Storia di un fiore e le sue spine

Si chiamava Lucas George.

Lucas George, il papà di Betsy.

Il solo che si era sempre rifiutato di condannarmi.

Il solo che si era inalberato coi giornalisti e con tutti i vendicatori nei miei confronti, colui che davanti alla domanda «Pensa che Agatha Reid sia coinvolta nell'omicidio e il rapimento di sua figlia, signor George?» aveva risposto alle telecamere puntate su di lui con sguardo furibondo: «Sapete che penso, figli di puttana? Che ci sono le fottute prove che dimostrano che ha fatto tutto Lawrence e che voi siete solo dei miserabili bastardi che vogliono guadagnare soldi sulla sofferenza della mia famiglia e quella di Agatha. Adesso levatevi dal cazzo, viscide bestie, o chiamo la polizia.»

Una parte di me aveva sempre voluto sperare che lui credesse davvero nella mia innocenza, ma sapevo che era praticamente impossibile. Nessuno al suo posto lo avrebbe fatto, le probabilità che mi stesse difendendo solo perché così io non denunciassi Joanne per le sue continue minacce erano fin troppo elevate.

Lo stesso, però, nell'ascoltare le sue parole e nel leggere quelle che mi mandava ogni volta non potevo che gioirne, per poi dilaniarmi dalla vergogna per essere stata felice di una cosa del genere, quando quel padre distrutto non stava facendo altro che tentare per quel che poteva di mantenere in piedi ciò che gli era rimasto della sua famiglia dopo che io e Lawrence gliel'avevamo smembrata.

La moglie che amava.

Di impedire a tutti i costi di perdere anche lei.

Lucas George, il papà di Betsy, sessant'anni inoltrati, con boccoli sale e pepe che un tempo erano stati rossi come quelli della mia amica, una statura esile e piccolina proprio come moglie e figlia, un naso aquilino e gli occhi celesti, il viso tappezzato da rughe e centinaia di lentiggini, una barba folta a coprirgli sempre la mascella affilata.

Era un uomo particolare, molto particolare: di per sé aveva un carattere mite e pacato, di quelli che raramente si incontravano di quei tempi, capace di mantenere serenità e gentilezza anche nei momenti più stressanti e pericolosi. Aveva sempre un sorriso accennato sulle labbra, l'aria di chi era capace di godersi ogni goccia di tempo che gli scivolava addosso apprezzandola al massimo ed erano rare, rarissime, le occasioni in cui si alterava.

Ma quando quelle occasioni avvenivano, si trasformava in un'altra persona.

Il linguaggio di solito semplice diventava grezzo al massimo, tirava fuori parolacce e bestemmie che avrebbero potuto far sanguinare le orecchie anche al più volgare marinaio del mondo, il suo sorriso leggiadro scompariva sostituito da un telaio di rughe solcate dall'ira, gli occhi celesti si adombravano, scuriti dalla collera.

E proprio come sua figlia, anche lui era una di quelle persone che si inalberava sempre solo e soltanto quando a venir offese erano i suoi affetti più cari: Betsy, Joanne... ed io.

Mi era sempre piaciuto, Lucas, sin dal nostro primo incontro, quando Betsy, alle elementari, mi invitò a casa sua. Non era un uomo di tante parole, lui, ma aveva una cordialità innata che lo rendeva davvero affascinante ai miei occhi, diversa da quella di mio padre che invece la condiva con un grande tono umoristico e continue battute per farmi ridere.

Era il solo che difendeva sempre Betsy per la sua totale e assoluta mancanza di voglia di studiare, persino contro la moglie stessa, colei che si lamentava del problema più di me. Litigavano in continuazione per questo, Joanne si indignava come non mai davanti alla serenità con cui il marito accettava i pessimi voti della figlia.

Capitò un'occasione in cui io fui presente a uno di quei litigi. Avevo sedici anni inoltrati ed ero andata a casa George durante il pomeriggio per, ovviamente, costringere Betsy a fare i compiti.

Eravamo in salone, durante la pausa tè pretesa da Betsy come scusa per smettere di studiare e a che io le avevo concesso solo perché era riuscita a finire il progetto di scienze. Seduti al grosso tavolo in legno di quercia al centro della sala, io al fianco di Betsy, Joanne e Lucas davanti a noi dall'altro lato, sorseggiavo la mia tazza di caffè e proprio in quel momento Joanne e Betsy si ritrovarono a litigare di nuovo per il suo ultimo test in chimica.

Aveva preso, ovviamente, una F.

«Sai cos'ha fatto tua figlia?» tuonò Joanne, il viso corrucciato al massimo per l'oltraggio mentre fissava il marito alla sua destra. «Dato che non sapeva le risposte, si è messa a depennarle una dopo l'altra seguendo l'ordine alfabetico: A-B-C-D! Ogni volta! Ogni! Volta!»

Lucas rischiò di strozzarsi con il tè, ma non per lo stupore, bensì per trattenere le risate.

Quella era un'informazione che Betsy si era riguardata bene dal darmi, e infatti, quando la udii, mi voltai a fissarla stupefatta, la bocca aperta. Di risposta lei mi sorrise compiaciuta: «Volevo scoprire quante risposte avrei azzeccato facendo così.»

«Azzeccato?!» strillammo insieme io e Joanne.

«Cosa c'è?» ci domandò sconvolta, per poi allungare la mano sul vassoio al centro del tavolo, dove si trovavano i biscotti alla crema che avevo preparato per loro quel giorno. «È un metodo come un altro, anzi! Un vero e proprio esperimento! Come gli scienziati! Lo sapete che la maggior parte delle scoperte più importanti al mondo sono state fatte in questo modo o anche a casaccio? Ad esempio, il microonde è nato perché un ingegnere che stava lavorando sui radar si accorse che il cioccolato che aveva in tasca si era squagliato tutto! Figata pazzesca! Oh! E lo sapete che il viagra era nato come farmaco per migliorare la circolazione sanguigna nel cuore, ma poi la gente che lo provava continuava ad avere un'erezione pazz-»

«Tu ti studi com'è nato il viagra ma ti rifiuti di studiare la benedetta Rivoluzione Americana?!» strillò disperata Joanne, gli occhi fuori dalle orbite. Non potevo biasimarla, io ero più che concorde con lei.

«Ehi! È uno studio come un altro! E poi mica mi sono studiata il viagra... soltanto» aggiunse poi, con sempre più vanto, e Lucas si strozzò di nuovo col tè. «Tipo, sentite qua che figata immensa: il vaccino è nato perché un tizio aveva visto che le donne che mungevano le mucche non si beccavano mai il vaiolo perché si erano già prese quello bovino e così-»

«Era questo che mi dicevi di star studiando, quando ieri ti ho chiamata per assicurarmi che stessi facendo i compiti di arte?» la bloccai, incollerita, Betsy sussultò sulla sedia, evase il mio sguardo più che poté, concentrandolo di nuovo sui biscotti.

«Il vaccino è importante, sorella mia, molto importante, non vorrai diventarmi una Karen che è convinta che renda autistici, vero? Guarda che è stato comprovato più e più volte che non c'è alcuna correlazione tra-»

«Hai preso una F! Una F! Questa è la quinta e siamo solo al secondo mese del primo semestre!» la bloccò di nuovo Joanne, Betsy fece una smorfia. «Lucas, puoi dire qualcosa a tua figlia, per favore?»

Lucas, ancora preso a tossire a causa del tè, fissò la moglie per qualche secondo, per poi tornare a guardare Betsy. E dopo, con la sua voce mite e pacata di sempre, le domandò sorridente: «Sapevi che le mucche hanno tre prestomaci e uno stomaco?»

Lo strillo acuto di Joanne durò per almeno un minuto.

Era così che si divertivano loro, quello era il modo con cui erano diventati una famiglia: Joanne che rimbeccava la figlia ad ogni secondo e Lucas che si divertiva a vederle battibeccare in quel modo. Davanti alle continue lamentele della moglie sul fatto che sua figlia era una cretina che mai avrebbe preso il diploma, diceva sempre: «Un diploma non garantisce l'intelligenza, amore mio.»

«No, ma garantisce un lavoro!»

«Ma se ha sempre detto di voler ereditare il nostro bar!»

«E chi glieli farà i conti per mandarlo avanti, se non studia come riuscire a farli a scuola?!»

«Agatha» rispondeva allora Betsy serissima, le braccia incrociate al petto e lo sguardo fiero nel dichiarare il modo in cui mi avrebbe sfruttata palesemente. «Le fa schifo la matematica, ma comunque sa sempre risolvere qualsiasi problema, quindi ho la sicurezza massima che non farò fallire il locale.»

Davanti alla sua faccia tosta, Joanne iniziava a gridare di nuovo come una matta e a inseguirla per tutta la casa, continuando a lanciarle contro qualsiasi tipo di peluche e cuscino trovasse in giro: «Come puoi sfruttare così la povera Agatha!? Non ti vergogni neanche un po'? Non è così che ti ho cresciuta, disgraziata! Non sei degna di essere mia figlia! Diseredo te e adotto lei subito!»

«Che donna crudele che sei, mamma! Agatha è ricca da far schifo, noi siamo poveracci! Vuoi davvero privarla di tutti i soldi del padre solo per farmi un dispetto? Che infantile che sei!»

«Infantile? Io sarei infantile?! Chi è la cretina che si è beccata una nota di demerito perché al test di letteratura ha scritto la poesia: "Oh Maria, Maria, per incontrarti l'erba è la sola via"?»

«Ehi! È vero! L'erba fa veri e propri miracoli

«È blasfemia!»

«Non capisci l'arte, mamma, secondo me invece Dio ha apprezzato. Sicuro me mette in paradiso anche se sono atea, sono troppo bella e simpatica.»

«Paradiso? Paradiso?! L'inferno è il solo posto che meriti e sarò io a mandartici ora!»

E Lucas assisteva a tutto ciò ridacchiante, per poi, ovviamente, beccarsi a sua volta un cuscino in faccia dalla moglie.

Una sola volta mi capitò di vedere Lucas adirato come non mai e non nei confronti di Betsy e nemmeno nei confronti miei o quelli della moglie.

Nei confronti di Benjamin.

Il ragazzo che a tradimento aveva provato a baciarmi a scuola, durante la pausa pranzo, pur consapevole della mia fobia, solo per riuscire a vincere una scommessa fatta coi suoi amici. Betsy glielo aveva impedito dandogli un calcio volante che l'aveva devastato e così eravamo finiti tutti davanti alla porta dello studio della preside, in attesa che i nostri genitori arrivassero per sistemare quella situazione.

Lucas fu il primo ad arrivare.

Io e Betsy eravamo sedute sulle sedie attaccate alla parete dell'anticamera che anticipava lo studio della preside, Benjamin era seduto al muro opposto, e io stavo cercando di trattenere la mia amica dal continuare a picchiarlo, quando già gli aveva gonfiato metà faccia così tanto da renderlo irriconoscibile. A badare a noi solo un'altra insegnante, la professoressa Richards, che si assicurava assieme a me che la mia amica non strappasse il cuore a mani nude a Benjamin.

Quando Betsy raccontò tutto a Lucas su quanto successo, per la prima volta scorsi l'ira pura scavare la fronte di Lucas, illuminargli gli occhi, e per qualche istante temetti che fosse alterato con me, per aver messo nei guai in quel modo la figlia, ma poi, con mia grande sorpresa, lui si rivolse a Benjamin, ancora intento a posarsi la busta di ghiaccio contro la metà del viso sfondata dal calcio volante.

«Ehi, ragazzino» lo chiamò, con un tono così violento e rancoroso da farmi rabbrividire, «non sei degno dei coglioni che hai tra le gambe, mia figlia avrebbe dovuto spaccarti anche quelli, non solo la faccia.»

La bocca mi si spalancò per lo stupore, Betsy, accanto a me, sghignazzò malevola.

Benjamin sgranò gli occhi, il destro ancora maciullato, e fece per difendersi, ma fu interrotto da Lucas: «Cos'hai, tre anni, che pensi che le ragazze siano degli oggetti su cui scommetterci sopra? Che ti diverti a fottertene di una fobia in questo modo, solo perché vuoi far vedere ai tuoi amici dementi di avercelo più grosso di tutti? Sai invece che dimostri così? Che non solo ce l'hai così microscopico che manco ti si vede, ma che il tuo cervello nemmeno esiste, si è annientato del tutto per la tua deficienza. Quindi non sei neanche più un uomo, tu, ormai, sei solo un cazzetto minuscolo che vaga nel vuoto e senza più motivi di stare al mondo.»

Betsy, accanto a me, applaudì con forza, così tanta che per poco non sanguinava dai palmi: «Papà, ecco perché quella rompiballe di mamma ti ha sposato! Lo sapevo io che c'era un motivo! Lo sapevo!»

Lucas passò il resto della giornata a insultare Benjamin e poi anche i genitori di Benjamin, che provarono in ogni modo a difendere il loro figlio, ma fu poi sostenuto da mio padre stesso, il quale, benché non volgare come lui, fece subito capire che non avrebbe mai più tollerato una simile situazione e pretese delle scuse per me.

Quella sera stessa, davanti alla notifica scolastica per la sospensione di Betsy di due settimane, causata dal calcio volante, Lucas la accompagnò a comprare la cornice con cui appenderla in camera come trofeo.

L'unica situazione in cui Joanne, invece che insultare marito e figlia come al solito, si ritrovò pienamente d'accordo con quei due e ordinò loro di comprare la cornice più bella di tutte.

Questo era Lucas George, un uomo sì di poche parole, ma che sempre era stato fiero di Betsy e così di me, sempre mi aveva difesa, persino adesso che non lo meritavo, persino adesso che aveva perso la figlia proprio per colpa mia.

Nonostante non lo meritassi, e questo lo sapevamo bene sia io che lui.

Quel mattino, quando lessi la mail che mi aveva mandato, un brivido di freddo mi devastò la schiena, inducendomi a sedermi sul bordo del letto per impedirmi di crollare a terra.

Lucas voleva parlarmi?

Perché?

Non ne vedevo motivo, non avevamo più nulla da dirci, ormai, ed ero stata ben attenta a rassicurarlo sul fatto che mai e poi mai avrei sporto denuncia nei confronti di Joanne.

O forse...

Era proprio per lei?

Negli ultimi tempi aveva smesso di scrivermi, e questo proprio non sapevo spiegarmelo. Era il periodo più lungo di silenzio che ci fosse mai stato da parte sua, da quando il nostro mondo era crollato.

Forse le era successo qualcosa?

Forse aveva avuto un malore? Forse... si era ammalata?

La preoccupazione mi travolse, le mani iniziarono a tremare così tanto che rischiai di far schiantare il cellulare a terra.

No, non era possibile.

Se Joanne fosse stata male in modo così grave, la notizia sarebbe dilagata subito sul web, non c'era possibilità che i media non ne avrebbero approfittato per intascarsi qualche altro soldo, specie ora che la sentenza di papà si faceva sempre più vicina.

Eppure, lo stesso...

Presi aria dalla bocca aperta, provando a mantenere più lucidità possibile, mentre rileggevo ancora e ancora le parole di Lucas, il padre della mia migliore amica, colei che avevo ucciso, nella speranza che svanissero come se non ci fossero mai state.

Forse era arrabbiato con me, perché aveva capito che mi ero trasferita per seguire papà.

Forse voleva dirmi che adesso anche lui era stanco di difendermi, che davvero meritavo tutti quegli insulti da parte di Joanne.

Ed era così, era vero, ma lo stesso...

Non avevo il coraggio di rispondergli, non ce la facevo proprio.

Il solo pensiero di riascoltare la sua voce, quella stessa voce con cui mi aveva difensa contro Benjamin, mi induceva il vomito, conati veri e propri a scoppiarmi in gola e che a stento riuscivo a rimandare giù nello stomaco.

Cancellai la mail, scrutai quella che avevo ricevuto subito prima.

Signorina Reid,

Sono Rebecca Price, una giornalista freelance che-

Cancellai anche quella.

Quella giornalista era da mesi che mi tampinava con le sue maledette mail, non importava quante volte la bloccassi, creava sempre un nuovo profilo per scrivermi. Ero persino andata a cercarla su internet per vedere che razza di articoli scrivesse e non mi ci era voluto molto per notare il modo in cui modulava parole e punteggiatura per spremere fino all'ultima goccia i frutti monetari delle tragedie che descriveva, articolando la verità fino a distorcerla in maniera malata e renderla un gossip di paese e non un'agonia che aveva distrutto la vita di troppe persone.

Sospirai, posai il telefono sul comodino al fianco del letto e mi passai le mani nude sul viso, provando a calmarmi.

Non sapevo che fare, non lo sapevo più.

Di volta in volta che andavo a trovare mio padre, i quesiti non facevano che aumentare, nonostante tutte le risposte che mi dava, e così i dubbi sulla mia natura ed esistenza, sulle mie origini generate dal male più antico e profondo mai esistito a quel mondo.

Posai lo sguardo sull'armadio davanti a me, separato soltanto dal tavolino al centro della sala. Appesa al suo pomello d'ottone, su una gruccia, si trovava la giacca di jeans di Dante, quella che lui indossava sempre e con cui mi aveva ricoperta durante il mio attacco di panico dopo l'abbraccio con Dorian.

Non avevo ancora avuto occasione di restituirgliela e lui non l'aveva richiesta indietro, per qualche strana ragione. Mi ero detta che l'avrei lavata quel giorno per poi ridargliela domani, ma continuavo a rimandare il momento e proprio non sapevo spiegarmi il perché.

Mi sollevai in piedi, la raggiunsi con passo esitante, ne sfiorai il tessuto con le mani.

Era una giacca di jeans come tante, non aveva nulla di particolare se non la dimensione imponente delle tasche, per il resto era uguale a tutte quelle che si vedevano in giro: un blu intenso, bottoni bianchi e un colletto piegato.

Eppure... a me sembrava unica, inimitabile, come mai mi era capitato di scorgerne prima di allora, e di nuovo questo non aveva senso, perché al liceo praticamente il 99% degli studenti ne indossavano di simili.

Immaginai questo fosse dovuto al fatto che quella era stata la prima volta che un ragazzo mi rassicurava in quel modo, che invece di guardarmi spaventato e confuso davanti alla reazione violenta della mia fobia, subito si era preoccupato di confortarmi donandomi l'unico calore potessi ricevere davvero in mancanza di quello fisico.

Detestavo ammetterlo, ma se un evento del genere fosse capitato nel periodo precedente alla scoperta su mio padre, di sicuro mi sarei innamorata follemente di Dante con quel semplice gesto da parte sua. Ero una persona semplice, in fondo, e lui, inoltre, era in tutto e per tutto il mio tipo, la Agatha Fangirl di una volta sarebbe subito sprofondata in una cotta stratosferica nel sentirsi quella giacca addosso e scoprire che era stato lui a dargliela.

Ma era diverso, ora, troppo diverso, perché ciò potesse accadere di nuovo.

Non potevo più permettermi sentimenti del genere, né correre il rischio di viverli in segreto come facevo una volta.

E allora... perché non riuscivo a smettere di toccare quella giacca? Perché continuavo a sfiorarne il tessuto coi polpastrelli?

Non lo sapevo più, non mi capivo più.

La sfilai dalla sua gruccia, stringendola tra le dita e sollevandola in aria davanti a me per guardarla meglio: era davvero gigantesca, ma ciò non mi sorprendeva, vista la statura di Dante, uno dei pochi ragazzi che batteva alla grande la mia altezza già di per sé sproporzionata.

Il ricordo del fuoco pacato che mi aveva rivestita insieme a quella giacca, andando a sopperire al gelo che mi stava scuoiando viva per colpa della fobia, fece pulsare il cuore con un'intensità tale che non seppi dirmi se stessi soffrendo o al contrario gioendo per quella memoria.

Ciò che era certo era che stavo facendo tutto quello che mai avrei dovuto fare: indossarla.

Solo per un istante, solo per mezzo secondo.

Solo per poter fingere di nuovo di poter abbracciare qualcuno.

Strano ma vero, mi andava anche un po' larga, le maniche mi coprivano le mani fino a metà dorso ed era...

Era calda.

Davvero, davvero calda.

Come la prima estate dopo secoli d'inverno.

Un'energia quasi disumana, tanto mi investiva e penetrava la pelle, andando a dilagare nei capillari, le vene, i nervi e i muscoli ancora tesi e pulsanti dal panico; un tepore così magnifico da voler illudermi per qualche secondo di star davvero abbracciando qualcuno, un essere umano vero e proprio, fatto di carne, emozioni e sofferenze.

Mi mancava anche quello.

Mi mancava tantissimo... il contatto umano.

La solitudine che vivevo da anni mi aveva scavata a fondo non solo nella vita, ma anche nel corpo. Più non ricordavo neanche cosa significasse percepire la pelle di un'altra persona, sentire le ossa e i muscoli che si muovevano sotto di essa, il brivido leggero che ti attraversava quando il suo respiro andava a levigarti la carne, le spinte, i pizzichi, le strette di mano.

Anche solo due mignoli legati tra loro in una promessa eterna d'amicizia e perdono.

Una volta, Betsy mi aveva detto che secondo lei la vita di una persona non è che un filo che s'intreccia ai fili degli altri, senza volerlo, a volte per sempre, a volte per brevissimi incontri, a malapena memorabili, andando a creare così una ragnatela di legami di cui eravamo per la maggior parte del tempo incoscienti.

Io, però, ne ero cosciente eccome.

Avevo sentito tutti i fili che si erano scuciti dal mio uno ad uno, la violenza rovinosa con cui si erano tagliati da soli pur di non dirsi più legati a me, mi ero sentita un fiore che sanguinava e soffriva ad ogni suo petalo che veniva strappato.

E adesso, uno solo me ne era rimasto.

Un unico filo a cui ero appesa come un pendolo.

Quel nastro di tanti anni prima, infiocchettato ai polsi di entrambi.

Papà.

Il 5 agosto... anche quel filo si sarebbe scucito.

Ed io sarei precipitata.

Nulla più mi sarebbe rimasto.

Mi strinsi tra le braccia e chiusi gli occhi per qualche secondo.

Non era ancora il momento per pensarci, era troppo presto.

Chinai lo sguardo su di me, sui bottoni bianchi della giacca.

Adesso, con questo, non ho più alcuna intenzione di perdere, per nessuna ragione al mondo.

Aggrottai la fronte, ricordando la voce e il tono con cui Dante mi aveva fatto quell'affermazione, l'ennesima dichiarazione su come mi avrebbe impedito a tutti i costi di isolarmi, e mi domandai perché diavolo non riuscissi proprio a preoccuparmi per essa, quand'era evidente che avrei dovuto eccome.

Proprio non riuscivo a comprenderlo, quel ragazzo. Chiunque sano di mente, dopo avermi vista in quelle condizioni, avrebbe fatto di tutto e di più per allontanarmi dalla sua vita, invece lui aveva espressamente detto che non mi avrebbe più dato modo di rinchiudermi nella mia bolla di solitudine e sofferenza.

E il problema era che l'aveva enunciato con le sole parole che avrebbero potuto ridestare Agatha Fangirl, le stesse per cui lei smaniava e amoreggiava come una scolaretta quando le leggeva nei libri tanto insultati da Betsy.

Mi tolsi in fretta e furia la giacca, la rimisi sulla sua gruccia.

Quindi era lei la causa di tutto.

Il motivo per cui non riuscivo a preoccuparmi di quella minaccia, pur andando contro il mio desiderio di impedire che Dio punisse di nuovo chi mi si avvicinava. Il motivo per cui anziché vederla come la minaccia che era, volevo quasi lludermi fosse una vera e propria dichiarazione d'amore come quelle che leggevo nei dark romance.

Agatha Fangirl.

Non ci potevo credere, era capace di riemergere persino in una situazione disperata come quella?

Non potevo minimamente tollerarlo, per nessuna ragione al mondo.

Quanto successo tra me e lui era stato un evento casuale, dovuto più alla sfortuna che ad altro, e di certo Dante non aveva avuto secondi fini, quando mi aveva confortata con la sua giacca; ormai lo sapevo: benché con un carattere altamente criticabile e infame, lui non era una persona malvagia, aveva provato pietà per me, per questo aveva voluto aiutarmi in quel modo.

Ma non c'era possibilità di altro.

Aveva visto cosa comportava la mia afefobia, aveva visto quant'ero malridotta, aveva visto che orrore diventavo, quando toccavo qualcuno per davvero.

Nessuno sano di mente si sarebbe buttato in una relazione del genere, e Dante era tutto tranne che scemo, a discapito di quanto i gemelli affermassero fosse coglione.

Conoscevo bene il mio problema, la mia afefobia, così a fondo da poter fare la lista di tutte le conseguenze che causava non solo a me, ma anche a chi mi circondava, ad occhi chiusi. Ero stata testimone più e più volte del timore e lo sconcerto che provocavo in chi veniva a conoscenza della mia situazione e realizzava appieno l'immensa problematica che portava con sé.

Gli occhi smarriti, quasi spaventati, lo sguardo di chi era evidente stesse pensando "Meglio non farsi coinvolgere troppo", specie quelli dei ragazzi. Quando mi guardavano, quando scrutavano i miei guanti, non vedevano più una ragazza qualunque, ma una vera e propria trappola di fatiche e dolori dentro cui sarebbero finiti incastrati tra patimenti e strazi continui.

Il vero e solo motivo per cui non ero mai stata una vittima di bullismo era perché, a scuola, tutti quanti temevano Betsy e i suoi calci volanti, l'unica eccezione era stato proprio Benjamin e anche per merito della sua faccia sfondata per metà gli studenti si erano riguardati bene dal correre il rischio di fare la sua stessa fine. Così avevano cercato di mantenersi cordiali con me, ma sempre erano stati ben attenti a non avvicinarsi troppo, a non trasformare quella cordialità doverosa in affetto sincero.

E io glielo leggevo negli occhi, il modo in cui la mia afefobia li spaventava.

E quando non glielo leggevo, li sentivo, in quei giorni in cui Betsy non era al mio fianco ed io rimanevo da sola a scuola.

Tu te la faresti mai, ad Agatha Reid, amico?

Stai scherzando? La mia vita è già incasinata di suo, ci manca solo che ci aggiungo una con problemi del genere. Non si può manco dire che sia chissà che bellezza, almeno compenserebbe in qualche modo la fatica, ma no, neanche quello.

Vabbè, però è alta, dai.

Appunto, amico. È una gigante che non puoi nemmeno sfiorare con un dito nudo che subito ti va in panico totale, non c'ha un minimo di grazia. Credimi, per situazioni del genere non ne vale la pena di dannarsi così, meglio lasciarle bollire nel loro brodo e non ficcarcisi in mezzo. Sono un casino, quelle come lei, più ci stai alla larga, più stai sereno, dai retta a me.

Un casino.

La definizione mi calzava a pennello, in effetti.

Inspirai ancora, mi allontanai dalla giacca, indietreggiando per guardarla un'ultima volta.

Vincerò io, che ti piaccia o no, e vincerò a qualsiasi costo.

Cercai di mandar giù la smania e al contempo la preoccupazione che mi stavano arroventando la gola.

Non era importante, ormai.

Presto o tardi, comunque, anche lui e i gemelli se ne sarebbero accorti.

Non esistevano vittorie con me.

Io ero e sarei rimasta per sempre un casino.

Troppo disfunzionale perché ne valessi la pena.






Mamma?

Cosa sta succedendo?

Non sento niente, c'è solo un sibilo acuto, e mi fa tutto male, mi fa tutto così male che non sento più e non respiro più e non provo più.

Vedo solo confusione, la luce del giorno, ma tutto è offuscato.

Mamma?

Mamma, dove sei? Stai bene, mamma?

Ah, che succede? Il mondo gira tutto o sono io a girare? Non lo so, mi sa che perdo sangue da qualche parte, ma non capisco da dove, è tutto bagnato e tutto confuso.

Non eravamo in macchina?

Mamma?

Oh, sei qui. Che ti succede? Sei un po' strana, mamma, perché sei tutta colorata di rosso?

Mamma?

Ah sì, vedo i tuoi occhi. Verdi. Fumosi. Mi stai guardando, mamma, e io sto guardando te.

È la prima volta che lo facciamo in questo modo, senza bisogno dello specchio.

Allora... stiamo morendo? Quindi... posso dirti la verità! Finalmente posso dirtela, mamma!

Mamma?

Non riesco a capirti.

Un momento...

Perché muovi le labbra così?

Perché mi fissi così?

Perché dici queste parole?

No, non è possibile.

Non è reale.

Tu non sei la mia mamma.

Bugiarda! Bugiarda! Bugiarda!

Non sei la mia mamma! Non sei la mia mamma!

Mia madre non è così!

Mi risvegliai senza fiato, costretta ad aprire gli occhi dai polmoni che supplicavano di ricevere un po' d'aria.

No.

No.

No.

Non era così.





Il patto con i due piccoli criminali incalliti prevedeva che avrei preparato loro il tacchino per il Ringraziamento solo se alla verifica successiva – quella di matematica – avessero entrambi preso una B.

Era stato un mio tentativo di spronarli al massimo per quel compito, nonostante il mio lato infame fosse più che consapevole del fatto che chiedere a due dodicenni che collezionavano insufficienze dai tempi dell'asilo nido di prendere una B fosse una missione impossibile.

Era il secondo motivo per cui avevo fatto quel compromesso: le possibilità che ottenessero un risultato del genere erano risicate al massimo, in fondo.

Ottennero una A.

Non solo una A.

Una A+.

Tutti e due.

Me la mostrarono più fieri che mai quel martedì pomeriggio stesso, porgendomi il loro compito, mentre eravamo ancora seduti al tavolo.

E lo fecero proprio quando Dante rientrò in casa, come a volersi assicurare che anche lui potesse assistere al modo in cui, di nuovo, venivo intrappolata nel loro piano malefico.

«Guarda, Thaty, guarda!» esclamò Dory, seduta davanti a me, mentre col gemello batteva ripetutamente l'indice sulla gigantesca A+ rossa stampata sui fogli. «Semo dei geni, ve'? Dei veri e propri matematici!»

«La prof è scoppiata pure a piagne quando ce li ha consegnati, non ce credeva manco lei!»

«È il potere delle tette stratosferiche, questo, ce scommetto i due coglioni rotti de Dante.»

«E soprattutto sei ricca, non lo dimenticare.»

La bocca mi si era spalancata da sola, davanti a quel traguardo che mai avrei creduto possibile: alla fin dei conti, i gemelli, anche con me, cercavano di studiare lo stretto indispensabile per evitare di litigare di nuovo con Dante, non riuscivo proprio a credere che si fossero impegnati in quel modo solo per un tacchino del Ringraziamento.

Sbattei le palpebre, afferrai i fogli, controllai i vari esercizi che avevano svolto. Mio Dio, era tutto vero! Erano stati eccellenti! Come diavolo era possibile una cosa del genere?

«La giovanotta sa compiere miracoli» udii Rosemary commentare alle mie spalle. Come al solito era intenta a guardarsi dal divano l'ennesima telenovelas di dubbio gusto e col doppiaggio più orrendo mai concepito al mondo.

Le guance mi bruciarono con forza, ero sia estasiata da quel risultato che preoccupata a morte. Avevo pensato di poter utilizzare quel compromesso più volte, anche in futuro, così da, almeno in parte, non cedere alle loro richieste e riuscire ad allontanarmi, ma adesso mi avevano dato prova che mai si sarebbero fatti fregare da me, nemmeno con lo studio che tanto detestavano.

Ero felice che finalmente si stessero impegnando in quel modo per la scuola, ma al tempo stesso non capivo perché ci tenessero così tanto che fossi proprio io a preparargli il tacchino, quando ne avrebbero potuto ordinare uno già pronto e più buono da qualsiasi macelleria.

«Come dicevi?» sentii Dante commentare con il suo tono sarcastico che ormai caratterizzava praticamente tutte le nostre discussioni. «Sei solo discreta, giusto?»

Un lampo di stizza mi attraversò dalla testa ai piedi. Voltai il capo per guardarlo, irritata come non mai. Era in piedi davanti alla penisola, poggiato ad essa di schiena, le braccia conserte al petto e... stava sorridendo di nuovo! Sembrava un cattivo della Disney dopo che era riuscito ad incastrare i protagonisti! Il suo ghigno era persino più grande di quello dei due piccoli criminali! La pelle sulle braccia mi si torse da sola per il fastidio e la voglia improvvisa di picchiarlo. «Non... Non vorrai ricominciare» gracchiai.

«Ricominciare cosa?»

«Lo sai bene... cosa.»

«Intendi quando te faccio nota' come te lanci da un aereo, senza paracadute, su un campo de cactus in fiamme?»

Un'onda di fuoco mi allagò tutto il viso. «Guarda che... qualunque insegnante... di ripetizioni... sarebbe capace... di fare la stessa cosa.»

«Ma davvero?» La sua voce si stava facendo sempre più sarcastica, avvertii la ormai proverbiale pulsazione di fastidio alle tempie, da settimane provocata sempre e solo da lui. «Curioso, il figlio del mi' capo riceve da anni ripetizioni ma mai ha ottenuto risultati simili.»

Non ci potevo credere! «Beh, digli... di trovarsi un altro... insegnante.»

«Ne ha già cambiati tre.»

La fronte mi si corrugò adirata da sola, mentre lo fulminavo con gli occhi. «Forse è lui... che non si vuole impegnare... Dory e Dorian... lo hanno fatto, quindi-»

«Capisco. Sposti il merito da te a loro, ade', è questa la tattica? Oltre che ai cactus in fiamme, aggiungo pure centinaia de istrici giganti.»

Avrei solo voluto appallottolare i due fogli del test e lanciarglieli in faccia, ma erano importanti per i gemelli, il loro vero e primo risultato, mi rifiutavo di rovinarglielo così. Il suo sorrisetto compiaciuto, però, mi rendeva difficile resistere a quella tentazione.

E la cosa più umiliante era che eravamo di nuovo lo spettacolo teatrale del resto della famiglia: Dory e Dorian stavano confabulando a loro modo più gongolanti che mai e Rosemary aveva tirato fuori da chissà dove il pacchetto di popcorn. Sospettavo li nascondesse in giro per la casa così da averli sempre a portata di mano.

Mi rifiutavo di continuare ad alimentare così le loro assurde fantasie romantiche. Era ora di levare le tende, subito, non potevo continuare a cascare così nelle sue provocazioni, non ero una bambina. «Beh...» gracchiai, «non importa. Adesso... devo andare... e preparerò il tacchino.»

«Capisco de nuovo, ora ricorri alla fuga, eh?»

Una nuova scarica di fastidio mi attraversò ogni cellula, anche la più minuscola, lo fissai travolta dallo sdegno. «Non sto... scappando» biascicai a fatica, la faccia sempre più vicina alla temperatura del sole.

Lui rimarcò ancor più il suo sorriso. Sembrava divertirsi un mondo nel vedermi in quel modo. «Ah, quindi non stai a scappare perché non sai come rispondermi?»

«N-Non c'è niente da rispondere» borbottai, imbarazzandomi sempre di più. Davvero, perché finivamo sempre su quell'argomento, noi due? «E ora... devo andare a...»

«A?»

Ebbi il bisogno impellente di buttarmi dalla finestra, ma eravamo al piano terra, non sarebbe servito a niente se non a farmi fare l'ennesima figuraccia. «Annaffiare le piante» buttai fuori a casaccio.

«Quali piante? Non ne hai in casa.»

Dio mio, com'è che si ricordava di tutte quelle cose inutili? «N-Ne ho comprata una... stamani» mentii.

«Ma davvero?»

Non mi credeva minimamente, glielo si leggeva in faccia, da quel maledetto sorrisone con cui mi provocava. Ma io non ci potevo cascare, assolutamente. Afferrai la borsa dallo schienale della sedia e me la issai sulla spalla. «Davvero» guaii vergognosa. «Mi piacciono le piante, non... è così strano.»

«Che genere di piante te piacciono?»

Aggrottai la fronte. Era davvero fissato ad averla vinta su tutto. «Le orchidee» mentii, tirando fuori la mascherina dalla borsa e mettendomela in viso.

Non era esattamente una menzogna, le orchidee mi piacevano, ma non ci andavo molto dietro.

Quelle che amavo io erano le piante grasse, i cactus. Ed era anche vero che ero quasi arrivata a comprarne uno, proprio quando eravamo al mercato, sabato scorso, una volta essermi ripresa dal panico post-abbraccio. Avevo scorto sul bancone della bancarella di un fioraio quei generi di cactus per cui tanto impazzivo da ragazzina: quelli che mi piaceva definire "tascabili", talmente minuscoli da entrare in un vasetto grande quanto un bicchiere di plastica e che un tempo collezionavo in maniera ossessiva, tenendoli sempre in ordine sul davanzale della mia finestra.

Avevo però rinunciato al mio desiderio di acquistarlo pochi secondi dopo. Non avevo alcun diritto di farmi regali del genere, stavo deragliando troppo dalla mia strada, non potevo peggiorare la situazione dando retta a quei desideri infantili, avevo già con me Herbie e il cappello di Minnie, doni di cui tuttora ero immeritevole.

Ma mai l'avrei detto a Dante, per nessuna ragione al mondo. Potevo già immaginarmi le battute che avrebbe potuto farci sopra. Era meglio che credesse che fossi un tipo da orchidee, e mai avevo parlato della mia passione per le piante grasse ai gemelli e Rosemary, quindi non correvo il pericolo che quegli infami gli vendessero l'informazione.

Iniziai a sistemarmi il cappello, quando lui d'improvviso mi chiese: «Per il tacchino, nel ricettario c'è scritto che te ce vole almeno sei ore per fallo.»

Oh no.

Era un altro, ennesimo problema.

O meglio, era l'opportunità perfetta per allontanarmi un po' da loro, ma a giudicare la luce nei suoi occhi e quella dei gemelli alla mia destra che mi stavano fissando con intensità, sapevo che non me la sarei cavata facilmente. «S-Sì, a volte anche di più, per via... dei vari contorni» balbettai, aprendo il più possibile la mascherina per nascondere la mia faccia di fuoco. «Per questo... Mmm... è meglio se lo preparo a casa mia e poi-»

«Mai!» tuonarono Dory e Dorian insieme.

«Dovemo vedette coi nostri occhi mentre lo infarcisci, Thaty!» dichiarò severo la gemella.

Dorian annuì. «Un tacchino infarcito c'ha sempre il suo fascino.»

«Come le cimici quando le schiacci.»

«Coi piedi.»

«E le tette stratosferiche.»

Dorian assentì ancora col capo, l'aria da filosofo. «Non potemo definicce americani se manco assistemo di persona all'infarcitura sacra.»

«Sarà come 'na cerimonia di iniziazione» continuò la sorella con tono solenne.

«Noi due che diventamo americani veri e assoluti.»

«E Dante che se martella i coglioni perché vorrebbe infarcitte come a quel tacchino ma non sa come fa'.»

Spalancai la bocca, oltraggiata e rossa al massimo, fissandoli sconvolta. «Non... Non c'entra niente... questo, e... È una questione di tempo... per riuscire a farlo... per l'ora di pranzo... dovrò iniziare a cucinare all'alba, non posso disturbarvi a-»

«Potemo magnare più tardi delle una» mi bloccò serissima Dory. «Per il tacchino farcito tuo potemo aspettare anche le quattro del pomeriggio, Thaty.»

Quella situazione stava diventando sempre più ridicola, e il problema era che le loro espressioni lo dichiaravano apertamente: non avrebbero accettato alcun compromesso.

Dory mi puntò l'indice contro. «Avemo preso una A+, Thaty» mi ricordò.

«Ce l'hai promesso!»

«Che voi trasformatte anche te in uno di quegli adulti che fa le promesse e poi non le mantiene? Con tutti quelli che già abbiamo avuto attorno?»

Dorian mi scrutò con giudizio spietato. «È questo l'esempio che ce voi dà? Che i voti so' importanti, ma i patti no? La scuola viene prima dei sentimenti?»

Dory sospirò con drammaticità. «Diventeremo sì geni della matematica, ma anche adulti che spezzano promesse, cuori e coglioni, proprio come c'hai insegnato tu.»

L'altro schioccò la lingua con fare rammaricato. «È questa la scala delle priorità per un adulto vero? Un po' deludente, se devo esse sincero.»

«Ade' me spiego perché il mondo va così a rotoli.» Dory si asciugò le lacrime agli occhi.

«Perché la gente preferisce drogasse. La vita da adulto è davvero 'na merda.»

«Se spera che non faremo quella fine: gemelli geni matematici e pure drogati.»

«Sicuro però ce troveremo presto divorziati sette volte e a rifiutacce di pagare i soldi per i nostri stessi figli, co' sti insegnamenti.»

Come diavolo era possibile che, seppur stessero palesemente recitando con il loro solito fare teatrale, riuscissero lo stesso a farmi sentire terribilmente in colpa?

La risatina di Dante mi fece sussultare sul posto. Gli scoccai l'ennesima occhiataccia. Si stava godendo lo spettacolo persino più di Rosemary, la sola differenza era che non aveva i popcorn in mano. «Non... è divertente!»

«L'hai davvero trasformata nel tuo motto de vita, 'sta frase.»

«S-Sei tu che me la fai ripetere sempre!»

«E io te ripeto sempre che non sto a ride perché sei divertente.»

Ancora con questa scusa? Assurdo! Mi sistemai meglio la borsa a tracolla. Era davvero ora di scappare, non m'importava più di essere palese nella mia fuga. «Come no. Fai... quel che ti pare, ridi pure. Ora io vado.»

Iniziai ad avviarmi alla porta, dandogli le spalle, quando lo sentii chiedermi: «A che ora vai a ritirare il tacchino, mercoledì prossimo?»

La mano mi si fermò sulla maniglia della porta. Dannazione, speravo se ne fosse dimenticato. Ma... se non ricordavo male, lui il mercoledì avrebbe dovuto lavorare, e il suo turno di pomeriggio iniziava verso le tre, quindi... «Alle quattro.»

«Ma davvero?» Di nuovo il suo tono sarcastico. Non mi credeva, non avevo bisogno di voltarmi a guardarlo per capirlo. «Molto bene.»

Come? Mi lasciava andare così facilmente? Poco importava, meglio così.

«Dirò a Frank che tarderò un po' a lavoro.»

Non potei trattenermi, mi girai a guardarlo stupefatta. «S-Sei...» Inarcò il sopracciglio, provocatorio come al solito, la fronte mi si contrasse di propria iniziativa. «Non ho bisogno che mi accompagni!»

«Come lo reggi un tacchino de dieci chili?»

«Non l'ho ordinato di dieci chili!» mi lamentai, inarcò l'altro sopracciglio e di nuovo mi immaginai mentre correvo sul tetto del condominio e mi gettavo nel vuoto con un meraviglioso triplo carpiato. «Dieci chili... è troppo grande... non entrerebbe nel forno. L'ho preso... di sei.»

Si schiarì la gola, un gesto palese per non ridere, ed io avvampai. «Sei chili... li so reggere da sola.»

«Quindi non dovrai comprare altro, quel giorno, se non il tacchino?»

Maledizione. Non se ne intendeva neanche di cucina, come conosceva tutte quelle cose? «N-Nulla di che...»

«Nulla di che? L'elenco degli ingredienti sul ricettario tra un po' occupa l'intera pagina.»

Sgranai gli occhi. Aveva analizzato il ricettario fino a quel punto? Mio Dio! Un pensiero orrendo mi attraversò, quando ricordai con precisione tutte le cose imbarazzanti che avevo scritto su quel ricettario, da bambina e adolescente. Alcune già le aveva lette al nostro secondo incontro, ma ce n'erano di ben peggiori, lo sapevo bene.

Non avrei mai dovuto darlo ai gemelli.

«Appunto...» dissi a quel punto. «Mi ci vorrà... un sacco di tempo... faresti troppo tardi a lavoro...»

«Il mio capo Frank è un uomo molto flessibile sugli orari e così i suoi clienti.»

Iniziavo ad odiare anche il povero Frank, ora, pur non essendo colpevole di niente se non essere il capo di uno stronzo.

«A meno che...» proseguì lui, il tono sempre più birbante, identico a quello dei gemelli, «in realtà il tacchino l'hai ordinato per il mattino presto, come si fa di solito, ma hai detto un altro orario proprio per non farti accompagnare.»

Avvamparono persino i miei denti, li sentii letteralmente bruciare per la vergogna. Dante scoppiò a ridere ed io persi il senno, soprattutto quando sia i gemelli che Rosemary iniziarono ad applaudire con ammirazione.

«Wow, fratello mio coi coglioni rotti, non lo credevo possibile, ma te sto sul serio a rivaluta'! Te meriti la metà del nostro DNA!» commentò Dory.

«La stai a fotte metaforicamente così poi te la fotti letteralmente, incredibile.»

«Proprio come Francisco con Bernarda!» dichiarò con un sospiro emozionato Rosemary, mentre mandava giù altri popcorn.

«Come dice una gran donna, cioè io, per delle tette stratosferiche tocca fa de tutto e de più. So' i soli coglioni che contano nella vita.»

«E soprattutto è ricca, non lo dimenticare.»

Non ci vedevo più, tant'era immenso il mio imbarazzo, il rosso arrivò a filtrarmi persino la vista. Davanti al sorriso gongolante di Dante, mi ritrovai a esplodere disperata: «Stanno prendendo in giro anche te! Non dovresti ridere! Dovresti rimproverarli!»

«Impossibile, è troppo bello vedette arrosi' così.»

Non c'era limite all'indignazione che poteva provocarmi. Ero ormai sul punto di lanciarmi dalla finestra, non importava se eravamo al piano terra, magari ero fortunata e mi sarei lanciata abbastanza male da rompermi qualche osso. «Sei...»

«Sono?»

La sua faccia tosta era eterna quanto il mio oltraggio, specie quando mi provocò di nuovo con l'ennesimo ghigno. Un treno di insulti mi attraversò i pensieri, ma ero talmente fuori di me che non riuscii a sputarlo fuori a voce. Afferrai il pacchetto nuovo di mascherine che stava dentro la mia borsa e glielo lanciai in faccia più forte che potei. «Uno stronzo!» tuonai disperata, per poi scappare via dalla porta.

Una fuga che, stranamente, mi concesse.

Avrei scoperto più tardi perché.

Perché non me l'avrebbe concessa il mercoledì della settimana dopo, la vigilia del Ringraziamento, quando uscii di casa di primo mattino per andare a fare la spesa e ritirare il tacchino che avevo ordinato. Pur non avendogli mai detto l'orario della prenotazione, l'aveva intuito da solo, e non appena spalancai la porta, nel vedermelo davanti a me, tronfio e vanitoso come al solito, ebbi un solo istinto.

Colpirlo con la mia borsa sullo stomaco.

Un gesto che, purtroppo per me, lui bloccò subito, afferrando la borsa con entrambe le mani prima che si schiantasse. E sempre purtroppo per me, invece che adirarlo, quel gesto lo divertì come non mai. Aveva un sorriso che andava da un orecchio all'altro, era fierissimo di sé stesso, e il problema era che, quando sorrideva in quel modo, Agatha Fangirl risorgeva sempre di più dalle sue ceneri, sia per l'infamia con cui mi stava intrappolando nei suoi schemi sia perché lui era al 100% il mio tipo.

Avevo sempre saputo di essere piuttosto superficiale per quanto riguardava l'ambito amoroso: tutte le mie cotte, in passato, erano stati ragazzi con cui a stento mi ero scambiata una parola e che conoscevo solo di vista, ma mi ero sempre detta che quella superficialità era giustificata, in qualche modo, visto che sin da subito ero consapevole che mai avrei intrattenuto una qualsiasi forma di relazione, anche solo amichevole, con loro. Uno dei tanti motivi per cui mai avevo superato la soglia di sbarramento della "cotta" per raggiungere l'emozione proibita: amore assoluto.

E invece, adesso, con quel ragazzo, stavo allacciando un rapporto abbastanza stabile da poter litigare e battibeccare con lui proprio come si vedeva nei libri che mi piaceva leggere. Inoltre, peggio ancora, lui, pur di impedirmi di isolarmi e soffrire da sola, si stava comportando nell'esatto modo per cui impazzivo come una scolaretta preadolescente anche a ventitré anni, con quel genere di infamia e malizia per cui deliravo in preda alle crisi ormonali quando veniva descritta nei romanzi.

Non solo era il mio tipo in tutto e per tutto per l'aspetto, adesso lo stava diventando anche per il carattere.

Mio Dio, ero nei guai.

«Sai» commentò, fissando la borsa che stringeva ancora tra le mani. «Mi vergogno davvero d'avette chiamata pluriomicida, al nostro primo incontro. Non sapresti manco schiaccia' una formica col piede, tu.»

I muscoli mi si contrassero per il nervosismo. «Non sei... affatto simpatico!»

Si accigliò. «Te sto a di' che sei così buona da non pote' ferire manco una formica, e tu pensi che te sto a perculare?»

Una fitta mi dilaniò il cuore e indusse uno spasmo allo stomaco, faticai a camuffarlo. Assurdo che proprio Dante, adesso, stava dicendo le stesse cose che mi aveva detto mio padre la settimana scorsa. Quel martedì non avevamo parlato di nulla di particolarmente importante, su insistenza di lui, forse per darmi un po' di tregua da quella valanga di informazioni malate con cui mi aveva investita negli ultimi tempi. «N-Non sono buona» balbettai.

«Ahhh, capisco, capisco. Sei di nuovo su quell'aereo, eh?»

Gli lanciai la millesima occhiataccia, la firma dei nostri incontri, ormai. «L'aereo... non c'entra nulla.» Gli strappai la borsa dalle mani e me la rimisi addosso, sistemandomi la mascherina in faccia di nuovo per provare a coprire il mio viso a fuoco. «Non mi conosci... te l'ho detto.»

«Me sa che qui l'unica a non conoscerti affatto sei te.»

Serrai la mandibola, fissai gli occhi sulla punta delle mie scarpe nere da ginnastica, con il cuore che soffriva così tanto da farmi temere fosse andato in setticemia. Non aveva senso discutere su quell'argomento, non avrei potuto spiegargli niente in merito alla mia reale natura, e comunque... prima o poi l'avrebbe compreso da solo, proprio come avevano fatto anche tutti gli altri, una volta saputo i crimini di mio padre.

«Pensala come ti pare...» bisbigliai a fatica, facendomi largo per uscire a mia volta dall'appartamento, le mani serrate sulla bretella della borsa. Gli diedi subito le spalle, cercando di muovermi il più velocemente possibile per frapporre un po' di distanza tra di noi, mentre Dante richiudeva la porta. Sempre purtroppo per me, lui era uno dei pochi uomini non solo più alto di me, ma capace addirittura di farmi sentire una ragazza minuta, e quindi mi raggiunse con poche falcate mentre attraversavo il lungo corridoio del terzo piano, dalle pareti color crema e il pavimento in resina distrutto dal tempo.

Continuai a guardare dritto davanti a me, rifiutandomi in assoluto di incrociare i suoi occhi. «Ci... impiegherò tantissimo... per fare la spesa» dissi a quel punto. «Un sacco... di ore, farai troppo tardi... per il lavoro.»

«Ah, giusto, il lavoro» rispose con tono divertito. «La settimana del Ringraziamento, Frank chiude sempre lo studio, così va a trovare sua madre a Philadelphia.»

Mi bloccai sul posto, voltai subito il capo per guardarlo stupefatta e lui si fermò a sua volta. Davanti ai miei occhi sgranati, tirò fuori il suo ghigno. «Non c'avevo cuore di dirtelo, visto quanto te stavi a impegna' e a imbarazzatte pur di mentirmi sull'orario, convinta di potermi frega' in quel modo.»

L'onta fu una marea che mi affogò tutta, insieme al rossore. Nello scorgere entrambi dilagarmi in viso, Dante fu costretto a schiarirsi la gola più volte per trattenersi dallo scoppiare a ridere. Ero sul punto di picchiarlo. «N-Non sono così... divertente!» esplosi, per poi muovermi in fretta per dargli le spalle, incapace di trattenere la mia indignazione, coi piedi che marciavano sul pavimento come a voler spaccare le mattonelle.

Purtroppo per la settecentesima volta per me, lui mi affiancò subito. «Non sei divertente, sei adorabile, infatti.»

La stizza mi deflagrò in testa come una bomba. Lo fulminai di nuovo con gli occhi. «Wow... che battuta... davvero simpatico.»

Si accigliò a dismisura. «Perché ogni volta pensi che sto a fa' battute?»

Accelerai ancora il passo, calpestando con sempre più violenza il pavimento, tutto pur di non guardarlo in faccia mentre l'oltraggio massimo mi s'incarnava dentro. «Non sono stupida» borbottai.

Mi raggiunse proprio mentre stavo scendendo le scale il più in fretta possibile. Dannazione. «Che c'entra mo' la stupidità?»

Un'altra pulsazione di stizza alle tempie mi portò a dire senza volerlo quello che pensavo sul serio: «Sei tu quello che mi chiamava pluriomicida fino a pochi mesi fa e che ha rimarcato più e più volte che non mi vedi e non mi vedrai mai in quel senso. Un cambiamento d'opinione così drastico da parte tua non ha motivo d'esistere se non, per l'appunto, per prendermi in giro. Quindi sì: non sono stupida.»

Con mio immenso stupore, lui si bloccò a metà gradinata, ma non ebbi coraggio di voltarmi per guardarlo in faccia e scorgere che espressione avesse assunto in viso: avevo timore di averlo irritato al massimo. Così continuai a scendere rapida come mai ero stata in tutta la mia vita.

Irritato o meno che fosse, mi accorsi, sorprendendomi da sola, che non mi importava.

Avevo la sensazione di essere riuscita a vincere io, almeno stavolta, e non avevo alcuna intenzione di scusarmi per quel punto guadagnato.

Doveva davvero essere pentito per avermi dato della pluriomicida.

Sotto la mascherina, sentii il sorriso sollevarmi le labbra, senza che potessi frenarlo.



Quattro ore e mezza più tardi, sempre nel mio appartamento, ci ritrovammo a sistemare la spesa appena fatta.

Avevo sperato con tutto il cuore che, una volta averla riportata a casa, Dante se ne sarebbe andato, lasciandomi finalmente da sola.

E invece no.

Rimase.

Senza dire una sola parola, si prodigò ad aiutarmi a mettere a posto i vari ingredienti comprati, incluso l'infame tacchino che era la principale causa della sua presenza lì e del mio malessere.

A niente servirono i miei lamenti e proteste, il modo in cui feci di tutto per convincerlo a tornarsene a casa.

Ero sul punto di strapparmi gli occhi a mani nude, tutto pur di trovare una soluzione a quel problema immenso che mi si poneva davanti: Dante Mitchell, l'uomo più testardo che avessi mai conosciuto, persino più di coccio di Betsy George, colei che per praticamente metà della mia vita mi aveva fatta dannare pur di convincerla a mettersi sui libri di scuola e a fare i compiti.

Avevo passato le ore al supermercato cercando in ogni modo di non cadere alle sue provocazioni, consapevole di quanto si divertisse nel vedermi indignarmi in quel modo, e ovviamente non c'ero minimamente riuscita. Appena scorgevo il suo ghigno beffardo, le mie stesse cellule si rivoltavano su sé stesse e pretendevano che mi difendessi a qualsiasi costo.

Proprio non comprendevo perché.

Non era certo il primo ragazzo che mi prendeva in giro, anzi, nel corso degli anni ce ne erano stati un sacco, ma di solito, davanti ai loro scherni, io mi rinchiudevo ancor più nel mio guscio e facevo di tutto per evitarli. Quindi perché la stessa cosa non avveniva con Dante?

Anche se... riflettendoci, il modo in cui lui faceva battute su di me era ben diverso da quello che mi era noto. Non sembrava davvero farlo con cattiveria e men che meno con intenti denigratori e questo mi confondeva persino di più, invece che tranquillizzarmi, perché non riuscivo a immaginare quali altri motivi avesse per farlo, se non quelli.

Poco importava, in realtà, non era necessario scoprirlo, alla fine. Meno lo conoscevo, più facilmente sarei riuscita a slegarmi da lui e la sua famiglia.

Perciò, tornati a casa, decisi di dedicarmi anima e corpo alla marinatura del tacchino comprato. Un esemplare perfetto di sei chili, grande e prosperoso, già eviscerato dal macellaio, la carne rosea senza la minima traccia della più minuscola piuma: per un'amante della carne come me, era davvero una meraviglia a vedersi.

Ignorai sfacciatamente Dante, mentre lui sistemava gli altri ingredienti in frigo, e mi diressi verso il lavandino in acciaio della cucina, così da dargli le spalle, col tacchino tra le mani per sciacquarlo sotto l'acqua fredda. Lo posai per qualche istante sul ripiano in granito lì accanto, il tempo necessario per sfilarmi i guanti e riporli nella tasca dei pantaloni beige, per poi riafferarlo e iniziare il mio lavoro.

«Che stai facendo?» lo sentii chiedermi dietro di me, mentre strofinavo con delicatezza le dita sulla pelle del tacchino, spargendo l'acqua sulla carne tenera.

Aggrottai la fronte. Aveva deciso di riprendere l'interrogatorio? Proprio adesso? «Lo... preparo per la marinatura.»

«Tocca marinarlo?»

«Nella... versione che uso io.... sì. Aiuta... a staccare la pelle dopo... senza... lacerarla.»

Arrossii senza volerlo, non appena percepii il chiaro e ormai inequivocabile segnale dei suoi occhi che mi si posavano addosso. Perché doveva sempre fissarmi così? Non poteva guardare altro? C'erano cose ben più interessanti di me, in quel momento, come, ad esempio, gli ingredienti che avrebbe dovuto mettere in frigo.

Mi costrinsi a respirare con calma. Finii di lavare il tacchino, lo abbandonai sul tagliere alla sinistra del lavandino e tirai fuori dal cassetto sotto la pentola gigante da riempire d'acqua. Le spezie per condirla, insieme a zucchero e sale, erano già state debitamente posizionate sul ripiano in granito, alla mia destra.

Portai la pentola adesso colma d'acqua su uno dei fornelli a gas lì accanto, dal piano cottura in vetro e nero come la mia anima in quel momento, e lo accesi dopo averla riposta debitamente sopra. Cominciai a condire il tutto con le spezie necessarie, il fuoco a divamparmi in viso sempre più nel percepire lo sguardo di lui diventare così intenso da trafiggermi da parte a parte.

Ora che ci riflettevo... quella era l'occasione per restituirgli la giacca di jeans. L'avevo lavata a dovere e sistemata piegata in una busta di cartone proprio sul tavolo al centro del monolocale, quello che divideva letto e armadio, ma come tirare fuori l'argomento senza far intuire che avrei usato la situazione per invitarlo ad andarsene?

Aprii la bocca per parlare, ma lui mi anticipò, proprio mentre gettavo le foglie dall'alloro nell'acqua che era sul principio di bollire: «Lo cucinavi spesso, il tacchino, prima?»

Quella domanda fu un vero e proprio squarcio allo stomaco. Le foglie d'alloro tra le mie dita rischiarono di spezzarsi. «Sì» risposi dopo qualche secondo di silenzio, fissando la pentola. «A... Anche a mio padre... piaceva molto... il tacchino ripieno. Quello che avanzava... lo mangiavamo... nei giorni successivi.»

Lo sentii richiudere l'anta del frigo, i suoi passi avvicinarsi a me, ma non volli guardarlo in viso. Non mi era ancora chiaro quanto ancora mi condannasse per l'affetto che provavo per papà, avevo paura che nello scorgerlo nei miei occhi, una volta averli incrociati, quel giudizio sarebbe ritornato profondo e viscerale persino più di prima.

Buttai veloce le ultime foglie, per poi stringere con smania l'orlo della maglietta che indossavo quel giorno, un semplice maglioncino di lana rossa col collo alto.

«Nel ricettario» disse all'improvviso, «c'è il tuo commento in cui ti dici di non osare mai più far esplodere il tacchino.»

L'imbarazzo assoluto prese possesso dei colori del mio viso. Maledetto sarebbe stato per sempre il giorno in cui avevo lasciato il ricettario ai due piccoli criminali. «Beh... e-ecco, sì.»

«L'hai fatto esplode'?»

Mi fissai le dita nude ancora aggrappate al maglioncino, vapore puro ad uscirmi dalle orecchie. Proprio non potevo guardarlo in faccia. «L-La prima volta... che provai a cucinarlo... avevo tredici anni» provai a giustificarmi. «E-E... feci male... alcuni calcoli e così...»

«Il tacchino è esploso?»

Non sembrava divertito, stranamente, ma forse stava bluffando, avevo imparato a mie spese che era un portento a farlo. «G-Già» balbettai. «Ci rimasi malissimo... ero in lacrime... il tacchino era costato un sacco... era uno di quelli... di prima qualità... ci tenevo tantissimo... e il forno... era in uno stato pietoso... perciò avevo un po' paura che papà... si sarebbe arrabbiato, ma lui invece... rise come non mai.»

Mi bloccai, asfissiata dal cappio del passato, di quella felicità che tanto mi era cara quanto mi era boia, adesso.

La risata fragorosa di papà, quand'era tornato a casa e aveva visto il risultato del mio fallimento, il modo in cui il forno si era trasformato in un vero e proprio mostro di orrore dalla bocca spalancata tutta putrefatta e bruciata, mi echeggiò in testa con lo strazio di una marcia funebre.

Il suo volto sconvolto prima e poi divertito come non mai, il modo in cui, nello scorgere i miei occhi agonizzati dalle lacrime, subito si era assicurato di tirar fuori il fazzoletto di stoffa dalla tasca dei pantaloni e porgermelo.

Per cosa piangi, Ciliegina? Hai paura che mi arrabbi? Non potrei mai, bambina. Ti ricordo che sono un chimico pazzo: credi che io non abbia mai fatto cose simili? È così che vanno sempre i primi esperimenti, Ciliegina: si fallisce. E fallire è il passo necessario per vincere alla fine. Non temere di sbagliare, bambina, l'errore è il margine fondamentale per raggiungere il successo.

Ci furono molti minuti in cui né io né Dante parlammo, quasi mi ero convinta che avrebbe fatto cadere l'argomento, e invece decise di tirarne fuori uno addirittura peggiore: «Perché tu possa toccare qualcuno senza spaventarti, ci sono dei requisiti necessari?»

Sussultai. Un altro quesito che proprio non mi aspettavo da parte sua, specie dopo aver visto in che condizioni finivo quando diventavo vittima assoluta della mia fobia. Tirai con più forza l'orlo del mio maglioncino, le dita aggrappate al tessuto morbido per darmi coraggio. «R-Requisiti?»

«Come sei riuscita a toccare tuo padre e Betsy?»

L'acqua nella pentola aveva iniziato a bollire. Approfittai della cosa per iniziare a miscelare le spezie al suo interno col mestolo di legno preso dal cassetto là sotto.

«Non saprei...» sussurrai con un soffio. «Con papà... è stato più... un atto di coraggio... da parte mia. Sentivo... di volerci provare con lui... ed il tentativo è andato a buon fine.» Era davvero un inferno parlare di quel periodo senza far tremare la voce o far cadere le lacrime dagli occhi. «Con Betsy... invece... lei propose... di... andare a piccoli passi.»

«Piccoli passi?»

Mescolai l'acqua con più forza, spingendo le foglie d'alloro sul fondo. «Lei... suggerì... di provare... con piccolissimi tocchi... all'inizio, come... intrecciando i due mignoli e poi... pian piano... aumentare le zone di contatto... i palmi uniti prima... e poi... le braccia e così via.»

Il vapore dell'acqua che si sollevava dalla pentola andò in qualche modo a levigare il dolore che mi contorse tutto il viso davanti alla memoria della Betsy di quegli anni, il modo in cui, ogni giorno, passavamo a intrecciare i nostri mignoli e lei cercava di rasserenare la mia paura con le sue freddure stupidissime che non facevano ridere nessuno.

«Hai fatto così anche con gli altri?»

Sussultai di nuovo. «Gli... altri?»

«Le altre persone che sei riuscita a toccare.»

Per fortuna continuavo a dargli le spalle, perché la verità mi investì il viso come un'onda vermiglia. La nota positiva fu che ciò mi distolse dalla sofferenza del passato, ma certo non mi aiutava rischiare di venir smascherata in quel modo. Non volevo neanche immaginare quanto avrebbe gongolato nel sapere che all'età di ventisette anni non solo mai avevo avuto una relazione, ma neanche ero mai riuscita a toccare un ragazzo.

«Perché ti interessa?»

«Perché non dovrebbe interessarmi?»

Mi umettai le labbra, col vapore dell'acqua ancora a battezzare la mia umiliazione cocente. «Perché... è un'informazione inutile.»

«Trovare un modo per toccarti senza che tu ti spaventi sarebbe un'informazione inutile

Il suo tono sembrava... irritato? Perché? Ma il quesito in testa scomparve nell'attimo stesso in cui realizzai appieno il significato delle sue parole.

Toccarmi?

Lui... voleva toccarmi?

Dante?

Il solo pensiero mi sconvolse così tanto che dovetti aggrapparmi con più forza all'orlo del maglioncino con la mano sinistra e al mestolo con la destra per assicurarmi di non star sognando.

No, non aveva senso, non aveva motivo per desiderare una cosa del genere. Forse lo stava chiedendo per i suoi fratellini, che da sempre smaniavano per potermi palpare i capelli.

«Non è importante» ripetei. «Ed è troppo... troppo faticoso... credimi, non conviene.»

«È questo che te credi? Che sei troppo faticosa

Mi morsi il labbro, girai il capo per guardarlo. Sembrava davvero irritato. Aveva la fronte corrucciata, le labbra serrate, mi guardava come se avessi detto la stronzata più grande che avesse mai sentito in vita sua. Perché? «Non ho... detto questo.»

«Quindi come sei riuscita a tocca' gli altri?»

Dannazione, speravo di aver evaso per sempre quella domanda. «Non... Non saprei...» balbettai, le guance di nuovo alla temperatura del sole. Lui si accigliò ed io avvampai ancora. «C-Con il metodo di Betsy, credo...»

«Credi?»

Ormai ero violacea e purtroppo per me per la milionesima volta, lui comprese tutto. Glielo lessi negli occhi, l'attimo in cui colse la verità che mi rifiutavo di dirgli, traducendo l'imbarazzo che mi ricopriva come una seconda pelle. Lo sbigottimento che lo travolse mi indusse a supplicare Dio di uccidermi lì sul momento con un fulmine. Sembrava sconvolto, quasi gli avessi rivelato che ad uccidere tutte quelle vittime ero stata io e mio padre era solo stato incastrato da me.

La vergogna, a quel punto, fu troppa, non ebbi più la forza di guardarlo in viso, ripresi a fissare l'acqua per la marinatura, le spezie stavano già facendo il loro lavoro, il loro profumo intenso si stava diffondendo per tutta la cucina e l'appartamento. Lo respirai a grandi boccate, nel tentativo di resistere dalla tentazione di farmi una bella doccia ustionante proprio lì e ora, rovesciandomi la pentola addosso.

Attesi che scoppiasse a ridere, a quel punto, o si mettesse a sghignazzare come al suo solito, preparando già la mia indignazione, ma...

Non successe nulla. Restò in silenzio.

Questo mi confuse.

Tornai a mescolare l'acqua col mestolo.

«Capisco» lo udii commentare alla fine.

I nervi sotto la schiena vennero scossi da scariche di panico. «C-Capisci?»

«Non è che te credi troppo faticosa, sono stati gli altri a ditte che lo sei.»

Trasalii ancora. Il mio capo si voltò verso di lui in automatico, di nuovo, per guardarlo negli occhi, travolta dalle intemperie della vergogna. Aveva le sopracciglia appena aggrottate, gli occhi ambrati in una chiara e inequivocabile determinazione che era ormai il preludio dell'ennesima trappola in cui mi avrebbe incastrata.

«N-Non me l'hanno detto gli altri, è la semplice realtà dei fatti» risposi di getto. «Sono solo consapevole di quant'è... complessa la mia situazione. L'hai visto anche tu, che succede quando.... tocco qualcuno per davvero. È un...» Un casino. «Vi... stressereste... soltanto... non-»

«È quello che te dicevano le persone? Che le stressavi e per questo non c'avevano voglia di trovare un modo per toccarti?»

Serrai ancor più l'orlo della maglia, davanti alla sua palese irritazione che però non avrei saputo dire a chi fosse rivolta, se a me o ad altri. «No.»

«Ah no?»

Mi tremò il labbro inferiore, dovetti morderlo per fermarlo, non ero nemmeno in grado di determinare che sentimenti stessi provando in quel momento.

«Non siamo in un romanzo...» balbettai. «Dove si guarisce miracolosamente... col potere dell'affetto... in un attimo. Con Betsy... ci ho impiegato quasi... un anno. Ci vuole tanto impegno e tempo e... fatica e... difficoltà e... è naturale non voler-»

«Ce so' persone che non hanno paura di lottare per 'ste cose, non importa quanto ce vuole.»

Ebbi la sensazione che qualcuno mi avesse appena inferto un taglio al cuore, ma non ero certa se da quella ferita adesso stesse sgorgando sangue o luce.

Ma... per quanto quel bagliore fosse invitante, un vero e proprio desiderio da poter finalmente esaudire per mezzo umano e non divino... non potevo cedere.

«È una follia, una perdita di tempo, te l'ho detto.»

«Non è follia, è solo avere due occhi e vede' che ne vale la pena.»

Per situazioni del genere non ne vale la pena.

Perché, di giorno in giorno, quel ragazzo si trasformava sempre più in tutto quello che avevo sognato di incontrare un tempo? Perché proprio ora che dovevo far di tutto per espiare i miei peccati e crimini da sola? Perché era così difficile resistere alla volontà di credergli?

Eppure li avevo visti coi miei occhi: i risultati del mio egoismo, dei miei desideri.

«È... troppo faticoso, credimi.»

«Le cose migliori lo sono sempre, per questo tocca combattere per prendersele.»

Dovevo chiudere in fretta quella conversazione, prima che fosse troppo tardi, prima che crollassi del tutto e la parte stupida di me iniziasse a dar retta alle sue parole. Rimisi il mestolo nel suo cassetto, spensi i fornelli, riafferrai i guanti dalle tasche e me li infilai veloce, muovendomi nella cucina di modo da tornare a dargli le spalle e così evitare i suoi occhi, la seduzione di una libertà che mi era ormai chiaro più non mi apparteneva.

«Agatha.»

Mi impietrii sul posto, davanti al tacchino che avevo preso a scrutare sul suo tagliere di legno, e mi costrinsi a contare dieci secondi, prima di trovare la forza per voltarmi e tornare a guardarlo.

Ma ciò che vidi, invece, fu altro.

Non i suoi occhi, non il suo viso.

Bensì un minuscolo cactus, proprio sotto il mio viso, a mezzo metro da esso.

Un minuscolo cactus simile a un palloncino, di un verde rigoglioso e splendente, ricoperto da un vestito di lunghe spine bianche che lo ammantavano quasi fossero peluria, dentro un vasetto piccolissimo di ceramica rossa, stretto nella sua mano gigante.

Lo stupore mi divorò stomaco, polmoni e cuore, faticai a credermi ancora viva, quando lo scorsi, e i battiti nel petto esplosero uno dietro l'altro in una catena di detonazioni da cui sopravvissi senza spiegazione.

«Un regalo per esse riuscita nel miracolo che manco Cristo in persona potrebbe compiere: far prendere una A+ ai due flagelli del demonio.»

Il mio intero corpo tremò, tempestato da brividi non di terrore, bensì di vera energia, tali da scerpare senza ritegno le voci in testa che mi latravano contro per ricordarmi la mia natura e quella dei crimini da me compiuti. Fissai il cactus a labbra schiuse, una palla di fuoco andò a sostituire il cuore e a far scorrere nelle vene lava ustionante invece che sangue.

Era il cactus che avevo scorto nella bancarella del mercato, quello che ero stata tentata di comprare.

I denti iniziarono a battere tra loro, l'aria si trasformò in cenere ed io la respirai a singhiozzi, gli occhi stavano assorbendo troppe lacrime, presto non avrebbero più avuto spazio in cui nasconderle e sarebbero stati costretti a farne gocciolare alcune.

Indietreggiai di qualche passo, mi guardai attorno alla ricerca di qualcosa che potesse confermarmi di star sognando, che potesse assicurarmi che tutto quello non era reale, solo l'insulsa e continua speranza che ritornava a tormentarmi ad ogni secondo che vivevo.

Ma non trovai niente, perché il cactus era ancora lì, quando ripresi a guardarlo, nella mano di Dante, il vasetto avvolto dalle dita con le nocche tatuate da fiori, picche, quadri e cuori.

Tornai a fissarmi le punte dei piedi, le ciabatte azzurre, mi rigirai la croce del rosario tra le dita ancora e ancora e ancora, provando di tutto pur di soffocare e annientare le grida bestiali che mi supplicavano di cedere stavolta, almeno stavolta. «Non... Non ne ho bisogno» balbettai, la voce così incrinata che era un miracolo che ancora riuscissi a modularla nell'aria.

«Non è un bisogno, è un regalo, infatti.»

«Non... Non ho bisogno di regali.»

«I regali se fanno e basta perché si vuole farli, non perché c'è 'na necessità dietro.»

Più parlavamo, più il tumore di crollare si diffondeva e infettava tutto, stava già arrivando a incancrenire i pensieri e questo non potevo permettermelo. «N-Non mi piacciono... le piante grasse, preferisco... le orchidee.»

«Non me prende in giro, al mercato non facevi che fissallo.»

Lo aveva visto.

Ero sul punto di svenire. «Mi hai già dato... Mi hai già dato Herbie, non-»

«C'è un limite massimo de regali che se possono fa' nella vita a qualcuno?»

«N-No, ma-»

«Allora accettalo.»

«N-Non lo voglio.»

«Non me prende per il culo.»

«Non lo voglio, davvero. Io... odio i cactus.»

«Va bene, allora lo lancio dalla finestra.»

Sbarrai lo sguardo, risollevai il capo per fissarlo sconvolta. Di tutta risposta... lui sorrise! «Tanto non lo vuoi, quindi è mio» commentò con il suo classico tono da presa in giro. «Hai pure detto che li odi, i cactus, quindi te sto pure a fa un favore. Dovresti ringraziamme

Com'era possibile che ogni volta riusciva sempre a stupirmi con i suoi ricatti infami? «Avresti sprecato... i tuoi soldi... per niente.»

«I soldi so' miei, decido io che facce.»

Cristo, era davvero il fratello maggiore di quei due piccoli criminali! Ero ormai porpora. «N-Non lo farai... davvero.»

«Forse sì, forse no. Chissà.» Il suo sorriso si fece sbilenco ed io avvampai, soprattutto davanti al modo in cui gli occhi gli si illuminarono giocosi nello scorgere il mio eterno sdegno.

«N-Non... oserai...»

La luce negli occhi aumentò a dismisura. «Hai cinque secondi di tempo, dopodiché lancio il cactus, magari so' fortunato e faccio canestro nei bidoni dell'immondizia sullo spiazzale qua sotto.»

«N-Non di nuovo questa storia, ti prego!»

Scoprì i denti. Sollevò la mano libera e... cominciò a fare il conto con le dita! Non ci potevo credere! 

«Cinque.»

«N-Non puoi ricattarmi così ogni volta! Ho tutti... Tutti i diritti di rifiutare un regalo!»

Iniziò ad avviarsi a falcate giganti verso la finestra dell'appartamento, senza mai abbassare l'altra mano con cui stava facendo il countdown. Superò in un nanosecondo il tavolo, raggirandolo, e raggiunse le vetrate quadrate, sulla parete davanti ad esso, con un ghigno da vero sadico. «Quattro.»

«Andiamo, Dante! Il cactus... non c'entra niente!»

Spalancò la finestra, girando con una velocità disumana la manovella per aprirla. Mi sfuggì uno squittio disperato. «Tre.»

Oddio, si stava proprio mettendo in posizione di lancio, come un vero giocatore da baseball! «Se Dory e Dorian sono dei flagelli del demonio, tu sei il demonio in persona!» tuonai disperata.

Il suo sorriso si fece di vanto totale, migliorò la sua posizione di lancio, il viso rivolto alla finestra dalle ante aperte come ali di gabbiano. «Due.»

Non appena sollevò all'indietro il braccio col povero e innocente cactus, pronto per lanciarlo, il mio corpo scattò da solo: corsi da lui in fretta e furia e glielo strappai dalle dita con grida d'indignazione e insulti che nemmeno ricordavo di conoscere. Quelli che mi aveva insegnato Lucas tanti anni prima.

«La temibile e sadica Agatha Reid che non osa sprecare neanche un cactus...» commentò tra gli sghignazzi, mentre io riportavo al sicuro la mini pianta e la posavo sul tavolino dietro di noi. «Com'è che dicevi? Non sei buona, eh?»

Gli scoccai un'occhiataccia, indignata al massimo. Mi rizzai meglio in piedi e avanzai a passi decisi fino a ritrovarmi davanti a lui, irritata come mai ero stata in ventisette anni di vita, e il problema era che era evidente che ciò, invece che preoccuparlo, lo divertiva tantissimo. Se la stava proprio spassando davanti alla mia faccia divorata dal fastidio. «Sei tu... che sei uno stronzo!» esplosi ancora.

«La prima cosa non contraddice la seconda. Come se dice? Coesistono insieme.»

Continue scosse di irritazione mi smossero tutto il corpo e contrassero la fronte, mentre i vasi sanguigni in viso deflagravano. Un altro ghigno da parte sua. Sussultai, la bocca mi si spalancò da sola per la collera. «Ohhhh!» esalai fuori di me. Lui scoppiò a ridere fragorosamente. «Non è divertente!» sbottai, e purtroppo per me per la miliardesima volta, le gambe si mossero da sole: batterono i piedi sul pavimento in un gesto di protesta.

«Hai di nuovo battuto i piedi a terra?»

Persino i vestiti presto avrebbero preso fuoco a causa della mia autocombustione, specie quando le sue risate tornarono più forti e fragorose di prima. «Non è divertente!» ripetei tra la disperazione e la rabbia.

Nuova luce andò a riempirgli gli occhi. «Non lo è, infatti» concordò. «È adorabile.»

Gli lanciai un'occhiataccia. «Smettila... di prendermi in giro.»

«Non te sto a prende in giro, so' serissimo. È come vedere un pomerania che s'indigna e cerca di farsi valere.»

La mandibola tornò a cadermi sul pavimento. «Io non sono... un pomerania!»

«Perché te stai ad offende'? Mica è un insulto.»

«Io non-TU-IO-» Davanti al suo sorrisone gigantesco, un altro urlo stridulo mi partì dalle labbra. Avevo voglia di ucciderlo, sul serio. «Vai... a quel paese!»

Gli diedi le spalle l'attimo dopo, tornando al mini cactus sul tavolo, agnello sacrificale della sua perfidia. Era meraviglioso, un minuscolo gioiello che per me valeva quanto il diamante più grande al mondo. Sembrava davvero un palloncino gonfio e verde, ricoperto da un abito di lunghe spine ordinate e in fila, un dedalo perfetto di aculei.

«Il tizio della bancarella ha detto che fiorisce in estate» lo udii commentare, avvicinandosi a me. Ero alterata ancora dal suo comportamento da sadico bastardo, ma quell'informazione mi era troppo cara perché potessi ignorarla. «Non mi ricordo che nome è il fiore, dato che era stranissimo, ma m'ha detto che è viola.»

Sì, era il colore più tipico di quelle tipologie di piante grasse. In tutta la mia adolescenza mai ero riuscita davvero a farne fiorire uno, il che di per sé non significava niente, ma negli ultimi anni avevo iniziato a sospettare fosse una sorta di simbolo fatale nei miei confronti.

Per ricordarmi ancora la mia verità assoluta.

La storia di un fiore e le sue spine.

Un fiore che mai sarebbe sbocciato, spine che mai sarebbero state addolcite dai suoi petali, sempre sarebbero rimaste a ferire per proteggere gli altri da colei che le aveva generate e messe al mondo.

Mai mi sarebbe appartenuta alcuna gentilezza, alcuna meraviglia e profumo con cui ammorbidire e stemperare gli aculei che mi rivestivano.

Sarei rimasta spine soltanto, così da non poter esser colta da nessuno.

Con le dita esitanti, strinsi il vasetto che conteneva il mini cactus e iniziai a rigirarlo sul ripiano del tavolo, proprio sotto i miei occhi.

Ero ben conscia del fatto che non avevo alcun diritto di esser felice di quel regalo, che anzi avrei dovuto trovare un modo per restituirglielo, ma lo stesso, crudeli, le mie labbra si sollevarono da sole nel rimirare per bene quella piccola meraviglia tra le mie mani, cedetti ancora una volta alla bellezza di un incanto da anni a me ignoto, tanto che a fatica lo ricordavo, addirittura ero arrivata a credere non esistesse più.

Era anche la prima volta che un ragazzo mi regalava un fiore.

O meglio, era una pianta grassa, ma per me contava come un bouquet vero e proprio, era un sogno su cui da ragazzina fantasticavo sempre, non avrei mai creduto si sarebbe realizzato davvero, specie in un momento del genere, con la realtà su mio padre smascherata, e con un ragazzo come lui.

Non importava granché, in realtà, a discapito di quanto Agatha Fangirl stesse risorgendo nel mio inconscio e indicendo un fan club per Dante. Anzi. Quel gesto certo non contava come la dichiarazione d'amore per cui tanto smaniavo da adolescente.

Comunque, però, le labbra restarono sollevate, le guance arrossate, continuai a scrutare il piccolo cactus, ammaliata dal suo fascino come fosse un sortilegio. Dante, al mio fianco, non parlò per un bel po', il che la disse lunga su quanto idiota apparissi, con quel sorriso scemo addosso, ma non osavo guardarlo negli occhi e scoprire che espressione avesse in viso nel guardarmi ridicolizzarmi da sola in quel modo.

«'Na volta me capitò una cliente che chiese un tatuaggio su un cactus del genere, ora che ce penso» lo sentii commentare, mentre io continuavo a rigirarmi il vasetto tra le dita. Il ricordo di quel tatuaggio mi strappò un altro sorriso. «Ma era un po' diverso da questo. I fiori non erano viola.»

Annuii, ancora troppo presa nella mia contemplazione per riflettere sulle parole che mi attraversavano la testa: «Erano rossi, se non sbaglio.»

Mi accorsi il secondo dopo dell'errore che avevo appena commesso, la schiena mi si irrigidì tutta, le vertebre si trasformarono in massi pesantissimi, specie quando avvertii i suoi occhi su di me e lui mi domandò: «E tu come fai a sapello?»

Maledetta io e maledetta la mia boccaccia. Il rossore mi pitturò anche le ciglia per la vergogna di essermi fatta autogoal in un modo così stupido. Riposai subito il cactus sul tavolino e mi affrettai a correre veloce verso la cucina per evitarlo. «Non ricordo bene, me l'avranno fatto vedere Dory e Dorian.»

Sentii i suoi passi seguirmi l'istante dopo. Dannazione. «Impossibile. Quei due demoni c'hanno internet limitato, non lo sprecherebbero mai per questo.»

Raggiunsi a razzo la pentola con l'acqua adesso fredda della marinatura, ancora sui fornelli spenti. «Sarà stata... Rosemary.»

«Rosemary è la classica vecchia che manco sa cos'è Google Maps e pensa che Facebook sia un libro digitale con le facce della gente, impossibile anche questo.»

Continuai a dargli le spalle, gli occhi puntati sull'acqua e le spezie al suo interno. «Minnie e Max, allora.»

«Di' un po'.»

Sussultai.

Non mi piaceva per niente il suo tono di voce.

Feci per raggiungere il tacchino lì sulla sinistra, ancora abbandonato sul tagliere di legno, ma lui mi bloccò la strada. Mi si piazzò davanti, il suo petto proprio contro i miei occhi, il maglione azzurro che indossava quel giorno. E sapevo benissimo che il mio viso in quel momento aveva superato qualsiasi sfumatura di rosso, probabile che avessi dato vita a un colore nuovo mai scoperto finora. «È ora che inizi a marinare il tacchino, quindi puoi torna-»

«Sei andata a cercare i miei lavori su internet?»

Maledetto anche il giorno in cui avevo ceduto a quella tentazione. Mi sarei dovuta limitare a guardare i suoi orari così da evitarlo. «No.»

«No?»

«Te l'ho detto, Minnie e Max... me l'avranno mostrato loro.»

«Impossibile di nuovo. Minnie è una stronza e Max le va troppo dietro per far qualcosa che lei non vorrebbe.»

Mi accigliai. Perché mai Minnie avrebbe dovuto impedirmi di scoprire le opere di Dante? «Beh... è successo, invece.»

«Quindi, se adesso scrivo a quei due, me confermeranno la cosa?»

Sussultai.

«N-Non lo farai davvero...»

«Tu ancora non hai capito di che pasta de coccio so' fatto.»

Uno squittio di disperazione, l'ennesimo, partì dalle mia labbra. Mi ritrovai a torturarmi le dita tra loro, continuando a fissargli il petto per la vergogna. «Non... Non c'è nulla di male... Anche tu... sapevi tutte quelle cose... su di me... Volevo solo» - evitarti a tutti i costi - «capirne di più... sul tuo conto.»

«Ehhh» esalò con una voce che non compresi minimamente. «Capisco, quindi te sei andata a cercare apposta i miei lavori?»

Spalancai la bocca, risollevai il capo per incrociare i suoi occhi. Rimasi sconvolta nel rendermi conto che non era per niente irritato, al contrario, era proprio fiero. Sembrava avesse vinto alla lotteria. «N-Non sono andata a cercarli... apposta» gracchiai indignata. «V-Volevo solo...»

«Solo?»

Sollevò appena il sopracciglio. Dentro di me, nella mia testa, lo stavo già prendendo a calci nelle speranza di togliergli di bocca quel suo dannato sorrisetto malizioso con cui sentivo che, andando avanti così, presto mi avrebbe condannata a una cotta da cui mai sarei uscita viva. «Devo... marinare il tacchino, perciò-»

«La fuga è proprio il tuo stile de vita, eh?»

Ero così rossa che mi sorpresi di non esser sul principio di infarto, lui continuava a divertirsi in maniera sfacciata, non si preoccupava neanche di nascondere la fierezza che provava su quanto appena scoperto, il che non lo comprendevo proprio. «Si può sapere... cos'hai da sorridere?» domandai disperata.

«Niente, niente» commentò come se nulla fosse. «Me sa che te iniziavo a piace' già da prima, come nei libri che tanto ami.»

La bocca mi si spalancò da sola di nuovo. «No!» gracchiai, il suo ghigno si stirò più in su. «Te l'ho detto, erano libri che mi leggevo da ragazzina! A tredici anni!»

«Ah-ah.» Non mi credeva proprio, il bastardo, il sorriso a trentadue denti che mostrava ne era la prova palese.

«È così!»

«Te dovrebbero dare i Razzie Awards per quanto fai cagare a recitare, davvero.»

Stavo per morire, stavo per morire di lì a pochi momenti, e lui, invece che diminuire l'autocombustione di cui ero vittima, la aumentava a dismisura con la benzina. «Cosa c'è... da ridere così tanto?»

«Non sto a ride'. Pensavo solo a com'eri ai nostri primi incontri e a come sei ade', tutta indignata e corrucciata.»

Un'altra vampata. «È... colpa tua.»

«Merito mio, semmai.»

Lo fulminai con un'occhiataccia e lui... sorrise mostrando i denti! Non ci potevo credere! «Non c'è nessun merito!» sbottai.

«Oh sì che c'è, invece. Te preferisco mille volte così che spaventata e sempre pronta a chiede' scusa ad ogni secondo.»

Un dolore lancinante mi squassò il petto. Non dovevo essere felice delle sue parole, quello che stava dichiarando era pericolosissimo, era la riprova di quanto stessi dirottando dalla mia strada di espiazione. «Non c'è... motivo di essere felici... per questo. Io... sono come quel cactus» gracchiai. «Solo... che ho soltanto spine. Non conviene a nessuno... starmi accanto.»

Restò in silenzio a guardarmi per qualche secondo e io mi sentii disossare dai suoi occhi, sventrare proprio sotto la loro indagine. Dopo un minuto intero di assoluto mutismo da parte sua, disse con tono severo: «O forse la gente finora non ha voluto vede' i tuoi fiori, così tanto che mo' te credi di non avecceli proprio.»

Serrai la mascella, chinai di nuovo il capo per terra, aggrappandomi ancora una volta con le mani all'orlo del mio maglioncino, mentre gli occhi ritornavano a bruciarmi. «N-Non è così.»

«È così, ma il mondo t'ha criticata per così tanti anni coi suoi giudizi affrettati che ade' pensi che c'ha sempre ragione su tutto, automaticamente.»

Tirai disperata l'orlo del maglioncino, provando a tutti i costi a resistere, a porre un muro tra di noi, ma sentivo che, ogni volta che lo innalzavo, di risposta lui lo faceva crollare all'istante, con un semplice battito di ciglia. Il cuore mi faceva così male che non riuscivo neanche a sentirne il dolore, solo le urla straziate con cui mi scongiurava di ascoltarlo.

«Ma io non so' la gente.»

Avanzò a passo deciso verso di me, di risposta io indietreggiai. Purtroppo per me, però, mi ritrovai con la schiena schiacciata contro il muro e lui davanti, bloccata e senza via di fuga. I battiti si fecero spasmodici, si straziavano e al tempo stesso generavano il calore più puro che avessi mai provato in vita mia.

«Io so' una testa de coccio.»

Serrai la mandibola, tirai ancor più l'orlo del maglioncino, gli occhi fissi ai miei piedi.

«Te martellerò la testa ancora e ancora fino a quando quelle voci che t'hanno ficcato là dentro non se romperanno abbastanza da farti vede' da sola quel che sei davvero.»

Inspirai a fatica, ero sul punto di andare in asfissia. «Io so quello che sono... Io sono la figlia di-»

«No, tu non sei la figlia de Lawrence Reid, tu se' Agatha e basta.»

Smettila, ti prego.

«Sei 'na vittima del mondo che da anni te sta ad accusa' de tutto e di più solo perché sei nata da uno stronzo.»

Mi tremarono le gambe, non seppi dire come ancora riuscissi a mantenermi in piedi.

«E io riuscirò a fartelo ammette', che tu lo voglia o no.»

«N-Non è così, credimi, io-»

«Io non so' il mondo, t'ho detto» mi bloccò severo. «Io ho visto il fiore. E non ho alcuna intenzione de stamme fermo e zitto mentre tu lo lasci appassì perché la gente t'ha convinta che c'hai solo aculei addosso.»

Mi morsi l'interno delle guance, il cuore batteva così forte e veloce che nemmeno lo percepivo più, solo il sangue a scorrermi dentro a velocità bestiale, folle.

«Te lo farò vede' pure a te, quel fiore, me ne sbatto i coglioni delle spine.»










NOTA AUTRICE

Capitolo lunghissimo?

Sì.

Fottesega?

ASSOLUTAMENTE SÌ.

Anche perché, come avrete visto, la prima metà è TRAUMA, quindi v'ho compensato alla grande coi nostri eroi e l'altro nuovo nostro eroe:

DANTE.

Che grande! Che uomo! (cit. Dory)

Non c'ho sbatta de calcolà i punteggi, lo farò al prossimo capitolo (se c'avrò sbatta), ve posso però di' quello che già state pensando voi.

Cosciente o non cosciente de ciò, Agatha lo sta a fa' riemergere dalla tragica fatalità della friendzone in cui l'ha ficcato (e manco lo considera un friend).

No, me pare ovvio: non è innamorata.

No, me pare ovvio: non c'ha ancora 'na cotta stratosferica.

Ma...

Diciamo che sta a fare passettini in avanti.

Piccolissimi, sì, ma so' comunque passettini.

E piccolissimi so anche i cambiamenti nel rapporto tra questi due disagiati.

Avete notato, ve', che adesso Dante non sta più a mascherare MINIMAMENTE i suoi intenti? Se prima non le diceva che rideva perché la trova adorabile quando s'indigna, ora non c'ha problema ad ammetterlo, e questo è dovuto principalmente al fatto che ha capito, credo sia evidente, che Agatha ora si fida abbastanza di lui da non pensar male sul suo conto, pur non credendo a quello che dice.

Ciò è dovuto all'evento giacca, obv.

Certo, lei ancora non ha compreso che lui è sincero su questo, compromessa emotivamente com'è, ma al tempo stesso non sta in automatico a scalare punti davanti a quei complimenti che ritiene non esser veri da parte di Dante.

Come spiegato da lui a fine capitolo, il metodo principale che userà per fotterla - letteralmente e non - sia per bombarsela come desidera che per far sì che lei ammetta de esse 'na vittima della situazione in cui se trova è uno soltanto:

ER MARTELLO.

Na sorta de legge del contrappasso per tutte le volte che ha dovuto usasselo sui suoi coglioni. Ade' lo userà sulla testa de coccio de Agatha per incrinare anche solo in minima parte il plagio che ha subìto dal mondo e dalla madre.

Mi pare ovvio che Dante NON PUO' CITARE ANCORA AMMAMMA PEZZEMMERD, pur consapevole ormai che lei è LA CAUSA PRINCIPALE dei più grandi TRAUMI della sua Beagatha, perché se lo facesse mo', Agatha crollerebbe e non nel modo in cui lui spera.

Lo ribadisco perché non se sa' mai nella vita.

Perché Dante non suggerisce ad Agatha la soluzione più ovvia e sana de tutte, cioè andare da uno psicologo?

Perché Agatha NON LO FAREBBE MAI.

Non pensa de meritasse la felicità, figuratevi di guarire.

E per quanto infame lui sia, non può trascinarla a forza da uno psicologo, anche perché, pure se lo facesse, Agatha durante le sedute se starebbe zitta e non parlerebbe comunque dei suoi TRAUMI, quindi non servirebbe a 'na ciola.

So che suona terribilmente trash da dire, è la classica scusa che si usa nei dark romance che in realtà so solo toxic romance per giustifica' i comportamenti de merda de Toxic Boy, ma qua Dante letteralmente NON HA ALTERNATIVE se non fare un po' l'infame, perché altrimenti la sua Beagatha davvero riuscirebbe a rinchiudersi nel suo guscio e a soffrì da sola fino alla fine dei suoi giorni (che se spera andranno oltre il 5 agosto).

E ce tengo a dirvelo: DANTE NON È TOSSICO.

Sì, sta ad usa' mezzi infami, verissimo, ma non abusa della protagonista, non la maltratta, non la considera un oggetto-possesso, non la molesta e non la vede manco come LA VERGINE SACRAH che lui vuole posssssedere da bravo Toxic Boy con la fissa per la purity culture demmerde, persino ora che ha scoperto QUANTO è Verginy.

Quando sente il suo odor non pensa "oh che bello, sa de bambina innoccientieh, lei è diversah, non come quelle PuTtanelleH che me scopavo", non se diverte/eccita manco a spaventarla, se è per questo. Come lui stesso afferma: la preferisce ora, tutta indignata e corrucciata che cerca di farsi valere, che a come era ai loro primi incontri dove, a causa della sua stronzaggine, era impaurita. 

La prima cosa che ha pensato, infatti, dimostrata da quel che le dice, nello scoprire QUANTO è Verginy Agatha, è stato il fatto che nessun ragazzo s'è mai voluto prendere la briga con lei di lottare e faticare per superare lo scoglio dell'afefobia, vedendolo invece come una fatica e un fattore stressante, nient'altro che questo. S'è persino irritato quando ha capito che Agatha, per via di questo costante giudizio, pensa sia naturale non voler lavorare insieme su tale problema, ma anzi solo e soltanto una fatica e perdita di tempo.

Na volta ve chiesi: secondo voi, come reagirà Dante nello scoprire quanto è Verginy Agatha?

Ecco la risposta: s'è innervosito. No, non perché sperava che lei avesse bombato prima perché c'ha il panico di poter essere lui il primo. Dante non è Christian Grey che fra un po' se fa venì l'infarto davanti alla PUREZZAH de quel comò de Anastasia Steele che alla sua domanda "Come hai fatto a resta' vergine?", lei, demente, glie risponde: "Eh... Stavo leggendo."

...

Ma vaffanculo, Anastasia.

Tornando ad Orange Boy...

A Dante non gliene frega NA CIOLA della sua verginità.

Glie frega, però, che lei è convinta che nessuno mai sarebbe disposto a lottare per avere una relazione con lei, per colpa della gente che le ha detto che non ne vale la pena. QUESTO è ciò che lo infastidisce.

Giuro che se uno de voi osa dimme che Dante è tossico, gli stermino la famiglia (tranne cani e gatti). 

Il rapporto tra questi due è davvero piuttosto contorto e complicato, ma al tempo stesso, in realtà, anche molto semplice.

Da un lato abbiamo Agatha, 'na povera disgraziata traumatizzata da tutto e tutti, vittima de continue ingiustizie e che per questo c'ha un tremendo difetto: dasse colpe per qualsiasi cosa le succeda. Le sue relazioni principali nel corso della sua vita sono state tre: Dio, il padre e Betsy.

Il primo (secondo lei) la sta a punì, il secondo è in carcere dopo che ha sterminato mezzo mondo e la sua migliore amica, la terza è stata ammazzata dal secondo.

Quindi: NA MERDA.

In più, a causa del suo segreto, non è capace de distingue realtà da colpe, e quindi c'ha na propensione MASSIMA E ASSOLUTA ad accusasse pure per il diluvio universale (in cui, tra l'altro, l'unico stronzo lì è stato davvero Dio, stando a come la racconta l'antico testamento, perché minchia c'entravano i neonati in quella storia????). 

Non ha mai avuto relazioni amorose, i ragazzi con cui aveva "rapporti" erano sì cordiali con lei, ma facevano ben intendere che MAI l'avrebbero vista sotto quell'aspetto proprio a causa della sua fobia. E il vero motivo, come lei stessa dichiara, per cui non è stata vittima de atti de derisione gravi e de bullismo è Betsy e soprattutto i calci volanti di Betsy.

Betsy, ti amiamo.

Quindi sì, per tutti sti fattori messi insieme, Agatha non concepisce proprio la possibilità che Dante voglia fotterla non solo metaforicamente ma SOPRATTUTTO letteralmente.

E so che cosa potrebbero pensa alcuni de voi.

Simo, ma non la stai a fa troppo Hope Summer Verginy ad Agatha? È pure una de quelle che se crede bruttissima e però le vanno dietro i manzi!

NO.

Non osate, muffins, ve infibulo i criceti.

Le Hope Summer Verginy dei romanzi trash so iper mega perculabili perché chissà come, ogni volta, se fanno complimenti in maniera indiretta: le famose curve al punto giusto, gli occhi dei mille manzi che le mangiano e via dicendo. Nascono con l'obiettivo palese de sembrare innoccientih così da far coinvolgere le lettrici e farle sperare che anche loro, un giorno, attireranno dei manzi e quindi, in maniera sempre indiretta, rimarcano le loro qualità "fingendo" che non siano tali.

Agatha non è così.

Agatha NON HA AUTOSTIMA, questa è la differenza. Ve sfido a trovare UNA SOLA VOLTA in cui in qualche modo se fa un complimento indiretto fingendo che non lo sia.

Non ce sta, credete a me.

Lei CREDE davvero de esse orrenda sia di aspetto che de carattere, crede davvero de non avere alcuna qualità interessante, se non esse "discreta" in cucina e con lo studio. E no, non l'ho resa così perché il lettore si identifichi con lei per questo, ANZI.

L'ho fatto perché capiate QUANT'È SBAGLIATA LA COSA, non perché voi la invidiate. Non è umiltà non avecce autostima, non è bello odiarsi così, non c'è nulla de romantico: è solo un immenso, gargantuesco problema che te ostacola la vita.

Guardate ai suoi continui autosabotaggi, al fastidio che de tanto in tanto ce crea quando continua a ricordarsi de non cedere alla "tentazione", agli schiaffi che le vorremmo dare urlandole DAI RETTA AI GEMELLI, DANTE E GLI ALTRI, AGATHA!

Agatha non è la Hope dalla bellezza stratosferica che però mai è stata notata da nessuno perché solo er manzone spescialeh è capace de fallo mentre tutti gli altri so coglioni. Agatha è na pora crista che è stata giudicata superficialmente per tutta la sua vita a causa della sua fobia e dal fatto che non rispetta i canoni di bellezza della nostra società, cioè: la donna deve esse fragggileh, delicata e minutah per esse 'na donna, una VERA donna.

So che forse alcuni di voi crederanno che sti canoni de bellezza (che di per sé non so sbagliati, il problema è che se non sono rispettati, veniamo giudicati all'istante) non ce stanno più, ma mi è facile dimostrarvi che ce stanno eccome.

Elencatemi almeno dieci storie qua su wattpad in cui la protagonista non è minuta e bassa, al contrario è altissima o un "maschiaccio" o molto sovrappeso.

Elencatemi dieci storie qua su wattpad in cui il protagonista maschile idem o è basso o sovrappeso o """"effemminato"""".

Divieto: NON potete citare Sasha Porter de La custode di cuori tra queste storie e nemmeno Timothy di La pioggia prega in autunno.

Non barate, muffins.

Sempre tornando a noi, Agatha non è "spesciale" e "diversa dalle altreh", Dante non è "spescialeh" perché l'ha scorta a differenza di tutti gli altri. Non è na cosa che me preoccupo di precisare nella narrazione, ma vi assicuro che prima che ci fosse la tragedia Jane-Ryan, ha avuto le sue relazioni romantiche in passato.

Il motivo per cui adesso scopa soltanto (cit. Minnie) è stato ribadito più e più volte: le cimici non sono approvate da Dory e Dorian e quindi lui non vuole approfondire il rapporto, dato che non vuole far soffrire i suoi fratellini che già hanno sofferto abbastanza in passato.

Prima, ovviamente, quando Jane era viva, non accadeva: Dante non era il tutore ufficiale di Dory e Dorian, non si doveva occupare di loro all'epoca come sta a fare ora. Le ragazze che frequentava e quelle con cui intratteneva relazioni erano al di fuori della sua sfera familiare, cosa che non può più fare adesso, visto che è la sola famiglia che è rimasta a quei due e viceversa loro per lui.

E sia chiaro, spero che si sia anche visto: Dante non è uno di quelli che "colleziona" donne e le vede solo e soltanto come oggetti da scopare e usare o trofei di cui vantarsi. Non considera PuTtanelleH le "cimici" con cui è stato, inclusa Vicky, semplicemente le vede come ragazze con cui si è trovato d'accordo sull'interesse comune di voler 🎺🎺🎺 e basta, mantenendo il rapporto a una sorta di amicizia superficiale.

E ci sta, eh, non c'è nulla di male in questo.

Ho sempre detestato sto concetto che le ragazze che Toxic Boy se trombava prima de Hope sono tutte PuTtanelleH senza valore perché, appunto, se lo 🎺 e basta e lui non le vedeva se non come buco in cui infilacce er pipo mastodontico, come sorta di paragone per elevare ancor più sul piedistallo la sacra, casta e purah Hope Summer Verginy (che de casto non c'ha niente e anzi, spesso è peggio di tutte).

Anche perché, semo sinceri, in quelle storie, se proprio dovemo definire qualcuno PuTtaNellah (parola che me sta altamente sul cazzo, sia chiaro), non so le ragazze che Toxic Boy se bomba.

È Toxic Boy.

Per non parlare del modo velato con cui Hope Summer Verginy le insulta nella testa in quanto, appunto, PuTtaNelleH (dimenticando apposta il fondamentale dettaglio che a 🎺 erano in due, incluso Toxic Boy che, però, stranamente, non viene MAI giudicato per questo), per sentirsi migliore e superiore a loro per via dei suoi "valori" più grandi.

Valori più grandi un par de palle, Hope Summer Scemity, che quando hai incontrato Toxic Boy gliel'hai lanciata con la fionda - come na catapult' - in 0.00000001 secondi, non appena hai scorto i suoi pettorali e muscoli decadimensionali, lui t'ha sussurrato all'orecchio parole cringe come Tu sei diversa dalle altre, mi fai provare cose che non ho mai provato con le altre, logggiuroh, e hai sentito l'odore de menta, tabacco e sandalo (che odori di merda, e lo dico da fumatrice, per non parlare del sandalo che me sa de piede zozzo), in maniera anche più veloce delle Cheerleader di turno.

Se per te loro so' PuTtanelleH perché se so 🎺 Toxic Boy senza sentimenti, se' PuTtaNellah pure tu, stronza. Come dice mi nonna della caponata:

I muscoli non so sentimenti: è solo voglia de cazzo.

Al di là di tutto, vi ricordo anche che Vicky stessa, seppur in apparenza lo sia, non viene presentata come lo stereotipo della cheerleader Barbie stronza figlia di puttana che fa bullismo palese alla Hope de turno. Per quanto effettivamente abbia tentato, all'incontro al mercato, di marcare il territorio con Agatha e di insultarla velatamente con "curioso outfit", non s'è messa a fare scenate cringe come si legge nei libri trash.

E i motivi per cui Dante è stato così freddo con lei sono quattro, e no, non perché la vede come la puttanellah che si scopava e che ora non vale più un cazzo in confronto alla sua Hope purah e SACRAH. Spero se siano intuiti, ma non se sa mai:

1) Vicky li ha interrotti, a lui e ad Agatha, proprio quando lui stava per chiederle qualcosa di estremamente importante (cioè come era avvenuto il "toccamento" con Betsy e i requisiti perché lei non si spaventi. Agatha non lo sa, obv). E non solo li ha interrotti, ma ha fatto proprio il terzo incomodo che non c'entrava nulla in quella situazione e ha messo a disagio Agatha volutamente.

2) Come detto e ripetuto da lui, gli accordi erano chiari: nessun impegno da entrambe le parti. Perciò il "patto" era che non appena uno dei due decideva di tirarsi indietro, l'altro non avrebbe detto e chiesto nulla. Cosa che Vicky palesemente NON FA: cita i gemelli provando a comprarlo apposta così facendo, pur consapevole di non piacere a quei due, insiste sul chiedergli il perché lui abbia deciso di allontanarsi e non frequentarla più come prima nonostante lui sia stato categorico nel ricordarle che non so cazzi che la riguardano.

3) C'aveva prescia di fare capire ad Agatha che tra lui e Vicky non c'era più nulla, sì. Non voleva essere frainteso in alcun modo per questo, da lei, visto la situazione già tragica in cui se trovava de suo.

4) Dante non è coglione. Quando Vicky ha detto "Hai un curioso outfit, indossi persino i guanti", ha capito subito che sottilmente stava a perculare Agostina nel tentativo di "marcare il territorio", per farla sentire a disagio rispetto a lei che era vestita in maniera chikkettosah.

Quindi sì, benché in apparenza Agatha e Dante ricalchino gli stereotipi Hope Summer Verginy e BADDE BOIH, non lo sono minimamente a conti fatti.

La prima è una ragazza che è stata, come tanti di noi, sotto il giudizio superficiale dei canoni di bellezza, il secondo è uno che se n'è sempre sbattuto i coglioni "delle spine".

Ve ricordo che il motivo per cui Dante, sin da quasi subito, ad eccezione del primo e secondo incontro dove è stato stronzo assoluto, si è interessato a lei è per come Agatha voleva bene ai gemelli: il vero e unico modo per conquistare il suo cuore so quei due criminali.

Quindi è partito da un interesse che proveniva dal suo carattere e che poi s'è aperto anche al suo aspetto.

E ve dico n'altra cosa: non credete che con sta storia se ricorrerà al mito tanto amato dai lettori e abusato dagli scrittori/scrittrici de dark romance "L'AMORE SALVAHHH".

No.

L'amore, per quanto sia bella come idea, non salva. Non basta venì scopate da chi amiamo per risolvere i nostri TRAUMI, e anche questo Dante lo sa bene, concetto che spiego NEL DETTAGLIO nella mia altra storia completa qua su sta piattaforma: La pioggia prega in autunno.

Come dice il NOSTRO EROEH Killian, personaggio preferito in assoluto della storia LPPIA:

L'amore non è una medicina. Puoi amare una persona senza gamba quanto vuoi, ma la gamba non gli ricrescerà lo stesso.

Concetto anche scritto nella mia storia su Amazon Moonlight lullaby e anche dalla storia tra Jane e Ryan qua.

No, l'amore non salva.

Per quanto un romanzo non debba essere realistico in assoluto al mille per mille, me rifiuterò SEMPRE de far passare un messaggio del genere. Per farvi capire perché, sarò diretta e schietta al massimo più de Kevin in Apologia di Callisto:

Per TRAUMI del genere c'è una soluzione soltanto.

La terapia.

Non importa quante volte Manzoh te pucci il suo biscotto, quanto te ciucci er maritozzo, comunque rimarrai traumatizzata.

Le storie in cui sti traumi se risolvono a suon de scopate e de ammmmmoreh sacro, ve lo dico in modo papale papale, me stanno altamente sul culo.

Non le sopporto.

Sìsì, lo so, le storie non hanno da esse realistiche al massimo, ma purtroppo su sto concetto sono intransigente quanto lo sono sulle relazioni tossiche che vengono fatte passare per vero amoreh. È na mia regola de vita.

Da persona che a sua volta ha i suoi TRAUMI e che è stata fidanzata per otto lunghi anni, ve lo garantisco: er pipo aiuta, sì, ma non guarisce.

No, nemmeno er pipo cor piercing guarisce.

Per favve capire: riterreste verosimile una storia in cui una che soffre di schizofrenia guarisce dopo essersi innamorata?

Ecco.

Quindi tutto quello che sta a fa Dante è inutile???

No.

L'amore NON SALVA, ma questo non vuol dire che non possa AIUTARE, darci il sostegno necessario per avanzare invece che indietreggiare. Ma di nuovo, è UN SOSTEGNO, mai e poi mai sarà LA SOLUZIONE ASSOLUTA.

Come dice la mi nonna della caponata: un bastone te aiuta sì a cammina, ma le gambe hai da muoverle tu, mica il bastone.

E credete a me: Dante questo lo sa bene.

Non ha la pretesa di dire che guarirà Agatha al mille per mille, vuole però far sì di poterla spronare abbastanza così che lei esca i suoi quattro coglioni (cit. Dory) per ammettere di MERITARSI di guarire e quindi intraprendere un percorso con cui riuscire a farlo, sostenuta da lui, la sua famiglia e i suoi amici.

Lo sa benissimo che bombarsela non le cancellerà totalmente tutti gli anni di plagio che ha subìto. L'ha visto coi suoi occhi, col rapporto tra sua madre e Ryan, in fondo, benché la situazione tra loro due sia completamente diversa.

Purtroppo, ripeto, la soluzione più ovvia e sana, andare dallo psicologo, al momento ancora non può essere suggerita ad Agatha.

Quindi per ora Dante ha solo sta alternativa: fa l'infame.

Per ora.

Pensateci, se avessi usato sto concetto, avrei potuto applicarlo anche a Lawrence, no?

Lui se accorge de amare Agatha e smette quindi di ammazzare.

AHAHAHAHAHAHAHAHAHA

Ecco.

Ora capite perché me sta sul culo sto concetto?

Per carità, non voglio dire che tutti i libri che lo utilizzano siano merda assoluta, sia chiaro, alla fine i libri servono anche a farci sognare, ma no.

Io non lo userò.

Non ho la pretesa di essere realistica al mille per mille, ma su questo non ho alcuna intenzione di passarci sopra, mi dispiace.

👏🏻L'amore 👏🏻Non 👏🏻 Salva 👏🏻

👏🏻 Er 👏🏻 pipo 👏🏻 e 👏🏻 il 👏🏻 maritozzo 👏🏻 non 👏🏻 curano 👏🏻 i 👏🏻 traumi 👏🏻

👏🏻 Non 👏🏻 basta 👏🏻 trovare 👏🏻 l'amore 👏🏻 e 👏🏻 trombare 👏🏻 per 👏🏻guarire 👏🏻 magicamente 👏🏻

Aiuta, sì, ma non guarisce.

Simo, ma in Apologia di Callisto fai passare questo messaggio!

🖕🏻🖕🏻🖕🏻

No.

Ve ricordo che Callisto, anche DOPO quello che SPOILER SPOILER SPOILER SPOILER, comunque ANCORA soffre per i suoi TRAUMI.

L'amore SOSTIENE Callisto, è sì una sorta di salvezza, ma non una guarigione totale.

Non confondiamo sostegno = salvezza assoluta e incontrastabile.

Callisto, poi, a differenza di Agatha, ha SEMPRE avuto una grande forza e un grande coraggio, benché terribilmente macchiati da quello che SPOILER SPOILER SPOILER SPOILER per anni. Inoltre, benché anche lei compromessa parzialmente a livello emotivo a causa di SPOILER SPOILER SPOILER SPOILER, non era stata plagiata come Agatha, sapeva che SPOILER SPOILER SPOILER era sbagliato, motivo per cui ha preso la decisione di SPOILER SPOILER SPOILER per il bene di Jesse.

Chi ha letto capirà.

Come direbbe Dory, Callisto ha SEMPRE mostrato i suoi quattro coglioni. E fidatevi, Agatha avrebbe davvero bisogno anche solo del 5% della forza e del coraggio di Callisto. Invece, purtroppo, li tira sì fuori, i suoi quattro coglioni, ma se ne pente subito dopo, se ne vergogna e pensa all'istante di sbagliarsi nel farlo.

Bene, andiamo alla prima metà del capitolo, il TRAUMA.

Viene presentato un altro personaggio importante quasi quanto Joanne, con cui intravediamo uno scorcio sul passato della Agatha Pre Trauma Babbo Bastardo.

Lucas.

Che sin dai capitoli iniziali ci è chiaro essere uno dei pochi che NON CONDANNA Agatha per quanto accaduto a Betsy. Agatha, ahimè, compromessa com'è, è certa lo faccia per tutelare la moglie, ma noi lettori, che mai siamo stati plagiati, possiamo vedere la realtà dei fatti.

Strano, vero? Che il padre di Betsy difenda Agatha, mentre la madre la accusi e la insulti, pur essendo marito e moglie.

Eppure capita in tantissime occasioni, l'ennesima riprova dell'umanità della gente, le cui reazioni davanti allo stesso TRAUMA sono completamente diverse.

Lucas vuole parlare con Agatha. Perché?

Ah bho.

Simo, che bastarda! Hai fatto sì che Agatha non rispondesse a Lucas così ce tieni sulle spine!

Miscredenti lettori!

Va bene che so sadica, sì, ma no, non è per quello.

Secondo voi, Agatha, per come è adesso, sarebbe realistica se c'avesse il coraggio di parlare con Lucas e Joanne, i genitori della ragazza che PENSA di essere lei ad aver ucciso tramite il padre?

Ecco (pt. 786867)

Quello che sappiamo è soltanto na cosa:

Joanne, da un bel po', ha smesso di mandare mail minatorie ad Agatha.

E ci tengo a farvi notare il fatto che il primo pensiero della nostra protetta, davanti a questa situazione rara, è spaventarsi e preoccuparsi subito che sia successo qualcosa di grave a Joanne o che si sia ammalata.

Joanne, che è la stessa donna che da quattro anni le sta a dire e ad augurare LE PEGGIO COSE. Eppure Agatha non solo non la biasima per questo, consapevole di quanto è agonizzata dal dolore della perdita di Betsy, ma anzi si preoccupa per la sua salute.

Na cucciolotta davvero, la nostra Thaty.

Come detto e ripetuto, Lucas e Joanne ricopriranno ruoli importanti, SPECIE Joanne.

Ne parlai anche sotto qualche commento, ma ormai lo sapete: so logorroica, quindi ne parlerò anche qui.

Joanne soprattutto ricopre un ruolo FONDAMENTALE nella mente di Agatha, anche se lei stessa non se ne accorge, e vari sono stati i modi in cui ciò viene mostrato:

1) Il bigliettino del 5 agosto. Agatha lo ha scritto solo e soltanto per Joanne, pensando, a torto o a ragione ancora non lo sappiamo, che in qualche modo così la farebbe stare meglio. Se non fosse stato per lei, non avrebbe lasciato NULLA.

2) Agatha ha TUTTORA come colore preferito il verde proprio grazie a Joanne che le ha detto quanto sono belli i suoi occhi verdi. E noi ormai sappiamo bene la sottostima che la nostra protetta ha di sé, tale da indurla a criticare/detestare ogni suo lato, eppure Joanne è riuscita a farle amare questo suo colore, nonostante tale colore degli occhi Agatha lo ha ereditato da ammamma pezzemmerd', quindi ha ancor più motivi per detestarlo. Perciò, in qualche modo inconscio, la figura materna e confortevole di Joanne è andata a "medicare" in parte una delle centinaia di ferite di Agatha provocate dalla figura materna e abusiva di pezzemerd'. Cosa che NESSUNO, nemmeno Lawrence e Betsy, le persone che lei più amava/ama al mondo, era mai riuscito a fare prima.

E parlando di pezzemerd', vincitrice del premio GENITORE PIÙ FIGLIO DI PUTTANA DELL'ANNO, seconda solo forse al padre dei gemelli (assurdo che Lawrence non sia su quel podio per ora)...

Anche qui viene mostrato uno stralcio minuscolissimissimo su pezzemerd'.

Un flashback... strano, non credete anche voi?

Possiamo SUPPORE che si tratti del ricordo dell'incidente stradale.

Se andate a rileggervi il prologo, dove viene presentato il TRAUMA dell'incidente, Agatha dice:

Di quello scontro mi rimase una sola memoria.

Perciò la memoria famosa è questa???

Forse sì, forse no. Chissà. (Cit. Orange Boih)

Na cosa però possiamo intuirla, seguendo i vari indizi:

Che fosse un ricordo/un sogno-incubo, nei suoi pensieri qua Agatha chiama pezzemerd' MAMMA.

Mentre in uno stralcio sullo specchio, la chiamava SIGNORA.

Perciò possiamo intuire che, almeno nella sua testa, lei la chiamava e la considerava la sua mamma.

E mi pare evidente, non c'è bisogno di specificarlo, sicuro lo faceva anche quando pezzemerd' la portava a messa la domenica mattina e incontravano gli altri fedeli.

Però sta cosa, sto contrasto signora/mamma sarà fondamentale, e già potete intuire in che modo da quanto è stato detto su pezzemerd' negli scorsi capitoli.

Alla domanda di Lawrence, Agatha dice che amava sua madre tantissimo e che questa era la sola verità su cui avrebbe davvero voluto mentire.

Quindi sì.

In maniera terribilmente simile a come sta accadendo ora con Lawrence, da parte di Agatha - almeno in apparenza - c'era na sorta di ambivalenza tra odio e amore nei confronti di pezzemerd'.

Perché, non so se s'è capito, sto libro analizza proprio sto contrasto assurdo che tanto contrasto non è tra sti due sentimenti che di primo acchito mai potrebbero stare insieme:

Odio e amore.

E non lo dimostra solo Agatha.

Ma anche i gemelli con il padre Ryan.

Dante con la madre Jane (il rancore a suo modo è una sfumatura, seppur più delicata e meno crudele, dell'odio)

Lawrence con sua madre Lily.

Perciò so tutti uguali?

No.

Il rapporto Agatha-pezzemmerd' non è come quello Agatha-Lawrence, idem quello tra i gemelli e Ryan e tra Dante e Jane.

Partono da una base simile, sì, ma si costruiscono in maniera completamente diversa.

Sono tutti diversi e unici a loro modo, alcuni sono letteralmente MALATI e disturbati, come l'odio/amore di Lawrence per Lily, che è così distorto e disturbato da non poter neanche essere considerato come sentimento NORMALE, solo e soltanto tossico.

(Sì, ho chiamato la nonna pedofila-bastarda Lily come dispetto a J.K. Rowling per la sua transfobia orrenda con cui m'ha letteralmente devastata facendomi crollare un mito. Ormai lo sapete, so esse molto infame e infantile a mio modo 😎)

Tornando ad ammamma Thaty pezzemerd', so che state a pensa, muffins.

Che minchia significa "Mia mamma non è così"???? Che minchia le ha detto pezzemerd' ad Agatha???

Non faccio spoiler.

Ve ricordo solo questo:

Odio-amore.

Bene, credo de aver detto tutto. Attendo le vostre denunce per I TRAUMI che vi provoco e le vostre teorie in merito a ciò 😎

SCIAU!

P.s.

Continuiamo a pregare perché Orange Boy riesca a vincere la guerra tra le due teste de coccio.

Daje, Dante, famo tutti il tifo per te!
(Un pochissimissimissimissimissimo anche Agatha)

P.p.s

Come Dante vede Agatha quando lei se incazza:

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