Sorelle
«Fuori.»
Non attesi un attimo.
Mi sollevai subito in piedi, con le gambe che ancora mi tremavano e il respiro incastrato in gola come fosse un coltello.
«V-Vado via su-»
«Statte ferma, Thaty.»
Sussultai, stupefatta nel ritrovarmi Dory in piedi a bloccarmi la strada, con le sopracciglia super corrucciate, il nasino all'insù.
«Che minchia di problemi hai rompipalle?» Dorian, come la sorella, si era messo in piedi davanti a Dante, per impedirgli a sua volta di marciare verso di me. Le mani sui fianchi, le braccia arcuate.
Il viso del fratello maggiore si corrugò di nuovo per la furia. «Che minchia di problema ho?» ripeté fuori di sé. «Che cazzo di problemi avete voi diavoli, semmai! Che c'avete in testa a portare qui, a casa mia, una criminale?!»
Soffocai.
«Thaty non è una criminale!» Dory si voltò per guardarlo. «Ma che c'hai pure tu le cimici in testa, rompicoglioni? Manco è mai stata arrestata!»
Il volto di Dante si stava facendo sempre più livido dalla collera, mi irrigidii ovunque, ogni nervo prese a pulsare per la vergogna. «È-È tutto ok, ha ra-ragione lui» mi ritrovai a farfugliare vittima del panico, «devo andarmene da qui e-»
«Thaty, statte ferma!» strillò Dorian, girando il capo con il viso corrucciato come quello della sorella. «T'hanno appena pestata e sei pure triste! Mica puoi rimane da sola!»
«Che cazzo sta succedendo?» tuonò ancora Dante, fissando entrambi i fratelli con il fuoco a mangiargli gli occhi. «Perché cazzo la figlia di quel pezzo di merda è qui?»
«I-Io-»
«Thaty stava venendo menata da quello stronzo di quel negozio di merda che t'avemo detto» spiegò Dory con voce sicura. «Era lei la tipa che c'ha aiutato con quello stronzo.»
Dante aggrottò la fronte, sgranò gli occhi.
Era evidente che non poteva credere a una situazione del genere, al fatto che la figlia di Lawrence Reid fosse capace di un gesto simile.
Risollevò il capo, tornò a fissarmi ed io sobbalzai ancora. Ebbi l'impulso di scostare lo sguardo, di evadere dal suo, ma l'immagine viva di Betsy e del suo viso di rimprovero mi ustionò i pensieri.
Serrai la mascella, mi violentai per non cedere a quel bisogno, per mantenere il contatto visivo. «I-I tuoi fratelli... mi hanno salvata» bisbigliai alla fine con un filo di voce. «Mi dispiace... di essermi introdotta qua senza il tuo-»
«Ma che introdotto! T'abbiamo invitato noi!» mi bloccò ancora Dorian. «Dante, ma che te sei rincoglionito di più oggi? Non sei tu quello che dice sempre che quando qualcuno te salva il culo tu poi lo salvi a lui?»
«Ma certo!» esplose lui. «Già che ci siamo, perché non salvate il culo pure a Ted Bundy, eh?»
Mi morsi il labbro, percepii subito il sapore ferroso sul sangue imbrattarmi la bocca.
«Ma se la polizia ha detto che non c'entra con quello che ha fatto quel pezzo de merda!» strillò Dory.
«E sai perché l'ha detto, Lilith? Perché non c'erano prove! E sai quant'è brava la gente a nasconde le prove? Tutto quello che v'ho insegnato non v'è servito a niente?»
Avrei solo voluto scoppiare a piangere di nuovo, ma non ce la facevo, avevo la sensazione che così avrei solo peggiorato tutto quanto, specie il giudizio di lui con cui già mi aveva condannata.
«Tu ce dici anche sempre che dovemo essere noi a giudicare le persone coi nostri occhi!» Dorian gli puntò l'indice contro. «Che c'hai la coda de paglia adesso e te rimangi la parola?»
«Avete la più pallida idea del rischio che avete corso portandola qua dentro?»
«Ma se se stava a fare pestare! Thaty non sarebbe manco capace de uccidere le cimici nel cervello di quella cretina de Barbie!»
«Thaty?» Le narici di lui fremettero ancora. «Le avete dato pure un cazzo di diminutivo a quella criminale, Lilith?»
«Con che coraggio la chiami criminale, stronzo?» replicò Dorian. «Tu non sei mai finito in carcere per puro culo, eh!»
«Io non ho mai ammazzato nessuno!»
«Manco Thaty l'ha fatto!»
«Che cazzo ne sai tu, Lilith, che la conoscerai da due giorni!»
«Me fido dei miei occhi, non de quello che dice la gente, coglione!»
«Ah sì? Te fidi dei tuoi occhi? Lo vuoi sapere perché quella criminale è qui, Lilith? Lo vuoi sapere? Perché qui è dove hanno trasferito quel pezzo di merda di suo padre!»
Trasalii, fu come venir accoltellata all'infinito allo stomaco.
Aveva ragione. Era proprio quello il motivo.
Un motivo per cui chiunque avrebbe sospettato di me.
Sentii l'umiliazione devastarmi tutto il viso, divorarlo proprio, gli occhi riprendermi a bruciare con furia, come se qualcuno ci avesse versato benzina dentro e li avesse accesi con un fiammifero.
«Io-»
«Pensi che non lo sappia?» Deglutii a fatica, quando Dante tornò a guardarmi adirato. «Credi che sia coglione? Saremo pure in un quartiere di merda, ma ce l'abbiamo ancora internet. Lo sappiamo tutti che ce sta tuo padre nel carcere di questa città adesso.»
Non potevo mentire, sarebbe stato inutile e comunque mi rifiutavo di farlo. Era tutto vero. «I-Io-»
«E quindi?»
«Quindi? Sul serio me stai a chiedere quindi, Satana?» Fissò il fratellino, funesto. «Perché cazzo andrebbe ancora da quel pezzo di merda se-»
«Oh ma lo vedi che sei uno stronzo?!» La voce di Dory esplose nell'appartamento. «È il suo babbo, eh! Sarà pure pezzo de merda, ma è il suo babbo!»
Non so con che forza riuscii a mantenermi in piedi, a non scoppiare a piangere di nuovo, nel sentire le parole di quella bambina, quelle parole che mai mi sarei aspettata sarebbero uscite dalla bocca di qualcuno.
«Che credi che tutti so come te, rompicoglioni, che appena qualcuno te fa un minimo torto lo odi con tutte le cimici che c'hai in testa?» proseguì tra gli strilli indignati Dory, e più parlava, più il mio volto si deturpava a causa dell'agonia che stavo provando. Un sollievo atroce, sofferente, che non mi faceva sentire meglio, ma al contempo non mi faceva sentire nemmeno mostro. «È il suo babbo! Si vede che gli vuole bene anche se è un pezzo de merda!»
«Mica siamo noi a decidere a chi vogliamo bene, eh!» concordò il gemello.
Volevo solo svanire per sempre, rovinarmi a terra e gocciolare nel pianto, sciogliermi sul pavimento insieme alle lacrime, trasformarmi in una pozza che mai più avrebbe potuto tornare a farsi materia.
«V'ho detto mille volte che da gente così dovete stare alla larga!» latrò ancora Dante.
Di nuovo, rischiai di spaccarmi i denti. «Per favore, posso...» Provai a mormorare, tutti e tre tornarono a guardarmi. Inspirai con forza, per impedirmi di esplodere di nuovo. «Posso andarmene subito, davvero. Mi dispiace... di aver... Mi dispiace e basta.»
«Thaty, non lo devi ascoltare a 'sto rompicoglioni» intervenne Dorian. «C'ha l'ansia da papà chioccia col culo nostro per qualsiasi cosa.»
«Io c'avrei l'ansia? Voi due demoni avete portato una che quasi sicuro ha ammazzato gente a destra e manca! O che ha lasciato il suo babbo farlo per anni e si è stata zitta perché non c'aveva i coglioni di fermarlo! E io c'avrei l'ansia, eh? L'ansia! Ma sentiti! Ve pare così strano che non voglio rischiare de diventare figlio unico perché siete due cretini?»
Lo sai cosa devi dire allo specchio, Agatha?
Ho sbagliato, ho sbagliato, ho sbagliato.
Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace.
Mi tremò il labbro inferiore, ripresi a morderlo, ma neanche quello bastò per fermarlo, adesso anche la mascella mi tremava.
«Ma che la conosci? Sai legge nella mente, stronzo? Non lo sai se è stata lei!»
«Forse non lo è stata, ma appunto, Lilith, forse! Che devo dà per scontato che è innocente solo perché v'ha salvato il culo una volta?» La voce di Dante si stava facendo sempre più feroce, e di risposta il mio corpo tremava sempre di più. «Manco conoscete la storia per bene, voi due! Avete idea di chi ha ammazzato per ultima quel pezzo di merda?»
Sussultai.
Betsy.
Lui... stava parlando... di Betsy.
«Ve lo dico io, chi ha ammazzato per ultima! La migliore amica di quella là!»
Un'ondata di furore m'investì in pieno, con così tanta crudeltà che credetti di esser già morta.
Agatha, io non sarei mai amica di una persona debole, quante volte te lo devo ripetere?
«E quella là, nonostante questo, s'è trasferita apposta, da una città che è a otto ore de macchina da qui come minimo, per andare a trovare il pezzo de merda che le ha ammazzato la migliore amica! Davvero siete così stupidi da credere che-»
«Ehi, ma chi ti credi di essere tu?»
Un silenzio profondo, denso e pesante saturò l'appartamento l'attimo dopo in cui pronunciai quelle parole.
A stento notai di averle lasciate uscir fuori, nemmeno compresi come ci fossi riuscita.
Non le avevo neanche pensate nella mia mente, la bocca si era aperta da sola, la lingua aveva preso vita e aveva modellato la voce per scandire ciascuna sillaba di quella frase.
E non capivo, di nuovo non mi capivo.
Non pensavo, semplicemente parlavo.
Lo guardavo, guardavo la sua fronte contratta, gli occhi adirati, e mi accorsi di avere la sua stessa espressione in viso.
«Mi conosci?» domandai. «Hai mai parlato con me prima d'ora? Sai qualcosa su di me, a parte tutte le mille stronzate che vengono sparate in continuazione dai media?»
Dante serrò la mascella. «Tu-»
«Chi ti credi di essere per dare giudizi su una che non hai mai incontrato prima, eh?» La voce mi si dilaniò dalla rabbia e dal pianto che non osavo far sgorgare fuori. «Non sai neanche qual è il mio piatto preferito, ma pretendi di sapere che ho ucciso la mia migliore amica o che non soffro per la sua morte solo perché il suo assassino è mio padre?»
Ero ben conscia di star sbagliando per la millesima volta.
Ben conscia che avrei dovuto pagare il prezzo anche per quelle mie azioni.
Ma non potevo fermarmi, era come se l'ira si fosse impossessata della mente, come se ascoltare le voci di quei due bambini, il modo in cui mi avevano difesa, avesse fatto riscattare quella minuscola parte di me che ancora, nonostante tutto, desiderava essere ascoltata. Una volta, una volta soltanto.
Non devi cambiare, Agatha, devi solo imparare a lottare per te stessa.
E adesso quella minuscola parte stava dilagando, stava invadendo tutte le altre parti, si gonfiava e stracciava le altre, le uccideva.
E volevo soffocarla di nuovo, volevo zittirla di nuovo, ma questa lottava coi denti per non cedere di un passo, imperava nella mia gola, suonava le corde vocali di modo che pronunciassero per lei quei sentimenti che tentavo di soffocare.
«Che ne sai tu del motivo per cui voglio continuare a vedere mio padre? Che ne sai tu?» Più parlavo, più volevo morire, ma il corpo si rifiutava, la mente si rifiutava, la collera manteneva entrambi in vita, li reggeva affinché non si lasciassero trascinare ancora nella voragine dei rimpianti. «Hai ragione sul fatto che i tuoi fratelli non avrebbero dovuto portarmi qui, che era rischioso, ma comunque non hai il diritto di giudicarmi e insultarmi senza sapere niente di me! Pensi che leggere la mia pagina su Wikipedia basti per conoscermi? Suppongo allora che tu sappia tutto anche su Zendaya e Tom Holland! Quali sono i loro piatti preferiti, lo sai? Oh, e le loro allergie le conosci?»
«Wow, ingravidami» udii Dory commentare.
«Sbattimi come fossi una maracas» proseguì Dorian.
«Thaty, sei ancor più gnoccolona quando ti incazzi» continuò la gemella.
«C'avevamo ragione eccome: molto meglio de Barbie.»
Ma io non riuscivo a guardarli, il mio volto era fisso su quello del fratello maggiore, il cui viso veniva scavato dall'ira.
«Cosa diavolo c'entra un colore con un omicidio, eh?!»
«Mi hai vista che l'ammazzavo? Mi hai vista che la torturavo? Eri lì nel capanno mentre accadeva?» strillai, la sua fronte si corrugò. «Chi pensi di essere per poter giudicarmi colpevole quando neanche la polizia mi ha ritenuta sua complice, eh? Sei un detective in incognito per poterlo affermare? Allora fammi vedere il distintivo, perché da quanto mi è stato detto sei solo un tatuatore qualsiasi!»
Sentii qualcuno applaudire, sicuro che fossero i due gemelli, ma mantenni lo sguardo in alto, rivolto a Dante.
«Che gnoccolona, altro che cimici. Lei c'ha Edison in testa tant'è illuminata.»
«Ed è pure ricca, non lo dimenticare, Dory.»
«Giusto. Ma a 'sto punto Dante non se la merita, manco solo di bombarla, visto che è più coglione del solito. Ehi, Dorian, scopatela tu quando semo più grandi. Così comunque ce dà i soldi.»
«E nel mentre che aspettiamo che cresco come ce la teniamo?»
«Pietà, Dorian, pietà. Tiriamo fuori la storia strappalacrime della nostra famiglia fino alle unghie incarnite de la bis-bis-bisnonna, così ce casca in pieno sicuro. C'ha l'aria de una che piagne pure per Dora l'esploratrice quando la scimmia demente se perde in giro. Che donna, una vera donna. Altro che cimici. Me piace, lei, troppo. Tocca fa di tutto per tenercela.»
Un'altra luce di rabbia scavò gli occhi di Dante. «Me ne sbatto i coglioni se sei innocente o meno, te ne devi andare da qui, ora!»
«Lo volevo fare, ma tu hai iniziato a insultarmi!»
«Capita quando ti ritrovi una possibile pluriomicida in casa!»
La rabbia saliva e saliva e saliva, sia in lui che in me, e nella testa sentivo le voci della coscienza abbaiarmi contro per ricordarmi qual era il mio posto, quanto stupida fossi a comportarmi così, a difendermi per qualcosa per cui non potevo essere difesa, perché ero più che colpevole, invece, proprio come affermava quel ragazzo.
Ma l'immagine di Betsy, il suo sorrisetto birbante, mi continuava ad ustionare la mente, altrettanto lo facevano le parole con cui Dorian e Dory mi avevano difesa, ed erano ustioni così profonde da non poter esser sistemate neanche con innesti di calma e autocritica, così profonde da squagliare qualsivoglia forma di remore mi fosse rimasta, così profonde da spaccare quel maledetto specchio che ben conoscevo, quel maledetto specchio che mi tormentava da che ne avevo memoria.
«Pluriomicida?!» ripetei con un tuono. «Tu sei il tizio che in questo posto garantisce una protezione ai suoi fratellini perché la gente ha paura che la pesti a sangue, e hai addirittura il coraggio di accusare me, una ragazza che neanche conosci se non attraverso la telecronaca e informazioni dette sempre dagli altri, mai state confermate, di essere una pluriomicida?! E dopo che sono stata pestata a mia volta, tra l'altro?!» Mi indicai la guancia gonfia, le sopracciglia folte di lui si serrarono. «La tua idea di assassini seriali deve essere davvero patetica, visto che se lo fossi come dici, farei schifo come pluriomicida! Meno male che sei un tatuatore e non un detective, le vittime creperebbero tutte se fossi tu a indagare!»
Altri applausi.
«Brava, Thaty, continui a diventare sempre più gnoccolona. Che coglioni che c'hai, che coglioni! Meglio delle cimici.»
«Ma è femmina, Dory, non c'ha i coglioni, t'ho detto.»
«Però se ci rifletti, le ovaie alla fine c'hanno due robe tipo palle, no? Quindi pure quelle so tipo coglioni.»
«Sì ma mica so grossi uguali.»
«Di sicuro so più grossi quelli di Thaty adesso che quelli de quello stronzo di Dante. Tocca trova un modo per tenercela, t'ho detto, me piacciono i coglioni veri come i suoi.»
«Ed è pure ricca, non lo dimenticare, Dory.»
«E poi pure le tette so palle, Dorian, quindi non solo c'ha i coglioni delle ovaie, ma pure quelli delle zizze. C'ha quattro coglioni, 'sta gnoccolona. Nessun uomo ce ne ha così tanti, ci stanno maschi che ne hanno uno solo, anzi. Secondo me Dante è tra questi. E invece Thaty ce ne ha quattro, quattro! Che grande. Che donna. Voglio diventare come lei da cresciuta.»
«Silenzio!» strillò Dante ai gemelli, e loro presero a guardarlo torvi. «Dopo farò una bella chiacchierata con voi su quanto siete stati cretini a far entrare così in casa nostra quella là! Non pensate di potervela cavare facilmente, stavolta, piccoli diavoli!»
Dory schioccò la lingua. «Ma sentilo, il papà chioccia.»
«Lo stesso che a quindici anni s'è fatto pestare a sangue solo per scopasse una.»
«E non era manco gnocca. Ma comunque sempre meglio delle cimici.»
«Tutto è meglio de Barbie, Dory, pure la cagarella.»
«Barbie è la cagarella, Dorian.»
«Lasciate stare Vicky da questa storia!» urlò il fratello più grande. «Quante cazzo di volte vi devo dire di non fidarvi mai degli sconosciuti, eh? Quante? Specie in un posto del genere? Specie con una del genere?»
Tornai a mordermi il labbro.
«Quello stronzo la stava pestando perché Thaty c'aveva difesi!» ribatté Dorian con rabbia. «Ma ti sei almeno degnato di guardarla a Thaty, coglione? L'hai visto com'è sfondata la sua faccia?»
Dante si irrigidì ancora, la sorellina proseguì: «Se dovemo diventare dei bastardi che manco danno una mano a quelli che l'hanno aiutati preferiamo facce sfondare noi la testa.»
«E poi Thaty non può toccare la gente se non ha manco i guanti! Davvero credi potrebbe fare qualcosa così?»
Sia io che Dante sussultammo nell'udire le ultime parole di Dorian. Lui, inevitabilmente, puntò lo sguardo alle mie mani, ancora tremanti a causa della rabbia, coi guanti di quel giorno: celesti, semplici, imbrattati però sulla punta delle dita dal sangue della mascherina. Il suo sguardo si accigliò.
La mia afefobia era nota al mondo, sì, ma era stata citata soltanto. I media non si erano mai concentrati troppo su di essa per vari motivi: il primo perché, come aveva detto Dorian, non potevo sì toccare le persone a mani nude, ma con i guanti ci riuscivo eccome, e questo non avrebbe potuto impedirmi perciò di agire sulle vittime a mia volta. Le torture, poi, erano sempre state realizzate attraverso degli strumenti.
Finché ero completamente vestita, finché la mia pelle nuda non entrava in contatto con altra pelle nuda esterna, potevo condurre una vita quasi uguale a tutte le altre. Il fastidio c'era, sì, ma ormai avevo imparato molto bene a sopportarlo, riemergeva solo in situazioni di elevato stress, come quando quell'uomo mi aveva colpito alla guancia.
Il secondo perché in molti erano certi che quella fobia fosse una recita, come aveva recitato mio padre per tutti i suoi ultimi trent'anni fingendosi un cittadino qualsiasi. Forse l'avevo avuta davvero da giovane, o forse l'avevo ancora adesso, ma io fingevo che le sue conseguenze fossero molto più gravi di quelle che erano realmente.
Non sarei certo stata la prima colpevole che tentava di usare carte false come malattie della mente, disturbi della psiche o fobie, per provare la sua innocenza.
In verità, la gente a stento si ricordava di essa, nella maggior parte dei casi. Sia perché era stata citata ben poco dai media e la telecronaca, sia perché, comunque, i modi per poter ferire qualcuno in quel modo ce li avevo lo stesso, anche se ne avessi sofferto sul serio.
Ed era evidente che Dante pensava le stesse cose, a giudicare come continuava a fissarmi i guanti.
Inspirai a fondo di nuovo, accogliendo il respiro dal naso e lasciandolo sgorgare dalla bocca schiusa, mi sforzai di tornare a calmarmi, di reprimere l'ira che d'un tratto era esplosa in testa e in voce.
E in un istante, realizzai quanto appena fatto.
Tutti gli errori che avevo appena commesso.
Avevo di nuovo fatto una stronzata.
Mi ero messa a insultare un tizio che, giustamente, era solo spaventato per l'incolumità dei suoi fratellini più piccoli che cresceva da solo.
Le mani presero a tremarmi con forza, cercai di camuffare quei tremiti stringendole tra loro sopra il grembo, ma non fui in grado di nascondere la vampata d'umiliazione che mi bruciò l'intero viso e corruppe la fronte, mentre venivo investita ancora dall'ormai conosciuto senso di rimpianto.
E tutta quella forza che mi aveva posseduta fino all'attimo prima scomparve come se non fosse mai esistita, a prendere il suo posto fu una vergogna tale da maciullarmi lo stomaco, mentre osservavo quei tre fratelli che erano una famiglia che stava solo tentando di andare avanti.
«Wow, Thaty, sei diventata una pralina al peperoncino» commentò Dory nel guardare il mio viso avvampato.
Il labbro riprese a vibrare con furia. «S-Scusate» bisbigliai alla fine. «Io... è meglio che me ne vado subito.»
«Ma Thaty, non stai ancora bene!»
Ignorai il commento di Dorian, corsi verso il tavolino dove i gemelli avevano lasciato la mia busta della spesa e la mia borsa a tracolla. Mi tolsi la giacca che mi avevano posato addosso per consolarmi e la sistemai sullo schienale di una delle sedie, per poi prendere tutte le mie cose. Sentivo il cuore esplodere e ricomporsi ad ogni battito, ancora e ancora, e lo sguardo ustionante di Dante addosso, capace di dar fuoco alla mia schiena così come adesso stava prendendo fuoco il mio viso.
«S-Sto bene» balbettai nell'affanno, mentre mi sistemavo la borsa sulla spalla e da essa tiravo fuori una delle tante mascherine di riserva. «Grazie... Grazie per tutto quello che avete fatto per me, davvero. Vi sono debitrice.»
Misi la mascherina, appiattii in fretta e furia i capelli così da nasconderli sotto il cappuccio alzato della felpa, e poi mi mossi veloce verso la porta d'ingresso.
«Thaty...»
«Sto bene, Dory, davvero» la rassicurai, fermandomi davanti ai due gemelli. «Grazie sul serio. Siete dei bambini molto coraggiosi.»
Risollevai lo sguardo per incrociare quello di Dante, ancora furente. Per poter raggiungere la porta d'ingresso dell'appartamento, dovevo per forza superarlo.
«N-Non ho toccato i tuoi fratelli» mormorai, e più parlavo più mi vergognavo di quanto mi tremasse la voce, di quanto desiderassi chinare gli occhi in basso per non vedere i suoi. «Mi dispiace... di averti fatto preoccupare. Non mi farò più vedere, lo giuro.»
«Ma Thaty-»
«Sto bene, davvero.»
Avanzai a passo veloce verso la soglia d'ingresso, con gli occhi di tutti e tre a seguirmi.
Afferrai il pomello, lo girai e spalancai l'uscio.
Inspirai a fondo, mi voltai per un istante per scrutare Dante.
Si vedeva, si vedeva solo a guardarlo, quanto tenesse ai suoi fratelli.
Perché erano una famiglia.
Una famiglia vera.
E nel guardarli, un dubbio atroce mi distrusse.
Arrivai a chiedermi se io ne avessi mai avuta una come la loro, di famiglia.
Se quello che avevo avuto con Lawrence lo fosse mai stata.
Se io e Betsy mai... mai eravamo davvero state sorelle, proprio come quei tre.
«I tuoi fratelli» gli mormorai alla fine, e lui serrò la mascella, «sono bambini fantastici.»
Non attesi un attimo di più.
Spalancai l'anta della porta e uscii da quell'appartamento.
Dentro di me, solo un'emozione.
L'invidia.
Uscita dall'edificio di quel condominio, l'aria fredda dell'autunno mi scavò i polmoni.
Richiusi la porta alle mie spalle, mi avviai in fretta nella stradicciola sdrucciolata per tornare a casa.
Avevo fiamme al posto degli occhi, le lacrime cercavano disperate di uscir fuori, ma mi rifiutavo di concedere loro quel sollievo, non un'altra volta.
Mi sentivo impazzire, avrei soltanto voluto tornare indietro, non uscire di casa, non commettere l'errore di divertirmi con quei due bambini.
Le mascelle si serrarono da sole mentre proseguivo a passo lento, con la busta della spesa che si scontrava di continuo contro la mia coscia. A quel punto, sfilai da essa uno dei pacchetti di sigarette appena comprati e provai ad accendermene una dopo essermi abbassata la mascherina, ma le mani mi tremavano talmente tanto che non riuscivo a far scattare la fiamma dell'accendino.
In gola solo un gigantesco, enorme masso che non riuscivo a mandare giù.
Finalmente, la fiammella partì e bruciò la punta della sigaretta, aspirai con avidità il fumo.
Quasi mi venne da ridere, mentre lo facevo. Da che ne avevo memoria, avevo sempre odiato il sapore delle sigarette, persino il loro odore, papà mi aveva tempestato di sermoni assurdi per impedirmi di cadere nella nicotina come gli altri adolescenti.
«Se inizi a fumare e ti becchi il tumore, Agatha, non solo ti diseredo, ma torno indietro nel tempo per impedire il tuo concepimento» mi diceva con quel suo tono serissimo che però io non riuscivo a prendere sul serio.
Ma gli avevo sempre dato retta, sempre, mai avevo toccato una sigaretta.
Almeno fino alla scoperta.
Quando la polizia mi aveva finalmente lasciata andare, dopo giorni di interrogatori, la prima cosa che avevo fatto era stata comprarmi una stecca di Camel. Me le ero fumate tutte, quelle sigarette, una dopo l'altra, seduta sul balcone dell'hotel in cui avevo dovuto pernottare nelle settimane a seguire, perché la nostra casa era sotto indagine della polizia.
E mi aveva fatto schifo, mi aveva fatto così schifo che da allora non ero più riuscita a smettere.
A pochi metri dall'edificio da cui ero appena uscita, mi fermai, la sigaretta appena consumata tra le dita, mentre il mio volto si contorceva a causa del dolore.
Fui costretta ad appoggiarmi al muretto lì accanto, a posarvi sopra tutto il lato sinistro del mio corpo per provare a calmarmi, per impedire all'onda di sofferenza di travolgermi di nuovo.
Chiusi gli occhi, la cenere cadde a terra.
Che cosa stavo facendo?
Che cosa stavo combinando?
Perché ero lì? Come mi ero invischiata in quella situazione?
Perché non desideravo altro che tornare indietro e riprendere a parlare con quei due piccoli criminali?
Perché dovevo sempre essere così debole alle tentazioni?
Perché non potevo semplicemente accettare la mia vera natura e aspettare che arrivasse la condanna, così che tutto finisse una volta per sempre?
«Ohi.»
Un grido mi sfuggì dalle labbra nel sentire quella voce profonda alle mie spalle, ma accadde proprio mentre stavo inspirando dalla sigaretta, e ciò comportò che il fumo mi andò di traverso in gola. Balzai in avanti mentre mi voltavo e iniziavo a tossire con furia, i polmoni a fuoco, le lacrime agli occhi a causa di quel bruciore acuto.
«Fumi? Sul serio?»
Sollevai lo sguardo, stupendomi nel ritrovarmi Dante lì, a mezzo metro da me, lo sguardo ancora funesto, ma anche sorpreso nell'osservare la sigaretta che stringevo ancora in mano.
Mi sentii arrossire, ancora travolta dai colpi. «Io-» L'attimo dopo, scorsi le figure dei suoi fratellini raggiungerci. Subito, non appena li notai, provai a lanciare la sigaretta il più lontano possibile, ma l'avevo stretta così forte tra le dita a causa dello spavento che era rimasta attaccata al guanto e così finì per bruciarmi la punta dell'indice.
Un verso di dolore mi sfuggì mentre sventolavo la mano sia per lenirlo che per staccare la sigaretta dal guanto, e l'espressione di Dante si fece sempre più accigliata.
La vergogna mi travolse, il volto intero mi andò in fiamme.
«Thaty!» Dory mi affiancò nell'istante in cui finalmente riuscii a far cadere il mozzicone, lo pestai in fretta col piede, nella speranza che il fumo non la raggiungesse. «Dove stai andando da sola? È pericoloso, t'ho detto!»
«Sìsì!» Dorian ci raggiunse. «T'accompagnamo noi, Thaty, almeno per oggi. Non si sa mai che quello stronzo non ti stia cercando.»
«Io-» Mi ci volle qualche secondo per capire il significato delle loro parole, e lo sconvolgimento fu talmente tanto che il rossore già evidente si fece ancora più forte.
I gemelli mi guardarono stupefatti. «Wow, Thaty, sei praticamente più rossa delle chiappe di un babbuino» commentò Dorian.
Mi schiarii la gola ancora bruciante a causa del fumo, mentre sbudellavo il mozzicone già spento per terra col piede. «Io-Io sto bene» balbettai. «Non c'è bisogno che mi accompagnate, davvero.»
Sentivo lo sguardo di Dante addosso e questo peggiorava drasticamente la mia situazione. Già ero stupita del fatto che era disposto a riportarmi a casa, ma non potevo illudermi: anche solo a sentire i suoi occhi su di me, era lampante quanto non desiderasse farlo. Immaginai che i fratellini l'avessero costretto.
«Non c'è bisogno» bisbigliai ancora. «So cavarmela, sul serio.»
«Thaty, non t'offende, eh, ma non sei molto convincente dopo che quello lì t'ha pestato metà faccia.»
Dory aveva ragione, realizzarlo aumentò per la millesima volta il mio rossore.
«Cazzo, Thaty, ma sei praticamente una fornace.»
«Che carina che sei, però, eh, una vera fanciulletta, direbbe una gran donna, cioè io.»
«Sì, molto principessa che se vergogna a mostra i piedi nudi.»
«Ohi.» Dante arrivò alle loro spalle, li afferrò per i colletti della maglia e li costrinse a indietreggiare. «Qual era il patto, diavoli?»
«L'accompagnamo ma non le parliamo» risposero in coro i due. «Ma ce ne fottiamo altamente» aggiunse Dorian.
«Come ce ne siamo sempre fottuti» proseguì la sorella, più orgogliosa che mai.
«Vediamo se ve ne fotterà qualcosa quando starete tre metri sottoterra.»
«Meglio, evitiamo le cimici» replicò subito Dorian e Dante lo guardò stizzito.
«Morì per mano di tette stratosferiche come quelle de Thaty è 'na medaglia d'onore.»
«Sempre meglio che morì coglioni come te a causa delle cimici.»
Dante afferrò per i capi entrambi e, senza aggiungere una parola, fece scontrare con forza le loro fronti.
Bestemmie che mai mi sarei aspettata due dodicenni potessero conoscere esplosero dalle bocche dei gemelli, mentre si allontanavano e si carezzavano i punti colpiti.
«Sei uno stronzo!» tuonò Dory. «Manco un po' cavaliere sai essere! Che figure ce fai fare! Guarda che Thaty se dovrà scopare Dorian da grande, così ce dà i suoi soldi.»
Mi accigliai.
«Chi si dovrebbe scopare chi?» tuonò Dante.
«Non capiresti mai, sei così coglione che ti scopi le cimici poracce, d'altronde» replicò Dorian, correndo di nuovo verso di me. «Thaty, indicace la strada, t'accompagnamo.»
«Io non-»
«Thaty, se non ce permetti di accompagnarci» dichiarò Dory con tono improvvisamente solenne, «giuro sui tuoi quattro coglioni che m'abbasso i pantaloni e le mutande e me piscio addosso davanti a tutti, proprio ora.»
Sgranai gli occhi. Mai nella vita avevo ricevuto una minaccia del genere.
Dante chiuse gli occhi per qualche secondo, inspirò di nuovo con furia. «Avrei dovuto abbandonarvi all'orfanatrofio» disse, la voce profonda.
«Magari l'avessi fatto, bastardo, c'avresti risparmiato quella cimice.»
Lui fulminò il fratellino con lo sguardo, Dorian lo ignorò.
«Io...» Non sapevo davvero che fare, rivolsi lo sguardo a Dante. Era evidente che era più che contrario all'idea, visto che stava cercando di darmi fuoco solo con gli occhi, e ritornare a casa con uno sguardo simile addosso certo non poteva farmi piacere.
«Piscio tra tre, due, un-»
«Ok! Ok! Va bene! Accompagnatemi! Ti prego, riallaccia i pantaloni, Dory!» la supplicai, e lei ghignò maligna, mentre se li riabbottonava.
Quei due mi spaventavano e non poco.
«Me piaci, Thaty» dichiarò sicura Dory, mentre iniziavamo a incamminarci, saltellando come Heidi sui monti. «Me piaci un sacco. Sei principessa per le cose sceme, ma tiri fuori i tuoi quattro coglioni quando serve. Che donna, che grande.»
Non ero davvero sicura di poter prendere i suoi complimenti come tali, ma sapevo che era sincera.
Li osservai mentre camminavano davanti a noi, entrambi intenti a insultare le cimici, e subito il mio corpo si irrigidì quando avvertii di nuovo lo sguardo omicida di Dante addosso, alla mia destra.
Arrossii ancora. Non c'era fine alla mia umiliazione, quel giorno.
«M-Mi dispiace» balbettai a quel punto, risollevando la mascherina, più per cercare di camuffare il mio rossore che la mia identità. «Non volevo costringervi a questo, sul serio.»
«Ho accettato solo perché facendolo hanno promesso di tornare a scuola subito dopo» dichiarò con voce gelida lui. «Non farti strane idee. E soprattutto, sta' lontana da loro, d'ora in poi, non avvicinarti mai più.»
Mi morsi l'interno delle guance, annuii a fatica.
«Non gli credere a quel coglione, Thaty!» mi strillò Dorian da davanti. «È stato lui a muoversi per primo. C'ha avuto i sensi di colpa dopo aver visto per bene la tua faccia devastata.»
«Che t'ho detto, Satana? Te devi stare zitto, questo era il patto» sibilò il fratello.
«'Stocazzo» gridarono insieme i gemelli, ridendo poi nel sentirlo imprecare.
Mi irrigidii ancor più, fissai il buco che si era creato sul guanto, proprio sulla punta dell'indice, a causa della sigaretta, lo nascosi richiudendo la mano a pugno e stringendo con l'altra la busta della spesa.
«Perché l'hai buttata?»
Non compresi quella domanda, ma continuai a guardare dritto davanti a noi le figure di spalle dei gemelli. «Buttata?»
«La sigaretta» continuò lui. «Non era ancora finita.»
Mi tremarono le mani. Non volevo rispondere, avevo la sensazione che non mi avrebbe creduto. «È solo che...» balbettai alla fine. «Ai bambini... ai bambini non fa bene... il fumo. Più di quanto non lo faccia... a noi adulti. Tutto qua.»
Mi irrigidii ancora. Quell'uomo aveva davvero un super potere: anche senza guardarlo, percepivi il suo sguardo come se fosse un coltello a seghettarti la carne.
«Di', stai a fa l'innocente apposta?»
Sussultai.
«Tre minuti fa me stavi a insultare con furia, adesso fai la principessina vergognosa?»
Tutti i miei nervi si irrigidirono. «Mi dispiace per prima, era solo che... Solo che ecco...» Sbattei le palpebre. «A volte quando mi arrabbio... non penso molto a quello che dico.»
Mi sentivo ustionare dai suoi occhi. Volevo scappare via. Pregai con tutto il cuore che quel tragitto finisse il prima possibile.
Il masso in gola si fece più duro e pesante, al punto che non riuscivo nemmeno a deglutire. «Pensi che stia recitando?» la domanda mi uscì da sola dalle labbra, soffocata solo dalla mascherina. «Che come mio padre mi stia fingendo una brava cittadina ma in realtà sono un mostro?»
«Non penso niente, voglio solo che tu stia alla larga dalla mia famiglia.»
Mi morsi il labbro. «Non l'ho fatto apposta, è successo... per caso, io davvero non-»
«Perché cazzo sei venuta in questa città?»
Sobbalzai ancora.
«Se sei davvero innocente, se davvero non sapevi un cazzo, quel pezzo di merda là t'ha ammazzato la migliore amica, oltre che tutte le altre vittime che ha sterminato. Non te dovresti manco più degnare di chiamarlo babbo, a quel figlio di puttana, e invece ti sei trasferita addirittura per poterlo vedere. Di', come fai a pretende che la gente te creda, se fai 'ste stronzate?»
Aveva ragione, lo sapevo, ma mi ritrovai comunque innervosita davanti a quei giudizi espressi da uno che conoscevo da neanche mezz'ora.
E mi sentivo stupida per questo.
«Forse anche io ho le cimici in testa» sussurrai alla fine, e una vampata di irritazione lo attraversò, non ebbi bisogno di guardarlo per sentirla.
«No, no, Thaty, tu non c'hai le cimici!» esclamò Dorian da davanti a noi, mentre scendevamo le scalette che si distendevano tra due grossi palazzi. «C'hai quattro coglioni, t'abbiamo detto.»
«Du' zizze e du' ovaie» confermò Dory serissima.
«Che v'avevo detto, a voi due?» tuonò Dante.
«Che sei scemo?» domandò Dorian.
«Che sei gravido de coglionaggine?» proseguì Dory.
«Che c'hai le cimici in testa anche tu?»
«Te l'avrà date senz'altro quella Barbie demente.»
«Continuate a parlare de cimici e ve le faccio trovare sui vostri letti» latrò il fratello maggiore, e i due gemelli si lanciarono dagli ultimi gradini per atterrare sulla stradicciola impolverata della stradina a cui quelle scale conducevano.
Si voltarono per guardarlo, le braccia serrate al petto, un'espressione gongolante in viso. «Sempre meglio sul letto che in testa» replicò Dorian, per nulla preoccupato.
«Ce ricorderanno per sempre come mai dovremo diventare: coglioni come te.»
«Non è necessario, siete peggio de me, voi due. Due demoni veri e propri.»
«Almeno noi non diciamo a gente che non conosciamo che so assassini» cinguettò Dorian, riprendendo a camminare con la sorella.
«Almeno noi non ce scopiamo Barbie che vendono profumi con l'odore de piscio sui social.»
Incredibile, la detestavano davvero, quella Vicky. Non avevo cuore di vedere in che modo il volto di Dante si stava alterando per la furia nel sentire la sua fidanzata venir insultata così dai suoi stessi fratelli.
Aggrottai la fronte.
Riflettendoci, però, non era la sua fidanzata. Almeno questo era quello che mi avevano fatto capire i gemelli quando mi avevano parlato di lei. A giudicare dalle loro parole, era più probabile che fosse una sorta di amica con benefici con cui si frequentava.
Un vero e proprio protagonista tenebroso dei romanzi che tanto mi piacevano da ragazzina.
Per la prima volta ero grata del fatto che fossi troppo devastata per poter ritornare al mio lato fangirl; per quanto lui fosse in tutto e per tutto il mio tipo da adolescente, sarebbe stato umiliante ritrovarmi a sbavare per un ragazzo che se mi avesse vista affogare in un lago, avrebbe fatto finta di non vedermi e sarebbe subito tornato indietro sui suoi passi.
«Molto bene» udii Dante dire ai fratelli, «vorrà di' che d'ora in poi sarà sempre lei ad accompagnarvi a scuola la mattina.»
I gemelli si bloccarono di nuovo.
Si girarono verso di noi. Per poco non rischiai di strozzarmi con la saliva, quando vidi le loro facce.
Disgusto non era sufficiente per esprimere l'emozione che stava contorcendo le loro espressioni in viso. Sembrava avessero appena mangiato vomito e cereali per colazione.
«Non osare, bastardo!» tuonò Dory, puntandogli il dito contro.
«Te piscio in bocca quando dormi» lo minacciò Dorian.
«Provace, Satana, provace soltanto. Vediamo se preferirai davvero la morte alle cimici.»
Nel sentirli insultarsi così, erano davvero divertenti, nonostante la situazione in cui ci trovavamo, ma, al tempo stesso, non potevo che soffrire per loro.
Era evidente sia dai loro gesti che dai loro modi di comunicare che quei tre, quella famiglia così bizzarra, erano cresciuti in un contesto tutt'altro che protetto. L'avevo già intuito parlando con i gemelli, ma nell'incontrare Dante ormai ne avevo avuto la conferma esplicita.
Anche lui, proprio come i suoi fratellini, non aveva avuto nessun tipo di ampolla a proteggerlo sin da bambino, aveva appreso un linguaggio scurrile, dialettale e comportamenti diretti e sfacciati, sintomi di una decadenza economica e culturale evidente nella famiglia in cui era nato e cresciuto. Non mi sorprendevo se si comportava in quel modo con i suoi fratelli minori: era così che era stato educato, ai suoi occhi quella doveva apparire come la normalità assoluta.
Ma... ora che ci pensavo... non ero in diritto di provare compassione per loro.
Benché magari cresciuti in un ambiente non troppo sano, quei tre, a loro modo, si conoscevano alla perfezione e per questo si amavano, era ciò che gli permetteva di discutere così, di essere una vera famiglia.
Una fitta mi pulsò in cuore, nel guardarli battibeccare e riempirsi di insulti a vicenda.
Forse non erano stati fortunati per le condizioni in cui erano venuti al mondo, ma lo erano stati nell'essere fratelli.
Anche se non avevano più genitori, potevano contare su quel legame che li vincolava.
Io... non potevo dire altrettanto.
L'ultimo legame che mi era rimasto... era mio padre, lo stesso uomo che credevo di conoscere alla perfezione e di cui ora invece non sapevo praticamente nulla.
Lo stesso... che aveva ucciso Betsy.
Mi sembrava quasi ironico, sotto certi aspetti, averli conosciuti. Un'altra beffa di Dio, probabilmente, per rivangarmi ancora una volta cosa mai avrei dovuto desiderare.
«Perché te nascondi così la faccia?»
La domanda improvvisa di Dante, la seconda, mi stupì ancora. Stavamo attraversando un parco giochi desolato e dall'erba folta e altissima e davanti a noi Dorian stava indicando alla gemella una cacca di cane accanto all'altalena per dirle che gli ricordava la loro preside di scuola.
«Beh...» ciancicai. «Ehm... mi conviene, tutto qua.»
Continuavo a guardare davanti a me per evadere il suo sguardo. Betsy non ne sarebbe stata felice, lo sapevo, ma non avevo davvero la forza di farmi uccidere così da quegli occhi.
La sua domanda mi lasciò sorpresa, però. Mi domandai se non avesse saputo dell'ultima aggressione che avevo avuto, un anno prima, per cui ero finita in prognosi riservata. Eppure, la notizia era dilagata su qualsiasi tipo di piattaforma, i social erano esplosi dalla felicità nel leggerla.
«Quindi è come penso: te menano quando ti riconoscono, non è così?»
Mi irrigidii sul posto, mentre proseguivamo a passo lento lungo la stradicciola di ciottoli che attraversava a metà il parco.
«No» borbottai alla fine, infilando le mani nella tasca anteriore della mia felpa, «non mi menano ogni volta, non siamo mica in Rambo...» La battuta non sortì l'effetto sperato, sentii la sua irritazione aumentare. «È successo... solo in rare occasioni. È solo che...» esitai. «Solo che... quando vengo riconosciuta... la gente mi fa foto di nascosto o... sì, insomma, cose così.»
«Se c'hai davvero i soldi, perché cazzo ti sei trasferita in questo quartiere di merda e non in uno più sicuro, eh? Con tutti i rischi che corri, poi?»
Una domanda più che legittima, la sua, ma non avevo il coraggio di dirgli la verità, e ciò mi fece arrossire di nuovo, così tanto che, pur non potendomi vedere bene in viso, ero sicura che se ne fosse accorto anche lui, nonostante la mascherina e il cappuccio a coprirmi.
«Il proprietario dell'appartamento che ho in affitto» sputai fuori, appellandomi alla prima scusa che mi venne in mente, «è uno dei pochi che mi ha garantito la riservatezza massima.»
«T'ha chiesto soldi a nero, ve'?»
Deglutii.
«Che cogliona che sei» dichiarò alla fine, e le guance continuarono a bruciarmi.
Non potevo davvero ribattere, aveva ragione in pieno.
«Io non-È complicato» provai a difendermi a quel punto.
Avevamo raggiunto una delle strade principali, finalmente, e mentre procedevamo lungo il marciapiede, con Dory e Dorian che iniziavano a giocare tra di loro spintonandosi, lui proseguì: «Perché hai aiutato quei due demoni, se sapevi che rischiavi di finire nei guai se t'avesse riconosciuto quel demente?»
Mi irrigidii.
«Non-» Non sapevo davvero che rispondere. «Non lo so, l'ho solo... l'ho solo fatto, ecco. Non ci ho pensato su.»
«Non ci hai pensato su, certo» ripeté con voce sprezzante.
«Non l'ho fatto con secondi fini, sul serio» specificai a quel punto. «Stavo per andarmene subito, appena la situazione si era risolta, ma i tuoi fratelli mi hanno spint-cioè, mi hanno fermata e mi hanno scoperta.» Mi sforzai di apparire il più naturale possibile. «Ed è stato difficile... fermarli. Sono molto, ehm, molto determinati.»
«So bestie, altroché determinati» sibilò lui.
«Noi saremo bestie, ma tu sei coglione!» urlò Dory davanti a noi.
«La prossima volta bucamo tutti i tuoi preservativi!» continuò Dorian.
«Certo, ve ce voglio proprio vedere a voi due a prendervi cura del figlio mio» gli rinfacciò Dante. «Voi che coi bambocci non sapete manco dargli un ciuccio.»
«Potemo sempre lanciarlo dalla finestra. Dato che è uscito dai coglioni tuoi, sarà comunque inutile farlo crescere.»
«Che ironica coincidenza, penso lo stesso de te, Lilith.»
«Lanciami pure dalla finestra, stronzo, poi sarai tu quello che se mette a piagne come un poppante.»
«Piagne? Darò una festa per aver salvato il mondo da una cretina come te.»
Non riuscii a trattenermi più, un risolino mi attraversò e sfuggì dalle labbra. Subito avvertii di nuovo lo sguardo di Dante addosso, ma non fui capace di smorzare quel riso.
«S-Scusa» biascicai, mentre altre risate mi attraversavano. «Il fatto è che... siete davvero simpatici.»
«Noi due semo simpatici, Thaty» mi corresse subito Dory. «Quello là è solo baldracco.»
«Che t'ho detto, Lilith?»
Lei fece la linguaccia a Dante, per poi tornare a darci le spalle.
«Quei biscotti» lo udii dire all'improvviso, sussultai, «li hai fatti tu, ve'?»
«Intendi gli éclair?»
«Gli eclazzi?»
Gonfiai le guance per trattenermi dal ridere di nuovo. «Sono éclair» spiegai. «Non sono propriamente dei biscotti, più che altro pasticcini francesi. I tuoi fratelli avevano detto di aver fame e volevano qualcosa di dolce, e io...» Mi bloccai. «Non li ho avvelenati, te lo giuro. Magari non sono venuti buoni come una volta perché era da tanto che non cucinavo e ho usato una farina diversa dato che non c'era quella giusta, però-»
«Nemmeno del veleno ammazzerebbe a quelle due bestie, quello che non capisco è che cazzo vuoi da loro.»
Lottai con tutte le mie forze per costringermi a scostare lo sguardo da davanti a me e rivolgerlo a lui. Aveva il volto incupito, la fronte contratta, fuoco negli occhi ancora fissi sulle schiene dei fratelli. Così vicino, adesso potevo vedere meglio alcuni dei suoi tatuaggi: il collo era avvolto da un serpente la cui testa si fermava sotto la curva del mento, sulle nocche sinistre i quattro semi delle carte da gioco - cuore, fiore, picche e quadri - sulle destre, invece, un numero a caratteri gotici, 1012. I tatuaggi sui dorsi delle mani erano più compatti, invece, sul sinistro c'era quello che dava l'aria di essere il volto di un drago cinese e sul destro una rosa dei venti intrecciata a un lungo filo rosso pieno di petali, ma non riuscivo ad osservare nel dettaglio.
E quello sopra il sopracciglio era proprio ciò che pensavo: quattro, minuscole stelline, in fila ordinata e in parallelo al sopracciglio stesso.
Ne aveva anche un altro, in realtà, dietro l'orecchio, una penna d'oca le cui piume erano state disegnate così bene da sembrare vere. Quasi avevi voglia di toccarle per vedere se erano morbide come sembravano.
«Non voglio niente» risposi alla fine. «Lo giuro, sono stata solo aiutata da loro, e pure per sbaglio. Non pensavo certo che avrebbero sorvegliato la zona per ricambiare il favore e proteggermi, anzi, ero piuttosto certa che-» Mi fermai, quando lui si voltò a guardarmi. «Sono dei bravi bambini e molto coraggiosi. E anche molto buoni» mi trovai ad aggiungere, ripensando a come mi avevano posato la giacca sulle spalle. Fui grata della mascherina, non poté vedere il mio sorriso. «Insulteranno sempre, ma non gli piace vedere gli altri soffrire, fanno di tutto per consolarli.»
Silenzio da parte sua, continuò a scrutarmi irritato.
«Avrei... Avrei voluto essere come loro... a quell'età» bisbigliai alla fine, col rossore che tornava a tinteggiarmi le gote. Ripresi a guardarli, si stavano di nuovo insultando a vicenda tra le risate.
Finalmente, giungemmo all'edificio del mio condominio, tirai un sospiro di sollievo quando entrammo nella piazzola d'ingresso.
«Siamo arrivati, Thaty!» cinguettò Dory, avvicinandomisi.
«T'avemo protetta bene, ve'?» domandò il fratello affiancandola.
Mi ritrovai a sorridere di nuovo. «Sì, siete stati dei cavalieri fantastici» garantii, mentre aprivo la mia borsa a tracolla e tiravo fuori le chiavi di casa. «Grazie mille per tutto quello che avete fatto per me, davvero.»
Loro sorrisero compiaciuti. Tornai a guardare Dante, ancora irritato. «Hmm, grazie... Grazie anche a te» mormorai alla fine. «Vi auguro... Vi auguro una buona giornata, a tutti e tre» dichiarai alla fine, per poi correre verso il portone d'ingresso in legno dell'edificio, le chiavi in mano.
Le avevo appena infilate nella serratura, quando avvertii di nuovo la voce di Dante alle mie spalle.
«Ehi, cogliona.»
Un urletto mi partì dalla gola, balzai indietro, sbattendo con furia la schiena contro il portone. Lui si accigliò, lontano da me di nuovo a mezzo metro. «C'avevi ragione» disse, «faresti proprio cagare come pluriomicida.»
«No-Non è colpa mia, mi ha-hai spaventata» provai a difendermi. «Cosa... Cosa c'è?»
«Le due bestie» indicò alle sue spalle i fratellini intenti di nuovo a prendersi in giro, «sicuro come la morte torneranno qua.»
Lo guardai confusa.
«Li conosco a quei due diavoli» spiegò, «quando c'hanno qualcosa che gli interessa, fanno de tutto per tenersela.»
Ero sempre più perplessa.
«Tu non farli entrare» ordinò, «cacciali via subito.»
Il suo sguardo era severissimo e deciso, non accettava repliche.
«Potrai essere pure cogliona e innocente, ma per quel che mi riguarda sei solo una che ci porterebbe soltanto grane» continuò. «Me ne sbatto se non c'entri nulla con la morte di quelle persone, i miei fratelli non devono più avere a che fare con te, sono stato chiaro? Avvicinati di nuovo a loro, e fidati, te ne pentirai all'istante.»
Avvampai per la vergogna.
«Se verranno qui, ignorali, cacciali. Non osare più avvicinarti a loro.»
Chinai il capo per terra, sulla punta delle mie scarpe bianche da ginnastica.
«C'abbiamo già i nostri problemi, ci manca solo che si aggiunge la figlia di un pezzo di merda come te.»
Detto questo, se ne andò.
Ed io mi ritrovai a inspirare con forza, fissando la chiave ancora inserita nella serratura.
Betsy, cosa avresti fatto tu?
Me lo chiedevo ogni giorno.
Ogni singolo giorno.
Ogni singolo, dannato giorno.
Perché Betsy?
Perché proprio lei?
Era la vittima più nota tra tutte le altre per un particolare preciso, oltre che per essere stata l'ultima.
Si conoscevano.
Lui conosceva Betsy e Betsy conosceva lui.
Da anni.
Tredici, dannatissimi, anni.
Tutte le altre vittime per Lawrence non erano che sconosciuti, gente con cui mai aveva parlato prima. Alcune proprio neanche poteva immaginare sarebbero state loro a morire, quando le aveva uccise, facendo esplodere bombe, avvelenando o iniziando a sparare da un punto d'osservazione lontano in quei luoghi pubblici - piazze, parchi, stazioni - che mai avrebbe potuto prevedere da chi sarebbero stati frequentati quel giorno, nemmeno con la sua sagacia da pluriomicida mai beccato in trent'anni.
Anche quelle che aveva preso, torturato e ucciso singolarmente lo erano, le aveva incontrate il giorno stesso in cui le aveva rapite. Di sicuro le aveva pedinate e osservate nei giorni precedenti per comprendere le loro routine e abitudini, così da trovare l'occasione perfetta per rapirle senza farsi scoprire, ma certo non ci aveva mai parlato, non c'era mai stato un contatto diretto prima.
Sconosciuti, per lui, sempre e soltanto sconosciuti.
Betsy era diversa.
Betsy non solo era la prima vittima che conosceva.
Era la migliore amica di sua figlia.
La sola amica di sua figlia.
Perché proprio lei? Perché?
Me lo domandavo in continuazione e forse quello era uno dei tanti motivi per cui continuavo ad andarlo a trovare: per poterglielo chiedere, per poter capire, per poter comprendere.
Ma non osavo farlo poi, non ci riuscivo proprio.
Temevo la sua risposta, la temevo con tutto il cuore.
Avevo il terrore che mi dicesse che era proprio per quello che l'aveva scelta, che era proprio per quello che l'aveva prima torturata e poi uccisa.
Perché le volevo bene.
Così bene da dargli fastidio, così bene che ne era geloso, nella sua mente deviata.
Ma perché aveva aspettato così tanto per farlo? Io e Betsy eravamo migliori amiche da quando avevo dieci anni e lui l'aveva uccisa quando ne avevo ventitré.
Forse era successo qualcosa di particolare per scatenare quell'impulso omicida, quella gelosia sfrenata?
Ripensavo perciò al periodo prima della scomparsa di Betsy, a tutto quello che avevo fatto insieme a lei, cercavo disperata di capire se avevo commesso qualche errore, qualcosa che avrebbe potuto fargli credere che non lo amassi più, che preferissi lei a lui.
Ma non trovavo mai niente. Tutto era stato uguale come negli anni precedenti. Uscivamo il fine settimana, andavamo a bere qualcosa o al cinema, commentavamo gli ultimi film e romanzi del momento, facevamo shopping.
Non c'era stato nessun evento memorabile, neanche una litigata o discussione un po' accesa, né con papà né con Betsy.
L'unica circostanza "diversa" dalle altre era avvenuta tre mesi prima, quand'ero svenuta mentre ero a lezione, alla scuola di cucina, a causa dell'appendicite i cui sintomi si erano manifestati tutto d'un colpo in quel momento. Il dolore era stato così acuto e devastante da farmi perdere i sensi. Ma era successo in un contesto in cui Betsy non c'entrava nulla. Non era neanche in città, quand'era accaduto, era andata a trovare i nonni a Littburg, in California. Papà era stato il solo a starmi accanto durante la convalescenza dopo l'operazione.
Tutte le vittime che aveva preso singolarmente l'aveva fatto a caso, uomini o donne che fossero. Non avevano nulla in comune, qualche caratteristica specifica che lo portava in maniera inesorabile a rapirle, non l'età, non il colore della pelle, non l'orientamento sessuale, non l'identità di genere, non il lavoro, non l'aspetto, non il carattere, non il passato, nemmeno le famiglie, e mai aveva abusato di loro sessualmente con le sue torture.
Non era quello che gli interessava.
E le donne con cui si frequentava erano l'esatto opposto della mia amica, sia di fisico che di personalità, dubitavo che avesse provato qualche forma di attrazione per lei.
Ero arrivata persino a chiedermi se per caso avesse pensato che io e Betsy stessimo insieme in segreto e lui avesse nascosto la sua omofobia per tutto quel tempo, ma mi sembrava strano, mi sembrava troppo improbabile.
Papà aveva sempre saputo che ero etero, sempre. Si vedeva insieme a me i romantici film scadenti per cui tanto impazzivo, mi comprava i romanzi rosa che desideravo quando io non potevo, mi prendeva costantemente in giro per le mie cotte stratosferiche per attori inavvicinabili, come Jason Momoa e Hugh Jackman, era lui che mi aveva regalato tutti i poster che possedevo delle mie boy band preferite durante l'adolescenza.
Sapeva, sapeva benissimo che per me Betsy era una sorella, la sola altra persona al mondo che amassi dopo di lui.
E ritenevo altrettanto improbabile la possibilità che fosse un omofobo nascosto e per principio odiasse Betsy solo perché lesbica. Era stato tra i primi, quando lei aveva fatto coming out, a sostenerla, l'aveva persino accompagnata all'associazione LGBTQ+ più vicina, aveva partecipato con noi ai Pride nel corso degli anni.
E anche se avesse celato per tutto quel tempo la sua omofobia, anche se avesse recitato per tutto quel tempo, Betsy si era dichiarata lesbica a tredici anni, di nuovo si ripeteva la stessa domanda: perché aspettare così tanto per ucciderla?
Forse Betsy aveva scoperto qualcosa? Forse Betsy aveva iniziato a sospettare di lui? Del mostro che era davvero?
Tuttavia, anche quell'ipotesi mi sembrava irrealistica. Betsy non era il tipo da star zitta su dubbi del genere, ne avrebbe senz'altro parlato con qualcuno. Non con me, certo, poiché sapeva quanto amavo mio padre e difficilmente avrebbe voluto spaventarmi con supposizioni non ancora confermate, ma di sicuro con qualcun altro sì: i suoi genitori, ad esempio, o gli amici che aveva al di fuori di me.
E se lo avesse fatto, quelle persone lo avrebbero detto subito alla polizia, il giorno stesso in cui era scomparsa, avrebbero subito fatto il nome di Lawrence.
O era stato un impulso del momento? Un'idea folle che gli era nata in testa d'improvviso e che lui aveva deciso di ascoltare? Una sorta di malata curiosità infantile sbucata dal nulla: uccidere una ragazza che non solo lo conosceva, ma lo conosceva così bene da considerarlo un secondo padre.
Godere ancor più di come si sarebbe disperata, di quanto avrebbe sofferto nell'essere torturata e uccisa dall'uomo che mai aveva ritenuto un pericolo, a cui anzi voleva un bene immenso, lo stesso a cui faceva sempre regali di compleanno e da cui a sua volta riceveva sempre regali di compleanno.
Mi ci arrovellavo con quei dubbi, tra una sigaretta e l'altra, mentre fissavo il vuoto.
Uno solo, il più tremendo tra tutti, mi faceva soffocare.
Forse voleva punirmi.
Forse voleva farmi soffrire.
Forse voleva a tutti i costi che mi agonizzassi.
Forse, oltre che amarmi, papà mi odiava proprio, come io adesso amavo e odiavo lui.
Era ben consapevole che la perdita di Betsy per me sarebbe stato il dolore più grande e devastante che mai avrei potuto subire, ben consapevole di quanto profondo, forte e viscerale fosse il mio legame con lei, allo stesso modo in cui lo era con lui.
Di una cosa sola ero certa.
Betsy era stata uccisa per colpa mia.
Se non mi avesse conosciuta, se non si fosse seduta accanto a me quel primo giorno di scuola, papà mai avrebbe deciso di rapirla, torturarla e ucciderla in quel capanno.
Che fosse per un impulso o meno, che ci fosse una ragione dietro o meno, aveva me in testa quando aveva preso quella decisione.
Ero io la causa scatenante di tutto.
E quando ci pensavo mi sembrava di marcire, che ogni mio organo stesse andando in setticemia, un dolore così acuto da farmi credere di essere già all'inferno.
Betsy era stata uccisa, secondo quanto supponeva la scientifica in base alle varie prove, sei giorni prima che la polizia irrompesse nel capanno.
Era rimasta in vita per ventisei giorni, là dentro.
E io non potevo fare a meno che ricordarli, quei ventisei giorni, uno ad uno, ad ogni tiro di sigaretta e ad ogni espiro di fumo.
Quei ventisei giorni che avevo passato per la maggior parte del tempo fuori di casa, a partecipare con gli altri alle attività di ricerca, a setacciare i vari parchi e percorsi naturali che lei frequentava per andare a correre.
Quei ventisei giorni che avevo passato ad appiccicare ovunque in giro per la città volantini con la sua faccia stampata sopra, senza mai fermarmi per ore e ore, fino a distruggermi i piedi a causa delle vesciche.
Quei ventisei giorni che avevo passato a fare mille chiamate, a disperarmi, strapparmi i capelli, piangere, sentirmi sbudellata ad ogni respiro, per poi tornare a casa, buttarmi sul letto e spegnermi del tutto addormentandomi, tant'ero fuori di me sia nella testa che col corpo.
E proprio quando mi addormentavo così, durante quelle ore che passavo da incosciente, mio padre usciva dalla villa, percorreva il terreno incolto e privato del retro della nostra casa, entrava in quel maledetto capanno e riprendeva a torturare la mia amica.
Era lì, proprio lì, vicina a me, vicinissima.
Mi sarebbe bastato solo uscire di casa, percorrere a mia volta quel terreno e infrangere il divieto assoluto di papà per trovarla.
La chiudeva sempre a chiave, la porta di quel maledetto capanno, e sicuro come la morte quella chiave la portava ovunque con sé, non l'avrebbe lasciata incustodita neanche per un secondo, non avevo dubbi su questo. Anche se mai avevo provato ad aprirla, non era certo uno scemo, mio padre. La polizia stessa aveva dovuto sfondarla con l'ariete per riuscirci.
Ma anche così, avrei potuto fare qualcosa.
Anche così, avrei potuto accorgermi di qualcosa, se solo mi fossi mossa in tempo. Magari l'avrei beccato proprio mentre spalancava l'uscio per entrare e uscire e avrei sentito le grida di lei, magari, anche se non l'avessi beccato, davanti a quella porta chiusa a chiave l'avrei udita piangere e urlare così forte da sfondare anche l'insonorizzazione del capanno, magari avrei avvertito qualcosa.
Qualunque cosa.
Per salvarla.
Ma non l'avevo fatto.
Non ci ero proprio arrivata.
Non l'avevo neanche sospettato.
Perché era mio padre.
Perché ero sua figlia.
Perché mi amava e io lo amavo.
Lo amavo così tanto che ero certa, sicurissima, che mai sarebbe stato capace di una cosa del genere, mai.
Anche se c'erano stati degli indizi che avrebbero dovuto farmi intuire che razza di mostro fosse, anche se c'erano stati dei segnali nel corso degli anni che avrebbero dovuto farmi anche solo dubitare la sua natura umana, io non li avevo colti, ne ero stata del tutto incapace.
Sapevo che aveva un segreto, ma proprio perché lo amavo, proprio perché era mio padre, proprio perché ero sicura di conoscerlo, non avevo proprio immaginato un segreto del genere.
Avevo pensato che forse faceva qualcosa di illegale in quel capanno, una volta cresciuta, sì.
Ma avevo supposto facesse quegli esperimenti per cui tanto impazziva, da bravo chimico e scienziato un po' pazzo qual era, che sempre si gasava da morire davanti a certe idee, solo per il gusto di vedere quali risultati ne sarebbero usciti fuori, proprio come me con le mie ricette di cucina. E lui, fissato com'era affinché io rispettassi sempre la legge e mai mi mettessi nei guai con le autorità, si era sempre rifiutato di parlarmene per questo. Non voleva che lo imitassi o addirittura che perdessi un po' di stima nei suoi confronti.
Oppure avevo supposto che avesse qualche feticismo strano condannato dalla società e di cui perciò si vergognava a morte, come quello per i piedi, le scarpe e gli indumenti intimi da donna, o per le secrezioni, robe del genere, che per questo alcuni suoi vestiti di tanto in tanto sparissero e sempre per questo non volesse essere giudicato da nessuno, men che meno dalla figlia che amava.
Avevo supposto che la notte uscisse per incontrarsi con qualche donna, una delle tante con cui si intratteneva sessualmente e di cui però a stento mi parlava per non darmi il cattivo esempio. Non mi era mai venuta in mente l'idea di seguirlo e vedere dove andasse. Nelle occasioni in cui lo sentivo uscire di casa, nel cuore della notte, me ne restavo a letto e mi riaddormentavo subito dopo.
E mai mi ero interessata troppo al suo lavoro, dato che a differenza sua le materie scientifiche non mi appassionavano, specie perché, ogni volta che gli chiedevi qualcosa in merito, si trasformava in un vero e proprio treno e ti intasava la testa con tutti quegli argomenti complicati di cui poco o niente ci capivi. Quindi, ogni volta che mi diceva di avere un viaggio improvviso dovuto alla sua professione, gli credevo ciecamente. Era un ricercatore, in fondo, tra i più noti e rispettati nel suo ambito, più e più volte ero stata testimone di quanto i suoi colleghi - che fossero del posto, di altre città o addirittura altre zone del mondo - lo stimassero alla follia, non era così difficile a credersi per me.
L'amore che provavo per lui, quella convinzione assoluta di conoscerlo nonostante il suo segreto, mi avevano impedito di pensare alle ipotesi più cruenti, alle possibilità più dolorose.
Perché io e Betsy eravamo sorelle.
Perché era mio padre.
Perché ero sua figlia.
Perché credevo in lui, gli avrei affidato la mia vita e quella di Betsy a occhi chiusi, sin da quando ero bambina.
E la verità invece era tutta lì, in quel maledetto capanno.
Quel maledetto capanno a cui neanche mi avvicinavo perché lo amavo e non volevo mancargli di rispetto, proprio perché non volevo essere ipocrita nei suoi confronti, proprio perché mi fidavo di lui, proprio perché volevo essere corretta verso il mio papà che era tutta la mia vita.
Perché non volevo si sentisse tradito da me, che smettesse di amarmi per questo.
Perché anche lui era sempre stato corretto con me: mai mi aveva costretta a rivelare il mio, di segreto, mai mi aveva forzata a parlargli di ciò che da sempre mi turbava, ciò che mi dilaniava dentro.
Anche se sapeva che c'era qualcosa che non andava, lo vedeva in quei giorni in cui ero preda furiosa degli incubi e mormoravo parole sconnesse che però lasciavano intuire l'orrore che mi gravava sulle spalle, quelli in cui anche solo sentire il respiro di qualcun altro vicino, nei momenti in cui stavo più male, bastava per farmi soffrire e mandarmi in panico totale.
Glielo leggevo negli occhi che aveva intuito che gli nascondevo qualcosa.
Ma sapeva anche che costringermi a rivelarmelo mi avrebbe soltanto uccisa, che costringermi a dirlo ad alta voce mi avrebbe umiliata e distrutta.
Cercava di aiutarmi in altri modi, mi mandava dalla psicologa, e quando avevo preso la decisione di non volerla più frequentare, a quattordici anni, nonostante fosse terribilmente contrario, dopo mesi e mesi di discussioni, davanti alla mia disperazione si era arreso.
Non voleva ferirmi più di quanto non lo fossi già stata.
E io lo avevo amato ancor più per questo e ancor più avevo rafforzato la mia scelta di non scoprire il suo, di segreto.
Volevo rispettarlo come lui rispettava me.
Volevo amarlo come lui amava me.
E adesso capivo, capivo davvero qual era stata la mia condanna, il prezzo da pagare per quel desiderio.
Non era solo la morte di Betsy.
Non erano solo tutte quelle vittime.
Non era la natura di mostro di Lawrence.
Era aver amato mio padre.
E non potermi mai più liberare di quell'amore.
Mai più.
Nota autrice
Lo so che Dante si sta comportando da stronzo, e c'avete pienamente ragione.
Ma di nuovo, per l'ennesima volta, vi chiedo di non giudicare troppo in fretta.
Come avrete potuto notare, i tre non vivono in un contesto molto pacifico, hanno una storia difficile alle spalle e Dante sì, è molto protettivo nei confronti dei suoi fratellini.
E come vi dissi nel capitolo precedente, c'è un motivo se Agatha gli sta sul cazzo, un motivo che riguarda la sua storia personale e che, proprio per questo, lo fa alterare ancor più e gliela fa detestare ancor più.
Perché Dante, come praticamente quasi tutto il mondo, non riesce proprio a capire il motivo per cui Agatha vorrebbe stare ancora accanto al padre, se davvero fosse innocente. Dante poi, come scritto sopra, ha ancora più difficoltà a capirlo per via del suo passato, ma vedrete che verrà spiegato in futuro.
Ciò non significa che lui non sia uno stronzo, eh. Lo è eccome. Fin troppo. Giudicare così Agatha senza manco conoscerla... BASTARDO.
Ma giusto per stemperare i vostri animi indignati:
Ormai un po' le conoscete, a quelle due piccole pesti.
DAVVERO secondo voi Agatha sarà capace de cacciarli via, quando torneranno da lei? Col suo carattere, poi?
AHAHAHAHAHAHHA.
E sì, c'è anche un motivo per cui Dorian e Dory apprezzano così tanto Agatha. Un motivo sempre ricollegato al loro passato. Ironico, quasi, perché è lo stesso motivo per cui invece Dante la detesta.
Oltre al fatto che Dorian si dovrà scopare Agatha quando sarà cresciuto così lei gli dà i soldi, obv.
E che v'avevo detto? Agatha non vi aveva ancora mostrato tutto il suo carattere. Quando vuole, anche lei, sa come uscire le palle.
A indurla a farlo, stavolta, è stato il fatto che si è vista insultare l'affetto che prova per Betsy e il fatto che i due gemelli l'hanno difesa.
Ha tirato fuori i coglioni, per rimarcare l'affetto che prova per la sua migliore amica e la sua innocenza.
Questo intendeva Betsy, quando le diceva che non sarebbe mai stata amica di una persona "debole".
Agatha sa come rispondere, il problema è che la sua autostima inesistente e la sua capacità inaudita di attribuirsi colpe che non ha glielo impedisce la maggior parte del tempo, per non parlare della sua timidezza.
Anche qui, di fatto, nonostante si sia difesa e abbia fatto SOLO BENE, subito dopo se n'è pentita, a ripreso a rimproverarsi, odiarsi e a dar ragione a Dante che invece stava a fare solo lo stronzo.
Ma non dimenticate questo lato di lei, muffins, perché tornerà.
Nonostante lei non ne sia consapevole, nonostante lei sia convinta di DOVER morire, come qui si dimostra, Agatha ha ancora un'innata voglia di vivere, essere rispettata, esser considerata umana.
Il problema è che questo desiderio cozza alla grande con la sua sicurezza di non meritare perdono, di essere un mostro.
Una vera e propria guerra sadica e crudele.
Ma vedrete e capirete, muffins.
Una piccola nota:
Nel corso di questi capitoli vengono lasciati molti indizi sul PASSATO di Agatha.
No, non mi sto riferendo al passato di quando viveva col padre, ma di PRIMA dell'incidente stradale, quando ancora viveva con la madre.
Della figura di quest'ultima non sappiamo NIENTE, in realtà, così di come ha vissuto Agatha in quegli anni, perché, ormai lo avrete notato, Agatha SI RIFIUTA di citare anche solo il periodo, che sia con qualcuno con cui parla o nella narrazione.
Ma qualcosina ormai dovreste averla intuita, no?
Il semplice fatto che il padre sia stato LA PRIMA PERSONA IN ASSOLUTO ad averla amata già dice molto.
Abbiamo poi potuto veder meglio la situazione in merito "capanno maledetto".
Come dice Agatha - cosa che ovviamente non può provare ma sì, ve la confermo io, muffins - era IMPOSSIBILE che Lawrence lasciasse quel capanno incustodito, senza chiuderlo a chiave, e senza che si portasse la chiave con sé.
È uno che ha compiuto migliaia di stragi e omicidi per 30 anni senza MAI farsi beccare, secondo voi è davvero così coglione da lasciare aperta la porta dell'unico luogo che potrebbe farlo sgamare subito? E non solo per Agatha, ma anche, che ne so, per la gente che invitavano a casa e tutti quanti gli altri.
Il problema davanti a ciò è uno:
Il mondo di fuori questo NON LO SA, perché vi ricordo che non può leggere i pensieri di Agatha e non potrà mai sapere se mente o meno, e anche se lo sapesse non confermerebbe che Agatha a sua volta non fosse una complice o comunque conoscesse qualcosa e avesse fatto finta di niente.
Agatha qua mostra I MOTIVI per cui non ha MAI sospettato del padre, motivi che anche io vi ho accennato qualche capitolo fa.
Stiamo parlando di un padre che mai le ha dato ragione di dubitare di essere un assassino, col suo carattere, le cui uniche "bizzarrie" della sua personalità erano:
1) La passione sfrenata per la sua professione
2) Una tendenza a NON voler intrecciare legami stabili, forti e duraturi con le persone (come dice nel secondo capitolo, Lawrence AVEVA amici, ma nulla di profondo e serissimo), ma non tale da renderlo un asociale o un inetto, anzi. Andava d'accordo con tutti. Semplicemente "si faceva i fatti suoi"
3) Gli piaceva instaurare SOLO E SOLTANTO relazioni sessuali con le donne (inclusa quella che ebbe con la mamma di Agatha). Non credeva nell'amore per lui, non gli interessava AFFATTO (e perciò mai si è sposato). Ha solo frequentato TANTE donne.
Ora, mettiamo un attimo da parte quello che sappiamo sulla sua natura da assassino, fingiamo proprio che non lo abbiamo mai scoperto, fingiamo di sapere di Lawrence come se fosse un comune cittadino qualunque, col carattere che abbiamo visto attraverso gli occhi di Agatha durante la sua infanzia-adolescenza.
Senza sapere tutti i crimini che ha commesso, ma SOLO il suo carattere mostrato ad Agatha, davanti a queste tre "bizzarrerie", collegandoci ai vari "segnali" che Agatha aveva intravisto (il divieto di entrare nel capanno in cui passava tante ore, i vestiti che di tanto in tanto scomparivano, le sue improvvise uscite di notte), davvero noi subito penseremmo:
ASSHASSHINO!!!!!????
Me pare difficile. Al massimo penseremmo che è un padre single, che ama farsi i cazzi suoi, aromantico e a cui piace, detta in modo papale papale, SCOPARE e che c'ha qualche feticismo "strano".
E non ci vedo nulla di male in ciò, non è che se c'hai un figlio automaticamente te devi mettere la cintura di castità o rinunciare per sempre ai tuoi gusti sessuali. Anzi, Agatha pensava che il padre uscisse la notte proprio PERCHÈ NON VOLEVA DARLE IL CATTIVO ESEMPIO e dirle che usciva a scopare soltanto, al punto che aveva la tendenza pure a nasconderle le donne con cui si frequentava (sessualmente), citandogliele solo di tanto in tanto.
E ci sta, eh. D'altro canto, è difficile che un padre entri in casa e inizi una chiacchierata con la figlia così:
OH, MIA DOLCE BAMBINA, LO SAI CHI ME SO TROMBATO OGGI?
Forse potrebbe farlo Dorian da grande, però, ora che ci penso.
Al di là di questo, ci sta un altro fattore fondamentale che già era stato menzionato ma qui è stato spiegato meglio, un fattore fondamentale che DI NUOVO aveva ancor più rafforzato l'idea di Agatha di NON SCOPRIRE il segreto del padre:
Il fatto che lui SAPEVA che lei gli nascondeva qualcosa, ma non la forzava a parlarne, al punto che, davanti all'ostinatezza di lei nel NON VOLER più andare dalla psicologa (immagino possiate immaginare da soli perché) si è arreso, perché - stando a quello che dice e pensa Agatha - aveva visto quant'era disperata e quanto la cosa la facesse soffrire invece che farla stare meglio.
L'avrà fatto davvero per questo, Lawrence? Oppure perché gli conveniva in qualche modo?
BAH.
NO SPOILER.
Lo scopriremo.
Qualunque fosse la ragione dietro, Agatha, nel sentirsi di nuovo "accettata" così, ha deciso ancora di più di non forzare a sua volta la mano sul padre e sul suo segreto (che RICORDO A TUTTI non pensava certo fosse un segreto del genere)
E poi:
PERCHÈ CAZZO LAWRENCE HA AMMAZZATO BETSY BEST GIRL EVAH????
Qua Agatha di nuovo fa SUPPOSIZIONI, ripeto: SUPPOSIZIONI. Alla maggior parte delle quali neanche crede, tra l'altro, ma sono MOLTO importanti.
Vi ricordo per tipo la 2893283928392 volta:
NON fidatevi di Agatha troppo.
Quando lei dice: no, sicuramente no. O sì, sicuramente è così.
MEH.
Come ribadito, Agatha non è mai oggettiva con sé stessa, quindi sì, sbaglia spesso.
E CON QUESTO HO DETTO TUTTO, MUFFINS.
Fatemi sapere che ne pensate! Un bascio!
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