Lucas George

NOTA AUTRICE PT. 1

Attenzione, attenzione!

Questo capitolo è diviso in ben DUE PARTI.

Per ciascuna parte c'è, ovviamente, il brano dedicato per soffrire meglio, com'è giusto che sia.

Per la prima parte, qua sopra, nei file multimediali, c'è il brano "Sadness and sorrow" di NARUTO (sì, proprio lui, v'assicuro che le colonne sonore di alcuni anime sono piccoli capolavori), è stato il brano da me più ascoltato per la stesura della prima parte (così piagnevo meglio, mi pare ovvio), e dato che c'ho sofferto io, dovete soffrirci anche voi, com'è giusto che sia parte due.

Per la seconda parte, invece, ho ascoltato questo brano, tratto da un altro anime che si intitola KONO OTO TOMARE. Il nome del brano è "Tenkyuu"

Anche questo brano mi ha aiutato un CASINO a scrivere la seconda metà del capitolo e, strano ma vero, non solo per soffrire meglio, ma anche per GASARMI, sono piuttosto certa che gaserà anche voi, se lo ascoltate mentre leggete.

O forse no, sempre saputo di essere stramba e cogliona, io, quindi possibile che c'ho le manie mie/ennesimo fetish inconsapevole.

Bene, detto questo, vi lascio alla soff–AEHM, volevo dire alla LETTURA, mi pare ovvio.

Ci vediamo alla seconda parte della nota!

SCIAU!

*Porge in anticipo i fazzoletti*

Si chiamava Lucas George.

Sessantasei anni, titolare del bar Betsy's, padre dell'ultima vittima ufficiale di Lawrence Reid: Betsy George.

La sua voce era rimasta uguale all'ultima volta che avevo avuto occasione di ascoltarla, anni fa: il suono che emetteva, forte e compassionevole, era amabile come allora. Il dolore degli ultimi anni l'aveva arrochita appena e proprio in quella sua peculiarità si trovava l'inganno più grande: ad udirla l'avresti confusa per la saggezza di chi ha vissuto a lungo e da quel tempo infinito ne ha estratto le qualità migliori, come un vino nato per invecchiare così da avere un sapore più intenso sulle labbra dei posteri; invece, ad accordarla in quel modo, donandole tale fascino, non era stato nient'altro che uno dei dolori più primitivi per un essere umano, indigeribili al cuore.

La perdita di una figlia.

La verità era che nemmeno io conoscevo la ragione per cui, una volta aver ottenuto la risposta sul quesito più grande della mia vita, subito ero andata a cercare nelle mail cestinate quella di Lucas, per scrivergli. Lo avevo fatto e basta, dentro me avevo sentito di esser pronta e di Volerlo: tanto mi era stato sufficiente per realizzare.

Non saprei, forse era perché una parte di me, nell'avvertire l'ira profonda e inarrestabile che mi stava allagando il cuore, si era sentita in torto, si era indispettita per non esser sprofondata senza indugi nella vergogna e il senso di colpa di un tempo, e così era andata alla ricerca volontaria di colui che più di tutti era in diritto di condannarmi e colpevolizzarmi per ogni sua sofferenza.

Forse perché a furia di sprofondare nel dolore e convivere con esso, mi ero assuefatta a lui; mi aveva accompagnata passo per passo nei miei ultimi quattro anni di vita, d'altro canto, era stato la mia casa e famiglia quando avevo perso tutto, e lasciarlo andare mi era ancora troppo difficile, ne dipendevo in maniera nociva, poiché per non restar soli davvero, ci si aggrappa a qualsiasi cosa, persino la sofferenza più bestiale che tu abbia mai conosciuto, e la si rende una nostra sincera amica, l'unica che tu possa avere.

Non era nient'altro che una delle mille abitudini che caratterizzavano il mondo, tale e quale a quella di prepararsi il caffè appena svegli; così ero io, che appena incorrevo in una nuova situazione, mi vestivo di vergogne e sensi di colpa, trasformandoli nel mio abito da sposa per convolare a nozze con il solo che si era mai detto disposto a un'eternità al mio fianco: l'odio.

O forse lo avevo chiamato per il motivo opposto, forse perché in me perdurava la speranza che stavolta qualcosa fosse cambiato negli animi di tutti, inclusi quelli dei genitori di Betsy.

O forse perché mi mancava, sì.

Mi mancava Lucas, mi mancava Joanne.

Mi mancavano, tutto qua.

«Ciao... Lucas.»

Ero seduta davanti al tavolo, ancora in pigiama, la luce del primo mattino bagnava delicata l'appartamento dalla finestra aperta e per la prima volta mi accorsi sul serio quanto sterile e senza vita era la mia casa. Lo sapevo già, eppure, col telefono all'orecchio, mentre scrutavo le pareti bianche e vuote, mi parve di guardarla per la prima volta in assoluto, quasi i miei occhi, prima, fossero stati sempre coperti da una cataratta invisibile, ora d'improvviso operata e rimossa, e per questo, a chiuderli e riaprirli, tutto mi era nuovo, non c'erano più filtri di declino a separarmi dal mondo reale.

Non sembrava nemmeno appartenere a qualcuno, quel posto, nessuno avrebbe mai potuto credere che là dentro ci viveva una ragazza di ventisette anni e che lo faceva da tanti mesi. Appariva piuttosto come un luogo infestato, del genere che si vedono nelle prime pagine delle riviste sul paranormale, in cui nell'aridità della struttura si percepisce a pelle un tragico destino, a grondare dai muri incontaminati come sudore sulla carne. 

Le sole prove di vissuto erano il posacenere davanti a me, su cui stavo steccando la sigaretta appena accesa, e io stessa.

Ma forse, tra i due, solo il posacenere poteva sembrar reale.

«Oh» lo udii dall'altro lato della linea ed inevitabilmente mi domandai dove si trovasse, se a casa o fuori. Immaginai si fosse allontanato da Joanne: lei, senz'altro, non avrebbe apprezzato scoprire che il marito stava parlando con me. «Io... ammetto che sono sorpreso.»

Non risposi, così proseguì: «Ero piuttosto sicuro... non avresti mai accettato... di parlarmi.»

Presi un lungo tiro dalla sigaretta, il fumo mi finì sugli occhi e questi, subito, pizzicarono irritati. «Io...» Non avevo proprio idea di cosa dire. Dal suo tono di voce mi era impossibile comprendere cos'altro stesse provando al di fuori del dolore. «È... un brutto momento? Ho chiamato appena mi hai dato... il tuo numero, ma se hai da fare...»

«Oh no, non ti preoccupare» rispose, «sono a casa. Da solo.»

Da solo.

Quelle parole avevano ben più di un significato.

Joanne era uscita di casa.

Erano anni che non lo faceva, che non metteva più piede fuori dalla loro dimora. Si era rinchiusa là dentro, trasformandola nella trincea della propria agonia.

Le labbra si schiusero da sole, un velo di fumo ne approfittò per fuggir via da quella fenditura, prima che potessi aspirarlo.

«Negli ultimi mesi... ha iniziato ad andare a correre, la mattina, non appena si sveglia.»

Il mio corpo trasalì sulla sedia.

«Lo fa un giorno sì e un giorno no, proprio come...»

Fu la sigaretta a pronunciare il nome di Betsy al posto suo, con la sua lingua di fumo.

«P-Perciò...» Mi morsi il labbro, presi un altro tiro. Mi rifiutavo di balbettare in quel modo con lui. «Perciò... sta iniziando... ad uscire di casa?»

Lo sentii sospirare, inesorabile la mia mente arrivò a immaginarlo seduto davanti al camino del loro soggiorno, sul divano in cuoio che conoscevo in ogni suo centimetro, affossato dai continui salti improvvisi che Betsy ci faceva sopra, nel tentativo palese di convincere i genitori a comprarne un altro perché lei odiava il cuoio. Era stata una delle tante cause di liti con sua madre, quella; troppe volte avevo assistito a come Joanne, nel beccarla a saltarci sopra con la delicatezza di un wrestler, iniziava a gridare e strepitare, rincorrerla per tutta la casa, lanciandole contro le peggio parole, mentre la figlia fuggitiva rideva a crepapelle.

D'inverno, quando andavo a casa sua, Lucas non mancava mai di accendere il loro camino di pietra, e lì io e Betsy trascorrevamo i nostri pomeriggi, con io che la corrompevo con i miei dolci per convincerla a studiare o semplicemente per chiacchierare e divertirci insieme, al caldo.

«Sì» rispose Lucas, una lacrima cadde dal mio occhio destro, inaspettata, generata da quell'unica sillaba. «Da qualche mese... sembra si stia riprendendo un po'. Ha accettato di andare da uno psicologo, stiamo lavorando insieme per... elaborare il lutto.»

Buttai giù con violenza il tappo di lacrime che aveva occluso la gola, presi un altro tiro. Quindi era per quel motivo... se non avevo più ricevuto mail minatorie da parte sua? 

«Capisco» pronunciai a fatica, con una voce impastata dal pianto che non osavo far uscire, umiliante per me. «È per questo... che mi hai contattata?»

Ci furono vari secondi di silenzio.

«Sì... e no» rispose infine. «Ci sono alcune cose... di cui vorrei parlarti, ma... per mail, sai, mi sembrava brutto, visto anche che... l'ho scoperta per via di...»

La schiena scricchiolò per la brutalità con cui la raddrizzai. Il bruciore agli occhi si estese sottopelle, andando a grattare le palpebre, l'intera orbita oculare; mi parve che degli artigli invisibili stessero usando l'osso frontale per limare bene le loro unghie adunche.

«Come... Come stai, Agatha?»

Chiusi rapida la bocca, riuscii lo stesso a sentire i denti battere tra loro; a labbra cucite, il loro scontro mi risuonava in testa soffocato quanto i colpi ripetuti di una pistola sulla cui canna era stato apposto un cuscino.

Dall'altra parte, Lucas rise. No, non rise, sogghignò con amarezza, con un'afflizione tale da raggiungermi anche dal telefono. «Perdonami...» gracchiò. «Ho sessant'anni suonati, ma... nemmeno io ricordo più... come funzionano queste conversazioni, ormai. È imbarazzante, alla mia età.»

Un'altra lacrima mi piovve in viso, stavolta, però, non potevo colpevolizzare il fumo, la sigaretta si era spenta da sola.

Buttai il mozzicone nel posacenere, mi schiarii la gola. «Non è un problema, non lo ricordo... neanche io.» Camuffai nei miei limiti il pianto che mi dilatava i polmoni. «Io... Io sto bene, me la cavo.» Un altro respiro profondo. «Immagino... che già sai... dove mi trovo ora.»

Un minuto intero di silenzio.

«Sì...» mormorò dopo. «L'ho intuito... quando si è diffusa la notizia... che avevi venduto la villa.»

Le mani avevano iniziato a tremare così tanto che non riuscivo nemmeno a reggere il telefono all'orecchio, fui costretta a mettere il vivavoce e posare il cellulare sul ripiano del tavolino, a fissare lo schermo bianco col numero del cellulare di Lucas non ancora salvato nella mia rubrica.

«Qualcuno... ti ha riconosciuta, là?» chiese.

«N-No, cioè...» Davvero non ricordavo più come funzionassero quelle conversazioni. «Alcuni... sì, ma sono... brave persone. M-Mi...» La saliva divenne calce, buttarla giù nella gola si stava trasformando in una missione irrealizzabile. «Mi stanno... dando una mano. Solo una volta... una coppia di... giornalisti mi ha... trovata, ma... queste persone... mi hanno aiutata... a cacciarli via.»

Un secondo minuto, ogni pezzo del mio corpo si tese al massimo, spaventato dalla reazione che avrebbe potuto avere Lucas, a quella notizia.

«Bene.»

Sussultai.

«B-Bene?»

«Negli ultimi tempi, sono passate... parecchie persone. Sai, i soliti figli di puttana, quelli che si fingono amiconi con noi per avere informazioni da vendere poi ai giornali» commentò, e risentirlo nel suo lato incattivito, quando tirava fuori le parolacce per cui Joanne tanto la criticava, mi strappò un sorriso sofferto. «Mi hanno domandato se sapessi dove fossi andata... ho detto loro che ti sei trasferita all'estero, che ci avevi avvertito... prima di farlo.»

Sgranai gli occhi, scrutando stupefatta il telefono. 

Era anche per quel motivo... se ancora non ero stata scoperta, ad eccezione di quei due giornalisti?

«Non tutti... mi hanno creduto» proseguì, la sua voce si stava arrochendo man mano che le parole uscivano. «Ma... alcuni sì.»

Le lacrime zampillavano da sole, parlavano al posto mio, la loro voce era il silenzio, la lingua le scie di sofferenza che mi lasciavano in viso.

«P-Perché... lo hai fatto?»

Mi morsi di nuovo il labbro, il sapore del sangue sopraggiunse in fretta a mischiarsi con quello del pianto.

Tre minuti.

«Sono esausto, Agatha.»

Lo disse senza filtri, sincero e schietto come quand'era furibondo, ma il suo tono era un concentrato di tracollo e miseria, il tono di chi ha solo anima e tormenti in sé, di chi è stato spremuto all'estremo nella sua agonia e più non ha neanche la forza di continuare a soffrire.

«Non ne posso più di questa situazione di merda.» I polmoni sembrarono essersi trasformati in due fucine, perché ad ogni respiro sentivo solo cenere incandescente a riempirli. «Ogni giorno mi sveglio e incontro stronzi di ogni tipo. Ci sono quelli che vogliono comprarci per poter parlarne con altri. Quelli che si mettono a insultarti davanti a noi, convinti che così ci renderanno felici. Quelli che, non appena ci vedono, pensano subito "Oh, sono loro: i genitori di quella povera ragazza". Quelli che non salutavamo da anni e d'improvviso si sentono i nostri psicologi e ci dicono come dobbiamo affrontare il lutto. Quelli che si fingono vecchi amici della mia bambina, quando erano i primi a insultarla per la sua omosessualità. Quelli che sono dall'altra parte del globo e tentano di convertirci per messaggio o mail a chissà quale religione, dicendoci che ci aiuterà a superare questo schifo, alcuni addirittura fanno voli intercontinentali solo per bussare alla nostra porta per proporci di scrivere un libro sulla nostra tragedia. Quelli che ci dicono che quanto successo è una punizione di Dio perché alla mia bambina piacevano le ragazze. Quelli che provano a spiegarci che pure loro hanno subìto una perdita simile e ci vogliono dare una mano, ma la verità è che non me ne frega un cazzo, Agatha, non me ne frega un cazzo di cosa vogliono, di chi hanno perso, di quanto buoni in cuore sono dentro o quanti cattivi intenti veramente hanno. La verità è che nulla di quello che hanno fatto, fanno e faranno ci renderà mai felici.»

La voce gli si incrinò: «La mia bambina... non c'è più... E io voglio solo esser lasciato in pace a soffrire perché non c'è più, tutto qua.»

Mi morsi il pugno per non far uscire l'urlo che mi esplodeva nello stomaco, chiusi gli occhi, li strizzai così tanto da intingerli nelle loro stesse lacrime, e quando lasciai andare la mano, sul dorso si poteva scorgere il solco dei miei denti che aveva quasi raggiunto il sangue.

«Se continua così... Se continua così... non avremo mai pace. Nessuno di noi: non te, non io e non Joanne. E io sono esausto, Agatha... Non posso più sopportare questa situazione di merda. Ma se crollo... è finita per sempre, perché lei è già crollata.»

Mi asciugai gli occhi con la manica del pigiama, spalancai le labbra per prendere più aria possibile: mi cadde in gola a velocità folle, simile a quella di un treno, schiantandosi nei polmoni che si squassarono per accoglierla. 

«Capisco...» riuscii a gracchiare con estrema fatica. «È per questo... che hai sempre cercato di...» tremai ancora, prima di pronunciare la parola: «difendermi?»

Un respiro profondo, dall'altro lato.

«Ad essere sincero... non lo so.»

Non capii perché, ma mi sfuggì un altro sorriso, in qualche modo, una parte di me, adesso, si aspettava quella risposta da parte sua.

«Sai, con lo psicologo da cui stiamo andando... stiamo lavorando molto... sulla consapevolezza dei nostri sentimenti» mi spiegò. «La chiamano "validazione emotiva"... o una roba simile. A quanto pare serve a un casino di cose, ma io non ci ho capito granché, mentre lui ce la spiegava, l'intellettuale di famiglia è sempre stata Joanne, lo sai, io sono bravo a fare caffè alla macchinetta e servire i tavoli.»

Era assurdo realizzare come parlare con lui si diramasse in due strade che riuscivo a percorrere contemporaneamente, non importava quanto tra loro fossero opposte in natura: la prima era la conversazione con un uomo che addosso aveva un abito di sofferenza talmente spesso e gravoso da renderlo un estraneo, la seconda invece era la conversazione con il Lucas che conoscevo dai miei dieci anni, il papà di Betsy, lo stesso uomo con cui avevo intrattenuto migliaia di chiacchierate e che mi aveva difesa da Benjamin.

«Prima che andassimo dallo psicologo, mi dicevo che il motivo per cui mi alteravo così tanto con quegli stronzi era perché ero fortunato a restare lucido abbastanza, a differenza di Joanne, da poter riconoscerti come un'altra vittima di questa situazione del cazzo. Alla fine, non c'erano prove che tu avessi fatto qualcosa o sapessi qualcosa, nulla di nulla, non aveva senso condannarti, non aveva logica, anche considerando tutti gli anni in cui ti abbiamo conosciuta, tutte le cose che hai sempre fatto per...» Si bloccò. «E mi dicevo anche che... si sarebbe incazzata da morire, se avesse visto la situazione in cui ci trovavamo noi due... e la tua. Avrebbe tirato calci volanti a chiunque, non ho dubbi. Di tanto in tanto, mi ritrovavo a dirmi in testa "Potrei fare di più, però. Potrei darle una mano, non so, in qualche modo", specie quando si diffondevano le notizie su come... eppure... l'attimo dopo, mi bloccavo subito pensando che, se avessi esagerato, Joanne, lei...»

Annuii, sentendomi stupida, perché lui non poteva vedermi, ma ero incapace di proferir parola, ciascuna delle sue partoriva una nuova lacrima dai miei occhi.

«Andando dallo psicologo, con la questione della validazione emotiva o come diavolo si chiama, ho capito che mi stavo solo giustificando.»

Strinsi le mani tra loro, vincolando le dita le une alle altre.

«La verità... è che il solo motivo... per cui mi costringevo ad essere così razionale... era proprio perché se fossi crollato anche io, insieme a Joanne, non ci saremmo ripresi più. E ho già perso... Non posso perdere... non posso perdere anche lei.» La sua voce arrivò strascicata, moribonda. «Se Joanne avesse continuato in tutta quella sua rabbia e odio... non ne sarebbe più uscita, sarebbe annegata, ma per poter tirar su una persona che sta sprofondando... tu devi restare con i piedi saldi a terra, non puoi cadere a tua volta. E così ho fatto io, sono rimasto a terra, mi sono impedito di cadere, ma dentro...»

Un singhiozzo, non saprei dire se suo o mio.

«Dentro, continuavo a pensare senza volerlo... a quanto avrei voluto poter... tornare indietro nel tempo... così da farle frequentare un'altra scuola elementare, perché in questo modo, almeno...»

Non ti avrebbe incontrata.

«Continuavo a pensare senza volerlo... a tutto quello che avrei fatto per impedirle di conoscerti, di diventare tua amica, così... sarebbe rimasta in vita, magari... e penso che sia per questo... se non riuscivo... se non volevo fare di più per difenderti. Non per Joanne, ma per me. Perché...  dentro di me... ero proprio come Joanne, solo... che non avevo i coglioni per ammetterlo. Perché sapevo che razionalmente era sbagliato, non avrebbe portato a nulla di buono, ma poi...»

Un secondo singhiozzo. Il nostro.

«L'ho compreso appieno parlandone con lo psicologo» continuò, dopo essersi schiarito la gola. «Ora capisco perché a... piacevano così tanto tutte quelle cose: è una roba assurda, la mente. Parlandone appunto con lui... mi ha detto che questa validazione o come minchia si chiama... è fondamentale, non importa di quale emozione si tratti, tutte devono essere ascoltate, anche le più schifose e umilianti, anche quelle che ci fanno vergognare come cani. Se non le ascoltiamo, perdiamo gran parte del controllo che abbiamo su di esse e loro trovano il modo per ritornare più forti e violente di prima, proprio perché non sono state ascoltate. Così... ho ammesso il mio problema e da lì... abbiamo iniziato a lavorare per provare a risolverlo.»

Scoppiò a ridere all'improvviso, una risata addensata dal pianto, che mi s'infilò nelle orecchie come colla calda.

«Forse mi incazzavo così tanto... perché anche io volevo prendermela con te e accusarti di ogni cosa, proprio come loro, ma non potevo farlo... e allora mi dicevo che erano loro il problema. Non saprei... non mi è ancora chiaro. Sono sicuro che... avrebbe potuto capirlo, visto quant'era fissata con queste robe psicologiche. Avrei dovuto ascoltarla di più, quando si metteva a parlarne per ore, dannazione.»

Il ricordo dell'ultima conversazione avuta con Minnie, in merito a papà e i miei sensi di colpa, mi intasò la mente. Mi domandai se anche lei avesse fatto degli studi su ciò – visto che aveva usato lo stesso termine, validare – o se, come Lucas e Joanne, in passato avesse affrontato un percorso psicologico simile, tale da poterne parlare con quella maturità di cui io ero priva.

«Lo psicologo... mi ha detto di non rinnegare nulla di quello che provo, anche delle cose più abominevoli per me. E così, a un certo punto, durante la seduta, mi sono ritrovato a confessargli le peggio cose. Non posso dire di essermi sentito meglio, ma è stato senz'altro... un bel peso da togliersi dalle spalle... e credo che lo stesso valga... per Joanne.»

Annuii ancora.

«Da lì... proprio con le sue sedute... ho deciso di contattarti» spiegò. «Sai, lui, il dottor Williams, si chiama così, ci ha aiutato molto... a vedere la situazione dalla tua prospettiva. Stiamo lavorando... per metterci un po' nei tuoi panni. Ci ha detto... che entrambe le nostre posizioni di dolore sono... legittime. L'errore è stato nel modo in cui abbiamo deciso di affrontarle, io e Joanne, non nei sentimenti che provavamo.»

«Sembra...» la voce mi uscì granulosa dalle labbra, «un tipo... interessante, questo dottor Williams.»

Un'altra risatina da parte sua, sempre più corrotta dal pianto. «Non è male» confermò. «Anche se non capisco un cazzo di tre quarti delle cose che dice, troppi termini scientifici per me, io sono un uomo terra terra.»

Ridacchiai a mia volta, tornai ad asciugarmi gli occhi. «Agatha» mi chiamò d'improvviso, «volevo contattarti... per dirti... che io lo so... perché lo vai ancora a trovare.»

I muscoli s'impietrirono.

«Lo so... Ti conosco, in fondo, forse non quanto... Lei ti conosceva meglio di tutti, ma anche io...» Si fermò di nuovo. «Mentre provavo a mettermi nella tua posizione, mi sono chiesto "Cosa avrei fatto io, se avessi scoperto che... come lui?" Inevitabilmente, mi sono detto "Ma no, è impossibile, non ne sarebbe mai stata capace" e così, l'istante dopo, ho pensato: "Oh, capisco, era questo che pensava lei di lui." Mi sono sentito un cretino pazzesco a non averlo compreso prima.»

Ripresi a mordermi il labbro.

«Io lo so... quanto gli volevi bene» proseguì. «Era la tua unica famiglia, d'altronde, e a dirla tutta... un po' lo invidiavo, addirittura, pensa.» L'ennesima risata amara. «Non mi sarebbe dispiaciuto se... si fosse vantata e mi avesse adorato... come tu facevi con lui, pur sapendo che mi voleva bene con la stessa intensità.»

Presi dal pacchetto un'altra sigaretta, ci impiegai un minuto intero per riuscire ad accenderla.

«Mi sono ricordato... che una volta ci avevi parlato... di quel capanno.» Trasalii ancora, il fumo rischiò di esplodermi in gola. «Ci avevi detto che lui... ti aveva proibito di entrarci o avvicinartici perché pericoloso per te, e io... non l'avevo trovato affatto strano, all'epoca. Tu sei proprio quel tipo di persona... che obbedisce sempre agli ordini di chi si fida. Come quando io e Joanne stavamo ristrutturando casa... e avevamo imposto a... di non salire in mansarda. Tu le hai impedito di farlo in ogni modo.»

I denti ripresero a battere, seguirono il ritmo delle palpebre che si chiudevano a riaprivano veloci per liberare gli occhi dal lago di lacrime che li stava affogando, come lavavetri di una macchina, ma la pioggia che scrosciava era troppo abbondante, continuava a recludermi la vista.

«Come so... che il motivo per cui vai a trovarlo... è anche per chiedergli perché ha scelto proprio...»

Di nuovo, il nome di Betsy esplose nell'aria proprio con quel silenzio, espandendo ancor più l'immensa voragine che la sua perdita aveva generato nei nostri cuori.

Non so con che forza, fui capace di confessargli: «L'ho capito.»

Non ci fu risposta.

«L'ho capito, Lucas...» ripetei, la voce sconfitta. «Ho capito... perché l'ha scelta.»

Era giunto il momento.

Di rivelare la verità a chi più meritava di saperla, a discapito delle conseguenze che avrei subìto io.

Aprii di nuovo la bocca, ma Lucas mi bloccò: «Non m'interessa.»

La sua affermazione arrivò sicura e decisa, inflessibile, sbigottendomi. Gli occhi si sgranarono così tanto che il pianto accumulato fino a quel momento si gettò tutt'insieme sul mio viso.

«Non me ne frega più un cazzo sul perché l'ha scelta, Agatha.»

Serrai la mandibola, udii un profondo respiro dall'altro lato della linea.

«Non me ne frega più un cazzo» ripeté. «E vuoi sapere perché?»

Non osai rispondere.

«Perché quello lì è un sadico, deviato e malato pezzo di merda.»

La sigaretta che non avevo più toccato dal primo tiro, ormai consumata fino al filtro, sbuffò l'ultimo sprazzo di fumo tra le mie dita e cadde sul tavolo, fuori dal posacenere, a malapena lo notai.

«Nessun essere umano che ci sta con la testa compirebbe mai quegli abomini» affermò, sputando ogni parola quasi fosse acido in bocca. «Qualunque ragione ci fosse dietro, qualunque motivo avesse per scegliere proprio... non era normale, non era sano, non era sensato... e io non ho più desiderio di scoprirlo, perché non voglio in alcun modo comprendere un pezzo di merda come lui. L'ha uccisa perché un sadico, deviato e malato pezzo di merda, questa è l'unica ragione che conta per me. Delle motivazioni che aveva nella sua mente squilibrata non me ne fotte nulla, non me ne frega un cazzo se coinvolgevano te o meno, se coinvolgevano lei o meno. L'ha uccisa perché un sadico, deviato e malato pezzo di merda, questo è tutto.»

La gola diventò una colonna di fiamme, devastata da un fuoco inestinguibile.

«Forse per te è diverso, rimane tuo padre, in fondo... e so che queste cose possono servire... per capire come funzionano menti folli come le sue, così da poter cogliere i segnali di pericolo... negli altri... ma sono cazzi degli altri, per l'appunto. A quello ci pensano gli scienziati, non certo io col mio diploma di quarant'anni fa. Per quanto mi riguarda, il solo e unico motivo per cui l'ha scelta è perché è uno schifoso assassino che merita le pene dell'inferno e di marcire tra le fauci di Lucifero per l'eternità, e la colpa è e rimarrà per sempre sua. Fanculo le ragioni che aveva in testa quando l'ha fatto, comunque non erano normali, erano malate, e mi rifiuto di dar ulteriore adito alle sue devianze straziandomi per capire un perché, quando il perché già lo conosco: la sua follia

Proprio non avevo idea di cosa stessi pensando, percepivo a fatica il corpo tremare, perché mi sentivo del tutto fuori da esso, a sollevarmi nell'aria per scorgere l'intero appartamento dall'alto e confermarne la caducità e decadenza.

«Anche se lo scoprissi, a cosa servirebbe?» domandò, provocandomi un brivido lungo la schiena. «A farmi rimpiangere un'altra decisione passata? A farmi cercare un secondo colpevole da odiare? E quindi? Non cambierebbe niente di niente, perché un dolore nuovo non va a cancellare un dolore già presente, si aggiunge soltanto. Sarebbe l'ennesimo inganno per non accettare la realtà, continueremmo comunque a soffrire, persino più di prima. E io ne ho i coglioni pieni di dolore, non mi va di cercarne altro, direi che ne stiamo patendo troppo già ora, non credi anche tu, Agatha?»

Non esistevano pensieri, ormai, solo emozioni generate non dal cuore bensì dai visceri, come gli istinti di una bestia; ma erano soffici a sentirsi, come'erano crude nella loro natura, così erano delicate a riempirmi l'anima intera.

«Ti ricordi quando... si lasciò con la sua ragazza, Melany?» domandò d'improvviso. «Ne soffrì un casino, stette giorni interi chiusa in camera sua, io e Joanne eravamo molto preoccupati... Non l'avevamo mai vista così abbattuta, prima d'ora. Uno di quei giorni, andai a parlarle» la sua voce tremava così tanto che faticava a mettere in fila le parole, proprio come i miei occhi che non riuscivano più a filare lacrime intere, dovevano accontentarsi dei loro frammenti, «mi disse che se avesse saputo che sarebbe finita così, avrebbe preferito non averla mai conosciuta.»

Presi un altro, grosso respiro, e così lui.

«E io le dissi... che era una pessima idea, desiderare una cosa del genere» gracchiò. «Le dissi... "Davvero vuoi cancellare tutti gli anni di felicità che hai avuto con lei, per questo dolore? Davvero preferiresti non averla mai conosciuta e aver provato così tanta gioia e amore, avendola accanto, per risparmiarti questa sofferenza?

Una risatina amara, da parte di entrambi.

«Pochi giorni più tardi, tu venisti a trovarci con quella torta strana piena di strati... Come si chiamava? Aveva un nome assurdo, non me lo ricordo.»

Sorrisi nel pianto. «Kek lapis... S-Si chiamava così.»

«E lei ritrovò il sorriso» commentò. «Quella stessa sera, venne da me e mi disse: "Sai, papà, avevi proprio ragione. È stupido voler cancellare così tanta felicità per un dolore unico, non importa quanto faccia male. Si può fare entrambe le cose, alla fine, no? Essere sia felici per il passato che addolorati per il presente. Se bastasse davvero una sofferenza ad eliminare anni e anni d'amore, allora nulla avrebbe più senso. Se basta davvero il dolore per annullare un passato intero, allora abbiamo perso ogni cosa, e lo sai che io odio perdere.

Mi tremò il labbro, lo morsi ancora per fermarlo, ben cosciente che quella... quella era proprio una riflessione da Betsy George, incurabile procrastinatrice per lo studio, immensa filosofa logorroica per gli argomenti che amava.

«Ricordandomi questo... ho pensato che sarebbe... ipocrita da parte mia, rimpiangere che ti abbia conosciuta, dopo averle fatto quel discorso, no?» Un minuto di silenzio. «Lei è stata felice... per tutta la sua vita... anche perché c'eri tu al suo fianco... e sono sicuro che si incazzerebbe da morire... se io proseguissi a rimpiangere i suoi anni con te, perché ora è...» Un lamento primitivo gli sfuggì, quello di un animale ferito, ma era uomo, in realtà, essere umano. Lo era lui e lo ero... anche io. «E io... mi rifiuto di permettere... che il gesto abominevole di un uomo deviato... annienti anni e anni di amore. Mi rifiuto di permettere... che la pazzia schifosa di un singolo mostro... rada al suolo l'affetto sincero di così tante persone. Se glielo lasciassi fare... me l'avrebbe portata via davvero, me l'avrebbe portata via per sempre. Con che coraggio potrei guardarla in faccia, quando l'avrò raggiunta, dopo?»

Più non ero capace di scorgere il telefono e il suo schermo bianco, annegavo nel mio stesso pianto, rovinata e salvata da quelle lacrime che mi ero negata per così tanti anni.

Finirà, Agatha, vedrai che finirà.

Non riuscii a controllare le smorfie continue che mi deturpavano la bocca, nello sforzo di trattenere le grida del cuore, urlate dalla voragine lasciatami da Betsy George, da lui adesso usata come bocca per vomitar fuori l'agonia.

«Basta così, Agatha.»

Tre sole parole, gli furono sufficienti quelle tre sole parole per sentire l'ira nelle viscere finalmente riconosciuta, non più ripudiata come una volta.

«Basta così, con quest'odio e rimpianti, con questa continua ricerca di altri colpevoli che non ci sono nel tentativo di fuggire dal nostro dolore. Continuiamo a soffrire quanto e come vogliamo, ma non permettiamogli più di vincere. Non io, non Joanne, non te. Non sarà facendoci a pezzi che cambierà qualcosa, perciò basta, basta così. Mi sono rotto il cazzo di lui e di tutta la merda che ha provocato, che marcisse nella sua follia e il suo inferno da solo, perché è l'unico che se lo merita. Anche io odio perdere e so per certo che se proseguiamo per questa strada, lui avrà vinto tutto, l'avrà ammazzata sul serio. Il mostro avrà vinto sulle persone, perché lei... Betsy... resterà per sempre nei nostri cuori soltanto come la sua vittima, non più come la mia bambina.» 

Non riuscivo più a vedere niente.

«Perciò, d'ora in poi, quando qualcuno cercherà di nuovo di accusarti, di farti qualcosa, di punirti, denunciali tutti e sputagli in faccia. Mandali subito a fanculo, non farti mai più affossare da quest'odio dilagante generato da un singolo mostro. Spacca loro il muso, se necessario, e se provano a farti sentire in colpa per Betsy George, la mia bambina, ricordagli che tu, a differenza loro, conoscevi proprio Betsy George, non la vittima di Lawrence Reid, e che se hanno dei problemi al riguardo, di andare a parlarne direttamente con Lucas George, perché così finirà lui di pestargli a sangue la faccia.»

Un secondo.

«Anche con Joanne, se tornerà a scriverti. È giunta l'ora che pure lei si dia una svegliata, non solo io.»

Di nuovo, risentii il sapore del sangue, sgorgato dal labbro che continuavo a mordere.

«N-Non lo fa più... da parecchi mesi... in realtà» mi ritrovai a balbettare, incapace di frenare le lacrime che grondavano e grondavano e grondavano dagli occhi.

Lui sospirò profondamente. «Ho continuato a controllarla, ma sai... trovava sempre sotterfugi nuovi per contattarti, non riuscivo mai a starle al passo...»

Scossi la testa. «Non... Non mi ha più scritto» confermai. «In realtà, temevo che...» Non fui capace di terminare la frase, ma lui comprese.

«Sta bene, non ti preoccupare» si bloccò. «Cioè... il termine "stare bene"... dubito possa più rappresentarci ma... sta meglio di prima, il che... è un grosso traguardo, direi. Ha iniziato a mangiare un po' e a uscire. Pensa, ha persino... preso l'abitudine di guardarsi le serie tv su Netflix... ero allibito, quando l'ho trovata così. Non so dire a cos'è dovuto, però. Ha cominciato a stare un po' meglio da prima che iniziassimo a frequentare lo psicologo. L'ho capito non appena... ha accettato di andarci, quando erano anni, ormai, che rifiutava le mie continue proposte.» Una lunga pausa. «È l'altro motivo per cui ti ho contattata.»

Mi irrigidii sulla sedia, tremante.

«Ha parlato di te.»

Presi un altro grosso respiro, mentre proseguiva: «Non come... Non come al solito. Stavamo guardando appunto una serie Netflix su... una tipa in Francia, mi sembra. A un certo punto ha detto "Sono uguali ai macarons che ci faceva Agatha", quando sono comparsi sullo schermo.» Tre secondi. «Era la prima volta... che ti nominava... in quel modo. Da allora... ha iniziato a farlo più spesso. Credo che si stia preparando... per parlarti sul serio, anche se forse non ne è ancora consapevole. Per questo ti ho voluto contattare, sai, nell'eventualità che...»

I macarons.

Era una cosa stupida, scontata, eppure... realizzare che Joanne adesso era abbastanza lucida da ricordare quegli sciocchi macarons, bastò per farmi morire e rinascere lì, su quella sedia, in quell'appartamento finora abitato solo dalla memoria di una ragazza che non c'era più. Non riuscivo nemmeno a respirare, i polmoni si dissetavano con le mie lacrime, le convertivano nel loro combustibile per poter aizzare ulteriormente l'incendio di cui erano sia vittime che artefici.

Ma non bruciava solo, quel loro fuoco, non bruciava più soltanto.

Riscaldava, proprio come il camino del loro soggiorno, nei pomeriggi d'inverno di tanti anni prima.

«Tuttavia» aggiunse, «non penso che sia ancora abbastanza lucida... per poterlo fare, per quanto stia man mano migliorando. Dubito riuscirebbe... a mantenere la calma, se ti parlasse ora.»

Silenzio.

«E dubito sarebbe capace di comprendere... quanto ti ha... ti abbiamo fatto male... in tutti questi anni. In cuor suo lo sa, ma non è ancora pronta... a riconoscerlo.» Scossi la testa, mentre continuava a parlare, ma mi era impossibile ribattere, le lacrime mi rivestivano ovunque, oltre che dipingermi il viso adesso mi cadevano dentro ostruendo la gola, miscelandosi al muco e ai singhiozzi. «Perciò... se ti dovesse riscrivere... anche se ti sembrasse tranquilla... parlane con me, prima di risponderle, va bene?»

«Vuab-b-bene» le parole che avrei dovuto dire con calma e determinazione uscirono, invece, impastate, incomprensibili, perché la bocca era intasata da un composto di lacrime, saliva, catarro, muco, rimpianti, cicatrici aperte da cui il sangue proliferava, troppo denso e colloso perché potessi masticarlo e mandarlo giù. Appiccicava tutto, al contrario: i denti tra loro, la voce alla carne, la vergogna all'anima, le sillabe le une alle altre.

Nell'udirle, Lucas si ruppe come me, forse persino di più. Un vagito animale echeggiò per tutto l'appartamento, misto al mio singhiozzare incessante. Fui colta dal pensiero che mai prima di allora avrei pensato di assistere al crollo di un uomo così sicuro come sempre mi era apparso lui, dall'infanzia, e questo mi portò a balbettare senza riuscire a pronunciar bene le parole: «Mid-d-dispuace

Più provavo a parlare, più quel composto in bocca si faceva appiccicoso, dalla vischiosità ineccepibile, mastice vero e proprio, a traboccar fuori dalle labbra non appena iniziavano a schiudersi. «Midisp-p-piacue, Lucas» persistetti, però, provando in ogni modo ad asciugarmi le lacrime con le maniche, ma era impossibile, proprio come la colla in bocca, anche quelle traboccavano dagli occhi senza freno, copiose, innumerevoli, così tante che l'intero viso mi sembrò coperto da una seconda pelle intessuta col pianto. «Midsipaceu... I-Io non vuolevo... Io non losciap-p-pevo...»

Il suo respiro instabile, di quelli che si fanno quando si è smesso da tempo di vivere. «Lo so, Agatha, lo so...» balbettò. «Sono io che... che mi devo scusare... per...»

Scossi ancora la testa, le lacrime piovevano talmente incessanti che le maniche del pigiama erano zuppe, il tessuto intriso del dolore accumulato nel corso di quei lunghi quattro anni di solitudine. «No» bofonchia nei miei vagiti. «Mi va buone... semi odiate vuoi... Però...» Presi un respiro profondo, ma le lacrime lo resero spezzato, imbevibile. «Nontruppo, per favore, L-L-Lucas. Non mi odiate truppo, perf-f-favuore, sono cos-s stuanca d-di essuere od-d-diuata.»

Respiri affannati, scuse e preghiere, odi e rancori finalmente disposti a cedere all'assoluzione, la comunione dei sentimenti più spietati e barbari con l'innocenza delle nostre speranze mai espresse: questa fu la nostra chiamata, questo fu il modo in cui lui validò me e io validai lui, nei nostri orrori dilagante, genesi di ogni cosa al mondo.

Finirà, Agatha, vedrai che finirà.

Non finì, non ancora.

Ma in me nacque una fede diversa, finora mai contemplata, ignota alla mente di una volta.

La fede che sarebbe sul serio finita, sì.

Ma non più con quella corda.

Dopo aver chiuso la mia chiamata con Lucas, andai a lavarmi. Non avevo pensieri in testa, ma quell'assenza improvvisa da parte loro non mi alleggeriva affatto, piuttosto mi faceva sentire incosciente, esanime.

Mi rivestii in fretta, una maglia di lana rossa, semplice, guanti camosciati e un paio di pantaloni neri, anch'essi parte degli ultimi acquisti fatti con Minnie e Max.

Mi ritrovai a guardarmi sullo specchio ovale del lavandino, lo specchio ovale intrappolato tra i due pensili bianchi che lo fiancheggiavano ai lati.

Mi ritrovai a guardarmi sullo specchio ovale del lavandino, nel mio riflesso che conoscevo a memoria e non conoscevo proprio, nei miei occhi verdi che erano diventati il mio unico vanto, grazie a Joanne, pur essendo anche il solo legame che mi era rimasto di lei, oltre le memorie che solo io possedevo.

A che serve lo specchio, mamma?

A confessarci, prima dobbiamo farlo con noi e poi con Dio.

Anche tu devi farlo?

Sì.

Perché?

Silenzio.

Perché siamo nate in questo modo.

E forse proprio per questo, forse proprio perché erano il simbolo identificativo di una madre che non era stata madre per me e di una donna che madre era stata eccome per me, nel guardare quegli occhi, l'ira appena nata dalla scoperta iniziò a espandere il suo territorio, andò a corrompere tutti gli altri sentimenti affinché prendessero la sua stessa forma e sostanza; mi fece vedere ciò che sempre avevo visto ma che, in quel momento, rifiutavo di continuare a indossare.

Gli occhi di lei e i ricci di lui.

I guanti di lui e la fede di lei.

La figlia di lei e la figlia di lui.

Scorsi il mio stesso viso deturparsi per la rabbia funesta, incidere ancor più le rughe agli occhi prodotte dal pianto e l'agonia vissuti poco prima, e mi parve di essere una persona fatta di soli fili, ciascuno dei quali mi riconduceva o a lei o a lui, sempre, sempre, sempre.

In unico coro mi gridavano contro "Sei proprio uguale a loro, vedi?" e d'istinto il raccapriccio mi deteriorava la faccia, ogni cosa, perché no, non era così, non era così, mi rifiutavo che fosse così.

Il respiro si fece pesante, un rumore profondo, diroccato, a riempire l'intero bagno e risuonare con la violenza di un vetro infranto.

Papà aveva ucciso Betsy perché non poteva uccidere me, e così l'aveva scelta come fine ultimo per farmi soffrire, per farmela pagare per aver rovinato l'unica certezza che avesse mai posseduto.

Il respiro aumentò frequenza.

Lei aveva continuato la punizione dello specchio perché aveva fallito nel suo piano e aveva reso me colpevole di ciò, oltre sé stessa, perché esser mostro era la sola cosa che avesse mai conosciuto, la sua unica certezza.

I miei fili si tesero, iniziarono a tirarmi all'indietro, a redarguirmi per ricordarmi che il sentiero appena intrapreso dai miei pensieri era pericoloso, troppo pericoloso, saremmo stati senz'altro puniti di nuovo.

E così lo sguardo mi cadde sull'altro filo, il rosario che mi avvolgeva il collo, la croce in legno che pendeva proprio sul mio petto.

Dio mi aveva punita per quel desiderio portandomi via tutto, le persone che più amavo al mondo.

Un'associazione inconscia mi balenò in testa, squarciò ogni timore fino a privarlo del respiro, ritornai a guardarmi negli occhi, stupendomi di non provar disgusto per la blasfemia appena concepita nella mente.

Proprio come aveva fatto papà.

La stessa, identica punizione.

La stessa.

Basta così, Agatha.

Respiravo così male, ora, che a vedermi il petto avrei quasi temuto di star per svenire, tanto si scuoteva sotto il maglione, sollevandosi e riabbassandosi a ritmo frenetico, violento.

E l'ira proliferò ancora, e ancora, e ancora, mandando all'aria qualsiasi riverenza o paura del divino, qualsiasi vergogna, così tanto che ebbi il bisogno viscerale di strapparmi via tutto: pelle e sentimenti, occhi e capelli, voce e cuore. Ma la mano corse al rosario, per qualche ragione, lo afferrò dalla sua croce in legno e tirò, tirò forte, tirò con la stessa violenza con cui mi tiravano indietro tutti gli altri fili, fino a quando la collana stessa non esplose insieme al mio urlo, ricadendo a terra in una pioggia di grani in legno, a rintoccare l'ora della mia rabbia.

«Che cazzo di senso ha?!»

Non so a chi lo gridai, se a lei, papà, Dio, forse tutti e tre, forse nessuno, forse me stessa soltanto.

La mia unica certezza fu che quella sarebbe stata la mia ultima confessione allo specchio.

Una blasfemia.

«Che cazzo di senso ha, eh?! Che cazzo di senso ha punire qualcun altro invece che la persona che odiate, eh?! Che cazzo di senso ha?! Che cazzo di problemi avete?!»

Non riuscivo nemmeno a sentirmi, ad esser sincera, non udivo neanche la mia voce, guardavo i miei occhi verdi, gli occhi di lei, i ricci di lui, il prodotto di due catene abominevoli, e mi accorgevo di esser sempre meno loro e sempre più me, mi accorgevo che senza più quel rosario mi sentivo libera, come se fossi stata soffocata per tutti quegli anni, ma ci ero talmente abituata che, prima, neanche mi ero accorta di respirare male.

«Se la odiate, punite quella persona! Che cazzo c'entrano gli altri, eh?! Che cazzo c'entrano?!»

Più strillavo quelle parole, più tutti gli altri fili tiravano per riportarmi indietro, per opporsi ai miei strappi, e allora io strappavo di più, più forte ancora. Mi tolsi i guanti dalle mani, li lanciai nell'aria, sempre più rovinata, ma la collera viveva per me, la collera sostituiva i respiri che non riuscivo ad avere.

«Non sono così, io! Non sono così! Io non ho mai fatto del male a qualcuno che non c'entrava un cazzo in questa situazione di merda! Non ho mai fatto del male a gente innocente! Non ho mai distrutto qualcun altro perché non potevo prendermela con chi mi faceva soffrire! Non sono come voi! Non sono come voi!»

E urlavo, urlavo, urlavo.

E piangevo, piangevo, piangevo.

E strappavo, strappavo, strappavo.

Arrivavo alla catena, ne rompevo ogni suo anello, uno ad uno.

«Che cazzo di Dio punirebbe gente innocente per un desiderio che ha espresso un'altra persona, eh?! Che cazzo di Dio ammazzerebbe altri invece che il peccatore in questione, eh?! Che cazzo di Dio sei, a portarmi via Betsy e gli altri, per un desiderio che non li riguardava, eh?! Te lo dico io, che cazzo di Dio sei: uno stronzo! Un figlio di puttana! Un malato, psicopatico, pezzo di merda quanto mio padre!»

"Perciò, d'ora in poi, quando qualcuno cercherà di nuovo di accusarti, di farti qualcosa, di punirti, mandali subito a fanculo."

«Puniscimi quanto cazzo ti pare, perché non me ne frega più niente! Non me ne frega più niente! Fai quel che cazzo vuoi, perché sarà soltanto colpa tua, sarà la tua punizione, non la mia, mi hai capito?!»

"Infetti perché anche io infetto, perché sei mia figlia."

«Col cazzo!» Uno strillo disumano, un'esplosione di rabbia. «Col cazzo che sono come te! Col cazzo che sono come voi! Col cazzo! Me ne sbatto i coglioni di chi sono figlia, perché io non ho mai fatto le vostre stesse schifezze! Non le ho mai fatte, capito?! Mai!»

Le parole erano mine vaganti a susseguirsi, appena uscivano di bocca, si detonavano; fu la guerra contro Dio e me stessa, la guerra contro la catena del male, a far esplodere ogni cosa, i capisaldi di un ciclo infinito che non aveva origine.

«Non ho mai ammazzato qualcun altro per far soffrire chi volevo davvero ammazzare! Non me la sono mai presa con gente a caso che non c'entrava un cazzo con gli stronzi che mi facevano del male! Siete voi i mostri, qua, non io! Siete voi i pezzi di merda che uccidono gli innocenti, perché malati di testa! Siete voi, capito?! Siete voi il problema, chiaro?!»

"Ma ti devi ricordare, Riccioli Corvini..."

«Io non ho mai portato gente innocente a morire! Io non ho mai avuto un cazzo di capanno in cui ammazz–»

"Che questo senso di colpa non è un'arma."

Mi bloccai.

Ritornai per la prima volta a vedere.

A vedermi.

Occhi gonfi dal pianto, verdi e lucidi per le lacrime, il labbro inferiore incrostato per le ferite di poche ore prima, pelle pallida, respiro a tratti, ricci crespi e contorti, fili e catene addosso da entrambi i rami della sua famiglia.

Si chiamava Agatha Reid.

"È quello che provi e basta perché sei umana."

Ventisette anni.

"È valido in quanto tale, in quanto emozione."

Figlia di Lawrence Reid e Ruth Carter.

"Questa è l'unica verità che accomuna il mondo intero, il solo e vero modo per spezzare la catena."

Tale padre, tale figlia.

Non per il suo desiderio, non per il suo prezzo da pagare, il debito che aveva con Dio.

"E tocca farlo per tutti, inclusi noi stessi."

Perché io ce l'avevo, ce l'avevo eccome... un capanno.

"Non è il sentimento in sé a farci sbagliare, è ciò che si fa con esso a stabilire davvero chi siamo."

L'armadio.

"Se mostri come tuo padre o persone come gli altri."

Ed io ero stata mostro, sì, ero stata mostro, ma non perché figlia di mio padre o di mia madre, non perché avevo espresso quel desiderio.

Ma perché come lui, lei e Dio, avevo a mia volta un capanno.

Un capanno in cui avrei punito mio padre attraverso una persona che non c'entrava niente, allo stesso modo e con la stessa crudeltà con cui lei mi aveva punito per anni allo specchio, con cui papà mi aveva portato via Betsy, con cui Dio mi aveva fatto scontare il desiderio.

Il respiro scomparve del tutto e così le grida.

Così la rabbia.

Lo sapevo, lo sapevo bene con chi stavo continuando la catena di mostruosità.

La mia vittima era proprio lì, davanti a me, in quello specchio.

Agatha Reid.

Ecco come la stavo continuando.

NOTA AUTRICE PARTE DUE

Lo so che v'erano mancati i miei pipponi analisi, era da un bel po' che non li facevo, quindi ECCOMI.

Anche perché, diciamocelo, sto capitolo ha un BOTTO di robe da dire, e non solo per i lacrimoni che c'ha fatto uscire.

O almeno, li ha fatti uscire a me, poi ditemi voi, confido di avervi spezzato almeno un pochino il cuoricino, però.

Or dunque, partiamo dal principio, la prima metà:

Lucas.

Agatha ha contattato di sua spontanea volontà Lucas per parlare con lui, lei stessa non è sicura sul perché, ma in realtà il perché c'è già.

Lo Voleva.

Quindi l'ha fatto.

Ciò dimostra che finalmente sta iniziando ad ascoltare sempre più ciò che lei vuole, senza più lasciarsi influenzare dai desideri degli altri e il plagio subìto nel corso di tanti anni. La questione si può evincere anche dal dettaglio di come lei si accorga finalmente di quanto la sua casa è morta, sebbene già da prima lo sapesse.

Cioè che mentre prima non gliene fotteva na ciola, adesso questa moraccitudine in casa sua le inizia a sembrare sbagliata, storta, demmerde, insomma.

Ho già detto per caso che i dettagli sono importanti in questa storia?

Giungiamo al best papà evah, padre della best girl evah, Lucas George.

Lucas ci era già stato presentato in passato, insieme alla figura di Joanne, a suo modo quasi in maniera opposta a quest'ultima.

Da un lato avevamo infatti Joanne, completamente affogata nel dolore di aver perso una figlia, incapace di pensare razionalmente e per questo usando Agatha come valvola di sfogo da colpevolizzare per questo dolore.

Dall'altro avevamo invece Lucas, il solo che aveva mantenuto una sorta di razionalità e per questo era riuscito a guardare la questione con più logica, agendo così da trascinar via Joanne quando provava ad accanirsi su Agatha e mandando a cagare i giornalisti e impiccioni stronzi.

Da questa prima impressione perciò potevamo intuire che Lucas non colpevolizzasse affatto Agatha, mentre Joanne sì.

Con questo capitolo capiamo che la verità in realtà è:

Un po' e un po'.

La questione di cui Lucas parla riguardo alla loro situazione è molto importante, si ricollega infatti sia al discorso che ha fatto Minnie e a suo modo ANCHE a quanto Agatha ha scoperto su Lawrence.

Cioè:

Lucas si forzava a guardare tutto dal lato razionale, invece che dal piano emotivo, riuscendo perciò sì a riconoscere Agatha come un'altra vittima della situazione di merda, ma ignorando contemporaneamente i propri sentimenti, andando così a sfogarli prima sugli stronzi (cosa che non ce dispiace) ma anche indirettamente su Agatha (cioè impedendosi di fare altro per aiutarla e anzi, segretamente e inconsapevolmente, invidiare coloro come Joanne che sfacciati la condannavano)

Vi ricordo quanto ribadisco tipo ad ogni capitolo, ma sto cazzo, sempre meglio ricordallo:

Sto libro nasce appositamente per scavare a fondo i sentimenti degli esseri umani, anche quelli più demmerde.

E i sentimenti NON SONO MAI razionali, perciò sì, per quanto demmerde essi siano, nascono e basta, non ci si può fare niente, non sei tu a decidere di averli, ce stanno, oh.

Così come Agatha infatti ama ancora il padre (quanto lo odia), così Lucas provava rancore per Agatha.

La differenza sostanziale è che Agatha ammetteva la cosa (riguardo all'affetto per il padre), Lucas NO.

Si ritorna perciò al principio.

Il principio che è la seconda best girl evah, gattara incallita, minacciatrice seriale e gotich lolita impeccabile.

Minnie.

Il principio VALIDAZIONE.

Detta in modo papale:

Più ignori i tuoi sentimenti, senza dar loro voce e ascolto, senza dar loro un NOME, più loro, in futuro, TE INCULERANNO, a te e agli altri, e non nel modo che può piacere ad alcuni/e, sì, anche a me amante dei manwha BL più scabbbrosih.

Volgare? Sì.

Efficace nella spiegazione? Altrettanto.

Sarà na cosa importante, SPECIE per quanto riguardo un noto pluriomicida che ora volemo ammazzare alla grande (pure Dante, non appena lo verrà a sapere, credetemi)

Lucas, perciò, dopo esser finalmente riuscito a iniziare un percorso psicologico con Joanne, ha iniziato a validare i suoi sentimenti (i rancori e l'odio nei confronti di Agatha) e validandoli è riuscito anche a fare un passettino minuscolo minuscolo minuscolo per guardare la questione SUL SERIO dalla prospettiva di Agatha.

Se Joanne c'è riuscita a propria volta come lui o se ci riuscirà in futuro... non ve lo dico per il momento.

Sempre parlando di Lucas, abbiamo modo di vedere la questione TRAUMA dalla prospettiva per la prima volta non dei parenti del carnefice, ma dei parenti della vittima.

Che sia chiaro, i rimpianti e rammarichi di Lucas sono NATURALI e UMANI. Sfido chiunque al suo posto a non ritrovarsi a desiderare di aver mandato Betsy a un'altra scuola elementare così che non conoscesse Agatha.

Non ha senso razionalmente? No, non ce l'ha.

Ma qua, ribadisco, non stiamo parlando di razionalità, stiamo parlando di sentimenti e AFFETTI.

Voglio dire, persino io me metto a rimpiangere il giorno in cui ho scelto di fare il liceo classico, che potrebbe sembrare una stronzata a confronto, FIGURATEVI se me schiattasse la figlia in quel modo. È una cosa purtroppo inevitabile, cioè andare a sognare di tornare indietro nel tempo per modificare le nostre scelte così da evitare futuri traumi.

Come dice una gran donna, cioè Minnie, l'errore però non sta nel sentimento in sé, sta nel come si decide di agire sulla base di esso.

Se non lo si ascolta, a sto sentimento, il sentimento fa il cazzo che gli pare, te esplode nella panza senza che tu te ne accorgi e ti porta a fare TRAUMI *guarda Lawrence con un'ascia in mano*

Se lo si ascolta, invece, lo si VALIDA e quindi si può CONCRETAMENTE agire con la propria capoccia e non de panza.

Quindi, Lucas, già di per sé più razionale di Joanne, è riuscito a validarsi e ad affrontare Agatha.

Allo stesso modo Agatha ha iniziato a validare sé stessa, specie la sua IRA.

Perché prima, della propria collera, lei se ne vergognava e i risultati se sono visti (il suo masochismo, evitamento palese de Orange Boy, martelli sui coglioni, pippe mentali, pensieri suicidi e autodistruttivi), ora, invece, anche guardando il modo in cui Lucas si è validato, a sua volta sta continuando a farlo.

"Simo, ma non l'hai fatta troppo facile che Lucas non vuole sapere perché Betsy è stata ammazzata"

NO.

Non ce provate, muffins, ve scartavetro l'anima de li mortacci vostri e miei.

Quanto afferma Lucas era già stato detto in passato da Minnie ed è IMPORTANTISSIMO.

Perché quello che ha detto è vero.

Lo dico chiaramente, pur essendo Lawrence tra i miei personaggi preferiti in assoluto della storia.

La vera e UNICA ragione perché Papà Lawry ha ammazzato Betsy è perché è un malato, deviato, pezzo di merda che merita l'inferno.

Fine.

Sì, lui ha le sue motivazioni, scoperte da Agatha, da poter studiare, analizzare e persino comprendere, ma sono MALATE, DEVIATE e DISTURBATE, perciò non possono in alcun modo responsabilizzare/colpevolizzare QUALCUN ALTRO se non lui stesso.

Perché quelle motivazioni sono proprio il frutto di quanto è un deviato, malato, disturbato pezzo di merda.

Sks, Lawry, ma andava detto: fai schifo.

(Però ti lovvo uguale come personaggio, ma me fai schifo pure uguale, mi disp)

Una questione che Lucas rimarca ad Agatha: ricordandole perciò sì di validarsi, ma al contempo di non dare validità a qualcosa che riguarda un'altra persona che non è lei (papà stronzo) e gli altri bastardi (mondo che la condanna e pure Joanne)

Da qui, finalmente, la nostra protetta sente il coraggio di potersi confessare e chiedere perdono a Lucas. In quella scena, come detto su IG, ho pianto persino il liquido amniotico che me copriva quand'ero in panza de mamma mia, mortacci.

Andiamo alla seconda metà del capitolo.

Si ricollega VISCERALMENTE alla prima parte per TANTE, TANTE questioni.

Validazione emotiva prima de tutti.

Perché è proprio validando la propria rabbia che Agatha inizia a identificarsi come SE STESSA e non più come "figlia di due pezzemmerde e quindi pezzemmerde come a loro"

Tuttavia, PROPRIO PER QUESTO, riesce anche – e oserei dire FINALMENTE – a riconoscere le somiglianze con loro, che, tuttavia, non riguardano come sono pezzemmerde.

O meglio, sì, ma pezzemmerde che se la prendono con GENTE CHE NON C'ENTRA UN CAZZO.

Lawrence se l'è presa con Betsy.

Pezzemmerde n. 1 se l'è presa con lei.

Dio se l'è presa con Betsy e Lawrence (facendo sì che quest'ultimo ammazzasse la prima)

E Agatha?

Agatha se l'è presa...

Con Agatha.

Le varie associazioni inconsce che man mano Agatha fa sono molto importanti e anche il MODO in cui le fa (cioè il modo in cui sono scritte) sono importanti.

"Si chiamava Agatha Reid" –> modo in cui finora ha sempre presentato le altre vittime e in cui si è presentata solo una volta nel capitolo "Miserabile vita"

"Lo sapevo, lo sapevo bene come... / Ecco come..." –> modo in cui nel capitolo "Fregato" capisce come Pezzemmerde avesse inculato Lawrence e non ce stesse de capoccia manco per l'unghia del mio mignolo.

"L'unica certezza" –> quella di Lawrence di vivere per uccidere, quella di Pezzemmerde di essere un mostro e che quindi anche sua figlia lo fosse

Da notare che qua Agatha se la prende con Dio in persona, o meglio, il Dio stronzo e infame che pensa esista e la stia punendo, cioè inizia a far VINCERE Betsy con la loro scomessa:

Pecca di blasfemia, mandandolo proprio a quel paese e dicendogli le peggio cose.

Se c'è qualche cristiano tra i lettori, ve lo giuro, non voglio insultare alcuna religione, spero si sia capito che ciò è dovuto alla visione distorta, deviata e tossica che ha Beagatha proprio di Dio.

Tale rabbia nei confronti di IDDIO si dimostra anche con lei che si strappa il rosario – simbolo della sua condanna, lo rompe proprio, e inizia a sentire tutti I FILI (i famosi fili della catena) che cercano di riportarla a com'era prima, così, nel dubbio, strappa pure quelli, che non se sa mai nella vita.

BRV, PICCIOTTA MIA, LA TUA MAMMA (cioè io, mica Pezzemmerde) È SUPER PROUD OF U.

L'ULTIMO FILO è proprio quello che riguarda la catena, il capanno di Agatha, l'armadio, con cui si conclude il capitolo.

Agatha cioè capisce di star facendo la stessa cosa dei tre infami Lawrence, Pezzemmerde (che sì, se chiama Ruth, potete chiamarla pure "Rutto", se volete, perché se lo merita) e che la vittima innocente con cui se la sta prendendo è proprio SE STESSA.

AGATHA, BAMBINA, MI RENDI PIÙ FIERA DI QUANDO SONO RIUSCITA A INSEGNARE A TOXIC BOY OSCAR A CAGARE E PISCIARE FUORI E NON PIÙ IN CASA SUL TAPPETO PREFERITO DE MI MAMMA, NON CE SPERAVO PIÙ, LO GIURO.

Si ringraziano per questo traguardo:

Orange Boy

Minnie Red Flag

I gemelli

Lawrence (sì, lo so, pure lui? Sì, pure lui)

Lucas

Max

Rosemary

"Me ne sbatto i coglioni"

No, Pezzemmerde, te no, torna a marcì all'inferno, non te vole nessuno.

Comunque, tutta sta analisi faigha (almeno, spero lo sia), ve potrebbe servire in futuro proprio per Lawrence.

TECNICAMENTE questo capitolo avrebbe dovuto avere una terza parte col nostro Orange Boy preferito, ma alla fine me so detta:

"Wow, la seconda parte finisce proprio FIGA, che ganza che sono!"

Dato che i momenti in cui me penso da sola "WOW, CHE FIFA E GANZA che sono!" sono rari quanto la possibilità che Robert Pattinson dica che ama la saga Twilight e non si è mai pentito de avella fatta o quanto le fan di un Toxic Romance che accettino le critiche costruttive fatte al loro Toxic Romance senza sbranare vivi chi le ha scritte, me so rifiutata CATEGORICAMENTE di non ascoltarlo.

Perché dubito si riproporrà presto in futuro.

E così sì.

Finisce così.

Nel prossimo, però, ve lo giuro, torna Orange Boy.

E ci sarà anche una NEW ENTRY, già citata in passato perché:

1) Dante l'ha inculata più volte per poter inseguire Agatha usando i gemelli e la scuola che frequentano come scusa

2) Dante l'ha abbandonata nel bel mezzo del lavoro per salvare la sua Beagatha in pericolo

Ovvero...

FRANK

Sappiatelo:

Frank è un fanboy della Dantagatha.

Li shippa forse più di noi.

Perciò: BE READY.

SCIAU!

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