Riflesso

Nota autrice pt. 1

ATTENZIONE! ATTENZIONE! ATTENZIONE!

Avviso iper mega importante:

Indovinate chi ci sta in questo capitolo?

Esatto, Lawrence.

Perciò indovinate cos'altro c'è?

Esatto.

TRAUMA

Una delle domande più grandi che il mondo intero e io stessa ci ponevamo in merito a mio padre, ogni giorno, seconda per me solo al perché avesse ucciso Betsy, era senz'altro: "Cosa l'ha fatto diventare così?"

In fondo, era ben noto a tutti il fatto che la maggior parte dei criminali, specie i più sadici e crudeli, spesso avevano un passato orrendo alle spalle, un'infanzia atroce che li aveva segnati così a fondo da deviare le loro menti, trasformarle, distorcerle fino a un punto di non ritorno che li aveva poi condotti a realizzare i loro reati abominevoli.

Rari erano i casi di serial killer o assassini spietati che avevano avuto una famiglia felice e amorevole, senza traumi così catastrofici da rovinare per sempre le loro menti.

E in verità, neanche un passato doloroso spiegava precisamente il perché specifico fossero diventati così, visto che di gente con un'infanzia sofferente ce ne era a bizzeffe in tutto il mondo, ma solo pochissimi si trasformavano in veri e propri mostri.

C'era chi credeva si trattasse di una predisposizione sia mentale che genetica che, unendosi ai fattori ambientali, faceva esplodere la bomba: l'istinto omicida.

C'era chi invece riteneva fosse dovuto a vere e proprie malattie mentali mai diagnosticate e che, non essendo state trattate a dovere appena erano insorte, avevano poi condotto alla realizzazione di quei crimini.

C'era chi ancora affermava che era quello il loro destino: nascere, vivere e morire da mostri.

La realtà dei fatti, però, nessuno la sapeva, il mondo della psicologia e della psichiatria dibatteva tuttora su questo. Non era mai stata trovata una risposta precisa e sicura al cento per cento.

Le leggende sui serial killer, nate e cresciute non solo per quelli che avevano davvero infestato il mondo ma anche per i continui libri e film su di loro, indicavano sempre tre importanti fattori principali durante la loro infanzia come veri e propri segnali dei loro istinti omicidi. La chiamavano la triade Macdonald.

Il primo, la piromania.

Il secondo, un'innata crudeltà nei confronti degli animali.

Il terzo, l'enuresi, cioè l'urinazione incontrollata in una fase di sviluppo in cui il bambino o adolescente dovrebbe aver già pieno controllo sulla propria vescica.

Alcuni aggiungevano a questi tre campanelli d'allarme anche un quarto: uno o più forti colpi alla testa, accidentali o meno, tali da portare a veri e propri traumi cranici, lievi o profondi che fossero.

Ma anche quella era solo una teoria, non rispettata da tutti i serial killer e i criminali più sadici. Molti di loro avevano presentato tali problemi, sì, ma non tutti.

Mio padre non ne aveva presentato neanche uno.

Di tanto in tanto sbucava qualcuno, per lo più sconosciuti, che si autodefiniva un suo vecchio amico d'infanzia o compagno di scuola e che per ottenere i suoi quindici minuti di fama tirava fuori strane vicende inquietanti in cui l'avrebbe visto compiere gesti abominevoli, anche in tenera età, ma non c'erano mai stati riscontri, e la maggior parte delle persone che avevano avuto a che fare con Lawrence Reid, in quel passato in cui io ancora non esistevo, non avevano mai riscontrato alcun problema.

La polizia aveva indagato su tutto ciò, aveva fatto fin troppe ricerche al riguardo, ma non si era scoperto niente, nulla di nulla.

Era nato come figlio unico in una famiglia ricca ed agiata, dal padre avvocato di successo di nome Stuart Reid e la madre casalinga Lily Reid. Una coppia che era rara trovare a quei tempi, visto che era convolata a nozze per amore e non per convenzione dell'epoca, innamorati fino all'ultimo, fino a quando la morte non li aveva separati, al punto che Lily Reid si era rifiutata di risposarsi, una volta esser rimasta vedova, nonostante i molti pretendenti.

Entrambi erano cristiani, lo avevano fatto frequentare scuole protestanti sin dalla prima infanzia, e gli insegnanti che aveva avuto, la cui gran parte ormai era morta, lo avevano definito come un bambino semplice e tranquillo, studioso, spaventosamente sagace e diligente, amato profondamente da entrambi i genitori.

A otto anni aveva perso suo padre per colpa di un ictus, ma quel lutto non sembrava averlo sconvolto troppo, era riuscito a riprendersi, almeno così avevano sempre dichiarato tutti quelli che l'avevano conosciuto in quel periodo; anzi, quella perdita improvvisa, affermavano, aveva reso ancora più forte il rapporto con sua madre.

La sola cosa che dava un po' nell'occhio di lui era per l'appunto il fatto che pur essendo socievole, estroverso e apprezzato da tutti, era uno che tendeva a farsi i fatti suoi quando poteva. Stringeva legami, sì, ma non troppo profondi, e non aveva mai avuto davvero una ragazza o una fidanzata, nemmeno durante l'adolescenza. Nessun grande primo amore che avrebbe in qualche modo potuto tormentarlo così tanto da ricercarlo, negli anni a seguire, nelle fisionomie, le vite o i comportamenti delle sue vittime, com'era successo invece ad altri serial killer famosi, come Ted Bundy.

Alla morte della madre, dovuta a un tumore allo stomaco poi andato in metastasi, aveva solo diciannove anni. Anche lì, le persone avevano detto la stessa cosa di ciò che avevano dichiarato per la morte del padre: se ne era addolorato profondamente, all'inizio, ma era riuscito a riprendersi, al punto da concludere prima di tutti gli studi, prendere la laurea e iniziare subito la sua carriera di successo come chimico.

La seconda cosa che era un po' saltata all'occhio, durante le indagini, oltre alla sua peculiarità di non apprezzare granché i legami, era il fatto che, dopo la morte della madre, si era dichiarato ateo in tutto e per tutto. Ma anche questo non per forza voleva significare qualcosa, non per forza poteva essere interpretato come un vero e proprio indizio su un'infanzia traumatica: dato che sua madre era molto religiosa, forse aveva voluto aspettare che morisse, prima di rivelare il suo ateismo, proprio per non farla soffrire o, nel caso in cui mai l'avesse amata davvero e avesse recitato per tutto il tempo, per evitare inutili discussioni.

Tanti erano gli psicologi e gli psichiatri che erano andati a parlargli per provare a fargli una diagnosi, ma lui si era sempre rifiutato di rispondere alle domande e di pronunciare anche solo una parola. Nessuno sapeva dire se era perché non gliene fregava niente delle sue vittime o di scoprire perché fosse diventato così o perché magari, facendolo, avrebbe corso il rischio di rivelare troppo, quei crimini che molti ritenevano non esser stati ancora scoperti.

Così alla fine, avevano fatto sì una diagnosi, ma solo sulla base dei suoi omicidi e delle sue stragi, quindi molto parziale e di certo non sicura al cento per cento.

Anche io, in merito a ciò, ero stata tartassata tanto dai giornalisti quanto dalla polizia. Mi era stato chiesto più e più volte cosa e quanto ne sapessi sul passato di mio padre, ed io avevo risposto agli agenti per quel che potevo.

Di per sé, papà non evitava di parlarmi della sua infanzia e adolescenza, ma non era neanche uno di quei padri che amava rivangarle ad ogni occasione con occhi nostalgici e quel tono solenne classico dei genitori di molti ragazzi della mia età. Di tanto in tanto la citava, mi narrava qualche vicenda particolare, come quando suo padre lo portava a pesca e passavano ore intere in silenzio in attesa che qualche pesce abboccasse all'amo, o come quando andava a messa con la madre, era da lei, mi diceva, che aveva preso la fissa di vestirsi per bene ma non troppo elegante, di mantenere un bell'aspetto ma non sembrare mai appariscente.

Mai mi aveva dato motivo di credere che qualcosa in quegli anni lo avesse ferito così profondamente da rovinarlo per sempre, parlava dei suoi genitori con calma e pacatezza, con la naturalità di chi ha accettato da tempo le loro morti e riesce a ricordarli senza più il dolore di averli appena persi.

A sedici anni, una volta, finii in soffitta con lui alla ricerca di un mio vecchio costume di carnevale di quand'ero piccola, il costume della principessa Aurora. Avevo deciso di ritrovarlo per poterlo sistemare un po' e poi darlo a una bambina che frequentava il centro parrocchiale. La sua famiglia era appena finita in bancarotta, la loro situazione economica era così grave che i genitori non potevano neanche comprarle un costume per la festa del Martedì Grasso, indetta proprio dal centro, e perciò io mi ero offerta di darle il mio.

Papà mi aveva voluto aiutare nella ricerca, quando mi aveva trovata là in soffitta, a tirar fuori tutti gli scatoloni uno ad uno, alla ricerca di ciò che mi serviva.

«Bambina» mi disse quel giorno, «la bambina è Jenny Michaelson?»

«Sì» risposi. Gli davo le spalle, come lui stavo svuotando i vari scatoloni, tirando fuori tutti quegli oggetti, quaderni e strumenti vecchi di chissà quanti anni, pieni di polvere e alcuni anche un po' arrugginiti.

«La stessa i cui genitori si erano lamentati con Padre Richard per il fatto che tu non eri adatta a stare in mezzo ai bambini per via della tua fobia?»

Mi morsi il labbro, mentre da uno scatolone uscivo i miei vecchi quaderni delle elementari. «Sì, è lei» risposi, «ma si è risolto tutto, papà, non ti devi preoccupare. Il Pastore Brian li ha rassicurati più volte facendo notare che ci sono altri ragazzi come me che possono intervenire, nel caso i piccoli si sentissero male.»

«Non era quello il loro timore, bambina» rispose papà. «Semplicemente, non comprendono cos'è una fobia e per questo la odiano per istinto.»

«In tanti sono così» replicai, tirando fuori un carillon tutto rotto e di legno. «Ma il Pastore Brian ha sistemato tutto, davvero, e poi Jenny non ha colpe. È davvero una bambina meravigliosa.»

Lui rimase in silenzio per qualche secondo, per poi aggiungere: «È l'ipocrisia di molti cristiani, quella di definirsi tali, per poi odiare ciò che gli è ignoto.»

Ridacchiai un po'. «È normale aver paura di ciò che non si conosce, credo. E poi è vero che la mia fobia è molto particolare, rispetto alle altre.»

«Lo stai facendo di nuovo» lo sentii dirmi.

«Che cosa?»

«Giustificare chi ti tratta male, bambina» rispose, ed io mi bloccai con il mio vecchio annuario delle medie tra le mani. «La tua fobia è una fobia come quelle che hanno in molti, solo meno diffusa, basterebbe aprire qualsiasi manuale di psicologia o andare anche solo tre secondi su internet per scoprirlo. Anche chi non conosce le emozioni può in qualche modo analizzarle da un punto di vista logico, facendolo. Ma loro hanno preferito non farlo e accusarti subito.»

«Non credo che i sentimenti abbiano una logicità» ribattei, più per tentare di deviare dal discorso principale che per interesse vero e proprio, perché non avevo alcuna intenzione di rivelargli il perché ero d'accordo con quei genitori, sul fatto che la mia fobia fosse tutt'altro che comune. «Altrimenti non sarebbero sentimenti.»

Di nuovo, papà rimase in silenzio, e sapevo bene che era dovuto al fatto che aveva subito intuito il mio tentativo di portare l'argomento a un'altra parte e ora stava decidendo se ricondurlo al punto scottante o meno.

«Non saranno razionali al cento per cento» concordò alla fine, facendomi tirare un sospiro di sollievo, «ma hanno uno schema dietro molte volte, altrimenti non si potrebbe neanche studiarle del tutto, se fossero puro istinto e basta, invece spesso dietro c'è una causa specifica.»

«Ad esempio?»

«Ad esempio, se dai uno schiaffo a qualcuno, inevitabilmente questo ne rimarrà ferito non solo fisicamente, ma anche mentalmente, perché è un atto d'offesa e di rabbia nei suoi confronti. Così come, invece, se dai una carezza e un abbraccio, lo renderai felice. Certo, poi dipende dalle occasioni e quanto successo poco prima di tali gesti, ma sono tutti fattori in parte calcolabili, così credo io, almeno.»

«Non ti facevo così poco sentimentale, papà.»

«Sono un chimico, bambina» mi fece notare con una risata. «La scienza è il mio mondo.»

«Adesso mi spiego il tuo odio per i film melodrammatici.»

Lui rise di nuovo, e proprio in quel momento, da uno degli scatoloni, trovai seppellito sotto altri quaderni un gigantesco album fotografico, di quelli di una volta, dalla copertina in velluto color ocra e al centro l'immagine di una coppia di neo sposi, ancora in abiti da nozze. Entrambi, si poteva vedere da subito, erano altissimi: lei magra, dai capelli biondo cenere lunghi e lisci, il visetto magro e gli occhi azzurri, lui, invece, in smoking, che la superava di qualche centimetro, aveva la faccia spiaccicata a quella di papà.

«Papà, questo è l'album dei tuoi genitori?»

«Oh, lo hai trovato?» Lo sentii sollevarsi da terra e udii il rumore dei suoi passi, pochi attimi dopo fu al mio fianco, inginocchiato come me davanti allo scatolone, a scrutare l'album che stringevo in mano. «Non lo vedevo da un bel po', mi ero pure dimenticato che fosse qui.»

Io continuai a scrutare la foto, stupefatta. «Quindi questi sono nonna Lily e nonno Stuart?» gli domandai.

«Già» rispose. Aveva il volto sereno, il suo solito sorriso mentre guardava la foto. «Come me, anche tu hai ereditato da loro l'altezza.»

«Sei identico al nonno, papà» dissi, e non stavo esagerando. Erano davvero delle fotocopie, se non fosse stato per il fatto che si vedeva che la foto era stata scattata tantissimi anni prima, quasi avrei creduto che fosse proprio mio padre quello sposo.

«Assolutamente no, io sono molto più bello» dichiarò con aria offesa, per poi sghignazzare con me.

Tornai a guardare la foto, quei due si stavano guardando come se il mondo attorno a loro non esistesse neanche, in particolare lei, era in totale estasi stretta tra le braccia di colui che era appena diventato suo marito. «Si amavano molto» mormorai. «La nonna sembra felicissima, qua.»

«Lo era eccome» replicò. «Tua nonna amava alla follia tuo nonno. Ha continuato ad amarlo anche da vedova, fino al suo ultimo respiro.» Il suo sorriso si allargò. «Si può dire che il detto "Finché morte non ci separi" con loro non ha funzionato.»

Aprii l'album, iniziai a guardare le varie foto incollate sulle tante pagine, piene di momenti anche stupidi della loro vita e del loro matrimonio. In quei momenti, c'era anche papà, da bambino, o appena neonato, il suo solito sorriso addosso, forse un po' più forte e deciso di quello di adesso. «Tu e il nonno insieme sembrate la versione adulta e piccina della stessa persona» commentai.

«Vero? Mater semper certa est, pater numquam, si dice sempre per i figli, ma non era il nostro caso.»

«Che significa?»

«È latino, vuol dire: La madre è sempre certa, il padre mai. Ma come tu stessa puoi vedere dalle foto, di me tutto si poteva credere tranne che non fossi il figlio di mio padre, si sarebbe potuto dubitare al contrario di mia madre.»

«Sa tanto di trama dei libri gialli che ti piacciono tanto.»

«Un altro dei miei mille pregi che purtroppo tu non hai ereditato, figlia ingrata che non sei altro, buttandoti invece su quelle tremende storie d'amore piene di ragazzi tatuati.»

Scoppiammo a ridere insieme. «Curioso che tu non abbia preso la stessa passione per il romanticismo, visto che sei nato da un amore del genere.»

Il suo sorriso si fece un po' storto, l'angolo sinistro si curvò più del destro. «O forse è proprio per questo, chissà» disse sereno, per poi darmi delle pacche sulla spalla. «Torniamo alla ricerca di quel costume, bambina. C'è un motivo per cui odio così tanto questa soffitta, cioè che è così piena di cose che si trasforma in una vera e propria sabbia mobile che ti inghiotte fino a impedirti di uscire. Prima ci muoviamo, meglio è.»

E così, l'attimo dopo, riposi l'album al suo posto e ricominciai con lui a cercare il costume della principessa Aurora.

Sapevo di non potermi più affidare a quanto mi aveva detto in merito al suo passato e ai ricordi che avevo con lui, ma quello in particolar modo mi stava struggendo la mente, dal nostro ultimo incontro in carcere.

Quando io guardo un'altra persona, vedo solo un oggetto.

Anche quella era una dichiarazione che dovevo prendere con le pinze, visto che della menzogna ne aveva fatto la sua carriera insieme agli omicidi, tuttavia in parte ritenevo di poter credere ad essa, perché avrebbe spiegato moltissime cose non solo su tutti i suoi assassinii ma anche e soprattutto sul perché, a differenza degli altri serial killer, mai gli era interessato render note le sue "gesta" al mondo, al contrario anzi aveva fatto di tutto perché nessuno le collegasse tra di loro e capisse che dietro di esse ci fosse la stessa persona.

Se davvero per lui gli altri esseri umani non erano che oggetti, al pari di sassi in mezzo alla strada, allora non avrebbe avuto motivo di desiderare le loro attenzioni. Nessuno, in fondo, vorrebbe mai essere acclamato o anche odiato da degli oggetti.

Quello che però non mi spiegavo era come era riuscito a recitare così bene per tutto quel tempo, specie ripensando a quel giorno in soffitta. Aveva mentito anche allora? Aveva detto che spesso non era in grado di comprendere cosa provava, allora com'era stato in grado di comportarsi e agire così bene nei confronti degli altri e per tutti quegli anni? Davvero era semplicemente "bravo a imitarli"?

In parte, credevo di aver trovato la risposta in ciò che mi aveva detto proprio in soffitta: lui razionalizzava le emozioni, vedeva gli schemi che spesso si creavano dietro ad esse, trovava le cause e le conseguenze e da lì stabiliva come muoversi e quale atteggiamento assumere.

Da un punto di vista puramente logico, il carattere che aveva era perfetto perché nessuno dubitasse di lui: benché infatti un po' atipico per la peculiarità di volersi fare i fatti suoi e il suo aromanticismo, non era un asociale, un inetto, non era un misantropo. Aveva una personalità solare e anche elegante, e forse l'aveva assunta proprio con lo scopo di non attirare attenzioni, di non lasciare intendere la mostruosità che nascondeva in sé. Arrivai persino a pensare che tutti i libri, film e saggi che si leggeva in continuazione da che lo conoscevo, persino quelli romantici che detestava, gli servissero proprio a quello: per comprendere quello che ai suoi occhi era incomprensibile, per cercare di trovare il nesso tra un'azione e un sentimento di modo da poterlo riprodurre e sembrare naturale come tutti quanti.

E forse l'aveva fatto anche con me.

Spesso parlavamo dei vari metodi genitoriali che venivano costantemente consigliati da parte di tutti, tra chi riteneva ancora necessarie le punizioni corporali, anche minime, per educare i figli e chi invece preferiva un approccio più umano e gentile. Papà si studiava anche quelli, lo faceva da che ero venuta al mondo, stando a quello che diceva, e se davvero razionalizzava tutto come credevo, sicuramente aveva pensato che il metodo che aveva usato con me era il migliore sia per non destare sospetti sia per ottenere la mia più completa fiducia, tale da indurmi a obbedire ciecamente al suo ordine di non entrare nel capanno e a tutte le continue menzogne che mi rifilava ogni giorno.

Assurdo, folle, forse addirittura quasi impossibile, ma si trattava di un assassino che aveva agito nell'ombra per trent'anni, probabile anche di più, senza mai aver attirato una sola volta attenzioni su di sé.

Non era un caso se l'avevano definito un vero e proprio genio della mostruosità e dell'omicidio.

Le emozioni che mostrava non erano sul serio le sue, se le metteva addosso unicamente per mantenere la facciata, per far sì che chi lo incontrava e chi lo conosceva continuasse a pensare: "È come noi, non c'è nulla che non va."

Quelle che davvero gli appartenevano erano quelle che provava quando uccideva qualcuno, di questo ne ero certa. Forse considerava le persone oggetti e forse proprio per quello gli piaceva così tanto ferirle e ammazzarle: per lui erano un vero e proprio gioco, qualcosa con cui divertirsi come non mai. In fondo, al mondo esistevano migliaia di giochi che comprendevano l'utilizzo dei sassi, ai suoi occhi doveva essere la stessa identica cosa.

Persino le donne con cui si frequentava sessualmente dovevano apparirgli così: oggetti con cui sfogare la propria sessualità.

Perciò lui non era in grado di provare emozioni se non quando uccideva? Dubitavo di ciò, come Rosemary aveva detto, per quanto malato, mostruoso, deviato e schifoso fosse, mio padre era un essere umano e tutti gli esseri umani provavano emozioni.

La domanda era quali e come le provava.

Mi ero fatta milioni di ricerche al riguardo, avevo cercato qualsiasi forma di condizione, malattia o patologia psichiatrica: avevo vagliato qualunque possibilità. Alessitimia, disturbo dissociativo, psicopatia, persino la schizofrenia, ma lui non mi sembrava rientrare in alcuna di esse, o forse ci rientrava, ma solo parzialmente, forse era un miscuglio di tutte quelle cose, di alcune delle loro parti insieme, forse addirittura ancora non esisteva un modo, un termine vero e proprio, per stabilire qual era il suo problema.

Una parte di me dubitava l'avrei mai scoperto davvero: anche se avesse rivelato la verità, papà l'avrebbe fatto soltanto con me. Avrebbe continuato a rifiutarsi di parlare con i professionisti di quel settore fino alla sua esecuzione. E certo io non potevo fargli tutte quelle domande necessarie per creare una diagnosi, non avevo le competenze.

Ripensando a quel giorno in soffitta, mi domandai quanta verità mi avesse mostrato nel parlarmi dei suoi genitori, sempre che ce ne fosse stata anche solo un goccio. Non mi era apparso turbato, mentre mi narrava di loro e del loro grande amore, era rimasto sereno tutto il tempo, il solo momento diverso dagli altri era stato quando aveva storto un po' più il sorriso alla fine del discorso, davanti alla mia battuta sul fatto che era così poco romantico pur essendo nato da una coppia che si amava alla follia, ma nemmeno quello potevo considerarlo un indizio vero e proprio.

Non ne avevo idea, non riuscivo a comprenderlo, nonostante stessi facendo di tutto per farlo.

La terza domanda che mi ponevo ogni giorno, dopo quella sul perché fosse diventato un assassino e sul perché aveva ucciso Betsy, era l'altra che mai osavo tirar fuori ogni volta che lo andavo a trovare e che adesso, dal nostro ultimo incontro, mi martellava in testa con la stessa violenza delle altre.

Hai mai pensato di uccidermi?

Per quanto gli volessi bene al pari di quanto ora lo odiassi, non potevo escludere quella possibilità, specie dopo che mi aveva detto che non si era accorto subito di amarmi.

In fondo, razionalmente parlando, uccidermi gli sarebbe convenuto molto. Al di là di quanto mi avesse ingannata per ottenere la mia più totale fiducia così che non sospettassi di lui, il rischio che scoprissi qualcosa vivendo con lui c'era ed era anche piuttosto elevato, farmi fuori gli sarebbe risultato più utile.

Certo, avrebbe corso il pericolo di venir subito sospettato, dato il nostro rapporto, ma capace com'era stato di non farsi mai smascherare in tutti quegli anni, un modo per assassinarmi senza venire scoperto lo avrebbe potuto trovare, anche solo simulando un incidente domestico. Di sicuro non avrebbe potuto farlo subito, non appena mi ero trasferita da lui, ma anni più tardi sì.

Quindi perché non l'aveva fatto?

Non avevo comunque voluto rischiare? Aveva ritenuto più logico crescermi affinché io gli credessi ciecamente? Gli ero servita per mantenere ancor più la facciata di uomo perbene e cittadino modello?

O era perché mi amava?

Perché, come lui aveva affermato, ai suoi occhi ero una persona?

E allora perché aveva detto di non averlo capito subito?

Continuavo a rimuginarci su, continuavo a chiedermelo ancora e ancora, ma non trovavo mai una risposta, non ci riuscivo proprio.

Quell'uomo che un tempo era stato la mia unica, grande certezza, il salvagente a cui aggrapparmi quando annegavo nell'oceano dei miei incubi, la sola presenza materiale e fisica nella nebbia fumosa di ogni mio giorno, adesso ai miei occhi non era che un grande, immenso punto interrogativo.

Più cercavo di raggiungerlo, più provavo ad avvicinarmi a lui, ad afferrarlo, più lui mi sfuggiva e si allontanava. Ogni più piccola sicurezza che avevo nei suoi riguardi era crollata, il mondo di stabilità e rassicurazione che avevo costruito insieme a lui era diventato un deserto di macerie, un terreno desolato subito dopo la fine di una guerra, in cui non c'era più niente di vivo, solo i cadaveri dei nostri ricordi.

Tutto quello che mi rimaneva erano le due sole emozioni che mi erano rimaste per lui: l'amore e l'odio.

Entrambe della stessa portata, grandezza e intensità: mi guazzavano nel cuore continuando a scontrarsi tra di loro, ma non c'era modo perché una riuscisse a prevaricare sull'altra, continuavano a lottare e così facendo mantenevano un equilibrio crudele che mi agonizzava più di quanto lo avrebbe fatto se per una volta una delle due avesse sconfitto l'altra.

Ero lì, io, a camminare su un filo sottile, sempre pronta a cadere o da un lato o dall'altro, ma mai ci riuscivo davvero.

Avrei voluto soltanto poter porre fine a quella tortura, avrei voluto soltanto fare ciò che tutti dichiaravano avrebbero fatto al mio posto: detestarlo e odiarlo con ogni mia particella.

E lo facevo, sì, ma continuavo comunque ad amarlo.

Era quella la mia malattia più grande, a primeggiare persino sull'afefobia.

Persino ora che mi aveva detto di vedere le persone come oggetti, persino ora che mi aveva detto di non aver capito subito il suo affetto per me.

Non riuscivo a spezzare il mio, di affetto, nonostante tutto.

Rosemary mi aveva detto che era quella la meraviglia dell'essere umano, secondo lei, ma io non ero certa di poter dire la stessa cosa. Mi sentivo ancor più mostruosa per quello, ancor più vomitevole.

Continuavo a riprodurre tutte le memorie che avevo con lui, persino le più disgustose, come quelle di quei ventisei giorni in cui Betsy era scomparsa, in cui lui, lo stesso che in quel momento la stava torturando nel capanno, aveva continuato a comportarsi come se nulla fosse, aveva continuato a recitare.

In verità, faticavo a ricordare quel periodo, visto che passavo praticamente tutte le giornate fuori ad appendere volantini, proseguire le ricerche nei vari percorsi naturali con i gruppi di volontariati, nel delirio più assoluto della mente.

Ero praticamente sempre fuori casa, non lo incontravo mai, e anche quando lo incrociavo la sera tardi, ero così sconvolta e distrutta che non riuscivo neanche a parlargli o guardarlo in faccia, correvo in camera mia e mi buttavo sul letto per cancellare il dolore con l'apatia del sonno. Gli dicevo che volevo restare da sola, di lasciarmi in pace.

Non perché sospettassi di lui, ma perché già all'epoca avevo il presentimento che la sparizione di Betsy fosse l'inizio del debito che avevo da scontare con Dio, e non avevo il coraggio di parlarne con papà come invece avevo sempre fatto per tutti i miei altri problemi, non potevo proprio.

E adesso non potevo che pentirmi di quella mia scelta, non potevo che pregare di tornare indietro nel tempo, a quei giorni, e invece che correre verso camera mia non appena rincasata, ignorando la sua voce, voltarmi e guardarlo in faccia, vedere che espressione aveva assunto in viso.

Tre giorni prima della scoperta, non ero più riuscita a contenermi, però, ero esplosa proprio davanti ai suoi occhi, una volta esser rincasata alle undici di sera inoltrate e averlo visto davanti a me, all'ingresso. Avevo appena scoperto che la polizia stava per porre fine alle ricerche e davanti a quella notizia, davanti al volto del padre che tanto amavo, ero crollata a terra e un urlo dilaniante mi aveva sviscerata.

Questo era tutto ciò che ricordavo, perché poi c'era stato l'oblio più totale. Proprio come subito dopo l'incidente stradale, quando qualcuno provava a sfiorarmi, avevo perso il senno, mi ero trasformata in una belva, un animale fatto solo di istinti, il cervello si era spento del tutto e il dolore e la paura avevano preso possesso del mio corpo.

Al risveglio, il giorno dopo, avevo trovato la casa devastata.

Devastata da me. Ogni cosa a soqquadro, come se fosse stata travolta da un uragano.

E papà sul capezzale del mio letto, con degli occhi che stavano mostrando la stessa agonia che io avevo nel cuore.

Solo Dio sapeva cosa avrei dato ora per poter capire cosa stesse pensando in quel momento, con quell'espressione addosso. All'epoca avevo creduto stesse solo soffrendo con me e per me, ma adesso mi domandavo se c'era dell'altro.

Ripensandoci, studiando bene quell'immagine nel dettaglio, mi sembrava che, oltre che addolorato, papà fosse particolarmente confuso, come se c'era qualcosa che non andasse, come se stesse lottando con sé stesso per comprendere qual era la stortura che si sentiva dentro, ma non ero sicura di quanto potermi affidare a quella memoria, corrotta com'era dalla disperazione e lo strazio.

Aveva già ucciso Betsy, all'epoca, stando a quanto dichiarato dalla scientifica, solo che non si era ancora scoperto.

Sarebbe successo tre giorni più tardi.

Perché? Perché? Perché?

Continuavo a chiedermelo, ancora e ancora, e il fatto che lui non volesse rispondermi mi adirava come non mai. Era stupida e insulsa la giustificazione che mi aveva dato per non farlo.

Lo sapevo bene che aveva me in testa, quando aveva scelto Betsy come sua vittima.

Era stata colpa mia se l'aveva rapita.

Perché ero sua figlia, perché era mio padre.

Sangue abominevole a legarci e scorrerci in vena.

Papà era stato il risultato del mio desiderio, la risposta che Dio mi aveva dato alla mia ingenua speranza che forse persino una come me poteva essere felice, forse persino una come me meritava di essere amata.

"Sì, meriti di essere amata" era quello che mi stava dicendo Dio con tutto ciò.

"Ma solo da un mostro come te."

Una volta, avevo creduto che l'inferno si incarnasse in quel maledetto specchio, e mi ero convinta che, ora che il mio desiderio era stato esaudito, mai più avrei dovuto avere a che fare con esso, mai più avrei dovuto scorgere i miei peccati là dentro.

Ma mi ero sbagliata.

Quello specchio non se n'era andato.

Quell'inferno non se n'era andato.

Adesso era negli occhi di mio padre.

Nel riflesso che mostravano ogni volta che li incrociavo.

Il mio.








«Papà, ci sono delle domande a cui mi puoi rispondere?»

Papà sollevò il capo dalle sue mani incatenate al tavolino, così da incontrare il mio sguardo. Come a ogni nostro incontro, sembrava dimagrito e invecchiato ancor più della volta precedente.

Parve sorpreso, forse un po' smarrito, e in realtà lo ero anche io. Non comprendevo dove avessi trovato il coraggio di fargli quel quesito, la voglia di scoprire di più, visto che, in quattro anni, mai ero stata capace di pronunciare una sola parola in merito ai miei mille dubbi.

«Hai detto» proseguii, «che ancora non puoi rivelarmi la verità sul perché hai ucciso Betsy, ma qualcos'altro me lo puoi dire, no? Qualcos'altro che non riguardi me.»

Lui inarcò un sopracciglio, scrutò per qualche istante gli altri tavolini dove i detenuti stavano incontrando i loro visitatori, per poi riportarlo su di me. «Dipende, bambina» rispose alla fine, la voce roca.

«Da cosa?»

«Dalla domanda.»

Appiattii le mani sul ripiano del tavolo. Guanti vermigli, quel giorno. Il mio diciottesimo Ringraziamento.

Schiusi le labbra, permisi solo a un velo sottile d'aria di sgusciarmi in gola.

«Sai perché sei così?»

«No.»

La sua risposta automatica, istantanea, mi stupì del tutto e al tempo stesso non lo fece per niente.

«Ho solo delle ipotesi» continuò poi, mentre tamburellava le dita sul tavolo. «Ma sono, per l'appunto, ipotesi, e in realtà sono piuttosto certo che nemmeno uno psichiatra saprebbe davvero trovare una risposta sicura.»

«È per questo che ti rifiuti di rispondere alle loro domande?»

«No, è perché non m'importa scoprirlo.»

Lo guardai per qualche secondo, mi chiesi se stesse mentendo di nuovo, ma non riuscivo proprio a capirlo. «Credi...» esitai un istante. «Credi di esser sempre stato così?»

Lui storse un po' la bocca, un sorriso amaro gli deturpò le labbra. «Chi lo sa» rispose infine, a palpebre socchiuse. «Suppongo di no, o forse c'era una predisposizione innata, genetica, non saprei. In verità, non ricordo molto della mia prima infanzia e di com'ero a quei tempi.»

Lo guardai stupita, non riuscii a trattenermi, il suo sorriso si fece più amaro. «So cosa ti stai chiedendo» proseguì. «Riguardo alle vicende che ti ho raccontato di quand'ero piccolo... beh, sono vere, sì, ma non perché io le ricordo, bensì perché mi sono state dette dagli altri.»

«Ad esempio?»

«Quelle su mio padre» rispose. «Tipo quando ti dissi che andavamo a pescare insieme... Sì, da quanto mi è stato detto lo avevamo fatto più volte, ma non ricordo nulla di ciò. Non ricordo praticamente niente sul suo conto. Tutte le informazioni che ho su di lui sono quelle che ho scoperto da solo e quelle che mi sono state date dagli altri ed è su di esse che mi sono basato per costruire il mio passato quando ne parlavo con qualcuno, inclusa te.»

Sbattei le palpebre, stupefatta, lui ridacchiò. «Quindi... non ricordi niente della tua infanzia?»

«Della mia prima infanzia, bambina» mi corresse sereno. «O forse, per meglio dire, più che non ricordare... non sono sicuro che tali memorie siano veramente mie e che non mi siano state invece impiantate dagli altri.»

«Con altri... ti riferisci a qualcuno in particolare?»

Mi guardò, pareva divertito. «Sei una ragazza molto intelligente, bambina, sono sicuro che già sai la risposta.»

Chiusi le mani in due pugni. «Nonna Lily?»

Annuì, ancora tranquillo. «Come ti dissi, lei era follemente innamorata di tuo nonno, così tanto che si rifiutò di risposarsi pur avendo molti pretendenti. Era una bella donna, d'altro canto, e aveva anche moltissimi soldi.» Tamburellò ancora le dita sul tavolo. «Stando ai suoi racconti, mio padre era l'uomo perfetto. Divertente, sagace, ben educato, capace di farti sganasciare dalle risate, socievole ed espressivo come non mai. Tutti quanti lo adoravano per questo.»

Richiusi le labbra, mentre una vampata di freddo andava a travolgermi e papà se ne accorse all'istante, una luce gelata gli illuminò lo sguardo. «Hai capito, non è così?» domandò.

Non so con che forza trovai il coraggio di porgli quella domanda: «È... è su di lui che hai basato la tua... la tua personalità?»

L'angolo destro delle sue labbra si sollevò ancor più.

«Basato... non saprei se è il termine giusto» mormorò, più a sé stesso che a me.

«Che intendi dire?»

«Quando ti dissi che la frase Finché morte non ci separi non valeva per i tuoi nonni, lo intendevo letteralmente, bambina.»

La gola mi si era fatta secca. «N-Non capisco...»

«Il motivo reale per cui tua nonna non si risposò» spiegò pacato, «non fu perché amava tuo nonno anche dopo che era morto, fu perché per lei tuo nonno era ancora vivo, non l'aveva mai lasciata davvero

Deglutii. «Papà... non capisco.»

«Lo dicesti tu stessa, no? Che io sono la copia spudorata di mio padre.»

Sussultai sulla sedia, papà sorrise ancora.

«Era il nostro segreto» proseguì, e la naturalezza con cui ne parlava, come se si trattasse di una vicenda che non lo riguardava per niente, instillò in me il dubbio che stesse mentendo di nuovo, ma non ero sicura di ciò, non ne avevo idea. «Fu lei a... suppongo si possa dire addestrarmi, affinché diventassi identico a mio padre non più solo d'aspetto, ma anche di carattere.»

«Vuoi dire che...» Non riuscii a terminare la frase.

«Proprio quello che pensi, bambina.» Posò lo sguardo sulla finestra della parete alla sua destra, la sola di quella stanza. «Fuori casa ero suo figlio, dentro casa ero suo marito, e ho continuato ad esserlo ai suoi occhi fino al suo ultimo respiro.»

Mi sembrò che le interiora mi si fossero squagliate dentro.

«Immagino» disse ancora, «che sia per questo che fatico così tanto a comprendermi, visto che per così tanti anni ho dovuto mostrare e provare le emozioni e il carattere di un morto. E che sempre sia questo il motivo per cui non ho sviluppato quell'empatia che caratterizza tutti quanti, ma non saprei, non ne sono così sicuro. Studiando molti manuali di psichiatria, una persona normale, davanti a questi abusi - così li chiamano - avrebbe sviluppato problemi di socializzazione o comunque non sarebbe riuscita a comportarsi in maniera naturale per tutto il tempo, senza esplodere in qualche modo, ma non è stato il mio caso, non so cosa ciò dica di me.»

Serrai la mascella, il suo sorriso si fece più accennato.

«Non so dire esattamente quand'è successo» continuò, «so solo che, a un certo punto, mi sono accorto che non m'interessava niente di niente delle persone attorno a me, non le vedevo nemmeno come persone. E anche quello che succedeva a me con gli altri, inclusa mia madre... mi interessava fin troppo poco. Tuttavia, persino da appena adolescente, ho capito subito che questo sarebbe stato un grande problema, avrei rischiato di venire rinchiuso in qualche ospedale psichiatrico, se qualcuno l'avesse scoperto, e l'idea... mi irritava, così ho continuato a recitare il carattere di mio padre anche fuori e anche dopo la morte di tua nonna, apprendendo man mano anche i lati espressivi dagli altri, quelli che più venivano considerati piacevoli e apprezzabili in una persona.»

Non ero sicura delle emozioni che stavo provando in quel momento, la confusione mi turbinava in testa, spezzando la saldezza dei sentimenti.

«E la nonna?» domandai a quel punto. «Anche la nonna... per te, non era una persona?»

Fece una smorfia, ma non per disgusto, era come se... faticasse a stabilirlo. «Non te lo so dire» confessò, ritornando a guardarmi. «Non penso la vedessi solo e soltanto come un oggetto, ma se mi dovessi chiedere se le volessi bene o al contrario la odiassi, la risposta ad entrambi i quesiti credo sia no.»

«Nemmeno... Nemmeno dopo tutto quello che ti ha fatto?»

«È l'altro problema» disse a quel punto, «so benissimo che da un punto di vista logico il nostro era un rapporto malato, che qualunque psichiatra definirebbe un vero e proprio abuso, pedofilia pura agli inizi, ma per me... non ha mai avuto importanza. Se ci ripenso anche ora, non sento di soffrirne, ma di nuovo... non sono sicuro che non sentirlo non voglia dire che non ne soffra davvero, visto poi quant'è successo con lei.»

Aggrottai la fronte, confusa. «Che... che intendi, papà?»

«Sai chi è stata la mia prima vittima, bambina?»

«Mary Lind, trentatré anni fa.»

«Sbagliato, bambina» replicò, ed io sgranai gli occhi. Lui sorrise ancora. «La mia prima vittima non è stata Mary.»

Lo stomaco si era trasformato in una fornace, fiamme pure mi esplosero dentro, quando i suoi occhi incontrarono i miei.

«La mia prima vittima è stata Lily Reid, bambina» rispose con quel suo tono pacato che tanto lo caratterizzava, quasi stesse parlando del tempo. «Quando avevo diciannove anni.»

L'inverno sbocciò nel mio cuore.

«Ma... Ma nonna Lily...» mi bloccai per dieci secondi. «È morta per via del tumore che aveva al-»

«Allo stomaco, sì, andato in metastasi. Era una malata terminale, ormai. Non c'era più niente da fare, i medici l'avevano detto, perciò, quando dichiarai la sua morte, dovuta al fatto che era soffocata nel suo stesso vomito, mentre dormiva ed io ero fuori casa, tutti quanti mi credettero. Non indagarono neanche. Anche perché era vero, era così che era morta, e il vomito, specie se in fase terminale, è una delle conseguenze del tumore allo stomaco.»

«Stai... Vuoi dire che-»

«Che gliel'ho indotto io il vomito, sì.»

Mi parve che ogni mia cellula si fosse fatta di ghiaccio, specie quando mi resi conto che non gli interessava minimamente quello che stava dicendo.

«L'ho guardata per tutto il tempo, mentre soffocava e moriva» continuò papà, riprendendo a tamburellare le dita sul tavolo. «So cosa stai pensando, bambina, che volessi vendicarmi per quello che mi aveva fatto, ma di nuovo non te lo so dire. La ragione principale per cui scelsi proprio lei, almeno così ritenevo all'epoca, era perché era da un bel po' di tempo che mi domandavo cosa si sentisse ad uccidere qualcuno e lei mi era sembrata la cavia perfetta per farlo, visto che, essendo per l'appunto malata, sarebbe stato più facile far passare la sua morte come una naturale. Molti serial killer all'inizio sperimentano con gli animali, ma gli animali ai miei occhi valgono ancora meno delle persone, e soprattutto mostrano molte meno espressioni e non parlano, ero già sicuro che non avrei sentito niente con loro.»

Per un minuto buono, non seppi cosa dire, pallida ovunque, con sudore freddo a ricoprirmi dappertutto e nello scorgermi così, papà ridacchiò.

«E-E... cos'hai provato?»

«Era divertente

Sussultai di nuovo sul posto, papà sghignazzò ancora. «Molto, molto divertente» confermò ancora, ad occhi chiusi. «Ed è la sola certezza che ho posseduto per tutti quegli anni: uccidere mi diverte come non mai, mi dona l'emozione più forte che io abbia mai provato in tutta la mia vita. Per questo non ho mai smesso di farlo, una volta aver ammazzato mia madre, pur consapevole dei rischi, e sempre per questo tuttora non mi pento di quanto fatto alle mie vittime, tranne Betsy. Sarà disgustoso da dire per le persone normali, ma per me quel divertimento era la cosa che più si avvicinava all'umanità.»

Si bloccò per qualche secondo.

«Prima di te.»

Mi tremavano le mani, adesso, fui costretta a stringerle tra loro, con la sensazione di avere un veleno dentro a scorrermi e a uccidermi lentamente, ad ogni respiro che facevo.

«Spero che questo ti aiuti a capire, bambina, chi è il solo mostro di tutta questa storia» proseguì lui, ed io faticai a reggere il suo sguardo, così deciso e determinato. «È soltanto per questo che te ne sto parlando ora.»

Serrai la mascella con violenza, al punto da far slittare i denti.

Papà voltò il capo, controllò l'orologio appeso alla parete, proprio accanto alla finestra. «Mancano pochi minuti» disse a quel punto, «c'è un'ultima cosa che ti voglio dire, bambina, in merito a tua nonna.»

Non volevo più ascoltarlo, ma il mio corpo si rifiutava di bloccarlo, le parole restavano attaccate al palato.

«Tua nonna Lily» dichiarò con tono sicuro, «sai perché era ossessionata così da tuo nonno?»

«Perché... perché lo amava?»

«Sì, anche per questo, ma sai perché lo amava così?» Davanti alla mia confusione, papà sbuffò ancora. «Affermava che era la volontà di Dio che loro due stessero insieme, che era stato Lui a renderli anime gemelle e che lei l'aveva capito nell'istante stesso in cui l'aveva visto la prima volta.»

Un tuono mi deflagrò in testa, ebbi la sensazione di star per sentirmi mancare.

«La polizia ha indagato su ogni cosa di me, incluse le donne che ho frequentato sessualmente nel corso degli anni, pensando ci fosse un comune denominatore tra di loro, e non l'ha trovato non perché non è stata brava, ma perché semplicemente non c'era. Come ti ho detto, per me le persone sono oggetti, le uso e basta. Dato il mio bell'aspetto e il carattere che recitavo, non mi era difficile conquistare quelle donne, e di loro non m'interessava nulla in particolar modo, solo usarle, per l'appunto. Sceglievo quelle con cui avevo più probabilità di riuscirci, si può dire che avessi delle preferenze fisiche, sì, che fossero alte e anche loro di bell'aspetto, ma nient'altro che questo. Quel che davvero volevo era solo il sesso, perché a suo modo lo trovavo divertente, anche se non quanto uccidere.»

Tremai con violenza sul posto.

«Tuttavia» dichiarò, «c'è stata un'eccezione tra quelle donne, una soltanto. La sola che ho scelto apposta per un motivo specifico.»

Lo sai cosa devi dire allo specchio, Agatha?

Un'altra risata lo scosse.

«Ed è stata anche la sola che mi ha fregato

«Papà-»

«Tu sai benissimo chi è, bambina» dichiarò, e i polmoni mi si sgonfiarono tutti insieme in un istante.

«E ora sai anche perché






Nota autrice pt. 2

Ho poco da dire perché rischio di fare iper mega spoiler, perciò me sto zitta più che posso. Con Lawrence corro sempre 'sto rischio, dannazione, mannaccia a me e alla mia diarrea verbale.

Ho solo alcune domande da farvi:

Che ne pensate di quanto ipotizzato/descritto da Agatha e detto poi da Lawrence? Credete stia mentendo? O che stia dicendo la verità? E se fosse la verità, si può collegare in qualche modo a quanto ha fatto ad Agatha?

E SOPRATTUTTO:

Ricordatevi che con questa storia io NON VOGLIO GIUDICARE le persone fedeli/credenti o il cristianesimo in sé.

Come dissi, c'è gente che purtroppo usa la fede in maniera sbagliata, la distorce nella sua testa, perché, per l'appunto, esseri umani.

Quindi no, non voglio demonizzare il cristianesimo, non voglio dire che credere in Dio fa schifo e men che meno che ti rende uno psicopatico serial killer.

The end.

Oh, un'altra cosa.

Forse alcuni di voi si stanno chiedendo se quindi Lawrence - se quanto raccontato da lui qui è vero - è incapace di provare emozioni.

SNÌ.

Sul concetto di "non provare niente" non sono d'accordo. Come detto da Rosemary, per quanto mostro Lawrence È un essere umano, e TUTTI gli esseri umani provano qualcosa.

In questo caso, sempre se quanto lui ha detto è vero, il problema sta nel fatto che sin da bambino ha dovuto smettere di ascoltare i suoi stessi sentimenti e ha dovuto iniziare una recita totale, fingendosi un'altra persona, al punto da perdere del tutto il legame di solito così viscerale che noi abbiamo con le nostre emozioni. Il motivo per cui persino ora fatica a comprendersi e la ragione per cui non vede gli altri come PERSONE bensì oggetti.

Non la definirei apatia totale, in quanto, come lui stesso dice, qualcosa la prova e la sente anche, ma non riesce a comprenderla del tutto.

Si può dire che le sue emozioni le percepisca in modo molto molto moooolto flebile, e non perché lo sono realmente, ANZI, ma proprio perché ha perso completamente la connessione con loro.

Se questo è dovuto al suo TRAUMA di ogni scarrafone è bello ammamma soja (specie se identico al marito schiattato) o anche per una sua predisposizione o anche per qualcosa che sin da sempre non andava nella sua mente questo lui non lo sa e, come già ha spiegato, non gli interessa scoprirlo.

Ciò che però mi interessa ricordiate di quanto detto da lui in questo capitolo è proprio il fatto che per lui - sempre che le sue non siano altre menzogne - l'omicidio era ciò che gli dava l'emozione più forte e soprattutto più umana di tutte. Il vero motivo per cui non ha mai smesso.

Al secondo posto, il sesso con le donne con cui si frequentava sessualmente, di cui Agatha già vi aveva parlato.

Da lui definite come donne qualsiasi di cui non gli interessava granché, forse alcuni tratti dell'aspetto fisico, ma non così determinanti, andava, si può dire, da quelle con cui aveva più possibilità di successo.

Tranne una.

La sola che, stando a quanto lui dice, l'ha fregato.

Potete immaginare in che modo lo ha fregato?

E vi RICORDO che prima di parlare di tale donna (che ormai avete capito benissimo chi è) Lawrence ha parlato del motivo per cui sua madre era così ossessionata dal marito.

Per poi, subito dopo, parlare di siffatta donna che, a differenza delle altre, ha scelto volutamente per un motivo specifico a differenza delle altre.

2 + 2 = 4 (anche se io continuo a controllare nella calcolatrice che sia così, perché non se sa mai nella vita e soprattutto faccio cagare in matematica quanto Dante a far capire ad Agatha di esser pentito)

Trauma ammamma soja + più ddddonna particuler = ????

Attendo le vostre teorie.

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