Lokum
«Woooow, quindi so questo i famosi lokulz?»
«Nono, Dory, non se chiamano lokulz, so' sicuro che se chiamano lokulto.»
«Quelli è dove la gente religiosa che non ce sta co' la testa te prova a comprà per poi fatte fa' vive con regole orrende tipo che non poi scopà fino a che non c'hai l'anello al dito.»
«E se poi dopo che te lo sei messo l'anello scopri che l'altro scopa da schifo?»
«Appunto, per questo so regole de merda.»
«Si chiamano lukum, non lokulz e men che meno lokulto.»
«Vedi, Dory, che t'avevo detto? Lokazzi, così se chiamano.»
«Comunque, Thaty, com'è che so tutti così colorati? Sembrano tipo zollette de zucchero gelatinose e arcobalenose. Lo sapevo che c'avevi 'na passione per My Little Pony, te ce vedo a commuovete per quando il cavalluccio se perde tra i boschi e piagne chiamando la mamma. Che donna. Una vera donna.»
«Sìsì, anche se la polverina bianca sopra te fa pensa' ad altro, eh, Thaty. Che ce voi fa entra' nel giro della droga?»
«Finché ce dai i tuoi soldi e continui a cucinacce ce va bene comunque, eh, sia chiaro.»
«Non c'è droga, è solo zucchero a velo. Sono così colorati perché ci sono tre gusti diversi: questo è all'essenza di rosa, questo ha le mandorle dentro e questo è al pistacchio.»
Ci fu un intero minuto di silenzio, mentre i due gemelli pestiferi, seduti al tavolo davanti a me, fissavano con occhi sbarrati il vassoio con la montagnetta di lokum che avevo preparato loro per quel giorno, come ricompensa per aver imparato a memoria i verbi irregolari.
A guardarli, si sarebbe potuto credere che davanti a sé avevano una valigia con dentro un milione di dollari.
«Thaty» mi chiamò Dorian a quel punto, «senti, ma com'è che sei ancora single, tu?»
Inarcai un sopracciglio, non mi aspettavo quella domanda.
Dory annuì. «Non se spiega» concordò col gemello. «C'hai praticamente il potere massimo del mondo: fa cibo bono. E c'hai pure quattro coglioni. Che grande! Che donna!»
Trattenni una risatina. «Non basta saper cucinare un po' bene per smettere automaticamente di essere single.»
«Mica cucini solo bene, te, cucini benissimo, e poi, come ha detto Dory, c'hai quattro coglioni, non due come gli altri, ce ne hai più persino de quel rompiballe.»
«Che vabbe', adesso pure un monocoglione ce ne ha più de lui, visto che se li sta a spaccà dalla mattina alla sera da giorni, i suoi.»
«Se lo merita pe' non ave' ancora capito de volesse scopà a Thaty.»
Mi venne da ridere di nuovo. «Pensate a mangiare i lokum, invece che pianificare qualche stratagemma con cui farlo adirare per niente» ribadii per la millesima volta. «Vostro fratello non è interessato a me in quel modo, rinunciateci»
Dietro di me Rosemary, seduta sul divano, intenta a guardarsi una telenovelas da cui provenivano lamenti sofferenti e grida maschili particolarmente teatrali, iniziò a tossire con forza più e più volte.
«Scusate» la udii dire, «un po' de catarro, 'na brutta bestia pe' le vecchie come me.»
Dory e Dorian assottigliarono gli occhi, per poi scambiarsi un'occhiata.
«Capisco, capisco» disse Dorian, continuando a fissare la sorella. Entrambi sorrisero con crudeltà. «Quindi è così, eh?»
«La giusta punizione pe' esseselo sempre lucidato fiero pe' tutte le cimici che gli vanno dietro.»
«Era ora che toccasse a lui capì che se prova. Lo sai che tocca fa, ve', gemella mia con la vongola?»
«Lo so bene, gemello mio coi coglioni, lo so bene. Come dice una gran donna, cioè io, più ce caschi dentro, più ce soffri.»
«Quindi famolo cascà forte.»
«Più forte de quanto se sta a martellà ora.»
Mi accigliai. «Di che state parlando?»
«Niente» cinguettarono insieme, tornando a guardarmi.
«Se' fantastica, Thaty» dichiarò Dorian, mentre allungava la mano per prendere un lokum e metterselo in bocca. «Se' praticamente tutto ciò che avemo sempre desiderato.»
«La sua più grande sofferenza.»
Aprii la bocca per chiedere che intendessero, ma la voce mi appassì in gola, quando udii il rumore della porta d'ingresso che si apriva. Subito andai con gli occhi al cellulare accanto a me: erano le sei e mezza passate. Non avevo badato all'orario, presa com'ero stata a studiare con i due piccoli criminali, e così non avevo potuto prepararmi mentalmente prima all'idea di rivedere Dante.
Dal nostro ultimo incontro, era ancor più imbarazzante, sapendo che aveva visto per bene le condizioni pietose del mio viso. E quel martedì sera, poi, erano ancor più tremende, visto quanto discusso con mio padre al mattino, le sue rivelazioni. Quando mi ero guardata allo specchio, prima di uscire di casa per andare dai gemelli, a stento avevo avuto il coraggio di incrociare i miei occhi: ero persino più pallida del solito e faticavo ad ogni secondo a nascondere il turbamento che mi stava torturando da quando si era concluso quell'incontro con mio padre.
E se lui si era sconvolto così tanto domenica, non immaginavo come l'avrebbe fatto ora, nel trovarmi con quell'aspetto.
In testa avevo provato a crearmi varie scuse con cui scappare via prima che rincasasse, di modo da non incontrarlo, ma avevo avuto paura che, nel farlo, avremmo ripreso a discutere di nuovo e quindi il rischio che avessi ancora più a che fare con lui sarebbe aumentato a dismisura.
Avevo persino preso in considerazione la possibilità di scrivergli e dirgli che mi ero presa una brutta influenza, e che perciò non potevo andare dai gemelli per quei giorni, ma avevo la netta sensazione che mi avrebbe smascherata subito e soprattutto, desideravo davvero dare a quei due pestiferi i lokum, visto quanto si erano impegnati per imparare a memoria tutti quei verbi irregolari.
Così, la sola tattica che mi venne in mente fu quella di far cadere più ricci possibili davanti al mio viso e fissare in modo ossessivo quegli stessi lokum che erano la causa principale di tutto.
Udii i suoi passi avanzare dentro l'appartamento, e poi la voce di Dorian: «Ohi, rompiballe, guarda che ha preparato Thaty!»
«Sìsì, guarda un po'! I dolcetti che c'aveva promesso! Avemo imparato tutti quei verbi irregolari e così ce li ha fatti! Che grande! Che donna!»
Avvampai, continuai a fissare i maledetti dolcetti.
«E so pure de gusti diversi!» proseguì Dorian, e io avrei solo voluto iniziare a sbattere la testa contro il tavolo fino a farmi esplodere le cervella, soprattutto perché stavo sentendo gli occhi di Dante su di me, e quindi, inevitabilmente, il mio rossore aumentava e aumentava ancora, non c'era mai fine a quanto potessi umiliarmi.
«Mmm... buona sera» gracchiai a quel punto, stringendomi le mani sopra le cosce.
«So' quei dolcetti turchi che dicevi domenica?» lo sentii chiedermi, la voce profonda di sempre, ed io annuii. Mi era difficile davvero capire che emozioni stesse provando solo ascoltandola, ma non avevo cuore di guardarlo in viso, la mia faccia era davvero tremenda a vedersi quel giorno. «Come se chiamavano? Lokuli?»
Scoppiai a ridere senza neanche accorgermene. Era ovvio da chi i gemelli avevano appreso l'arte di storpiare i nomi dei cibi in quel modo. Il suo sguardo su di me si fece pesante, e subito, nell'avvertilo, mi costrinsi ad ammutolirmi subito. Ci mancava solo che pensasse lo volessi prendere in giro, come se il nostro rapporto non fosse già in una situazione drammatica di suo. «Lokum» bisbigliai alla fine. «Si chiamano... ehm, lokum.»
«A proposito, Thaty» sollevai appena lo sguardo, Dorian stava addentando un dolcetto dietro l'altro, «com'è che hai scelto proprio 'sti gusti?»
«Oh» risposi, sorpresa da quella domanda. «Beh... a te piacciono i pistacchi e a Dory le mandorle, no? L'avevate detto mentre studiavamo quel dipinto di natura morta insieme.»
Mi irrigidii. Santo cielo, iniziavo a credere di aver sviluppato sul serio un super potere: sentivo lo sguardo di Dante addosso come delle vere e proprie pugnalate. Cos'avevo sbagliato ora?
Pensava li stessi viziando troppo?
Mi rifugiai da lui fissando i gemelli, per qualche motivo sembravano divertirsi come non mai adesso, gongolavano proprio. «Ehhhh» esalò Dory con un sorrisone, mentre addentava un lokum. «E quello alle rose?»
«Oh, quello è perché...» Davvero, perché continuava a fissarmi così? Riusciva a vedermi comunque bene il viso, nonostante i capelli? Era arrabbiato perché pensava non fossi abbastanza autoritaria con quelle due piccole pesti? «L'essenza di rosa...» Il mio volto era praticamente un incendio. «È il gusto più delicato... quindi... può piacere anche a chi... non va molto dietro ai dolci.»
Come vostro fratello.
«Come Rosemary» buttai fuori tutto d'un fiato, e lei, sempre alle mie spalle, tossì di nuovo con furia.
«'Sto catarro. Tremendo, davvero tremendo. 'Na piaga per noi vecchi.»
I sorrisi dei due gemelli erano più felici che mai. Dory iniziò a canticchiare a labbra chiuse Jingle Bells, di risposta Dante le rubò il lokum che stava per addentare.
«Ehi! Ladro! Criminale! Non prendertela con noi, prenditela con i tuoi coglioni! È tutta colpa loro, mica mia!» si lamentò.
«Lilith, continua a parlà e te ritroverai appesa a un soffitto pieno de cimici» sentii Dante dirle con tono severo.
«Ormai tanto de cimici non ce sta' più manco una» replicò tagliente Dorian. «Tutto merito nostro, ovviamente.»
Non sapevo davvero che fare. Se me ne fossi andata ora, Dante avrebbe subito intuito che era perché volevo evitarlo, e sì, era davvero così, e proprio per questo non potevo farlo.
Un tempo, davanti a occasioni del genere, io e Betsy usavamo la tecnica da lei soprannominata "Chiamata-salva-sorelle". Quando una di noi due si trovava in una situazione scomoda da cui non sapeva come fuggire, scriveva all'altra che, di risposta, la chiamava e fingeva un'improvvisa urgenza, così da darle la scusa perfetta con cui scappare via.
Ma ormai non avevo più nessuno, nemmeno qualche conoscente a cui richiedere quell'intervento, e mi rifiutavo di contattare Minnie per quello. D'altro canto, aveva preteso il mio numero di telefono perché aveva scoperto che sapevo cucinare dolci, sarebbe stato imbarazzante al massimo chiederle quel favore quando non ci conoscevamo nemmeno.
Tutto ciò era sempre più ridicolo: se mi fossi trovata in un simile contesto anni prima, non solo ne sarei stata estasiata, ma addirittura avrei fatto di tutto per poter ricreare quell'evento, solo per avere la scusa perfetta per fare la fangirl nei confronti di quell'uomo.
E invece eccomi lì, ora, disperata, alla ricerca di qualsiasi giustificazione per poterlo evitare.
Una parte di me voleva sul serio lasciar crollare tutti i timori che avevo su di lui, sulla paura profonda che continuasse a giudicarmi e a condannarmi costantemente, qualunque cosa facessi, visto quanto mi aveva detto e il modo in cui mi aveva difesa da Max, ma il resto di me si opponeva con ogni forza a quella proposta.
Il rischio di rimanere ferita un'altra volta, di commettere l'ennesimo errore, era troppo alto.
Un lato positivo in tutto ciò però c'era: preoccupata com'ero da lui, quanto scoperto sul conto di mio padre e sulla mia nascita veniva soffocato da tale ansia, quindi... forse era un bene? Nemmeno io sapevo stabilirlo, ma volevo vederla in chiave positiva.
«Giovanotta» sentii chiamarmi Rosemary, «so che è un po' tardi, ma ti andrebbe un po' di caffè?»
Quella domanda mi fece tirare un sospiro di sollievo. «Sì, grazie» dissi veloce. «Mmm... posso... posso prepararlo io, l'ho già fatto.»
Era la scusa perfetta per allontanarmi da quel tavolo e correre in cucina. Mi vergognavo da morire all'idea di comportarmi in quel modo, come se quella fosse casa mia, ma rispetto alla vergogna di stare vicina a Dante era niente.
Se non fosse stato il fatto che, mentre preparavo la macchina con meno velocità possibile, sul ripiano della cucina, per rimandare il mio rientro al tavolo, non lo udii alle mie spalle avvicinarsi.
Stavo per spaccarmi sul serio la testa contro il muro.
Perché faceva così? Davvero, non lo capivo. Era palese che non gli piacessi, specie per come i suoi fratellini lo prendevano in giro per colpa mia, quindi perché insistere in quel modo, se dichiarava poi che non aveva più sospetti sul mio conto? Se fossi stata al suo posto, avrei fatto di tutto per interrompere qualunque forma di comunicazione.
«Tu non li mangi?» mi chiese, ora alla mia destra, ed io fissai ossessivamente il caffè macinato davanti a me, che stavo mettendo nel filtro della macchinetta.
Lentamente.
Molto lentamente.
«C-Che cosa?»
«I lokuli.»
Mi schiarii la gola per non ridere. «Non... Non ci vado molto matta.»
«Non vai molto matta per tutto quello che cucini, in realtà.»
Quindi se n'era accorto. Era davvero così palese? Un'altra grande, immensa umiliazione per me. E non avevo il coraggio di dirgli che ormai non riuscivo più ad apprezzare niente di quanto preparato con le mie mani, a stento ne sentivo il sapore.
«È che...» Avrei solo voluto smaterializzarmi, in quel momento. «Mmm... Non sono molto soddisfatta... dei risultati.» Aggrottai la fronte, mentre mi spostavo un po' a sinistra per riempire una tazza presa dai pensili con l'acqua fredda da versare poi nella caffettiera. Di per sé non era propriamente una scusa, quella, perciò non avevo motivo di sentirmi in colpa.
«Se non fossero buoni risultati, fidati che quei due flagelli manco li toccherebbero.»
Calai l'acqua nella macchinetta, avrei voluto farla scendere una goccia alla volta, così da prolungare il periodo in cui non ero costretta a guardarlo. «Non sono così brava» balbettai, e anche quella era la verità, «me la cavo un po', tutto qui. Alla... Alla scuola di cucina... c'erano ragazzi... molto più capaci di me, credimi.»
«Te lo dicevano gli insegnanti, questo, o era una cosa che ti pensavi da sola?»
La voglia di spaccarmi la testa contro il muro si faceva di secondo in secondo sempre più forte.
«Perché lo chiedi?»
«C'ho i miei dubbi che fossero tutti così più bravi de te, visto che cucini praticamente da quando sei in fasce.»
«Non... da così tanto...» ribattei, vermiglia ovunque. Cliccai il pulsante per avviare la caffettiera. «Solo... Solo da quando... avevo dieci anni.»
«Solo?»
Stavo seriamente contemplando la possibilità di versarmi il caffè bollente sulla gamba, appena fosse stato pronto, così da poter scappare via con una bella visita all'ospedale.
«La quantità d'anni... non garantisce la qualità dei piatti» dichiarai, ascoltando il rumore della macchinetta che partiva.
«Direi che nel tuo caso lo fa.»
Mi stava prendendo di nuovo in giro? E poi perché insisteva così tanto su quell'argomento? «Non saprei...» risposi alla fine, scrutando il caffè che iniziava a riempire la caraffa e immaginandomi già scenari in cui accidentalmente me lo rovesciavo addosso. «Ci sono moltissime persone... che cominciano tardi, ma hanno... talmente tanto talento da superare... i miei anni d'esperienza.»
Un'altra verità, non stavo mentendo, non avevo motivo di vergognarmi, ma comunque lo feci lo stesso.
«C'hai uno strano modo, te, de valutatte.»
Mi accigliai. «In che senso?»
«C'ho la forte sensazione che c'hai la tendenza a darti la zappa sui piedi ad ogni occasione possibile.»
Quella doccia di caffè bollente si stava facendo sempre più allettante.
«Non è una zappa sui piedi... sono solo... realista» mi opposi imbarazzata.
«L'ultima volta che so andato a guardare sul dizionario, realismo non significava buttà giù come birilli le proprie capacità.»
Adesso lo volevo rovesciare quel caffè, sì, ma non più su di me, bensì su di lui.
«Esser consapevole dei miei limiti... non vuol dire che mi butto giù come un birillo» continuai a difendermi. «Te l'ho detto, sono solo un po' discreta... tutto qui.»
Continuava a guardarmi e io continuavo a progettare nuovi piani con cui provocare o a me o a lui o a entrambi un'ustione di quarto grado. No, forse entrambi era meglio di no, perché così saremmo dovuti correre all'ospedale insieme.
Solo io o solo lui.
«E poi...» osai dire alla fine, «non è così importante... non vedo perché continuare a parlarne.»
«Sentiamo, allora, nella tua scala de valori, cosa sarebbe importante?»
Non smisi di fissare il caffè che scorreva lento. Quella domanda mi lasciò confusa, aveva ancor meno senso di tutto il discorso fatto fino a quel momento. «Perché ti interessa?» chiesi a quel punto, più perché non osavo rispondergli che perché mi incuriosiva saperlo. D'altronde, conoscevo già il perché, ed era tutt'altro che positivo. «Se è perché vuoi conoscermi... te l'ho detto, non c'è nulla di che... da sapere sul mio conto. Sono un po' brava a cucinare e sono una secchiona... tutto qua.»
«Mi correggo: tu non usi 'na zappa, usi direttamente un fucile.»
Avvampai. «Non è così...» ripetei, e finalmente la macchinetta si spense. Mi sbrigai a versare il caffè nelle tazze. Avevo già preparato le due per me e Rosemary, dato che lui non lo prendeva mai.
«Non ti facevo tipa da caffè amaro» lo sentii commentare, mentre mi scrutava versare mezzo cucchiaino di zucchero in una delle due tazze.
Non c'era davvero fine al mio rossore. «È per Rosemary...» balbettai. «Lei lo prende sempre così... subito dopo pranzo, domenica, perciò...» Dio, che vergogna. Ai suoi occhi dovevo apparire una stalker, adesso, la degna figlia di mio padre. E non potevo nemmeno biasimarlo per questo. Mi affrettai a versare i due cucchiaini per la mia tazza e a giustificarmi: «Me ne sono accorta per caso, ecco.»
Rosemary, dal divano, tossì di nuovo.
«'Sto catarro dannato.»
Dory, prima intenta a confabulare sottovoce col fratello, riprese a canticchiare Jingle Bells.
«Di'» sentii lui parlarmi, «per caso te ne sei accorta?»
Mi irrigidii, iniziando a girare lo zucchero nel caffè col cucchiaino con forza, mentre aspettavo che si raffreddasse. «Mmm... sì.»
«Come per caso te sei ricordata che a quei due flagelli piacciono pistacchio e mandorle?»
Ero praticamente fuoco puro ormai.
«E sempre per caso te sei accorta delle differenze tra le scritte da gallina di quelle due bestie sataniche?»
Mi accorsi di star girando troppo velocemente il cucchiaino, al punto che il caffè aveva iniziato a gocciolare fuori dalla tazza. In fretta presi una pezza dal lavandino per ripulire il ripiano appena sporcato. «Lo so che sembra... inquietante, ma non... non è per quello, è solo che...» provai a difendermi, nel delirio del panico. «Mi capita... di accorgermene di tanto in tanto.»
I colpi di tosse di Rosemary adesso furono così forti che esplosero come delle vere e proprie bombe.
E persino Dorian si era messo a canticchiare con la sorella.
Lo sentii sospirare, mentre strofinavo con furia la pezza sul ripiano ormai pulito e lucido da tempo. «Non è questo che sto a di'.»
Con non so che coraggio domandai: «Allora che intendi?»
«Te sto a fa' vedere come quello che hai detto prima non c'ha senso.»
La confusione fu così tanta che mi ritrovai a guardarlo in faccia, pur cosciente dello stato pietoso in cui era la mia. Non sembrava adirato e men che meno inquietato, ma non sapevo proprio come interpretare l'espressione che aveva in viso.
«Nel senso... che sono una precisina?» chiesi a quel punto, più smarrita che mai.
Aggrottò la fronte. «Quand'ho detto questo?»
«La prima... la prima domenica che ho pranzato qui.»
Il colpo di tosse di Rosemary, questa volta, fu un vero e proprio tuono.
«N'epidemia de catarro, non se spiega proprio.»
Si stava alterando? Non lo sapevo proprio, ma il fatto che stava corrugando così le sopracciglia certo non era un buon segno. Era meglio svignarmela da lì il prima possibile. Afferrai le tazze per il manico e a passo svelto uscii dalla cucina aperta, avanzando verso Rosemary, ancora sul divano a contenere i colpi di tosse. Aveva la faccio così rossa a causa di essi, adesso, che le si erano persino formate le lacrime agli occhi.
«Grazie, giovanotta» mi disse, mentre le porgevo il suo caffè e lei cercava di riprendersi.
«Se vuoi ho delle caramelle per la gola» le suggerii, quando prese la sua tazza.
«Nono, sia mai, questa tosse ne vale la pena, giovanotta. È puro piacere, fidate de me, manco Mercedes m'ha fatto gode' così tanto.»
La guardai smarrita, lei mi mostrò il pollice all'insù, un sorriso sulle labbra. «Tu se' la perfette legge del contrappasso, giovanotta» dichiarò. «Te meriti tutta la mi' stima.»
Da quando ero stata coinvolta da quell'assurda famiglia, l'emozione che provavo con più forza e costanza era sempre la confusione.
Avevo l'impressione che se le avessi chiesto qualcosa in merito, non mi avrebbe risposto, perciò tornai a sedermi al tavolo, davanti al duo criminale, ancora preso a canticchiare Jingle Bells, e proprio allora Dante apparve dietro di loro, funesto.
«Lo sapete che fine faranno i vostri amati mazzi de carte de Yu Gi Oh se continuate così?» li minacciò.
«Se spera non la fine delle tue palle» rispose Dorian, addentando un altro lokum, con tutto lo zucchero a velo a imbrattargli le labbra.
«Già già, comunque puoi pure andalli a cercare per prenderli, fratello mio coi coglioni rotti.»
«Ma durante la tua ricerca, te troverai anche altro» proseguì Dorian.
«Tipo alcune foto...» la voce di Dory si fece commossa.
Dorian si posò una mano sul petto, a occhi chiusi enunciò tragico: «Storia di due coglioni spezzati: così avemo chiamato una de quelle foto.»
La sua gemella simulò un singhiozzo disperato: «L'amore ai tempi delle cimici.»
«Via colle palle» proseguì l'altro, fingendo di asciugarsi una lacrima.
Dory sollevò le braccia in aria, come se fosse su un palcoscenico a parlare col pubblico, e continuò con voce melodrammatica: «An asshole is born.»
«La verità è che non le piaci abbastanza. Spoiler: te detesta proprio.»
«Se mi insulti ti cancel-Ahhhh! Maledetto! Dannato scopacimici! Mollami! Non è colpa mia se non potrai più scopà pe' i prossimi mesi!» Dory strillò con così tanta violenza da farmi sanguinare i timpani, non appena Dante la afferrò per la vita, sollevandola come se fosse una piuma dalla sedia e posandosela sulla spalla a mo' di sacco di patate.
Lui la ignorò, anche mentre lei le batteva i pugni contro la schiena con tutta la forza che disponeva. Si voltò a guardare il fratellino minore, con voce spietata sillabò: «Stavolta è toccato a lei, la prossima volta tocca a te.»
Dorian sussultò sulla sedia, impallidendo visibilmente.
L'istante dopo, a passo lento ma deciso, Dante si diresse verso la porta del bagno e vi entrò dentro, con Dory che continuava a gridare: «NON CE PROVA', BASTARDO! NO! IL LAVAGGIO NASALE NO! LAVATELO TU IL NASO! IL MIO È PULITISSIMO! TE SENTO ANCORA PERSINO IL PROFUMO DA CASSONE D'IMMONDIZIA DE QUELLA CIMICE CHE TE SEI PUPPATO UN MESE FA! NO! LASCIAMI, SCOPACIMICI!»
La porta si richiuse, facendo sparire le figure di Dante e di Dory. Pochi secondi di silenzio, e poi delle bestemmie e insulti continui e disperati da parte dell'unica bambina della famiglia.
Ero allibita.
Passarono un paio di minuti, d'improvviso silenziosi, e dopo la porta del bagno si riaprì.
Dory fu la prima a riemergere, e dopo un po' di passi si accasciò a terra, a mezzo metro da dov'ero seduta io, in ginocchio, le mani sul pavimento, la testa che non osava risollevarsi a guardare ciò che aveva attorno, coi capelli biondi a nasconderla: sconfitta in tutto e per tutto.
«Me scaccolerò così a fondo da arrivare alle cervella e te le lancerò come fossero fionde mentre dormi» guaì in un lamento, mentre Dante a sua volta riusciva dal bagno.
Ero scioccata. Quindi era quella la carta che Dante usava per rispondere alle continue prese in giro e i tormenti dei suoi fratellini: il lavaggio nasale. Uno dei fastidi più noti per i bambini.
Vedere Dory così sconfitta, per la prima volta da quando la conoscevo, così umiliata non per aver subìto quel lavaggio nasale, bensì per essere stata lei a perdere contro il fratello maggiore, fu una visione talmente assurda che la risata nacque in me da sola.
Provai a contenermi, specie quando Dante fece guizzare i suoi occhi su di me, ma risultò una guerra persa in partenza. Quella famiglia, al di là di tutto, era davvero una commedia vivente, e non solo i gemellini, ma a suo modo anche il fratello maggiore.
Le risatine mi attraversarono e fiorirono dentro in continui boccioli che andarono a decorare e quasi lenire tutte le spine che mi stavano crescendo all'interno dalla conversazione con mio padre e quanto scoperto da essa. E tutti quei roveti che erano andati a sostituire i ricordi felici di una volta parvero perdere la loro durezza e crudeltà, le punte taglienti, capaci di bucare qualsiasi desiderio, vennero smussate dalla morbidezza di simili petali.
Mi tappai la bocca con la mano, disperata, tentando di tutto per ingoiare quelle risate, ma di nuovo fallii. Era così assurda tutta quella vicenda che proprio non ci riuscivo e più le risate mi sdrucciolavano dalle labbra, più il rossore alle guance si faceva forte.
«Scusate» balbettai tra l'imbarazzo e il divertimento, «è solo che... oddio.» Altri ghigni mi scossero, sentivo lo sguardo di tutti su di me, e comunque non bastò a frenare la mia ilarità. Non ebbi il coraggio di scorgere come Dante mi stava fissando, visto che mi sarei sentita più umiliata che mai.
Mi voltai di nuovo al tavolo, con il corpo che mi tremava ovunque, affogai quelle risate nel mio caffè. Alla mia destra, udii Dory dire: «Non te gasare troppo, fratello mio senza più coglioni, è tutto merito mio, che te credi.»
Prima di andarmene via da casa dei gemelli, mentre quest'ultimi erano intenti a confabulare nella loro stanza, dopo aver speso gran parte del tempo a ingozzarsi di lokum, fui costretta per forza di cose a parlare con Dante.
Avrei voluto davvero evitarlo, ma non avevo altra scelta, visto che era l'unico a cui potevo rivolgermi per quello. Avevo pensato di farlo coi gemellini, ma ormai li conoscevo, sapevo che, dando a loro quello che avevo preparato, se ne sarebbero impossessati senza alcuna vergogna.
Così, una volta che Rosemary fu rientrata al proprio appartamento, prima di andarmene, mi avvicinai a lui intento a ripulire nel lavandino la caffettiera usata mezz'ora prima, e posai quello che avevo preparato proprio sul ripiano della penisola che ci separava.
Quando li scorse, aggrottò appena le sopracciglia. «Cosa sono quei due contenitori?»
Arrossii un po', ovviamente, e chinai lo sguardo sui due contenitori quadrati, di plastica, che avevo lasciato lì, quello a sinistra azzurro e quello a destra rosa. «Mmm... sono altri lokum» spiegai. «Per... Per Minnie e Max. Mi chiedevo... se potessi darglieli, quando li rivedrai.»
Inarcò un sopracciglio.
«Ho... Ho notato che Minnie... mangia parecchio i dolci, perciò ho pensato... fosse meglio preparare un contenitore tutto per lei» balbettai imbarazzata. «I lokum... non hanno ingredienti di derivazione animale, quindi anche Max può mangiarli. Dato che c'ero... li ho preparati anche per loro, visto che... beh, visto che, sai...» Era un miracolo che i capelli non avessero già preso fuoco, visto come stavo arrossendo sotto il giudizio del suo sguardo.
Ci fu un minuto buono di silenzio, mi morsi l'interno delle guance come al solito, a causa del nervosismo, fissando i due contenitori di plastica.
«Minnie non t'aveva dato il suo numero di telefono?»
Sussultai. Aveva ragione, l'aveva fatto eccome. E più che darmelo, mi aveva obbligata ad accettarlo.
«Perché non le scrivi tu diretta?»
Avevo immaginato me l'avrebbe chiesto, la sua era una domanda lecita, il problema era che non volevo in alcun modo rispondere con la verità.
Betsy era morta per causa mia.
Un sacco di persone avevano perso la vita per causa mia.
Per la mia disattenzione, per la fiducia cieca che avevo riposto in mio padre, l'amore che tuttora provavo per lui.
Come debito da scontare per quel desiderio esaudito.
Più non avevo alcun diritto ad avvicinarmi ad altre persone, a stringere dei legami, a perdere di vista il solo obiettivo che dovevo perseguire: accettare la mia punizione e attendere il 5 agosto.
Stavo già sbagliando ad andare lì, a casa loro, ogni giorno, affezionandomi in quel modo ai gemellini, a quella famiglia così particolare, dovevo arginare il danno per quel che mi era possibile.
Da quando il segreto di mio padre era stato scoperto dal mondo, ogni giorno mi svegliavo e la prima cosa che vedevo, aprendo gli occhi, erano le foto che mi erano state poste sul tavolo, nella sala interrogatori.
I suoi dannati trofei.
Il cranio della mia migliore amica.
Il volto di Joanne devastato dal dolore primitivo della perdita, quello di Lucas rassegnato a una sofferenza che mai più avrebbe abbandonato lui e sua moglie.
E anche nel desiderio ingiusto di avvicinarmi più a Minnie, quella ragazza che tanto mi piaceva col suo carattere serio e deciso e che in qualche modo mi accalorava il cuore per l'eco che mi donava della forza di Betsy, non potevo che sentirmi appassire, perdere un petalo alla volta.
E da ciascuno di quei petali caduti, dallo strappo della decadenza, il sangue di tutte quelle vittime fuoriuscire, una ferita aperta a ledermi l'anima.
Camuffai per quel che potevo quell'afflizione così nota al mio cuore, già a modellarmi il viso, e biascicai: «È meglio... meglio di no. Io... te l'ho detto, non sono... non me la cavo bene con gli altri.»
I suoi occhi su di me, come due coltellate al cuore, continuai a fissare i lokum. Mi chiesi se si stesse domandando se anche quello era un tentativo di comprarlo e apparire una brava ragazza, o se davvero mi credesse anche solo in parte, ma non osavo sperarci troppo.
«Se anche glieli dessi io» lo sentii pronunciare, dopo qualche secondo, «Minnie come minimo te verrebbe a cercà per ringraziarti de persona. Non è il tipo che se sta zitta e accetta e basta. Stessa cosa quel coglione de Max.»
Mi irrigidii. «Allora... mmm... di' loro... che sono avanzati da quelli che ho fatto per voi, così-»
«Perché vuoi scappà così?» Sobbalzai davanti al suo quesito, le guance ripresero a bruciarmi. «Li hai fatti per loro, 'sti dolcetti, no? Quindi tocca a te daglieli, non a me.»
Un ragionamento impeccabile da parte sua, non potevo dargli torto.
«Meglio di no...» ripetei con esitazione, riprendendo a torturarmi le dita. «Io... non sono brava in queste cose, rischierei soltanto... di far danni.»
«Come si fa a fa' danni dando dei semplici dolcetti?»
Un altro ragionamento impeccabile. Più quella conversazione andava avanti più mi metteva in trappola ed io proprio non sapevo che scusa inventarmi, faticavo persino a mascherare il dolore che mi squassava il cuore e scivolava nel sangue, incarnandosi in ciascuna delle sue gocce.
«Li hai visti, come so' quei due: uno è un coglione che ragiona con le palle, l'altra è 'na stronza immensa che se ne fotte de tutto e tutti. Non te giudicheranno o penseranno male de te per una cosa del genere.»
La mia bocca si storse da sola. «Non è... Non è quello.»
«Allora cos'è?»
Manco di rispetto a tutte quelle vittime, facendolo.
«Penso solo... che sarebbe meglio così.»
«Lo pensi tu o è quello che t'hanno detto gli altri?»
La sua domanda fu una vera e propria doccia d'acqua ghiacciata, non potei nemmeno nasconderlo, fu così improvvisa e diretta che tutto lo strazio mi gocciolò addosso e in viso, non ebbi modo di mascherarlo.
«Ohi.»
Per la prima volta, venir chiamata così non mi irritò come al solito, al contrario mi indusse a trovare l'audacia per risollevare il capo dai lokum e guardarlo in faccia.
Non era irritato, men che meno adirato, aveva lo stesso viso un po' severo di sempre, con le sopracciglia appena contratte. «La tua amica» pronunciò e di nuovo io trasalii, «era quel genere de persona che sarebbe stata felice, se tu te fossi isolata così?»
I muscoli ripresero ad impietrirsi.
«Perché da quel che m'è parso de capire, non era una che t'avrebbe fatto gli applausi, a vederti che ti neghi 'sta possibilità de avvicinarti agli altri. E manco una che se sarebbe offesa a morte, se stringessi amicizia con qualcun altro.»
Mi chiesi come facesse a saperlo, visto che rare erano state le occasioni in cui gli avevo parlato di Betsy.
«La mia amica...» gracchiai a fatica. «È stata uccisa da mio padre.»
«Tu non sei tuo padre.»
Gli occhi mi bruciavano con così tanta furia che a fatica riuscivo ancora a vedere il suo viso, ma riuscii a ricacciare indietro le lacrime. «Quello che deve scontà la pena per quanto fatto è solo lui, non te. Se bastasse uscì fuori da un criminale per esse criminali, tre quarti del mondo starebbe in gattabuia.»
Era avvilente rendermi conto di quanto la mia incoscienza desiderasse credere alle sue parole, di quanto si straziasse, dilaniasse, solo per potersi illudere che quanto da lui detto fosse la verità. E in realtà sapevo anche che aveva ragione: se avesse fatto questo discorso a qualcun altro, mi sarei trovata d'accordo con lui.
Ma io ero diversa, ero sempre stata diversa.
Io ero mostro da ben prima che si scoprisse la verità su mio padre, lo ero da che ero venuta al mondo e avevo confermato tale natura il giorno in cui Dio aveva realizzato il mio desiderio.
Solo che non potevo dirglielo.
Non osavo farlo.
Avevo giurato, io, e quel patto, se infranto, avrebbe potuto portare a conseguenze devastanti, forse persino più gravi di quelle che si erano poi mostrate quel giorno, nella sala interrogatori.
«È comunque... meglio non avere troppo... a che fare con me» mi ritrovai a dire a quel punto, non sapendo più a cosa appellarmi, con tutta la verità a traboccarmi in gola, bloccata però dalla prigione della promessa. «Per questo... penso che sia più adatto... che sia tu a darglieli.»
Mi guardò per qualche secondo in silenzio, a fatica riuscii a sostenere i suoi occhi, poi, d'improvviso, sospirò. Tirò fuori il cellulare dalla tasca grande dei jeans e, senza dire una sola parola, scattò una foto ai due contenitori.
«C-Cosa stai facendo?» chiesi, tra la preoccupazione e lo smarrimento.
«Sto a scrive a quella stronza de Minnie» rispose, mentre digitava sulla schermo. «"La tua nuova migliore amica t'ha preparato dei dolci, a te e a quel coglione, ma c'ha paura de datteli e sta per scappà via. Pensace tu."»
Spalancai la bocca, stupefatta. «Non-»
«T'ho detto che non so' così stronzo, sì, ma stronzo un po' lo so' comunque» mi bloccò.
Il cuore mi batteva così forte in petto che lo sentivo surclassare persino il suono dei pensieri, e ciò che più mi stupiva era che, nonostante la violenza di quei battiti, comunque non mi faceva male, al contrario... era quasi confortante.
La vergogna prese a tinteggiarmi ancor più il viso, mentre provavo ad obiettare: «Non... Non è giusto che... non rispetti così la mia volontà.»
«Quella non è la volontà tua, è quella che t'ha ficcato in testa il mondo.»
Ebbi il bisogno impellente di scoppiare a piangere, ma non sapevo se per il sollievo per esser stata così compresa o per l'agonia dei sensi di colpa. Ero stupefatta anche da come si stava comportando: ero sicura che ancora avesse dei sospetti su di me, proprio non comprendevo quindi perché reagire così, non si poteva nemmeno dire che gli stessi simpatica.
Sbattei le palpebre almeno un centinaio di volte, pur di buttare in gola le lacrime e impedir loro di ingioiellarmi le ciglia. «Non me la cavo con le persone, te l'ho detto» dissi con voce rauca.
«Comunque è troppo tardi, gliel'ho già mandato.»
«Cancellalo prima che lo legga.»
«Impossibile. So' stronzo.»
Non sapevo nemmeno cosa provare: in parte mi sentivo divampare dalla rabbia, in parte invece volevo esplodere in un pianto a dirotto. Entrambe quelle sensazioni mi umiliavano come non mai.
«Non avevi detto...» biascicai disperata, «che volevi dimostrarmi... di non essere così stronzo?»
«Appunto: così stronzo. Ma come t'ho ripetuto: un po' stronzo lo so comunque.»
E lui... sollevò l'angolo sinistro delle labbra, rimettendo il telefono in tasca.
Mi sorrise sfacciato, divertito come non mai.
Una vampata di fuoco mi attraversò e incendiò ogni cellula, tramortendo la mia proverbiale timidezza. La fronte mi si contrasse da sola, strinsi le mani in due pugni. Ecco da chi avevano imparato i gemelli. «Non... Non conviene a nessuno... avvicinarsi così a me.»
«Me sa che tu non l'hai capito bene, ma quella là, Minnie, è più bestia de Satana dei due flagelli messi assieme. So' sicuro che se ne va in giro per la città con molto più di un taser. Se un camion la investisse, lei ne uscirebbe illesa co' tutte le ossa a posto e manco un graffio, il camion invece ne uscirebbe come 'na scatoletta de tonno schiacciata.»
Non mi sentivo più la faccia, ormai, e nemmeno ero in grado di distinguere i migliaia di sentimenti che mi stavano affogando. «Non-»
«Credo che tu ormai l'abbia intuito, ma io so' de coccio molto più de te. Non ce riuscirai a farmi cambia' idea, te conviene arrenderti.»
Sigillai le labbra e quando lo sentii sghignazzare, un suono così strano alle mie orecchie, visto che mai l'avevo sentito, l'irritazione prevalse su tutte le altre emozioni, avvampandomi. «Non è... Non è divertente... quello che stai facendo» balbettai.
«Non rido per questo o di te. Rido perché mai avrei pensato che me sarei trovato a discute per convince una a fa' amicizia con Minnie. Di solito anzi glie ricordo che è 'na condanna, non un'amicizia.»
«Appunto-»
«So' de coccio.»
«Non c'è-»
«De coccio molto più de te.»
Si stava divertendo come non mai davanti al mio nervosismo e alla mia faccia di fuoco, con quel sorrisetto impertinente, e la cosa assurda era che, sebbene terribilmente infastidita, quella rabbia non mi divorava dentro a differenza delle nostre altre discussioni, men che meno mi induceva a temerlo come al solito.
«E dato che so de' coccio» aggiunse a quel punto, infilando la mano dentro l'altra tasca del pantalone, per poi tirarne fuori... uno strano cofanetto di metallo, rettangolare, che posò sul ripiano della penisola che ci separava, «hai detto che non vuoi esse pagata, ma come ormai sai, non mi piace sta' in debito con qualcuno, perciò questo è il tuo pagamento per compiere il miracolo de fa' usare i cervelli morti a quelle due reincarnazioni del diavolo.»
Aggrottai la fronte, confusa, fissando quella strana scatoletta. «Non ho bisogno di-»
«De. Coccio.»
Quasi ero sul punto di tirarglielo in faccia, quel cofanetto, soprattutto perché il suo divertimento si stava facendo sempre più forte davanti al mio sdegno, ma ero così smarrita da quella situazione a me del tutto nuova che non ero sicura di come comportarmi.
Così, dopo un attimo di esitazione, avvicinai a me la scatolina e sollevai il coperchio.
Gli occhi mi si sbarrarono da soli quando vidi cosa conteneva.
«Non so' ricco come te, come ribadito da quella bestia di Dorian ogni secondo della sua vita, perciò non te posso da' la versione vera, ma penso tu te possa accontentà de questa.»
Era il modellino tascabile di Herbie.
Herbie di Il maggiolino tutto matto della Disney.
Identico in tutto e per tutto a quello del film.
Se l'era ricordato.
Pensavo l'avesse dimenticato l'istante dopo che glielo avevo citato, invece l'aveva ricordato per tutto quel tempo.
Il rogo che mi travolse nel realizzare ciò, nel vedere il mio primo vero regalo dopo quattro anni di solitudine, si diffuse così in fretta da portarmi a credere di star sognando.
Perché per la prima volta le sue fiamme non mi facevano male.
Per la prima volta le lacrime che mi otturavano la gola non erano affilate, pronte a stracciare la carne, non erano ampolle di tutte le urla che non potevo far uscir fuori, gocce che contenevano il dolore che non avevo il diritto di lasciar traboccare dalle labbra.
Erano veri e propri gioielli, perle d'acqua: le prime a custodire sollievo e felicità.
Così delicate e gentili da carezzarmi l'interno della gola, invece che scartavetrarlo, da assopire i rovi del rimpianto e dei sensi di colpa, da sempre capaci di forare e ferire qualsivoglia mia speranza.
Se avessi avuto il diritto di piangere, in quel momento, l'avrei fatto non solo per la mia condanna, ma anche per la felicità e conforto.
Di esser stata ricordata così, come una ragazza qualsiasi con le sue passioni infantili, non Agatha Reid, non la figlia di Lawrence.
Non un mostro.
Davanti a quel modellino tascabile di Herbie, non potevo che ricordare la mia vecchia macchina, il maggiolino che i vandali avevano devastato, la scritta ASSASSINA lasciata sulla portiera distrutta.
E in qualche modo, quella memoria che da tempo mi si era timbrata in mente come un'abrasione mai medicata, parve quasi guarire, curata da quel piccolo modellino nel cofanetto, un tesoro ai miei occhi.
Generò il sorriso più genuino e felice che mai avessi mostrato negli ultimi quattro anni, e il rossore che verniciò le mie guance non mi umiliò come ogni giorno, fu solo il dipinto di quella gioia che più non credevo di poter provare.
Persino l'agonia di quanto discusso con mio padre, quello stesso mattino, strecciò i fili in cui mi aveva intrappolata.
«Grazie» mi ritrovai a bisbigliare, mentre guardavo quel regalo, col cuore a pulsare talmente dirompente che mi chiesi come fosse possibile non fosse scappato via dal petto, «è bellissimo, persino più bello del mio vecchio maggiolino.»
Da parte sua, solo silenzio, ma ero ancora incantata da quel piccolo tesoro, non me ne preoccupai molto, neppure badai al pensiero di quanto brutta dovessi apparirgli in quel momento, faccia a faccia, a sorridere come un'idiota in quel modo.
«Aga-»
La suoneria del mio cellulare, nella tasca della mia felpa, lo interruppe e mi distrasse da quella visione.
Tentennante, lo sfilai dalla tasca.
Minnie.
Non avevo idea di cosa fare, e quando risollevai il capo, mi accorsi che Dante aveva smesso di sorridere, di nuovo aveva le sopracciglia appena contratte.
Era irritato? Forse mi voleva dire qualcosa di importante sui gemelli?
La suoneria si faceva sempre più forte, col passare dei minuti, non avevo né il tempo né il coraggio per chiederglielo, così usai la scusa di rispondere alla chiamata.
Non ebbi modo di dire qualcosa, la voce di Minnie mi esplose nell'orecchio: «Otto minuti precisi e sto lì. Prova a scappà via e te strappo le ovaie dalla gola. Non te preoccupà, non te toccherò con le mani, ma co' le pinze da dentista.»
Nota autrice:
Me pare evidente, signore e signori.
Dante ha sia fatto autogoal che goal.
Diamo inizio al conteggio dei punti:
Punti raccolti da Agatha agli occhi di Dante:
+ 50 per essersi ricordata i gusti dei gemelli
+ 50 per aver riso davanti a Lokuli
+ 50 per aver offerto la caramella a Rosemary che tossiva (lo sa bene che lei non ha capito 'na ciola del perché Rosemary stava tossendo, quindi gli è partito il momento "Kawaiiii")
+ 90 per la risata alla sconfitta di Dory contro il tremendo lavaggio nasale
+ 50 perché, mentre discutevano per Minnie, l'indignazione di Agatha davanti alla sua testa de coccio l'ha indotto inconsciamente a pensare che era terribilmente adorabile (motivo per cui se la rideva alla grande).
+ 50 perché gli è scattato de novo il senso di protezione quando ha realizzato QUANTO Agatha è stata plagiata mentalmente dalle accuse che il mondo le fa ogni giorno, al punto da indurla a credere di non meritare di stringere amicizia con Minnie.
Infine... il più importante tra tutti.
+ 300 per il sorriso finale di Agatha davanti a Herbie il maggiolino tutto matto.
Andiamo poi ai punti ottenuti da Dante agli occhi di Agatha:
- 70 per tutte le domande che le ha fatto sulla sua bassa autostima, perché non capiva perché minchia le facesse e perché insistesse così
+ 80 per averla fatta ridere con Dory
+ 90 per aver insistito in quel modo perché lei non si isolasse e provasse a diventare amica di Minnie (consciamente ha pensato di stargli TOGLIENDO punti, ma nell'inconscio, invece, glieli ha dati eccome)
E infine...
La bellezza di + 500 punti per il regalo. L'unione di + 250 perché si è ricordato della sua passione per Herbie e + 250 perché glielo ha proprio regalato. Di solito, come detto, Agatha tende a non dare troppi punti, visto com'è fragile la sua fiducia nel genere umano, ma stavolta ha fatto un'eccezione perché DA DANTE NON SE LO ASPETTAVA PROPRIO.
Quindi, ricapitolandolo:
Agatha: + 1840 punti (agli occhi di Dante)
Dante: + 558 punti (agli occhi di Agatha)
Beh, rispetto a prima... direi che è moooolto meglio, anche se il dislivello è GIGANTESCO tra i due.
Ora posso dirlo chiaramente, tanto già l'avete capito da prima, leggendo il pezzo finale del capitolo.
È ufficiale.
Dante, specie con quell'ultimo sorriso FELICE E AUTENTICO AL MILLE PER MILLE di Agatha, è entrato nella fase:
COTTA STRATOSFERICA.
No, me disp, muffins, non è innamorato perso. Ve lo ripeto: CAPIRETE SUBITO quando accadrà.
E so che state pensando:
"Vabbè, almeno ora Agatha non ha più Dante in zona negativa e la sua opinione de lui è NETTAMENTE migliorata rispetto a prima, quindi sarà più facile per lui fasse capì."
AHAHAAHHAHAHAHHAHA.
Muffins.
Ve lo ricordo:
Agatha è COMPROMESSA. AL. MILIONE. PER. MILIONE. EMOTIVAMENTE.
Non basta certo un gesto così sincero e carino da parte di Dante per risanare tutti i danni che il mondo (e il suo segreto) le hanno fatto alla mente.
Mi preme sottolineare il DIFETTO più grande di Agatha, che si evince di nuovo in questo capitolo: Agatha NON HA UNA BASSA AUTOSTIMA, come tanti di noi, AGATHA SI ODIA PROPRIO.
Non è oggettiva con sé stessa, non vede le sue qualità, non crederebbe mai ora come ora alla possibilità che un ragazzo le va dietro, figurarsi uno come Dante, poi.
È una Hope Summer Verginy, sì, ma ahimè non per motivi trash perché cogliona come gran parte delle Hope di tutto il mondo trash, ma perché l'hanno proprio devastata a livello emotivo. Lo vedete proprio ad ogni capitolo.
Come scritto in un commento di qualche capitolo fa, spesso avremo voglia pure de menalla a sangue, per quanto sarà de coccio con questo suo odio per sé stessa che la porterà ad autosabotarsi ogni volta, ma ahimè non si può fare nulla: non bastano certo un po' de persone che ti vogliono bene e qualche carezza per farti guarire del tutto e in così poco tempo.
Ce vole pazienza, per queste cose, molta pazienza e tanta forza sia da parte sua che da parte di chi le vole bene (e non mi riferisco solo a Dante)
Quindi sì:
Dante è condannato.
A una cotta stratosferica.
Per una ragazza che ora come ora, se lui le dicessi, ME INTERESSI IN SENSO ROMANTICO, LOGGGIUROH, gli direbbe:
CHE ME PIGLI PE' IL CULO???? e non solo, automaticamente scalerebbe la bellezza di - 200 punti solo per questo.
Non gli crederebbe MAI, come mio padre tuttora non crede al mio agnosticismo nonostante lo abbia dichiarato a quindici anni e ora ne abbia più de ventisei.
RIFIUTO TOTALE, come la Ferragni con le sue responsabilità dello scandalo Pandoro.
E sì, ve confermo alcune cose che sicuro avrete capito con 'sto capitolo, ma lo sapete che so una logorroica incurabile:
1) I gemelli hanno chiesto ad Agatha perché ha scelto quei gusti del lokum APPOSTA perché Dante sentisse (e sprofondasse ancor più nella sua cotta)
2) Dante HA CAPITO de essere INTERESSATO e lo sottolineo IN-TE-RES-SA-TO (non innamorato) romanticamente ad Agatha grazie, principalmente, al suo ultimo sincero e genuino sorriso. Quindi, con grande sorpresa de tutti, NONOSTANTE la sua testa de coccio, a vincere la scommessa tra Dory e Dorian è stato DORIAN (e già so che godrete per quando quest'ultimo lo capirà).
3) Nell'attimo in cui l'ha capito, s'è ricordato la frase che ha detto ai gemelli quando sono andati a trovarli Minnie e Max e i due pestiferi gli hanno detto che se continuava così non se sarebbe mai scopato Agatha: "Dimentichi sempre che non voglio farlo." E soprattutto s'è ricordato che AGATHA HA SENTITO TUTTO. E indovinato che ha fatto nella sua testa appena ha rievocato quella memoria?
Esatto.
Il fucile che Agatha usa per spararsi ai piedi lui l'ha usato per spararsi ai coglioni.
Di nuovo.
Direi che ora de inizià ad accende i lumini, muffins, per un povero bedde boih che s'è fatto autogoal da solo a causa della sua testa de coccio.
E MENO MALE CHE HA VINTO DORIAN LA SCOMMESSA, se l'avesse vinta Dory - cioè se ne fosse reso conto entro Natale - avrebbe fatto così tanti autogoal che le sue palle se sarebbero polverizzate.
Gli avrebbero sussurrato all'orecchio, prima di sparire per sempre: SIGNOR DANTE, NON MI SENTO MOLTO BENE.
Il che non vuol dire che non continuerà a martellarsere per i capitoli a venire, ma FORSE in qualche modo eviterà di diventare per sempre un eunuco.
Si spera.
Dante, famo tutti il tifo per te, lo giuroh (tranne Agatha)
Vabbuò, ho detto tutto (penso, semmai lo aggiungo dopo), nel prossimo capitolo:
La BEST GIRL EVAH, seconda solo a Betsy per me.
MINNIE (quanto me se mancata, amore mio)
Ah, p.s.
Minnie: - 300 (agli occhi de Dante, per avello interrotto e rovinato il momento)
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