Persona
La sala colloqui quel giorno era più sfoltita del solito, e forse questo era dovuto al fatto che, quel martedì mattina, aveva più piovuto così forte da spaventare quasi, i chicchi d'acqua sembravano sul punto di sfondare il cemento, tanto cadevano violenti a terra.
Ma non appena ero entrata in carcere, quella pioggia era cessata. Adesso, dalla piccola finestrella della sala, l'unico filtro con cui guardare al mondo di fuori, oltre quella prigione, si scorgeva un cielo più sereno che mai, come se mai fosse stato dilaniato da quel temporale e quelle lacrime furenti.
«Bambina, sembri un po' più riposata oggi.»
Feci ricadere lo sguardo dalla finestra a mio padre, dall'altro lato del tavolo dove eravamo seduti, le manette sempre alle mani, vincolate al ripiano. Gli occhi soffocati dalle rughe incontrarono i miei.
«Hai ancora le occhiaie, ma meno delle volte scorse» continuò, con quella sua voce baritona che mi straziava e allietava nello stesso momento. «Sei riuscita a dormire un po'?»
Chinai lo sguardo sulle mie mani, i guanti di quel giorno, di un celeste indaco. Diciannovesimo Natale. Uno dei suoi mille regali.
«Sto bene» risposi soltanto. «Tu sei dimagrito ancora.»
Era la verità. Papà aveva perso ancora peso, lo si scorgeva ad occhio nudo, presto avrebbero dovuto dargli un'altra divisa del carcere, perché quella che indossava già gli andava larga.
«Il cibo qua è tremendo» disse, e già sapevo che stava mentendo, glielo leggevo negli occhi. «È un ottimo pretesto per mettersi a dieta.»
Strinsi le labbra, lui corrugò appena la fronte.
«Bambina» mi chiamò all'improvviso, «ti ricordi il detective Mirren?»
Mi accigliai.
Il detective Mirren era stato uno degli agenti federali che si era occupato del suo caso, forse colui che più di tutti se ne era preso carico. Era un uomo sulla cinquantina proprio come papà, dai capelli castani a taglio militare, un corpo compatto dai mille muscoli e la pelle color cioccolato. Era colui con cui avevo passato più ore, nella sala interrogatori, a rispondere alle sue domande, quello che mi aveva portata all'hotel in cui poi avevo alloggiato nelle settimane successive, perché casa nostra era sottoposta alle indagini della scientifica.
Di tutti i poliziotti che avevo incontrato, nel corso di quel periodo, era uno dei pochi che mi era piaciuto. Benché come tutti quanti sospettasse di me e dubitasse delle mie parole, non aveva mostrato quel dubbio negli occhi né l'aveva usato per condannarmi sul posto.
«Cosa c'entra lui?» domandai a quel punto.
«L'ho contattato, ho chiesto il permesso al direttore del carcere.»
Sgranai lo sguardo, papà accennò un leggero sorriso. «Gli ho chiesto» proseguì, «se fosse possibile per te ottenere una nuova identità.»
Un brivido di ghiaccio mi trafisse la schiena, con così tanta crudeltà che non ebbi la capacità di rispondere.
«Papà, non ho bisogno di una nuova identità.»
Lui sospirò, tamburellò gli indici sul tavolino. «Bambina» disse, «quello che la gente ti sta facendo, il modo in cui mondo ti sta condannando, non te lo meriti.»
Un reflusso acido mi risalì in gola, mi costrinsi a mandarlo giù, a non tremare su quella sedia d'acciaio scomoda.
«Lo so che non mi credi» proseguì lui, «il tuo animo gentile, quella bontà che ti ha sempre caratterizzata, è sia la tua più grande qualità che il tuo difetto peggiore. Per colpa sua, tendi sempre ad attribuirti colpe che non hai. Come quando, in quinta elementare, quel bambino ti ha spintonata e fatta cadere dalle scale. Non volevi dirlo agli insegnanti perché credevi di esser tu ad averlo provocato, dato che non avevi voluto dargli i tuoi compiti.»
Ricordavo bene quel giorno e quel bambino. Richard, così si chiamava. Si era dimenticato di fare i compiti di storia, e così aveva preteso che gli dessi i miei. Ma all'epoca, sia con papà che con la psicologa, stavamo lavorando al concetto "Imparare a dire di no", e così, in un impeto di coraggio, io mi ero rifiutata, quando normalmente non avrei esitato un istante a porgerglieli.
Il risultato era stata quella spinta. Non mi ero fatta niente, ma avevamo attirato tutte le attenzioni degli altri bambini e insegnanti.
Betsy quel giorno era assente.
A sistemare la situazione era stato proprio papà. Davanti al mio silenzio nello spiegare la situazione, mi aveva presa in disparte e mi aveva chiesto con quel suo sorriso gentile e quel suo modo affabile per cui tanto lo amavo di raccontargli tutto.
Non mi arrabbierò, Ciliegina, te lo prometto.
E aveva mantenuto la promessa.
Non si era alterato, non mi aveva criticata, aveva solo ascoltato, per poi andare a parlare con i genitori di quel bambino, conversare amabilmente con loro perché si rendessero conto del problema, così che, alla fine della giornata, quello stesso bambino mi si presentasse davanti e mi chiedesse scusa per quanto fatto.
Il solo ricordo bastò per farmi bruciare gli occhi. L'immagine di mio padre quel giorno, che si ergeva davanti a me per difendermi da tutti, per garantire la mia sicurezza, era così vivida da squarciarmi le interiora.
Avevo pensato che era lui il mio eroe, che era il mio principe.
Anche se io ero un mostro, comunque lui mi aveva protetta.
Le mani avevano cominciato a tremarmi, le richiusi a pugno, respirai a fatica.
«Non è così» bisbigliai con un sussurro. «Non è così che sono.»
«Bambina, tu non hai fatto niente.»
Mi sembrò di avere catrame al posto dell'aria nei polmoni.
«Le ho uccise io, tutte quelle persone» continuò papà. «Sono io che l'ho fatto, non tu. Tu non sapevi niente, non hai mai saputo niente, hai scoperto la verità insieme al resto del mondo, ma vieni condannata da tutti per il semplice fatto che sei mia figlia. Non te lo meriti, bambina.»
Avrei voluto scoppiare a ridere, ma le lacrime mi intasavano la gola, non avevo la forza nemmeno di arrabbiarmi con lui.
Non me lo merito?
Strinsi con più forza i pugni, mentre venivo soffocato dalla paura.
Se non me lo merito, allora perché mi hai fatto questo?
Perché hai ucciso Betsy?
Perché?
Ma quando lo guardai, tutte quelle domande mi appassirono in cuore, assassinate dal terrore di conoscere le risposte.
«Non la voglio, un'identità nuova» riuscii soltanto a dire.
Papà serrò la mascella. «Bambina» mi richiamò, «hai bisogno di-»
«Non la voglio.»
Si bloccò.
«So che vuoi aspettare la mia condanna» mormorò alla fine lui, dopo molti secondi di silenzio da parte di entrambi. «Per questo ho chiesto al detective Mirren se fosse possibile dartela dopo. Potrai ricominciare una nuova vita, diversa da quella di adesso, riprendere a-»
«Con che coraggio pretendi che io ricominci a vivere dopo tutto questo?»
La domanda mi sgorgò dalle labbra senza freno, prima ancora che mi sfiorasse il cervello. Il volto di papà sbiancò e ogni mio organò fu ammantato da un velo di ghiaccio.
Mi costrinsi a calmarmi, a riprendere fiato, sbattendo le palpebre. «Non voglio una nuova identità» ripetei. «Non me ne faccio niente.»
«È proprio a questo che mi riferivo» disse lui. «Ti stai incolpando per qualcosa che non hai fatto, bambina.»
Avrei solo voluto sparire, in quel momento, perché nell'ascoltare le sue parole percepivo un sollievo dilagante e una condanna altrettanto immensa.
«Tu non sei mai entrata in quel capanno, non ti ci avvicinavi nemmeno» continuò. «E lo so che lo facevi perché volevi rispettarmi, lo so che lo facevi perché ti fidavi di me. Sono io quello che si è approfittato di ciò, della tua bontà, tu non hai alcun peccato a macchiarti l'anima, Agatha. Sei solo un'altra vittima di questa storia.»
Un'ira cocente mi allagò lo stomaco, soppressa però dal terrore di quanto stava insinuando. Uno scontro così violento che faticavo persino a ricordare il mio nome, perché sormontava tutto, persino i pensieri.
Il mio intero viso fu masticato dallo strazio e quando lui lo vide, lo stesso strazio andò a divorare il suo.
Fu un'altra condanna.
«Agatha» mi chiamò di nuovo, ed io trasalii sulla sedia. «Conosco i motivi per cui vieni ancora a trovarmi, li conosco uno ad uno. So anche tutte le domande che mi vuoi fare, ma che non hai il coraggio di tirar fuori.»
L'aria sfuggì ai polmoni, mi parve di annegare negli abissi dell'oscurità.
«Ma io non posso darti le risposte, non ancora, non sei pronta per ascoltarle» dichiarò con tono rauco. «Se te le dessi adesso, troveresti subito il modo per attribuirti altre colpe che non hai. Non riusciresti a guardare in maniera oggettiva la situazione.»
Mi morsi il labbro. «E quale sarebbe la maniera oggettiva?»
«Sono io il mostro di tutta questa storia, non tu.»
Se mi avesse pugnalata, mi avrebbe fatto meno male.
Fui colpita dall'impulso di afferrare la sedia e iniziare a colpirlo in testa, ancora e ancora, e poi colpire me a mia volta, ancora e ancora, un impeto talmente forte che non so come riuscii a mantenermi ferma sul posto.
Perché stava di nuovo mentendo, perché stava di nuovo tirando fuori l'ennesima bugia.
«Il tuo parere non conta, papà, te l'ho detto» dissi alla fine.
«Ma conta quello del mondo che non sa niente di te?»
Inspirai dal naso più che potei, mentre l'inferno tornava a incarnarsi dentro lo stomaco.
«Non è solo quello, non è così?» proseguì papà, e più parlava, più io avrei voluto smembrarmi a mani nude, scuoiarmi viva. «Ti conosco, bambina, ti conosco molto bene. Non è stato solo il mondo che ora ti condanna a ficcarti in testa quell'idea di essere un mostro. Da ben prima che si sapessero i miei crimini avevi il difetto di odiarti e detestarti per qualsiasi cosa facessi. Eri migliorata un po', nel corso degli anni, ma ora che è successo tutto questo, sei ricaduta in quel problema e ancora più a fondo.»
Voleva parlare di quello?
Proprio di quello?
Adesso?
Adesso che stava per morire? Adesso che stava per venirmi portato via? Adesso che stavamo per andare entrambi all'inferno?
«Agatha, bambina, lo so.»
Ero sul punto di vomitare.
«Non so i dettagli, non conosco la storia in sé, ma non ho dubbi su chi ti ha ficcato in testa quest'idea che hai di te» proseguì papà, ed io avrei voluto urlare, strapparmi i capelli, piangere sangue, ma non ci riuscii. La paura mi incastrava su quella seria, mi paralizzava, congelava ogni goccia del mio animo. «La vera e unica causa per cui sei costretta a indossare quei guanti.»
Dovevo andarmene, dovevo scappare via. Mai, mai si era permesso di tirar fuori l'argomento in tutti gli anni in cui avevamo vissuto insieme, mai. Perché mi stava facendo questo proprio ora? Perché?
«Non voglio parlarne.»
«È proprio perché non vuoi parlarne che non riesci a risolvere il problema.»
L'ho giurato.
L'ho giurato a Dio.
«Cos'è?» gracchiai alla fine, masticata dall'ira. «È un altro tuo modo per farmi del male, questo? Un altro tuo modo con cui ferirmi? Non pensi di aver già fatto abbastanza, papà?»
Lui impallidì di nuovo, gli occhi trucidati dalla stessa agonia che stava inondando i miei.
«Con che coraggio tiri fuori l'argomento, dopo tutto quello che hai fatto? Dopo tutto quello che mi hai fatto?» La mia voce era appena un sussurro, ma il dolore che la incarnava era violento quanto un pugno.
«È proprio per questo che lo sto tirando fuori» dichiarò con un tono sicuro che mi fece divampare ancor più. «Per farti capire chi sono i veri mostri di questa storia, e non mi riferisco solo a me, bambina. E no, non è a te che sto dando del mostro.» I suoi occhi mi perforarono, ogni mio nervo si squarciò in sé stesso. «Come ti ho fatto del male io, come ti ho distrutta io, allo stesso modo l'ha fatto-»
«Ma che ne sai tu?!»
Sussultò sul posto.
«Adesso ti metti a farmi il discorso da papà responsabile? Adesso? Sul serio?» Non ero nemmeno capace di distinguere la mia volontà dal delirio, oramai. «Mi hai ammazzato Betsy, papà! Hai ammazzato la mia migliore amica! Mia sorella! Me l'hai portata via per sempre! Sapevi quanto le volevo bene! Sapevi quanto l'amavo! Sapevi che la consideravo la mia famiglia oltre a te! E tu me l'hai ammazzata lo stesso! E ora mi vuoi fare la paternale su come io mi devo sentire a proposito? Ti preoccupi addirittura di darmi una nuova identità per proteggermi?»
«Ho sbagliato.»
Quelle due sole parole bastarono per uccidere qualsiasi forma di rabbia provassi, il dolore che gli trafisse gli occhi, l'orrore che gli scartavetrò la bocca, fu l'assassino della mia ira.
«Non avrei mai dovuto scegliere lei» disse con un soffio, il viso trasparente. «È la sola vittima di cui mi pento, l'unica.»
Lo stupore fu così tanto che rischiai di cadere dalla sedia. Una risata mi esplose dalla bocca, andando a scavare ancor più il tormento che gli deturpava il volto.
«Allora-»
«Non posso dirtelo, Agatha» mi bloccò ancora. «Se ti dessi la risposta ora, non capiresti, non riusciresti ad essere imparziale, proprio perché continui a considerarti un mostro.» Deglutì, il collo magro si dilatò per quello sforzo. «Non sei in grado di guardare alla realtà dei fatti, a vedere chi sono i veri mostri di tutta questa storia. Qualunque cosa io ti dirò, qualunque, ti attribuiresti colpe che non hai, proprio come ora sta facendo il mondo con te.»
Le lacrime mi stavano marcendo in bocca, inacidendo il gusto neutro della saliva.
«Bambina» mi chiamò ancora. «Io non sono normale.»
Mi morsi il labbro ancora una volta.
«Non sono come gli altri, non provo come gli altri, non sento come gli altri, non vedo come gli altri» proseguì ancora. «Me la sono sempre cavata perché sono bravo a imitarli, ma non sono e mai sarò come loro, come te. Per questo sono un mostro. Ed è quello che sto cercando di farti capire. Tu non sei come me, tu non sei mai stata e mai sarai un mostro. Quando tu guardi un'altra persona, vedi un essere umano. Quando la guardo io, invece, vedo solo un oggetto, che sia un uomo, una donna, un bambino, un anziano, un neonato.»
Strinsi ancor più i pugni. Non riuscivo a pensare, non riuscivo a capirlo né a capirmi, desideravo soltanto urlare, picchiarlo, supplicarlo in ginocchio di smetterla.
«Non sono normale, e non sei tu la causa di ciò» continuò, il tono arrochito. «Ho iniziato ad uccidere prima ancora che tu nascessi, non esistevi neanche, quando ho cominciato. L'unico assassino di tutte quelle persone, di Betsy, sono io. Tu non c'entri nulla.»
Avevo fuoco al posto degli occhi, fiamme pure a divamparmi nei polmoni.
«E come io non sono normale, nemmeno lei lo era.»
Trasalii.
«Qualunque cosa ti abbia fatto, qualunque cosa ti abbia detto, qualunque cosa ti abbia ficcato in testa, è solo e soltanto merda. Non è reale, mai lo è stato, non è la verità. Ma se tu continui a rifiutarti di parlarne, se tu continui a nascondere tutto, non lo capirai mai, continuerai a pensare di essere il problema di ogni cosa, quando il tuo unico peccato, Agatha, il solo che mai hai avuto e non per causa tua, è essere nata da noi due.»
Dentro di me c'era solo il vuoto, una voragine di silenzio che non potevo colmare in alcun modo.
Perché avevo giurato.
Avevo giurato.
«Lo so che è ipocrita da parte mia farti questo discorso dopo tutto il dolore che ti ho dato» sussurrò. «Avrei dovuto fartelo anni e anni prima. Avrei dovuto costringerti a continuare ad andare dalla psicologa, non cedere davanti alla tua richiesta di non frequentarla più. Avrei dovuto convincerti a parlare, anche se ti avrebbe devastata, perché è il solo modo con cui potresti mai guarire.» La fronte gli si contrasse. «Ma proprio perché non sono normale, proprio perché sono un mostro... persino io ho difficoltà a capirmi, alle volte, a capire quello che sento. Su di una sola emozione che provo sono sicuro, una soltanto.»
Mi guardò.
I suoi occhi color caffè, quegli occhi che tanto avevo amato e che adesso odiavo con la stessa intensità.
Quegli occhi che erano stati il solo mondo in cui trovare sollievo.
Ed io mi sentii morire, sfiorirmi come un'orchidea sotto il sole dell'estate, nel vederli.
«Ti voglio bene, bambina» pronunciò, la voce squassata quanto il mio cuore, «sei la sola persona che amo e amerò fino alla morte.»
Chiusi gli occhi, li strizzai con furia, invasa dal dolore viscerale e primitivo che caratterizzava il nostro amore.
Dilaniata dall'orrore di non sapere, di non poter comprendere.
«Sei l'unica goccia di umanità che abbia mai avuto» mi sussurrò, ed io deglutii a fatica, mentre il pianto mi travolgeva. «E proprio per questo, la mia condanna non è la pena di morte.»
Singhiozzai, tremante sulla sedia, ad odiarmi e ad odiarlo, ad amarlo e a uccidere entrambi.
«È non averlo capito subito.»
Tornata a casa, quel martedì mattina, la prima cosa che feci fu fumare più sigarette possibili per calmarmi, seduta accanto al tavolo al centro dell'appartamento, a riempire il posacenere di mozziconi.
Cercai sostegno nella nicotina, e ad ogni inspiro di sigaretta cadeva una lacrima in viso.
Ad ogni nuvola di fumo un singhiozzo.
Pensavo troppo e non pensavo affatto, nello stesso momento.
Immagini, parole, idee, ricordi e incubi mi esplodevano in testa, si scontravano tra loro in una guerra senza vincitori e vinti, urlavano come bestie nell'uccidersi a vicenda e si chetavano non appena venivano trucidati.
E c'era papà nella mia testa, c'era il suo viso il giorno in cui mi aveva portato a casa sua, quel suo sorriso speciale.
E c'era lo specchio, lo specchio in cui elencare i miei crimini.
E c'erano quegli occhi nascosti lontani dietro il mio riflesso, ad ascoltare la lista dei miei peccati.
E c'era Betsy, il suo ghigno birbante, da vera monella.
E c'era quel letto di una volta, quel minuscolo lettino su cui mi ero inginocchiata, avevo congiunto le mani e avevo espresso il mio desiderio.
Non lo dirò a nessuno, Dio, lo giuro. Non lo dirò mai a nessuno.
E c'erano le voci del mondo, tutte quelle milioni di voci che mi abbaiavano contro, e la memoria del volto distrutto di Joanne, quello sconsolato di Lucas.
La foto del cranio di Betsy.
Annegai ognuno di quei tormenti in una cascata di fumo a dilagarmi nei polmoni. E adesso faticavo a respirare, ma sapevo non era colpa delle sigarette, sapevo che era colpa di quella battaglia che mi divorava le cervella, ed era così forte che non riuscivo più a riprendermi, così forte che mi sembrava di morire di nuovo, proprio come quel giorno in cui mi ero ritrovata in sala interrogatori e avevo scoperto tutto, avevo visto quelle foto.
«Cos'è tutto questo?»
«Quello che si trovava nel capanno di suo padre, signorina Reid.»
«Dev'esserci un errore, mio padre non è così, mio padre non farebbe mai-»
«Signorina Reid, suo padre ha confessato.»
Mi tremavano le mani, adesso, così tanto che la cenere continuava a cadere copiosa dalla sigaretta ormai quasi consumata, di briciola in briciola, ed i miei occhi si dilatavano per lo sforzo di non piangere, e così la mia gola per non far uscir fuori l'urlo che avevo in testa.
Ed ero adirata con papà, ed ero agonizzata da lui.
E volevo ucciderlo, e volevo abbracciarlo.
E volevo supplicarlo di tornare indietro, di cancellare tutto quello che aveva fatto, di riprendere la nostra vita di prima.
Ti voglio bene, bambina.
La mano scattò da sola, colpì con furia il posacenere sul tavolo e questo si schiantò contro il muro, vomitando una nuvola di cenere e mozziconi che cadde insieme a lui sul pavimento, il clangore metallico a tuonarmi nella mente, il solo rumore umano che mi era rimasto.
Non lo sapevo, non lo sapevo più a cosa credere.
Non avevo idea se mi aveva mentito di nuovo, non potevo più fidarmi di lui, lo sapevo bene.
Anche se ero certa mi amasse, non ero sicura fino a che punto.
Non ero sicura quanto fosse vero quell'amore.
Le sue parole non contavano nulla, le sue dichiarazioni non valevano niente.
Aveva ucciso Betsy.
L'aveva uccisa con le sue mani.
Mi aveva portato via tutto: la mia vita, la mia migliore amica, il mio papà.
Respirai a fatica, mi tolsi i guanti, li gettai a terra e morsi il pugno per non gridare, avvertii il sapore del sangue imbrattarmi le labbra.
Lo sai cosa devi dire allo specchio, Agatha?
Agatha, quante volte te lo devo dire? Io non sarei mai amica di una persona debole.
Era la mia bambina! La mia bambina! E tu me l'hai portata via!
Ti voglio bene, bambina.
Sei sporca, contaminata, mi rifiuto di toccarti.
Mi va bene qualunque cosa, Dio, qualunque, sono disposta a tutto, accetterò qualsiasi punizione, l'importante è che lo realizzi. Non lo dirò mai a nessuno, se lo farai.
Lo giuro.
«BASTA!»
La parola deflagrò nell'appartamento e nel cuore con la violenza di una bomba, mi ritrovai in piedi a tremare, il fiato corto, il sudore ad ammantarmi la pelle e le lacrime a ricoprirmi il viso.
Forzai i polmoni a respirare correttamente, spalancai la bocca per ingoiare più aria possibile, chiusi gli occhi con furia, li strizzai fino a non sentirli più.
Stavo sragionando, stavo ammattendo.
Non potevo farmi corrompere così, non potevo farmi devastare così da quello che aveva detto papà.
Non potevo più fidarmi di lui.
Anche se lo desideravo con tutto il cuore, anche se mi scuoiavo viva per il desiderio di farlo, non potevo più credergli.
Aveva ucciso Betsy.
C'era un solo obiettivo che dovevo realizzare, uno solo.
Il 5 agosto.
Il 5 agosto.
Il 5 agosto.
Perché papà non sapeva, non aveva la minima idea di qual era il mio reale segreto.
Nessuno lo sapeva.
Solo io e Dio.
Lui aveva mantenuto la promessa, aveva realizzato il mio desiderio, se avessi spezzato quel giuramento, se l'avessi rotto, il prezzo da pagare sarebbe stato ancor più devastante di quello già scontato finora.
Il 5 agosto, dovevo solo aspettare il 5 agosto.
E tutto, finalmente, sarebbe finito.
Mi ritrovai nel cortile del mio liceo.
Seduta sulla panchina in cui avevo passato gran parte delle mie pause pranzo, quella attaccata al grande albero di pino, un ottimo ombrello per i giorni più caldi dell'estate.
Era sera, l'inchiostro più nero del mondo aveva intinto il cielo, la luna splendeva come una perla in un oceano di carbone liquido e illuminava l'erba curata del grosso giardino, le pareti bianche della scuola alle mie spalle, le mie mani nude sulle cosce.
«Sai» udii dire da una voce a me fin troppo nota, allegra e spavalda, femminile, e nel sentirla al mio fianco, il cuore si squarciò con una lentezza acuta, bestiale, «mi ha sempre fatto schifo questo cortile. È curato e grande, sì, ma non c'è manco un fiore a colorarlo, è tutto così... verde! E lo so, lo so, il verde è il tuo colore preferito, ma a me non piace così tanto, mi ricorda il vomito, soprattutto quello che mi è uscito per festeggiare il diploma. Ti ricordi? Hai dovuto reggermi per tutto il tempo mentre buttavo fuori nel water persino le budella. Che schifo. Secondo me è stata colpa della tequila, davvero. La tequila è una grandissima bastarda. Avrei dovuto restare sulla birra, la birra, si sa, fa sempre bene ad anima e corpo.»
Dovetti stuprarmi ogni cellula, per impedire al capo di voltarsi alla mia destra, per impedire ai miei occhi di guardare la persona che era seduta accanto a me. Il cuore mi batteva impazzito nel petto, fratturava la cassa toracica ad ogni pulsazione di dolore e felicità.
Avevo pregato per anni di rivederla, di risentire la sua voce, anni.
Ed ora era lì, proprio lì, vicino a me.
E tremavo, trivellata dalla paura di perderla, se avessi osato girare la testa per guardarla. Dal terrore che scomparisse non appena avessi provato rincrociare i suoi occhi.
Così rimasi ferma e immobile, con gli occhi fissi davanti a me, a guardare la distesa di prato verde che tanto le stava dando fastidio.
«Ehi, sorella afefobica, che cattiva! Neanche mi saluti? Nessuna lacrimuccia con cui battezzare questo rincontro tanto commovente?» mi prese in giro lei, proprio come faceva sempre, e proprio come faceva sempre, compì il miracolo di farmi ridere anche se già mi sentivo all'inferno, anche se già mi volevo uccidere. «Lasciami indovinare, sei convinta che è tutto nella tua testa, non è così? Conoscendoti, stai pensando qualcosa come: "È solo un tentativo della mia mente per darmi sollievo quando non lo merito" e bla bla bla. I tuoi istinti autodistruttivi mi spaventano, amica mia, sul serio. Non mi sorprendo più dei tuoi gusti di merda per gli uomini. Ecco perché ti piacciono così tanto gli yandere: realizzano il tuo bisogno deviato di farti del male.»
Risi di nuovo, le lacrime a cadermi a gocce in viso. «Perché? Mi vuoi dire che è reale?»
«Ah boh! Sei tu quella che crede in Dio, io sono sempre stata atea, lo sai» replicò, il tono divertito. «Mi verrebbe da dirti la stessa frase che quel grand'uomo di Silente disse ad Harry alla stazione ferroviaria: "Certo che sta succedendo dentro la tua testa, ma perché diavolo dovrebbe voler dire che non è vero?" Forse non credo in Dio, ma in Silente ci credo eccome.»
Mi tremò il labbro, faticai a rispondere: «Ma se ti lamentavi sempre della transfobia di J.K. Rowling.»
«Appunto. Silente non ha nulla a che fare con lei. Mica è la Rowling. La sai la mia filosofia di vita qual è: opera e autore sono due cose diverse. A meno che non si tratti di quei dark romance di merda che ti leggi sempre, perché anche quelli fanno cagare, proprio come il tuo gusto in fatto di uomini.»
Una brezza di vento andò a colpirci, carezzando gli steli d'erba già vestiti della prima rugiada.
Chiusi gli occhi, le ciglia ora tremavano col labbro. «Sei venuta qui per risollevarmi il morale, quindi? Anche se è tutto nella mia testa?»
«Certo! È il mio compito principale in qualità di tua migliore amica e sorella: farti la ramanzina quando stai facendo una stronzata. Ti picchierei in testa, lo giuro, ma ho paura che se lo facessi soddisferei il tuo ennesimo istinto autodistruttivo. Mi spiace, sorella afefobica, ma no, non ci tengo a far godere il tuo masochismo.»
Risi di nuovo, il pianto a crollarmi in faccia come stavo crollando io dentro.
«Quindi sto facendo una stronzata, secondo te?»
«Stai facendo milioni di stronzate» mi corresse con voce sicura, ma mantenendo il tono allegro. «Proviamo ad elencarne un po', così magari a sbattertelo in faccia finalmente capisci. Uno: ti dai colpe che non hai, tipo la mia morte con cui non c'entri una beata fava. Due: sei convinta di meritare di soffrire sempre e comunque, solo perché sei tu. Tre: stai dando retta alle accuse che ti fa il mondo anche se lui non sa nulla di te. Quattro: hai smesso di cucinare per te stessa, vergognati, solo per questo ti pesterei a sangue, lo giuro. La tua cucina è sacra. Gordon Ramsey ti fa un baffo. È con i tuoi piatti che ho sperimentato il mio primo orgasmo, ed è stato il migliore di tutti, nemmeno con la mia ex ne ho avuti così.» Senza volerlo, mi ritrovai a sorridere. Non potevo vederla, ma non avevo dubbi che si fosse messa a fare quell'elenco sollevando le dita una ad una ad ogni punto. «Cinque: hai iniziato a fumare. Sul serio, Agatha? Proprio tu? Che fine ha fatto la tua integerrima anima da brava ragazza casa e chiesa? Sei: ti sei posta un obiettivo di merda per il 5 agosto. Sul serio, sorella afefobica, è di merda davvero.»
Una bestia feroce mi nacque nel petto e cominciò a squarciare tutto, impedendomi di respirare.
«È la sola cosa buona che posso fare» sussurrai a fatica.
«Ma per piacere!» esclamò lei con una risata. «Credi davvero di risolvere qualcosa, realizzandolo? Pensi sul serio che mamma si sentirà meglio, dopo che l'avrai compiuto? La conosci, non è il tipo. Anche se adesso non se ne rende conto perché sta male, ti vuole bene, sa benissimo che tu non c'entri un cazzo con questa storia, è solo che il dolore non la fa ragionare lucidamente. E se tu realizzerai la tua missione, non la farai stare meglio, anzi, si sentirà una merda. Mi sa che devo andare a trovare anche lei, ora che ci penso, le farò la ramanzina come la sto facendo a te. Incredibile! Tu e lei mi avete rotto le palle per tutti quegli anni dicendomi che ero una cretina perché non studiavo, ma non è che siete molto intelligenti, voi, adesso, a comportarvi così.»
Non c'era accusa nelle sue parole, neanche il più piccolo milligrammo di condanna, sembrava addirittura divertita, e forse per questo mi fu facile accogliere quanto mi stava dicendo, accettarlo senza che mi dilaniasse dentro come stavano facendo ora i sensi di colpa.
«Il problema è che avete la testa dura, tutte e due, non mi ascoltereste manco a pagarvi» continuò. «Tu come minimo stai pensando che se davvero questo sogno fosse vero, mai ti direi cose del genere, anzi, ti accuserei di avermi uccisa, ti urlerei contro e ti condannerei solo per essere venuta al mondo. Ripeto: i tuoi istinti autodistruttivi sono spaventosi, sorella afefobica, mi preoccupi e non poco.»
Avrei solo voluto voltarmi e stringerla a me, perché era davvero quello in cui credevo, ma comunque volevo illudermi, almeno solo per quel sogno, di poter essere sollevata dai miei crimini come stava facendo adesso.
Ma non osavo, non ci riuscivo proprio. Tremavo al pensiero che, se l'avessi fatto, sarebbe scomparsa tra le mie braccia, proprio come era successo in vita. L'ennesima punizione.
«Hai questo terribile difetto di pensare sempre male di te. Ci manca poco che ti accusi della crocifissione di Gesù Cristo e del diluvio universale, giuro. Non rimarrei sorpresa se mi dicessi che pensi di esser stata tu a provocare l'uragano Katrina con la tua sola presenza. Davvero, mi spaventi. E hai anche un ego tanto grande quanto masochista: chi ti credi di essere per essere la causa di tutte queste cose? Mi spiace, amica mia, ma non sei così importante come pensi. Purtroppo per il tuo egocentrismo, tu sei solo una poraccia come tanti che però ha avuto una sfiga dietro l'altra.»
Le lacrime continuarono a cadermi copiose, mentre la lotta tra speranza e condanna continuava a devastarmi nell'anima.
«Ma lo capirai» dichiarò sicura, ed io sussultai sul posto nel sentirle dire quelle parole. «Come ti ripeto da quando ci siamo conosciute, io non sarei mai amica di una persona debole. Sei forte, tu, Agatha, sei molto più forte di quanto credi. Ti ricordi cosa ti dissi, tempo fa? Sei così umana da poter amare anche nel male. È questa la tua forza, il tuo coraggio. L'ho sempre saputo, io, ho un ottimo intuito per queste cose.»
Una risata amara mi cadde dalle labbra. «Tu mi hai sempre sopravvalutata.»
«No, amica mia, sei tu che ti sei sempre sottovalutata. Ma ripeto: lo capirai. Vogliamo scommetterci su? Sono anni che non lo facciamo e lo sai che io vinco sempre, con le nostre scommesse.»
Era vero, aveva sempre vinto, ma stavolta, lo sapevo, non sarebbe successo.
Perché era morta.
Perché io ero viva.
Perché per poterci parlare dovevo appellarmi alla fantasia della mia mente, in un sogno che mai sarebbe stato reale.
Eppure, lo stesso, mi ritrovai a chiedere: «Che genere di scommessa?»
«Questo è quello che scommetto io: il 5 agosto, quando ti ritroverai in quella sala, le parole che dirai a tuo padre non saranno "Ci vediamo presto all'inferno", ma saranno "Non ti perdonerò mai, ma ti voglio bene lo stesso."»
Congelai sul posto, la gola a contrarsi per lo sforzo di non urlare. «Sono parole terribili» bisbigliai.
«Per niente. Te l'ho detto: il fatto che gli vuoi bene non significa che giustifichi i suoi crimini, significa solo quanto sei umana, Agatha.»
Serrai la mascella, il corpo intero aveva cominciato a tremare.
«E cosa guadagneresti, tu, se vincessi la scommessa?»
«La tua felicità.»
Sussultai sul posto, pugnalata in continuazione da quelle tre sole parole.
«Se vincerai tu e gli dirai le parole che hai già programmato» proseguì lei, «potrai mettere in atto il tuo piano autodistruttivo come tanto desideri ora. Prometto che, dopo questo sogno, non interverrò più per farti cambiare idea. Se vincerò io, invece, finalmente riuscirai ad andare contro a quel Dio che sei così sicura ti odi, il motivo per cui, anche quand'ero ancora in vita, non riuscivi mai a goderti appieno i momenti di gioia. Sarai così forte e coraggiosa da peccare di blasfemia e infrangere il tuo giuramento. Solo così riuscirai davvero ad essere felice, Agatha. E tu sei mia sorella, la tua felicità è ciò che desidero, anche ora che sono morta.»
Ormai non potevo più contenermi, mi ritrovai a singhiozzare devastata dall'orrore e il rimpianto, e lei rise, rise con forza, con così tanta allegria da riempire la notte di luce.
«Quando vincerò» affermò decisa, «va' da mia madre.»
Sobbalzai.
«Raccontale ogni cosa, non solo di questo sogno. È mia madre, sì, ma è anche la tua. Ti ha cresciuta insieme a me, ti conosce come conosceva me. Dille la verità, Agatha, guardala dritta negli occhi come ti ho insegnato e dille tutta la verità. Vedrai, andrà bene. Sono sicura al mille per mille che sarà così.»
Mi morsi la lingua per non parlare, per non ribattere alle sue affermazioni, perché anche se quello era un sogno, un delirio stupido della mia mente per darmi un conforto che non meritavo, non volevo andarle contro, non volevo che la nostra ultima conversazione finisse in un litigio.
«Ricordi, Agatha? Te l'ho promesso: non ti permetterò mai più di non considerarti un essere umano. Solo perché sono morta non vuol dire che non posso mantener fede alla promessa.»
La sua voce ora si era fatta dolce come il miele, mi colava dentro densa e collosa, ma non soffocava, al contrario riempiva di calore i miei interi congelati dalla condanna.
Una risatina, da parte sua, più divertita che mai.
«Sarai magnifica, Agatha, te lo assicuro. L'essere umano più umano di tutti.»
Spalancai gli occhi, scattai a sedere l'istante dopo, mi accorsi di essere tornata nella mia stanza, sul mio letto, nel mio appartamento minuscolo, a fissare il muro davanti a me.
Urlai.
Nota autrice:
Eh sì.
TRAUMA.
Ma vabbè, ce stava. V'avevo fatto ridere troppo, negli scorsi capitoli, dovevo compensare con le lacrime per forza, il mio masochismo/sadismo si stava lamentando troppo.
Lo so che non ci state a capì molto per quanto riguarda Lawrence, che quel pezzo di merda si sta contraddicendo ogni due per tre, sia per come tratta Agatha, le cose che le ha fatto e quelle che le ha detto in questo capitolo, ma vi vorrei ricordare due dettagli fondamentali da non dimenticare mai:
1) Nessun essere umano è mai coerente al 100%
2) Lawrence, come lui stesso dice, NON È NORMALE, non ragiona come noi, non prova come noi, non sente come noi. E no, questo non significa che lui non è un essere umano. Lo ripeto come già detto nel primo capitolo: TUTTI i mostri sono esseri umani. Gli animali non possono diventarlo, non hanno quella psicologia per farlo. La devianza mentale di Lawrence, la sua mostruosità è dovuta proprio a questo: alla sua mente umana, alla sua psiche che si è distorta a tal punto (capirete come) da non funzionare più come quelle "comuni", ma ciò non lo esclude dalla categoria di essere umano.
È orrendo da dire, lo so, perché è disgustoso pensare che quello sia un uomo come noi tutti, ma è così. Le malattie della mente, i disturbi, e tutte quelle altre cose che inducono a simili atti orrendi, sono tutti umani. Non esistono animali serial killer/terroristi/assassini/dittatori. Solo noi uomini possiamo diventarlo, proprio a causa della nostra mente umana e psicologia che, in alcune occasioni, come nel caso di Lawrence, si distorce a tal punto da perdere le emozioni più comuni a noi tutti, come l'empatia, la capacità di scorgere persone negli altri.
Da qui, si possono intuire varie cose.
Avrà mentito per tutto il tempo, ad Agatha? In realtà dietro c'è uno schema diabolico? O forse diceva la verità? Secondo voi qual è la risposta?
IO NON SPOILERO.
Ed ora, per tornare un po' alle giuoie...
NEL PROSSIMO CAPITOLO DI "IGNOBILI AFFETTI":
Una Hope Summer Destiny afefobica con un solo obiettivo in mente: evitare a qualsiasi costo l'omonimo del creatore di uno dei nostri TRAUMI liceali più grandi, ovvero "La divina commedia"
Due gemelli pestiferi e tremendi che vogliono una cognata capace di cucinare e soprattutto che è ricca, non lo dimenticate
Una sessantenne amante di telenovelas argentine e spagnole e dei petti nudi
Una macchinetta dei popcorn
E soprattutto:
Un martello.
Un martello che un certo bad/bidet boy sta iniziando a contemplare di prendere per batterlo su un paio di noci di cocco a lui molto care, finora usate - come direbbero i suoi fratellini - per scopasse cimici.
Un martello che un certo bad/bidet boy vorrà schiantare presto su quelle noci di cocco, quando si renderà conto ancor più dei danni che ha causato non facendosi i cazzi suoi e giudicando a destra e a manca senza sapere 'na ciola.
L'agonia di Mr Duro E Puro che per la prima volta si ritroverà lui a dover inseguire una donzella che lo sta interessando, e non il contrario a cui è tanto abituato.
Sto iniziando a sentire due rumori specifici, non so se li sentite anche voi:
Colpi ripetuti su un paio de noci di cocco.
E i popcorn che scoppiettano, pronti per essere divorati dagli spettatori della ship suprema, ma soprattutto fan sfegatati di Agatha e odiatori seriali della coglionaggine di bad/bidet boy.
Ahhhh....
CHE DELIZIA.
Lo confesso.
Io AMO, ADORO, ORGASMO PROPRIO quando è il masculo stronzo a disperasse e pentisse per tutte le stronzate che ha fatto e deve trova il metodo per rimediare.
Ad ogni sua lacrima nell'anima stappo uno spumante, e ho la sensazione che co' Danteglione (crasi tra Dante + coglione) finirò per andare in coma etilico.
Ma ne varrà la pena.
E ancora più, lo ammetto, amo quando è lui che insegue lei, disperato, e non il contrario. È uno dei topos che più adoro dei romanzi rosa e dei manga shoujo. Di solito so sempre le protagoniste a volesse avvicinare al bad boy e a venir rifiutate e allontanate, sarà na grande soddisfazione scrivere di una situazione al contrario.
Per l'ennesima volta:
Dante, amoruccio bello.
SEI NELLA MERDA.
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