Pollice

«Hai di nuovo le occhiaie, bambina.»

Sollevai lo sguardo dal tavolino in metallo davanti cui ero seduta per rivolgerlo a mio padre dall'altra parte. La divisa arancione gli andava larga, ormai, aveva perso di nuovo peso. I capelli un tempo corvini, adesso sale e pepe, gli contornavano la testa come sottili trucioli, e il volto era devastato da rughe non di vecchiaia, bensì di stanchezza e angoscia, nate, cresciute e ramificatesi da quand'era stato arrestato.

Aveva appena cinquantaquattro anni, eppure, a vederlo, chiunque gliene avrebbe dati almeno settanta.

Mai l'avrebbe riconosciuto nel padre che mi aveva cresciuta da che ero una bambina, quell'uomo sempre vestito con cura, sempre attento al proprio aspetto, che passava ore a sistemarsi i capelli e mostrava una decade di meno rispetto agli anni che indossava davvero.

L'unico elemento che era rimasto uguale da allora erano gli occhi: di un nocciola scuro e intenso, dalla tonalità del caffè, il modo in cui sembravano scartavetrarti l'anima stessa fino a farne emergere ogni segreto.

Quegli occhi ora mi scrutavano con una preoccupazione che mi era ben nota, identica a quella che mi aveva rivolto la prima volta che avevo provato ad andare in bici senza il sostegno delle rotelle e delle sue mani, quella che mi aveva rivolto quando a causa di una brutta influenza avevo avuto la febbre alta per giorni, quella che mi aveva rivolto quando ero svenuta dal nulla a causa dell'appendicite e mi avevano dovuto operare d'urgenza.

«Quanti giorni sono che non dormi come si deve?» continuò imperterrito.

Nella sala d'incontri non eravamo da soli. Altre famiglie stavano incontrando i detenuti, ai tavoli attorno a noi, sparpagliati qua e là nella stanza; ognuno di loro, proprio come noi, stava attento a non farsi sentire troppo.

Ma Lawrence, mio padre, era l'unico carcerato che era stato ammanettato al ripiano del tavolino.

Lo facevano sempre, ogni volta che ci incontravamo.

Troppo pericoloso, dicevano, troppo.

E sapevo anche che avevano ragione.

Ma comunque, lo stesso, non potevo che adirarmi per ciò.

Nemmeno io sapevo spiegarmelo, nemmeno io sapevo più comprendermi, ormai.

Ogni volta che lo andavo a trovare, il martedì, mi ritrovavo sempre vittima di uno scontro straziante che collimava nell'attimo preciso in cui mi sedevo a quel tavolo, lui veniva portato lì dalla guardia e i nostri sguardi si incrociavano.

Quando mi svegliavo, ogni martedì mattina, non appena mi sollevavo a sedere sul letto e scivolavo dal materasso, l'unica emozione che provavo al pensiero di rivederlo era un'ira talmente funesta e dilagante da arroventarmi ogni respiro, mutare l'aria in miasma. I polmoni si trasformavano in sacche di fuoco, il cuore un vulcano e il sangue magma puro ad ustionarmi sotto la pelle.

Passavo l'ora e mezza che impiegavo per prepararmi e partire con la macchina a immaginare scenari in cui gli urlavo e sbraitavo contro come un animale, lo insultavo, lo ripudiavo, gli sputavo in faccia, gli vomitavo addosso quell'odio primitivo che s'ingozzava dei miei visceri da quando quell'incubo era cominciato.

Sognavo di prenderlo a schiaffi, colpirlo in testa con la sedia fino a sfondargli il cranio e il setto nasale, rendergli il volto irriconoscibile, picchiarlo con una forza che già sapevo di non disporre ma comunque mi illudevo di possedere, fino a costringere le guardie carcerarie a portarmi via, trascinarmi lontano per impedirmi di ammazzarlo.

E gridavo, gridavo e gridavo, con urli bestiali che facevano da colonna sonora alle lacrime che mi masticavano il viso, fantasticavo su come lui si sarebbe squarciato davanti a una reazione del genere da parte mia, al modo in cui i suoi occhi sarebbero stati dilaniati dall'orrore e l'agonia che nemmeno il suo segreto l'aveva indotto a provare.

Godevo al solo pensiero del suo volto distrutto dalla sofferenza e la consapevolezza di avermi persa per sempre, di non aver più sua figlia, delle sue labbra tremanti, il pianto a lucidargli gli occhi.

Mi preparavo gli insulti da sputargli addosso, me li scrivevo in mente, me li ripetevo mentre consegnavo tutti i miei effetti personali, mi facevo ispezionare dalle guardie, attendevo nella sala d'aspetto per poi venir chiamata e portata lì, dove mi trovavo ora.

E mi dicevo che non ci sarei cascata, seduta a quel tavolo nel mentre la guardia andava a prenderlo, mi dicevo che non ci sarei cascata, stavolta, che mai l'avrei perdonato, che l'avrei fatto davvero, avrei fatto quelle cose davvero, non mi sarei lasciata consumare dal rimpianto e tutti gli altri sentimenti deplorevoli che inesorabilmente ci legavano.

Ma poi la porta veniva aperta, la guardia entrava e così lui, e nell'attimo in cui i nostri occhi s'incontravano un'altra emozione, sadica e crudele quanto quell'ira, arrivava a scontrarsi con quest'ultima con la violenza di un genocidio, inducendo ogni cosa di me – pensieri, respiri, voce, parole – a sanguinare senza contegno, in maniera talmente copiosa che nessuna trasfusione al mondo, che fosse d'anima o di sangue, avrebbe mai potuto salvarmi.

L'amore.

L'amore che provavo per lui, quell'affetto che ci vincolava assieme dal giorno in cui eravamo diventati davvero una famiglia, lui mio padre e io sua figlia. Ali per volare, un tempo; adesso, invece, catene così strette da soffocarci.

Quell'affetto primordiale che mi scavava le vene e infettava ciascun respiro, quell'assurda, incosciente necessità di volerlo comunque accanto, anche se non se lo meritava, anche se non me lo meritavo, anche se non eravamo più neanche esseri umani, anche se non eravamo che mostri.

Ci definivano così tutti, ormai, da quando il suo segreto era stato rivelato al mondo.

Eravamo stati descritti così da qualsiasi testata giornalistica, da persone che conoscevamo da anni e sconosciuti di tutto il globo, eravamo stati descritti così e più nulla avrebbe potuto cambiare quel giudizio.

E neanche lo volevamo, in realtà.

Non lui, non io.

Eppure, quando lo guardavo, quando incontravo i suoi occhi, mi chiedevo comunque come fosse possibile, come fosse possibile che due mostri come noi due si amassero in quel modo, che si volessero bene fino a quel punto, così miserevoli e umani da farmi sentire umiliata in ogni minuscola cellula.

Io lo guardavo e la guerra tra ira e amore non smetteva mai di scemare e uccidermi, risorgevo ogni volta solo perché mi distruggesse di nuovo, solo per quello.

Tutti quegli insulti, le urla, gli sputi, la rabbia, gli schiaffi, la violenza, appassivano crudelmente quando mi si sedeva davanti, a sbocciare al loro posto erano invece le domande che da anni chiunque gli stava ponendo, le stesse che mi tormentavano da quel crudele giorno d'inverno, quando la nostra vita era stata distrutta, sbudellata dal suo segreto.

Perché l'hai fatto? Perché? Cos'hai che non va? Cos'ho che non va? Perché sei diventato così? Perché? Sul serio tutto quello che hai fatto per me l'hai fatto solo perché sei mio padre e io tua figlia? Sul serio? Non c'era un altro motivo dietro?

Dimmi, papà, dimmi la verità, stavolta, dimmela tutta, dall'inizio alla fine, prima che sia troppo tardi, prima che tu finisca su quel lettino dove ti schizzeranno in vena quel veleno per ucciderti per sempre.

Dimmi la verità, papà.

Perché? Perché sei così? Perché hai rovinato tutto? Perché?

Perché hai scelto proprio Betsy? Perché proprio lei?

Ehi, papà, dimmi...

Hai mai pensato di uccidermi?

Lo sapevo, io, sapevo che se fossi stata io a fargliele, quelle domande, a differenza degli altri, lui non avrebbe esitato a rispondere. Lo sapeva anche la polizia, per questo gli agenti mi avevano tormentato per anni, anche dopo aver appurato la mia presunta innocenza.

Mi avrebbe detto tutto, proprio come richiesto, mi avrebbe confessato quella verità che continuava a negare al mondo intero.

Perché ormai non c'era più motivo di nascondermela, ormai non c'era più motivo di mantenere il suo segreto.

Perché io ero la sola che mai avrebbe voluto la ascoltassi.

E proprio per questo motivo, sebbene le sentissi violentarmi la bocca nel tentativo di uscire, sebbene mi trucidassero la lingua pur di venir modellate dalla mia voce e così enunciate, io, quelle domande, proprio non riuscivo a pronunciarle.

Mi ritrovavo a chiedergli altro, cose stupide, inutili, che non servivano a niente se non a farci sentire ancora più vuoti e mostri: come si trovava in carcere, se il cibo era buono, se era diventato amico di qualcuno, se aveva letto qualche libro.

Argomenti vani e insensati che un tempo avevano scandito le nostre giornate per renderle le migliori in assoluto e che adesso, invece, decretavano l'inesorabile rottura del nostro rapporto, quella piaga e ferita che aveva incrinato entrambi al punto da non poterci più dire nulla di quello che veramente volevamo esprimere.

Perché era mio padre.

Perché ero sua figlia.

Perché lui era mostro e così lo ero io.

E nel suo viso sgualcito io rivedevo il mio.

«Sto bene» dichiarai alla fine con tono incolore. «Ho solo avuto da fare col trasferimento, tutto qua.»

«Agatha, bambina, ogni volta che menti il tuo pollice ha uno scatto, lo sai, no?»

La sua voce era la stessa di sempre: dolce e cordiale. Uguale era l'espressione sul viso, la delicatezza a scavargli gli occhi e le labbra arcuate in alto, quella bontà che avevo sempre ritenuto innata.

Ma sbagliavo, e come sbagliavo io, così sbagliavano tutti quanti gli altri.

«È un difetto che hai da che eri piccola» proseguì. Uno sbuffo divertito gli sfuggì dalla bocca curvata. «Per questo ti ho sempre stracciato a poker.»

Serrai la mascella, guardai le mie mani congiunte tra di loro sul ripiano del tavolino, i guanti che indossavo quel giorno, uno dei mille che mi aveva regalato: bianchi come la panna, con fiori e petali neri a decorarne il tessuto sui bordi.

«Hanno scoperto dove abiti?» mi domandò a quel punto, la preoccupazione a calcargli la voce.

«No» risposi subito. «Non lo sanno. Il proprietario del monolocale che ho preso in affitto è un tipo che sa mantenere la riservatezza se sganci qualche mazzetta in più.»

«Sa chi sei?»

«Papà, tutto il mondo sa chi sono.»

Lui chiuse le labbra e il sorriso, una luce di sofferenza gli illuminò lo sguardo, e di nuovo mi chiesi perché, perché diavolo io non potessi godere di quel suo dolore, perché al contrario ne soffrissi a mia volta.

«Non avresti dovuto seguirmi qui» mormorò alla fine, a stento lo udii. «Non avresti dovuto trasferirti in questa città solo per poter continuare a venirmi a trovare, lo sai cosa penserà la gente, quando lo scoprirà.»

«Ormai sono comunque odiata» replicai con freddezza. «Non sarebbe cambiato nulla neanche se fossi rimasta a casa nostra.»

«Penseranno ancora di più che sei una mia complice.»

Complice.

Troppe volte mi avevano rivolto quell'accusa.

Troppe volte non avevo saputo che rispondere nel sentirmela.

Perché in realtà nemmeno io lo sapevo.

Nemmeno io lo sapevo se ero davvero stata una sua complice.

«Agatha, non lo sei.»

La sua affermazione, decisa e dura, non bastò a smorzare i miei dubbi, non ci riuscì nemmeno la sicurezza che gli scalfiva gli occhi.

«Non sei una mia complice» ripeté. «Non lo sei mai stata.»

Strinsi le mani in due pugni, osservai le sue ammanettate al tavolino: le unghie tagliate fino alla carne, le dita magre, quasi scheletriche, la pelle esangue.

«Tu sei una bambina dolce, buona e altruista» proseguì, ed io chiusi gli occhi, li strizzai con forza per impedire alle lacrime di scoppiare. «Lo sei da sempre.»

«Il tuo parere non conta, papà» risposi alla fine, mi accorsi di faticare a mantenere un contegno nella voce. «Il giudizio di un mostro come te non vale nulla

Avevo ancora le palpebre strizzate, ma sapevo che espressione aveva assunto: pura agonia a masticargli la faccia.

«Sei arrabbiata con me, Agatha?»

La mia fronte distesa si irrigidì nel tentativo di pensare alla risposta da dargli.

Espirai a tratti, ogni mio osso vibrò a causa delle insicurezze e i timori, risollevai le ciglia e lo guardai: nei suoi occhi, ora, c'erano tenebre pure.

«Non lo capisco neanche io» ammisi alla fine, ed era la verità, l'unica che mai avrei voluto rivelargli. «Sospettavo che tu non fossi del tutto una brava persona.»

«Ma non fino a questo punto, vero?»

Non seppi rispondere a quella domanda.

Non era stato il primo a farmela, non sarebbe stato nemmeno l'ultimo. Tutto il mondo me la rivolgeva, i primi a porgermela erano stati i poliziotti che mi avevano interrogato per tre giorni di seguito, nel tentativo di estirparmi una colpevolezza che nemmeno io avrei potuto dire se possedevo o meno.

Avrei mentito, se avessi detto che non sapevo che mio padre era un mostro?

Sì, forse sì.

Avrei potuto sospettarlo, c'erano stati degli indizi che avrebbero potuto farmi intuire la natura infernale del suo segreto: le sue maglie che scomparivano di tanto in tanto, il suo uscire a notte fonda certi giorni, di cui mi ero accorta per caso nelle occasioni in cui non mi addormentavo subito, tutte quelle ore passate nel capanno del terreno privato, il divieto assoluto che mi aveva imposto di entrare là dentro o, ancora, gli improvvisi viaggi di lavoro che lo assentavano da casa per giorni interi, a volte anche una settimana.

Effettivamente sì, avrei potuto arrivarci.

Avrei mentito, se avessi detto che non sapevo che mio padre era un mostro?

No, forse no.

Perché per me lui non era altro che mio padre, l'uomo che mi aveva fatto uscire dall'inferno della mia infanzia, quello che aveva accettato ogni incrinatura e stortura, che mi aveva regalato il mio primo paio di guanti per permettermi finalmente di toccare altri esseri umani, anche se solo per poco tempo. Colui che mi aveva sempre rimboccato le coperte ogni notte, che aveva inventato favole dal nulla per allietare i miei sogni, che mi era stato accanto anche nei giorni in cui credevo di avere granate al posto di pensieri, che aveva accettato la mia afefobia e mi aveva stretto la mano senza farlo davvero, legando i nostri polsi con un nastro verde a infiocchettarli.

«Non lo so» bisbigliai ancora.

Papà parve comprendere, il suo mento affilato tremò per annuire, ed io ebbi l'impellente bisogno di urlare fino a squarciarmi la gola, fino a distruggere il mondo intero con le mie grida.

Avrei solo voluto polverizzarmi, supplicare Dio di distruggere entrambi in quell'istante, riavvolgere il tempo per impedire la sua nascita e in questo modo anche la mia.

Ma era proprio quella la mia punizione, lo sapevo.

Il prezzo da pagare per il desiderio che avevo espresso anni prima.

Le mie labbra si deturparono senza volerlo, mi costrinsi a deglutire, mandar giù la palla di fuoco che mi stava dilatando la gola.

«Hai ripreso gli studi, Agatha?»

Sapevo cosa stava facendo, voleva cambiare argomento per impedirmi di pensare al mio dolore, ma lo lasciai fare, ero stanca, troppo, troppo stanca.

«No.»

Lui corrucciò la fronte. «Bambina» mi chiamò, «devi riprendere gli studi, eri quasi riuscita ad ottenere il diploma di quella scuola di cucina, potresti ancora-»

«Non m'interessa più.»

Papà si irrigidì tutto, ogni suo muscolo si avvitò con così tanta furia da impallidirgli il viso. «Non puoi farti questo, bambina» commentò. «Devi andare avanti, non puoi restare ferma così, devi proporti dei nuovi obiettivi.»

«Non ho bisogno di obiettivi.»

«Devi seguire la tua passione.»

«Non ho più una passione.»

Non stavo mentendo, era la verità.

L'unica mia passione, la cucina, quella che mi aveva caratterizzato per anni, nata proprio grazie a lui... adesso non era che un lontano ricordo.

Più non riuscivo a prendere in mano un mestolo, una pentola, a comprare gli ingredienti necessari per dilettarmi nelle ricette che tanto amavo sperimentare e modificare a mio piacimento per ottenere risultati diversi, con sfide che mi imponevo ogni giorno e i cui risultati era proprio papà a giudicare.

Solo una volta, sette mesi dopo che l'avevano arrestato, avevo provato a dedicarmi di nuovo alla cucina. Avevo preparato il nostro piatto preferito: lo spezzatino di cinghiale al vino rosso. Ed era venuto benissimo, forse il mio risultato migliore, lo avevo capito solo guardandolo, eppure, nell'attimo in cui avevo addentato la carne succosa, non avevo sentito nulla, niente di niente, era stato come provare a mangiare l'aria, talmente insapore che persino il contenuto del mio posacenere mi sarebbe risultato più appetibile.

Adesso andavo avanti, di giorno in giorno, comprando cibi precotti, ordinando a domicilio, affidandomi a fast food, non avevo neanche il coraggio di entrare in un supermercato, e i risultati di ciò si potevano vedere sul mio corpo: avevo messo su peso, fin troppo, almeno quindici chili.

Il mio fisico una volta magro ora era diventato gonfio di carne, il volto un tempo affilato era colmo di grasso, le guance piene e tonde, il seno, già prima importante, terribilmente prosperoso, e nessuno degli abiti che indossavo a ventitré anni mi entrava più.

Avevo dovuto buttar via tutti i vestiti nell'armadio e comprarmene di nuovi online.

Era solo grazie alla mia statura, il mio metro e ottantadue, se tutti quei chili di più si distribuivano in maniera abbastanza omogenea, ma il mio sovrappeso era comunque evidente, e sapevo che anche lui se n'era accorto, ma non osava tirare in ballo l'argomento.

«Bambina, hai un talento straordinario» continuò papà, «non perderlo così, non rinunciare a-»

«Non sei nella posizione di darmi consigli.»

Serrò le labbra.

«Mi dispiace, bambina.»

Una sofferenza bestiale mi investì, non appena pronunciò quelle parole, inducendomi a credere di essere già morta e all'inferno.

Tutto avrei voluto sentirmi dire da lui, tranne che quello.

«Mi dispiace, Agatha.»

Mi sembrò di essere sul punto di spaccarmi i denti.

Inspirai con furia, coi polmoni pronti ad esplodere da un momento all'altro.

«Non volevo rovinarti così.» L'agonia che gli inquinava la voce era la stessa che ora mi stava corrodendo l'anima. «Non volevo che patissi tutto questo.»

Non volevi?

Una risata amara mi esplose dalle labbra senza che potessi fermarla e i suoi occhi affogarono ancor più nel dolore.

Allora perché l'hai fatto? Perché non ti sei fermato il giorno in cui hai deciso di portarmi via con te?

Perché hai dovuto portarmi via tutti quelli che amavo?

Perché proprio Betsy?

È un'altra delle tue mille bugie, questa frase, non è così?

Ma per quanto lo desiderassi, proprio non riuscivo a chiederglielo.

Non ce la facevo.

«Agatha, bambina» mi chiamò ancora. «Perché non provi a parlarne con qualcuno? Magari potresti tornare a frequentare qualche chiesa, parlarne con un pastore e-»

«Non ho più il diritto di entrare in chiesa» lo bloccai subito, papà sussultò. «La tua condanna è la pena di morte, papà, la mia è restare e soffrire da sola per il resto dei miei giorni.»

«Bambina, tu non hai fatto niente. Sei innocente. Non c'entri nulla con-»

«Smettila subito.»

Chiuse ancora una volta la bocca, distrutto quanto me.

E non so dirmi con che forza riuscii a impedirmi di piangere, con che forza riuscii a impedirmi di crollare, nonostante la mia voce l'avesse gia fatto con quella sola parola.

«Stai ricevendo ancora mail minatorie?» mi domandò a quel punto.

«No.»

«Il tuo pollice è appena scattato.»

Serrai di nuovo la mascella.

«Parlane con la polizia, bambina» disse. «Devono intervenire, prima che scoprano il tuo nuovo indirizzo. Non voglio che la tua casa venga vandalizzata ancora una volta, che-»

«I cinquantacinque minuti sono terminati.»

La voce della guardia carceraria, fredda e dura, avvicinatasi a noi dal nulla, lo interruppe.

Chiusi gli occhi, inspirai per l'ennesima volta con ferocia, li riaprii.

Guardai papà, il mio papà, il primo uomo che avessi mai amato, colui che, da bambina, avevo definito il mio principe azzurro.

La prima esistenza a cui mi fossi mai legata dopo Dio in persona.

«Ci vediamo la prossima settimana» sussurrai alla fine, risollevandomi dalla sedia.

Non attesi che mi rispondesse, lasciai che la guardia mi accompagnasse fuori dalla sala, e quando quest'ultima aprì la porta, udii le sue parole alle mie spalle:

«Agatha, bambina, ti voglio bene. Lo sai, vero?»

Non risposi, non mi voltai a guardarlo, uscii senza dire nulla.

Ma dentro i pensieri marcivano, mi dilaniavano con forza.

Lo so, mi ritrovai a pensare, mentre le lacrime mi cadevano in gola fino a soffocarmi, lo so, ed è proprio questo ad uccidermi.

Più di quanto tu non abbia già fatto.




Nota autrice

Buonsalve, muffins! Ci si rivede di nuovo, eh?

Benvenuti a questa nuova, gargantuesca storia di traumi, follie, dolori, traumi e traumi e traumi e ingiustizie.

Ho già detto traumi?

Nel dubbio:

TRAUMI.

Siete pronti per tirar fuori i fazzoletti?

Questa storia sarà molto, MOLTO particolare, una delle mie più assurde, o forse proprio LA più assurda tra tutte.

Non so come dirlo senza farvi scappare subito con la coda tra le gambe, c'ho paura che a leggere questa storia, così, saremo solo io, me stessa e il mio masochismo.

Vabbuò, ci provo lo stesso.

'Sta storia parla de traumi, se non s'è capito.

Ma de traumi PROFONDI, PROFONDISSIMI, muffins. Veri e propri dolori e malattie della mente.

Quindi sì, preparate i fazzoletti (e non le forche per me, pliz) e al massimo chiamate il CSM per farmi ricoverare per aver scritto 'sta masturbazione di traumi e follie.

Sarà anche un esperimento per me, come detto nel prologo, perché ci sarà un tocco di true crime in questa storia. Chi mi conosce lo sa: non mi ritengo molto brava nello scrivere gialli (e questo NON è un giallo, ha solo qualche momento giallo), ma ho voluto provare a sfidare i miei limiti.

VERSO L'INFINITO (dei traumi) E OLTRE, SIMONA.

Chi ha letto "Apologia di Callisto", l'altra mia storia, saprà che ho un fetish vero e proprio nel raccontare i legami non solo romantici ma anche - o addirittura soprattutto - quelli familiari.

In "Apologia di Callisto" ho sviscerato più che potevo il legame fraterno che legava Callisto e Jesse.

In questo lo farò di nuovo, sì, anche se in maniera diversa e non per la protagonista.

Il rapporto che verrà più analizzato, in questo caso - come si può intuire dalla trama - sarà quello tra Agatha e suo padre.

E sarà incredibilmente diverso da quello che lega i fratelli Murray, seppur a primo impatto possano sembrare molto simili, solo a leggere la trama.

Me spiace deludervi, muffins, non sarà così.

Sebbene anche Lawrence e Agatha ce faranno piange come Jesse e Callisto, non sarà per gli stessi motivi, ANZI.

Jesse e Callisto ci hanno fatto soffrire ma anche riempire il cuore d'amore.

Beh... Non credo che questo varrà anche per Agatha e Lawrence. Non del tutto, almeno.

Una figlia con un segreto.

Un padre con un segreto.

E quello di Lawrence, il papà di Agatha, è un segreto mostruoso. Talmente tanto che ora che è stato scoperto non si può più considerare quest'uomo come un essere umano normale (lo vedrete meglio nei prossimi capitoli)

Una vera e propria bestia, forse il diavolo in persona, anche per chi non è credente.

Questa storia è nata nella mia testa attraverso due fonti principali. No, stranamente, la prima NON è "Apologia di Callisto", ANZI, vi stupirà, ma l'idea per questa storia è nata MOLTO PRIMA dell'idea dei fratelli Murray.

Ma non c'evo il coraggio di scriverla all'epoca. Troppi traumi (ho già detto traumi?), temevo di non farcela, così me so dedicata a Jesse e Callisto che, sebbene di traumi ne diano a loro volta e pure parecchi, te stritolano d'abbracci anche col loro amore fraterno.

Adesso il mio masochismo/sadismo invece si sente pronto, quindi ECCOCI QUA.

La prima fonte a cui mi sono ispirata, in realtà, è "Lolita" di Vladimir Vladimirovič Nabokov, uno dei miei libri preferiti (non giudicatemi pliz)

Lolita, detta in modo papale papale, è la storia di un pedofilo che si """"innamora"""" della figlia della sua nuova compagna (poi moglie) quando è ancora una bambina.

La storia è narrata dal punto di vista di LUI, e ciò che più """"affascina"""" e inquieta di tutto ciò è proprio il fatto che riesci a entrare nella testa di un deviato mentale del genere e renderti conto di come ragiona. E non odiatemi ancor più per questo, so che quello che sto per dire può suonare inquietantissimo, ma non è quello il reale significato.

Il "fascino" della storia di Lolita è che ti rendi conto che nella sua follia, devianza, oscurità, Humbert, il protagonista pedofilo, rimane un essere umano.

Disgustoso, mostruoso, orrendo, abominevole, da crocifissione e lapidazione insieme.

Ma un essere umano.

E il rapporto che instaura con Lolita, la figliastra, lo è altrettanto. Ti fa capire esattamente la natura dei rapporti malati, tossici, ingiusti e innaturali che, però, proprio per questo sono comunque umani.

Nella maniera più orrenda e sbagliata, sia chiaro.

Rileggendo Lolita, parecchi anni fa, mi ritrovai a pensare: "Sarebbe bello vedere la storia solo dal POV di Lolita"

E da lì è nata la prima idea, seppur abbozzattissima, di "Ignobili affetti".

TUTTAVIA, lo specifico subito, Agatha e Lawrence NON hanno quel genere di rapporto, MAI AVUTO E MAI LO AVRANNO.

QUESTA NON È LA STORIA DI UN PEDOFILO CHE HA ABUSATO DI SUA FIGLIA.

Con grande gioia di Ruben, i pedofili non ce stanno.

Come scritto nel(la) tra(u)ma, questa è la storia di una figlia e di un padre.

Ma il legame che li vincola è a suo modo sbagliato, in maniera terribilmente simile a quella di Humbert e Lolita, seppur scaturito da una natura diversa del loro rapporto.

Con questa storia il mio intento principale è uno soltanto:

Farvi vedere la crudeltà e al tempo stesso la meraviglia degli AFFETTI che proviamo nei confronti degli altri, specie i membri della nostra famiglia, anche a situazioni così estreme e assurde. Le migliaia di luci e le migliaia di ombre che s'intersecano tra di loro per andarli a creare, la follia di alcune emozioni, così profonda da sembrare quasi la più razionale di tutte.

In una sola frase: l'umanità assoluta dei sentimenti.

Che a volte può salvarci, altre condannarci.

Altre ancora fare entrambe le cose.

Ed è in quest'ultimo caso che rientra il rapporto tra Agatha e Lawrence.

La seconda fonte, ciò che veramente mi ha dato ispirazione in tutto, è il famosissimo caso di cronaca nera di Erika e Omar.

Il delitto di Novi Ligure.

Non so se lo conoscete, ma è un caso ben noto nel nostro Stato non solo perché le due vittime erano madre e figlio (undicenne), ma perché uno dei due assassini era proprio la sorella maggiore di quel bambino e la figlia della madre, Erika. Trucidati in maniera bestiale da lei e il suo fidanzato dell'epoca, Omar.

Divenne famoso perché all'inizio nessuno pensò mai che fosse stata proprio Erika a ucciderli, anzi. Lei i primi giorni fu considerata una testimone dell'omicidio. Accusò degli extracomunitari di aver compiuto quell'assassinio e subito la popolazione le credette, andando persino a creare delle fiaccolate contro l'immigrazione e ad aumentare a dismisura il razzismo.

Solo qualche giorno più tardi le autorità riuscirono a svelare la verità, incastrando sia Erika che Omar con delle telecamere nascoste mentre i due si divertivano senza pietà a ricordare l'omicidio, a scherzare su come l'avevano compiuto e le reazioni terrorizzate del bambino e della madre.

L'Italia ne rimase sconvolta, una MAREA di persone inneggiava alla pena di morte solo per Erika.

Una figlia che aveva ucciso impassibile la madre che l'aveva messa al mondo e il suo fratellino, che addirittura si divertiva a rammentare il loro omicidio.

E ciò che sconvolse ancor più l'opinione pubblica fu il fatto che il padre di Erika, colui che aveva appena perso moglie e figlio proprio per mano della sua primogenita, è sempre stato accanto a Erika anche dopo che si scoprì la verità, non l'ha mai abbandonata nonostante ciò che lei ha fatto a lui e alla loro famiglia.

È stato criticato tantissimo per questo, tuttora in tanti lo insultano, ma io, invece, non ho potuto che comprenderlo.

Perché quando amiamo qualcuno così intensamente, specie un membro della nostra famiglia, è difficile, forse addirittura impossibile per alcuni, odiarlo soltanto e smettere del tutto di amarlo.

Anche se si rivela essere la creatura più bestiale e disgustosa del mondo, colei che ci ha rovinato per sempre la vita.

Questo è quanto avvenuto ad Agatha e Lawrence, ma in questa situazione, rispetto al caso di Erika, i ruoli sono stati invertiti.

È il padre ad essere il mostro, la figlia colei che, pur volendolo con tutta sé stessa, non riesce comunque ad odiarlo soltanto, a tranciare di netto il rapporto che la lega a lui, nonostante gli orrori che ha compiuto e che si sono riversati su di lei, distruggendole per sempre la vita, l'intera esistenza.

Pare semplice dire: "Se mio padre o mia madre si rivelassero dei serial killer/spietati assassini chiuderei tutti i rapporti e li odierei e basta per il resto dei miei giorni."

Ma non è così facile, ve l'assicuro, per niente.

Specie se prima della scoperta, prima di essere venuti a conoscenza della verità, il legame che vi vincolava a loro era forte e viscerale, un vero e proprio caposaldo della vostra vita.

Pensate ai genitori/figli/fratelli di Mass Murderer, serial killer, assassini spietati... che inevitabilmente, ogni volta, vengono condannati dall'opinione pubblica, a volte a torto, altre a ragione. E molti di questi, a loro volta, non riescono a spezzare il legame che li vincola a quei "mostri".

C'è chi addirittura, pur davanti all'evidenza, le migliaia di prove, continua a dire che sono innocenti.

Stupidi? Idioti? Cretini?

Sì, anche quello.

Ma per quel che mi riguarda, non sono nient'altro che umani.

Questo è il caso di Agatha (che però sa bene che il padre è colpevole e mai l'ha difeso o inneggiato la sua innocenza, sia chiaro)

La figlia di un mostro (ed è DAVVERO un mostro, muffins, fidatevi di me) che però non riesce proprio a considerarlo solo e soltanto così.

Non riesce a smettere di considerarlo anche il suo amato papà.

Nonostante per colpa sua ora non abbia più una vita, sia odiata letteralmente da tutti e abbia perso anche chi più amava al mondo.

Nonostante tutto questo, non riesce a separarsi da lui, ne è proprio incapace.

Probabilmente, lo so già, Agatha verrà criticata un sacco da voi, muffins, e non ve ne farò una colpa. Perché Agatha sbaglia, è palese come la luce del sole, sbaglia in tanti modi e in tante situazioni.

Ma è proprio questo il punto.

Agatha è un essere umano, nient'altro che questo, e proprio come un essere umano commette un sacco di errori, travolta troppo dai sentimenti per poter usare la logica.

E penso si sia potuto notare anche da questo primo capitolo e il prologo.

Perché come molti esseri umani, Agatha a sua volta ha dei forti sensi di colpa, sensi di colpa talmente violenti da indurla a pensare (e no, non vi dirò se ha ragione o torto, lo scoprirete leggendo) di essere anche lei un mostro.

Sensi di colpa non solo dovuti al fatto di non essersi accorta della vera natura del padre in tutti quegli anni in cui hanno vissuto assieme, pur avendo davanti degli indizi che avrebbero potuto fargliela intuire, ma dovuti anche al suo, di segreto.

Sensi di colpa altrettanto umani, proprio come tutto il resto.

E per quanto so che non mi crederete - specie in futuro, quando tutto quello che ha fatto verrà spiegato meglio - anche Lawrence è un essere umano.

Tutti i mostri lo sono, altrimenti non sarebbero affatto dei mostri, solo animali.

Perché gli animali non fanno queste cose, non hanno e mai avranno tutta la complessità di certe psicologie malate.
(Tranne la mia gatta Arwen, che di sicuro in una precedente vita era una schiavista)

Per quanto ami il mio cane Oscar, so piuttosto certa che a lui bastano il cibo e le coccole per amare qualcuno. È uno che se vende facilmente, lo stronzo.

Dietro la mente di criminali del genere - tranne alcune eccezioni - c'è un'umanità dilagante, fidatevi, muffins, il problema è che è così deviata, quest'umanità, così distorta e distruttiva che a stento si riesce a riconoscerla.

Ma c'è.

Capirete meglio perché Agatha è così legata a Lawrence. I vari motivi per cui non è in grado mentalmente di separarsi da lui, nonostante tutto quello che ha fatto non solo al mondo ma ANCHE A LEI.

E se Lawrence è davvero legato ad Agatha come lei crede.

Vi do però un avvertimento, lo stesso che diedi anni e anni fa per "Moonlight lullaby" e la sua protagonista Diana:

Non fidatevi troppo di Agatha.

La storia è narrata dal suo punto di vista, quelli che leggerete saranno i suoi pensieri, i suoi giudizi, le sue convinzioni, i suoi timori e tanto altro ancora.

E proprio perché umana non è detto che siano giusti e corretti.

Agatha, come spiegato, sbaglia e sbaglierà in tante occasioni, specie nei confronti di sé stessa.

Quanto visto in questo capitolo lo dimostra.

Credo di aver detto tutto! In realtà c'è un altro argomento importante di cui vorrei parlarvi, ma lo farò nel prossimo capitolo, poiché si mostra meglio e risulterà più evidente.

Fatemi sapere cosa ne pensate, muffins, un bacione!

P.s.

Giusto per assicurarvi che non sono fatta della stessa sostanza di cui è fatto il sadismo (non del tutto, almeno), vi ricordo che questa storia rientra anche nella categoria ROMANZI ROSA.

Quindi sì, SPOILER (per non farvi scappare via con la coda tra le gambe), ce sta L'AMMMMMMMORE.

La storia d'ammmmmmorehhhh.

*Lancia petali di rose rosse in giro e inizia a starnutire perché le fa schifo l'odore, ma continua a lanciarli perché sennò che romance è?*

Con chi? Potete intuirlo dal(la) tra(u)ma.

E per chi mi conosce: SI APRANO LE SCOMMESSE.

Il pippolo-dotato di questa storia cosa sarà?

Bad Boy

o

Bidet Boy?

Chi vince guadagna un muffin e una mazza da baseball da spaccare in testa alla scrittric-COFF COFF volevo dire a Lawrence, LAWRENCE!

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