava quelle due cose, proprio non avrei saputo dire fino a quanto spingermi nel sentirmela affine.
Quanto mi era concesso, prima di cadere nel peccato.
Dory restò in silenzio con me per tanto, tanto tempo, continuando a guardarmi con un'intensità identica a quella con cui io guardavo lei. E nonostante le oscurità della stanza, nonostante le tenebre che dilagavano dentro entrambe...
Lei mi sorrise.
Fu la prima goccia d'amore nel cuore.
Nata e generata proprio da lei e per lei.
Colei che mai mi aveva considerato un mostro.
«Thaty» mi chiamò. «Lo sai che con questo te beccherai almeno mille punti, ve'?»
Aggrottai la fronte, la guardai confusa. «Di che cosa stai parlando?»
«Meno male che t'avemo incontrato, dovemo ringrazia' lo stronzo di quel negozio, sennò finivamo davvero per avecce una cimice come cognata. E pure poraccia e che non sa cucina'.»
Mi ritrovai a ridere. Se era tornata a scherzare sul suo desiderio ossessivo di farmi mettere col fratello maggiore, significava che si era ripresa abbastanza. «Perché non ne parli con Dante?» le suggerii a quel punto, e di nuovo lei aggrottò la fronte preoccupata. «Sono sicura... che non ti criticherà mai per questo. Lui e Dorian... sono molto preoccupati per te.»
«Ma so' maschi» biascicò con una vergogna che mai avrei pensato le avrei sentito in voce. «Mica le capiscono, 'ste cose.»
«Non c'è bisogno di capire una cosa... per voler stare accanto a qualcuno che la sta vivendo» risposi, e lei mi strinse con più forza le mani. «E anche se sono dei ragazzi... non significa che non debbano conoscere questi aspetti di noi ragazze, anzi. Come direbbe una gran donna...»
Il sorriso le si fece gigante. «Cioè io.»
«Un vero uomo è quello che non si scandalizza per queste cose, ma anzi prova a comprenderle per quel che può.»
Ridacchiammo insieme, ci rifletté su. «Giusto» concluse alla fine. «Così pure lo scassamaroni può capitte quando stai a soffrì per il ciclo, 'na volta che te trasferisci qua. C'ho da fargli 'na cerimonia de iniziazione col mio. Sangue chiama sangue, n'è così?»
Non ci potevo credere, persino in una situazione delicata e profonda come quella doveva per forza tirare in ballo il suo sogno di farmi diventare la loro cognata. «Non accadrà» la avvisai, ma il suo sorriso si fece solo più grande. «Hai degli assorbenti con cui cambiarti?»
Scosse la testa. «Me so' fottuta un rotolo de carta igienica e l'ho avvolto tutto attorno alla mutanda. È tipo pannolone de un poppante, me fa un po' strano, in effetti.»
Risi senza volerlo. «Molto bene, io ho degli assorbenti con me, ti posso lasciare il pacchetto. Sai come metterli?»
Storse un po' la bocca, un broncio adorabile. «Non basta schiaffarli sulla mutanda come i cerotti?»
«No, gli assorbenti non sono dei cerotti.» Dovetti trattenermi dal ridere di nuovo. «Vuoi che ti aiuti a metterli così impari a farlo da sola?»
«Non te farebbe schifo?»
«Perché? Sono una donna anche io, so bene com'è il ciclo.»
«Sì, ma è il sangue mio, mica tuo.»
«Ci sono cose molto più impressionanti del sangue del ciclo.»
«C'hai ragione, in effetti. Tipo i coglioni rotti de scopacimici.»
Sghignazzai. «Lascia stare tuo fratello e andiamo a metterci l'assorbente, ti va?»
Chinò lo sguardo sulle nostre mani strette tra loro, le mie attorno alle sue come fossero perle e i miei palmi i gusci con cui custodirle. «Thaty» mi chiamò, la voce di nuovo seria. «Quand'ho scoperto cos'era il ciclo e che prima o poi ce l'avrei avuto, me so' rattristata 'na cifra, perché avrei tanto voluto che ce fosse mamma con me per 'sto momento. Me so' detta che c'avrei pensato da sola, dato che il gemello mio coglioni e il fratello mio coi coglioni rotti hanno, appunto, tutti e due i coglioni e non so' femmine.»
Presi un grosso respiro, l'aria mi entrò dentro infettata con la sofferenza della sua voce.
«Però...» mormorò alla fine. «Ade' so' contenta, sai?»
La guardai sorpresa.
«Non avrei voluto nessun altro se non te, per 'sto momento.»
Per la prima volta da quando il mio mondo era crollato, ebbi l'impulso assurdo di abbracciarla.
Di abbracciare qualcuno.
Stringerlo a me forte, forte, fortissimo. Cullare la sua testa sul mio petto, avvolgerle il corpo, percepire il calore fresco e profondo di un essere umano tale e quale a me. Stringerlo così tanto che nemmeno se il mondo fosse finito, proprio in quell'istante, avrei potuto separarmene.
Ma restai ferma, terrorizzata sul bivio del tormento e della brama.
Da un lato il rintocco del 5 agosto, del mio giuramento a Dio, il mio segreto.
Dall'altro Dory e Dorian, i gemelli pestiferi, flagelli del demonio.
Non avrei voluto abbracciare nessun altro se non loro, per quel momento.
«Andiamo» dissi alla fine, sollevandomi in piedi. «Dante e Dorian sono preoccupatissimi per te. E poi... non volevi vedermi mentre infarcivo il tacchino?»
«Vero, vero» ammise e dopo qualche istante, scivolò dal letto e si mise a propria volta in piedi. La mano destra ancora stretta alla mia sinistra. «L'infarcitura del tacchino è sacra, soprattutto è sacro vede' Dante che se martella i coglioni perché vorrebbe infarcitte allo stesso modo ma non sa come fa'.»
«Pensa al tacchino, non ai vostri piani malefici per trasformarmi in vostra cognata.»
«Non te preoccupa', Thaty, m'assicurerò de raccontargli la storia così che invece che datte mille punti soltanto te ne dà almeno millecinquecento.»
«Cos'è questa storia dei punti?»
«Come dice una gran donna, cioè io, i punti so' lo specchio dei coglioni rotti.» Ci fu un attimo di silenzio. «Thaty?»
«Cosa c'è?»
«Alla mamma saresti piaciuta 'na cifra.»
«Era una mamma bellissima, Jane.»
«C'avrebbe aiutato a fatte scopa' Dante sicuro.»
Nota autrice
*Momento pippone-analisi*
Sto capitolo s'è concentrato su Agatha-Dory.
Sì, me disp, lo so che desiderate nel profondo che Dante riesca ad emergere dalla tragicità della friendzone in cui è stato ficcato (da parte di una che manco lo considera friend), ma ormai l'avete capito.
I gemelli so i miei eroi e anche loro hanno un'importanza fondamentale per Agatha.
Di tanto in tanto, nei commenti scherzo dicendo che i gemelli sono il primo e vero e grande amore de Agatha, ma se ci rifletto sul serio, non è più così uno scherzo.
Obv, non stemo a parla de pedofilia, sia chiaro.
Stiamo però parlando di due bambini/quasi adolescenti che sono stati i PRIMI in assoluto a difendere Agatha, proteggerla e volerla conoscere davvero, fottesega di quanto scopacimici non volesse.
I primi che hanno visto Thaty e non Agatha la figlia di Lawrence.
Quindi sì, Dante s'è fatto batte dai gemelli, ma oh.
Se lo merita.
Tornando a noi, ci sono molte questioni che vorrei presentarvi su sto capitolo.
Partiamo dalla prima metà, il momento in cui Agatha analizza le sue vecchie cotte e l'affetto che provava verso di esse, approfondendo anche la questione su PEZZEMMERD'.
Spero che so riuscita a farvi capire MOLTE cose su PEZZEMMERD' e il rapporto che aveva con Agatha, pur non dicendo molto sul suo conto.
Ma una questione importante è stata presentata.
I famosi dettagli.
Benché infatti Agatha parlasse del bouquet, ci è chiaro che PEZZEMMERD' aveva una grande e immensa capacità di scorgere subito i dettagli delle cose, non solo dei fiori, ma SOPRATTUTTO della figlia.
Quindi, se ci immedesimiamo come Dante sta a fare ora in Detective Conan, possiamo giungere a una conclusione mucho interessante.
Cioè che la capacità e la tendenza di Agatha a badare ai dettagli che nessuno scorge lei l'ha appresa/ereditata/imparata proprio da PEZZEMMERD'.
Non è un caso che me so inventata sul momento, ma una questione importante che avevo deciso sin dal principio.
Il motivo per cui però finora non è emersa però è evidente:
Nei primi capitoli, Agatha fa DI TUTTO E DI PIÙ per non pensare/parlare/riflettere su PEZZEMMERD', cosa che adesso non può/vuole più fare, visto tutto quello che le sta succedendo.
Ci è chiaro che PEZZEMMERD' non ce stava con la testa, era proprio ossessionata da sta dannata volontà de IDDDDDIO, ed era proprio con l'attenzione ai DETTAGLI che esprimeva tale ossessione.
E qui Agatha ci spiega anche PERCHÉ lei si è sempre riguardata bene dal correre il rischio di innamorarsi sul serio, rimanendo perciò sempre sullo stadio "cotta" o al massimo "cotta stratosferica".
Cioè perché non voleva diventare come PEZZEMMERD', oltre che perché convinta che nessun Masculoh mai la ricambierebbe.
Quindi ci è chiaro che Agatha è sì cosciente che PEZZEMMERD' fosse per l'appunto na pezzemmerd', ma non è capace di distinguere del tutto la sua figura dalla propria, in qualche modo nella sua testa le due si sovrappongono.
Sembra un'ossessione strana, se ci riflettete, ma non così tanto in realtà. Per quanto sia brutto da dire, la nostra società e anche noi per istinto abbiamo sempre la sensazione che le nostre origini parlino ANCHE di noi, se poi abbiamo subìto un plagio mentale come Agatha ancora di più.
E qui Agatha giunge a un'altra riflessione, cioè:
Orange Boy.
Coscientemente si sta a rendere conto che Dante sta prendendo una grande importanza nella sua vita e nel suo cuore, non tanto perché bono, Ber Masculoh e proprio il suo tipo, quanto perché lui sta usando tutti i dettagli su di lei per avvicinarsi sempre di più.
Quei dettagli mai scorti da nessuno finora e SE scorti (da PEZZEMMERD') solo usati per farle del male.
Ma lui li usa per farle del bene, per renderla felice e aiutarla.
E diciamocelo, con la sua ultima, raffinatissima poesia degna de Nobel della letteratura (Me ne sbatto i coglioni 🎼🎻) e soprattutto il mini cactus, Dante ha fatto NA CIFRA de punti.
Quanti?
*Rullo di tamburi*
+ 850
Avete letto benissimo. Non è un sogno. Non è un miracolo. Non è caponata mal digerita.
Dante ha fatto NA CIFRA de punti.
E non solo per il mini cactus, ma anche perché:
"Io ho visto il fiore"
"le cose migliori so sempre le più faticose per questo tocca lottare"
"Non me sto zitto e fermo mentre tu fai appassì il fiore"
"Te lo farò vedere pure a te il fiore"
(So pervertita io o sto fiore me sembra trasformasse sempre più in una sorta de simbolo zozzo?)
Quindi sì.
Sta a fa' progressi, il nostro poro Orange Boy.
Diciamo che, nello studiare da sola il mini cactus, digerendo quanto successo con Dante, Agatha si può dire sta entrando nella fase:
Cotta.
E la prima parte del capitolo è fondamentale perché lei stessa si sta rendendo conto della cosa.
E non solo.
Si sta rendendo conto anche che questa non sarà una cotta come le altre che ha avuto, ma molto più profonda e matura, capace quindi di trasformarsi nel sentimento proibitoh:
L'AMMMOREH.
E muffins, sembrerà na sciocchezza, ma è na cosa ASSURDA, un'evoluzione INCREDIBILE da parte de Agatha.
Sta indagando su se stessa, sta provando ad aver più coscienza di sé, in qualche modo sta cercando di non farsi corrompere dal plagio della madre e del mondo e di riottenere una sorta di lucidità per capire sé stessa e quel che prova.
Rispetto a com'era ai primi capitoli, è un passo IMMENSO.
Andiamo alla seconda metà, cioè Dory.
La mi scelta di rendere i gemelli maschio e femmina è stata anche per questo, per parlare del traggggikkkoh momento vissuto da tutte noi fanciulle, il nostro TRAUMAH da DDDDONNNNEH, cioè:
Ugo (cit. Cassandra di Teorema XY)
Er mestruo.
Il conte Ugolino.
Barbagianni.
Come minchia lo volete chiamare.
Er nostro più grande nemico e al contempo alleato de noi donne, che odiamo quando arriva, ce caghiamo addosso quando NON arriva.
Dory e Dorian sono due bambini che stanno per entrare nell'adolescenza, quindi era inevitabile che Dory, l'unica femmina della famiglia, avrebbe affrontato una simile situazione e appunto perché la sola femmina della famiglia si sarebbe sentita ancora più a disagio. Capita spesso, in famiglie con un solo membro femminile.
La questione mi serviva sia per mostrare che i gemelli non sono perfetti, guerrieri sempre impavidi e fantastici, ma anche bambini con i loro timori comuni a noi tutti, e soprattutto mi serviva perché Agatha, pur non volendolo, pur dicendosi di non farlo, trova somiglianze tra la sua situazione e quelle dei gemelli.
In particolar modo quella di Dory ora.
Dory che ha paura del cambiamento, di crescere e diventare un'altra persona, proprio come suo padre, solo perché, come lui, sta cambiando.
Agatha che è convinta di essere come suo padre perché come lui ha un passato terribilmente simile e doloroso.
E il fatto che Agatha per consolare Dory rielabori le parole che proprio Lawrence le disse anni fa e poi in carcere pochi capitoli fa È IMPORTANTISSIMO.
Perché dimostra l'importanza che Lawrence ha nel cuore di Agatha e che NON SEMPRE causa solo dolore, pur essendo lui un pezzo di merda bastardo infame e assassino stronzo di migliori amiche.
Perché per Agatha quando Lawrence le ha detto quelle cose ERA IL SUO PAPÀ, non l'assassino seriale.
E le ha dato la forza di consolare Dory e anche, in parte minuscola, sé stessa.
È giusto? È sbagliato?
Non saprei, sinceramente non me la sento di definirlo.
C'è e basta.
Ci tengo anche a farvi notare che per questo capitolo HO RIPRESO alcune frasi dei capitoli precedenti in merito al rapporto Agatha-Lawrence per quello Agatha-Dory.
"Fu la prima goccia d'amore"
"Generata proprio da lui e per lui"
E non è un caso.
Perché a dare la spinta ad Agatha di sostenere Dory, sono state proprio le parole di Lawrence.
E ad amarla e a volerle bene, SORRIDENDOLE, dopo QUATTRO ANNI DI TOTALE SOLITUDINE E ODIO (come successo quando si trasferì da Lawrence) sono stati i gemelli - in questo particolar caso Dory.
Questo non significa che Agatha adesso SA di non essere come il padre e PEZZEMMERD', ma senz'altro sta assumendo più consapevolezza, pur non volendolo.
Ok, credo de avere detto tutto, semmai aggiungo dopo.
Ah, SPOILER del prossimo capitolo:
Agatha: +2000 (agli occhi di Dante)
(Dory s'è data da fare)
E confermo quanto detto da Dory:
Jane avrebbe fatto DI TUTTO E DI PIÙ per avere Agatha come nuora (come il figlio maggiore, amoreggerebbe alla grande per lei)
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