La lettera D (1/2)

Nota autrice pt. 1

Dato che sto capitolo è luuuuuuuuungo (per questo l'ho diviso in due) e la prima parte è - indovinate un po'? - TRAUMA, ve lascio prima NA GIUOIAH, ovvero...

Il momento PUNTI.

Ve ricordo che negli ultimi capitoli Dante ha guadagnato prima + 850 punti per il mini cactus (che se spera non sia una metafora de qualcosa a lui molto caro che s'è rimpicciolito a furia de 🔨🔨🔨) e le sue implicazioni e poi la bellezza di + 1000 per essersi dimostrato un UOMO, un VERO uomo, e soprattutto UN VERO femminista che pesta tutti i pezzi di merda, fottesega se hanno il maritozzo o il babà tra le gambe.

E con il capitolo prima, la sua confessione/monologo/MI-DISP-PER-AVER-FATTO-LO-STRONZO(perciò ti prego ora scopamo che so passati 303749379 capitoli -> ma questo lo si pensa e basta) ha guadagnato la bellezza di...

+ 1500 punti

Agatha aveva invece ottenuto +2000 punti dopo aver aiutato Dory col TRAUMA di tutte noi fanciullette cioè ER MESSER MESTRUO (per merito anche de Dory che s'è impegnata al massimo a faglie capì l'importanza ad avecce Thaty come cognata e non solo perché così lui può 🎺rsela).

Con il capitolo precedente, una volta aver compreso APPIENO quanto è stata devastata Agatha dal giudizio del mondo (incluso il suo) e averla vista in quelle condizioni, gli è scattato ER SENSO MASSIMO DE PROTEZIONE DA ORANGE (a tratti BLACK) BOIH, e con l'aggiunta di aver potuto FINALMENTE realizzare il desiderio di stringerla a sé come desidera fare da troppo tempo per poterlo contare...

Agatha s'è beccata altri mille punti.

Quindi mo'...

Dante: + 3968 punti (agli occhi di Agatha)

Agatha: + 5010 punti (agli occhi di Dante)

Avviso che questo punteggio sarà PALESE anche a noi lettori molto PRESTO (e forse NON SOLO a noi lettori, F.O.R.S.E.), anche in questo capitolo, perché come detto nei commenti, su IG e nella nota autrice, tra questi due disadattati massimi che tutti noi vorremmo riuscissero finalmente a 🎺🎺🎺 (soprattutto Dante) e non con le trombe vere ma con riferimenti fallici dai dubbi gusti trash sui piercing, c'è stata...

LA SVOLTAH.

Che si noterà appieno, CREDETEMI.

Analizzerò la questione nella seconda parte della nota autrice, ora vi lascio al capitolo e al TRAUMA.

Sciau!

A cuore scalzo
e con laceri pesi
di gioia.

Antonia Pozzi










Si risvegliò l'oblio.

Si risvegliò l'oblio e così i ricordi più infausti, quelli celati sotto le mille ombre di menzogne e sorrisi, a dirmi che non si erano estinti, sempre avrebbero trovato occasione per rubarmi l'aria.

Si ridestarono le tenebre per risucchiarmi ed io cedetti al loro fascino spietato, annegai nella voragine che io e la catena di malvagità alle mie spalle avevamo scavato insieme e che attendeva ora solo la mia lapide per completare il cimitero di tutte le nostre vittime.

Caddi e sprofondai in quell'abisso generato dalle memorie, eppure non provai una sola goccia di paura, non la più pallida sensazione di panico.

Perché caddi, io, sì, ma caddi cullata da un calore talmente straziante da apparirmi angelico, un fuoco che mi avvolse e mi fece credere che da quella voragine prima o poi comunque ne sarei uscita, che tra quelle tombe che mi attendevano non avrei trovato solo rimpianti e rimorsi, ma anche l'unica lapide ancora spoglia.

E in cui io non avrei dovuto incidere il mio nome.

Solo il loro.

Si risvegliò l'oblio per addormentarmi e così mi arresi ad esso, ma fu diverso dalle tenebre che mi erano ben note, diverso da qualsiasi incubo avessi mai sognato e vissuto.

Fu calore e meraviglia, fu sollievo e incanto.

Fui io e quel che fui s'incarnò nell'umano.

Solo e soltanto umano.

C'è qualcosa che non va.

Sono già le tre del pomeriggio, ma la mamma non è ancora uscita dalla sua stanza.

Dopo pranzo, va sempre a riposare per mezz'ora, ma la mezz'ora è passata da tanto, ne saranno passate almeno altre tre di mezz'ore, credo, non so ancora leggere bene l'orologio, ma non glielo posso dire perché si arrabbia. Sono passate almeno altre tre di mezz'ore e non è ancora venuta a prendermi da camera mia per iniziare le nostre lezioni.

Non dovrei farlo, lo so, ma sono uscita dalla mia stanza per andare alla sua. Non è così distante, è proprio la porta accanto, però non mi ha mai permesso di entrarci, non lo so perché. E dalla mia non si sente niente, mi sa che i muri sono troppo spessi, sarà per questo che non viene mai da me quando piango: perché non mi sente.

La porta della camera di mamma è bianca come la mia e ha la maniglia dorata come la mia, ma quando la apro di poco non fa lo stesso rumore strano della mia. La apro poco, davvero, così posso vedere cosa sta facendo la mamma e lei non se ne accorge. Magari sta male, magari è svenuta, non posso lasciarla da sola se sta male.

Devo solo assicurarmi che è viva, davvero.

Guardo in silenzio dallo spazio aperto: la camera della mamma è tanto più grande della mia. Non ha nemmeno il pavimento in legno come il mio, quello tutto rovinato che fa tantissimo rumore quando ci cammino sopra, è un pavimento strano dal colore tanto chiaro come i muri e ci sono un sacco di quadri vecchi pieni di angeli sulle pareti. 

C'è una libreria gigante a sinistra, vicino alla finestra dalle tende chiuse, piena di libri, e davanti a me c'è il letto gigante come la libreria.

Non ho mai visto un letto così grande prima.

Non ho mai visto una stanza così piena prima, la mia non ha niente, solo mura bianche e la croce appesa proprio sopra il mio lettino. Ci stanno i pupazzi, in realtà, quelli che Lawrence mi regala quando ci viene a trovare, sono tutti sopra l'armadio, però non ci gioco mai. Non mi piacciono molto, quei pupazzi, perché la mamma si arrabbia quando ci gioco.

Dov'è la mamma?

La mamma è proprio su quel letto. 

La mamma dorme, riesco a scorgerla sdraiata al lato sinistro del materasso, sopra le lenzuola bianche.

È strano, tra poco dobbiamo fare lezione, perché dorme ancora?

Da dove sto non vedo granché, ma ho paura che se apro troppo la porta della sua stanza poi la sveglio.

La sento respirare strana, però, a singhiozzi, e ogni tanto ha degli scatti mentre trema. Mi sa che si è ammalata.

La mamma non si ammala mai.

La Signora non si ammala mai nemmeno.

Che devo fare? Devo svegliarla? Sono già le tre e lei non si è neanche preparata il caffè, e lei adora il caffè, anche a me piace il caffè, ha un buon odore, e poi è un po' meno arrabbiata quando lo beve, quindi sono contenta. A volte sorride persino, e a me piace quando la mamma sorride, anche se non lo fa mai con me.

E se glielo preparo io, il caffè? Magari così si sveglia, se sente l'odore, ma alla mamma non piace quando faccio queste cose, sbaglio se le faccio, e così arriva la Signora, quindi è meglio di no.

La fisso ancora. Trema davvero tantissimo, mi chiedo se sta dormendo o sta male. Forse è meglio che controllo.

Esito, però.

Alla mamma... Alla mamma non piace quando la tocco.

Però... però adesso sta male, voglio solo assicurarmi che non ha la febbre, quindi... quindi posso toccarla stavolta, no? Non si arrabbierà per questo, no? Non tornerà la Signora per questo, no?

Inspiro ed espiro, sento già il volto in fiamme, non va bene neanche questo, la mamma non sopporta quando divento rossa così.

Schiudo la porta e pian piano avanzo, cerco di non fare rumore, per fortuna il pavimento non è in legno come in camera mia, quindi fa pochi suoni quando ci cammino sopra.

Alla mamma non piacciono i miei rumori brutti, a mamma non piace quando li faccio.

A mamma non piace niente di quello che faccio, perché sbaglio sempre.

Arrivo finalmente al letto, al lato dove lei è sdraiata, ed è davvero, davvero, davverissimo gigante, ora che lo guardo meglio, sembra una nuvola soffice, come quelle che si vedono nei quadri strani di questa stanza o alla televisione.

Un giorno mi piacerebbe provarlo.

Mi piacerebbe dormirci con lei.

Magari abbracciate, sì, alla televisione ho visto un cartone dove la mamma abbracciava sua figlia e dormivano insieme. Mi domando se un giorno sarò abbastanza brava così che anche la mia mamma lo vorrà fare, senza più detestare quando la tocco.

La guardo in silenzio.

È la prima volta che la vedo così, che posso essere così vicina al suo viso.

Mi piace il viso della mamma. Non è come il mio che è tutto affilato, pallido e arrossisce subito. Il viso di mamma è di un rosa bellissimo e ha delle labbra tanto grandi e a cuore e un nasino dolcissimo pieno di lentiggini, e ha anche delle ciglia tanto lunghe, la mamma, e dei capelli che sembrano miele e sono lisci e stupendi, non come i miei che le danno sempre fastidio. 

Sembra una principessa, la mamma, l'ho sempre pensato. Non ho mai visto una principessa, ma secondo me lei lo è. Anche la mamma dice che sono una principessa, ma lo dice solo quando Lawrence ci chiama o ci viene a trovare o quando andiamo a messa la domenica mattina e parla con gli altri fedeli, lo fa perché deve mentire che se no tutti si vergognerebbero di lei e di me.

È in canottiera e mutande bianche, non si è ancora vestita dopo la doccia, deve essersi andata a riposare subito dopo, e questo è grave, perché la mamma non riposa mai senza essersi prima vestita per bene.

Non sembra malata, però trema tantissimo, stringe il cuscino con una mano e sta per strappare la federa, mi fa un po' paura, così.

Mi fa paura vedere la sua faccia, è metà affondata nel cuscino, e il modo in cui sta soffrendo mi terrorizza: con gli occhi chiusi e le sopracciglia tanto aggrottate, i denti che battono, le labbra che tremano, i singhiozzi che le escono di tanto in tanto.

Mi fa paura vedere quelle strane cose che ha sulla schiena, proprio adesso che si è rigirata sull'altro fianco.

Cosa sono? Non sembrano tagli veri e propri, però sono molto simili. Superano l'orlo della canottiera, e sono tanto lunghi e tanto sottili, bianchi e in rilievo, tipo spaghettini sotto la pelle che si incrociano a caso tra di loro, e mi sa che le coprono proprio tutta la schiena, perché le arrivano persino al retro delle spalle.

E sono un casino, non riesco neanche a contarli.

Che strani.

Adesso capisco perché non indossa mai abiti che lasciano scoperta la schiena.

Forse sono questi strani tagli a farle male? Ma non credo, perché mi sembrano guariti, sono già bianchissimi e si confondono pure con la sua pelle, non si vedono manco se non ti avvicini tanto tanto tanto.

Però continua a tremare, la mamma, e a sussultare e a singhiozzare.

Magari ha freddo, anche se non ha la febbre. Non si è nemmeno messa sotto le lenzuola, è vero che qua fa caldo adesso, però se sta male è meglio che sta sotto le lenzuola, no?

Mi guardo attorno, dall'altro lato del letto noto sul settimino là davanti, proprio sopra, una copertina piegata, rossa e a quadri. Mi muovo veloce per raggiungerla, attenta ad andare in punta di piedi per non svegliare la mamma.

Un sussulto mi scuote, quando accanto alla copertina noto la corda di canapa arrotolata in sé stessa. La conosco molto bene quella corda, è con quella che la mamma mi viene a prendere in stanza.

Deglutisco, meglio concentrarsi sulla coperta. La prendo in un attimo, prima di ritornare da lei e posargliela sopra il corpo che trema tutto.

Non la tocco, però, non si sa mai.

Lei sembra tremare un po' di meno, ora che è sotto la coperta, anche se continua a far male al cuscino con la mano, però è meglio così, se la fa star bene.

«No» bisbiglia, ed io sussulto di nuovo sul posto, spaventata, si è rigirata nella mia direzione, ma ha ancora gli occhi chiusi, non sta parlando con me. «Non sono stata io, non è colpa mia, lo giuro.»

Non capisco con chi sta parlando, forse c'è un cattivo nel suo sogno? Vorrei poterle dare una carezza, ma la mamma non vuole che la tocco senza il suo permesso, meglio di no anche questo.

Mi guardo attorno, è meglio che torno in camera mia, così non la sveglio e si riposa, se riposa forse non si arrabbierà con me dopo.

Faccio per voltarmi, quando i miei occhi cadono sul comodino alla mia sinistra, proprio accanto al lato dov'è sdraiata mamma. È un bel comodino, di un legno molto scuro e con tre cassettini, però mi interessano le tante foto che ci stanno sopra.

Sono foto un po' vecchie, in effetti, tutte rovinate. C'è una bambina piccola che mi ricorda tanto la mamma, forse è lei, però che strano, di solito i bambini sorridono di più, tranne io che non sono brava quindi non posso sorridere, ma la mamma qui non sorride per niente, e nemmeno la signora che le è dietro e ha le mani sulle sue spalle, anche se tutte e due sono vestite tanto carine davanti alle scale della chiesa.

La nostra chiesa, quella a cui andiamo ogni domenica per ascoltare Pastore Michael.

C'è anche un'altra persona, un uomo, mi sa, perché ha una toga nera come quella del Pastore Michael, solo che la sua faccia è stata bruciata in tutte le sue foto, non si vede per niente com'era.

La mamma e il papà di mamma? Di tanto in tanto lei mi parla di loro, ha detto che pure lui era un pastore, ma perché la faccia è tutta bruciata?

Magari un giorno glielo chiederò, sì, però è meglio se me ne vado, ora, e torno in camera, così non la sveglio.

Sono stata brava, stavolta, non le ho dato fastidio, no? Non si arrabbierà per questo, giusto? Non l'ho neanche toccata! Non farà tornare la Signora, vero?

Mi giro per guardarla un'ultima volta e capisco subito che invece sì, accadrà.

Perché ora ci sono due occhi verdi aperti, due occhi verdi identici ai miei, l'unica cosa che ho preso da lei.

E l'unica cosa che non posso mai guardare dritto, perché la mamma non vuole incrociare il mio sguardo.

Ma la Signora sì.

La Signora sempre.

E adesso non c'è più nemmeno il letto, non c'è più nemmeno la camera della mamma e nemmeno i suoi occhi.

C'è la macchina, ci sono io con la cintura di sicurezza allacciata e la strada che va avanti mentre la macchina prosegue dritta per raggiungere la chiesa.

C'è la macchina, ci sono io a destra e c'è mamma a sinistra che sta guidando.

C'è Frank Sinatra alla radio, c'è sempre Frank Sinatra alla radio, alla mamma piace tanto Frank Sinatra.

Giro il capo per osservarla, sta fissando la strada davanti a sé, non mi guarda, non mi guarda mai, la mamma, se non quando stiamo in chiesa.

È bella la mamma, la mamma è una principessa, soprattutto ora che ha legato i capelli in una treccia lunga che le scivola sul petto e ha gli orecchini a perla.

Ma tra poco smetterà di essere la mia mamma e una principessa, tra poco smetterà di odiarmi e diventare la Signora, perché la BMW guidata da quell'ubriacone ci travolgerà e lei morirà, soffrendo per ore incastrata in questa stessa macchina che sarà diventata una lattina schiacciata, perdendo e riprendendo coscienza in continuazione, delirando nell'agonia assoluta con i soccorritori, e poi in ospedale in sala operatoria, dove smetterà per sempre di vivere.

Adesso ci sono io con la cintura di sicurezza allacciata, ma non sono più bambina, sono la Agatha adulta che lei mai ha incontrato, quel mostro cresciuto senza avere la Signora a punirlo allo specchio.

La macchina si ferma davanti al semaforo rosso dell'incrocio, è giunta l'ora: non appena scatterà il verde e noi ripartiremo, la fine giungerà e ogni cosa smetterà d'esistere.

Le domando la sola cosa che posso chiederle, prima che entrambe perderemo: lei alla morte e io al fato di amare un altro mostro come noi due.

«Perché mi hai detto quelle bugie alla fine, dopo che io ti ho rivelato la verità?»

Per la prima volta da quando sono nata, lei si volta a guardarmi anche se non è costretta a farlo perché ci sono gli altri fedeli attorno o Lawrence.

Lei, la mia mamma, non la Signora, mi guarda negli occhi, senza più necessità dello specchio a farci da mediatore.

E nel suo viso leggo la stessa espressione di quel giorno, quella che strazia il mio.

Dolore.

«Perché non erano bugie per me.»

Poi, il verde del semaforo, il feroce rumore dello schianto, l'attimo in cui tutto crolla e il sogno s'infrange.

Mi restano solo la sofferenza nel realizzare che mai riuscirò a comprenderla, non lei e non la Signora, e il suono del motore.

A svegliarmi fu proprio quel suono del motore.

Un suono che mi indusse a risollevare le palpebre senza che neanche lo volessi, in un'oscurità che odorava di detergente alla lavanda e che mi fece girare la testa già tartassata da una tremenda emicrania.

Strizzai le palpebre un paio di volte nel tentavo di tornare lucida e comprendere cosa stesse accadendo e dove mi trovassi, ma mi venne impossibile, perché ero ancora intontita, ebbra di troppi sentimenti e sensazioni; l'unica cosa che mi era chiara era proprio quel suono strano che non avrebbe dovuto seguirmi anche dopo il sogno.

Mi accorsi di esser sdraiata al centro di un letto, un letto soffice, a due piazze, con il capo affondato in un cuscino altrettanto morbido, coperta da delle lenzuola pesanti e invernali che mi arrivavano fino alle spalle ed erano l'origine del profumo di lavanda.

Il corpo si era fatto pesante, faticai a risollevarlo per potermi mettere a sedere e guardarmi attorno, cercando di racimolare i pensieri che si erano sbrandellati in mente, raccogliendoli uno ad uno nel ricercare la strada della razionalità. 

Le tenebre annegavano quasi tutto, ma una sorgente di luce impediva loro di prevaricare su ogni cosa, alle mie spalle: la finestra che si trovava proprio sopra la testata in legno del letto, stretta, lunga e orizzontale, con tendine rosse chiuse e dai cui orli sgorgavano i raggi del sole. Grazie a quell'unica fonte d'illuminazione, fui in grado di distinguere le caratteristiche della stanza in cui mi trovavo.

E che senz'altro non era il mio appartamento.

Era una piccola camera dalla tinta in crema, priva di decorazioni e con un lampadario in vimini a pendere dal soffitto alto. Una libreria a cinque piani affiancava la parete sinistra, era così carica di libri che era un miracolo ancora si reggesse in piedi e non fosse esplosa. Alla destra, invece, si trovava un grosso armadio a muro a tre ante e dallo stesso colore del resto della stanza.

Il letto matrimoniale su cui mi trovavo, invece, era proprio davanti alla porta d'ingresso, al centro della parete opposta, affiancato sia a sinistra che a destra da un comodino azzurro sopra cui si trovavano lampade vintage che ricordavano le vecchie lampade ad olio di una volta.

Ero terribilmente confusa, non avevo la più pallida idea di dove mi trovassi, il sogno appena avuto su di lei e con lei aveva slacciato i fili che collegavano un pensiero all'altro e riuscire a riassemblarli insieme fu uno sforzo disumano.

Ciò che mi era certo, però, era che il rumore del motorino non me lo stavo immaginando.

Era vero eccome, non lo strascico del mio sogno.

E proveniva dalla base del letto, sul lato sinistro.

Indecisa, mi costrinsi a gattonare fino a raggiungere quel punto, per poi sporgermi con la testa oltre il materasso e guardare cosa si trovava a terra, gli occhi mi si sbarrarono da soli per lo stupore.

«Tortellino?»

Era proprio lui, in tutto il suo splendore, ma senza la sua solita sedia a rotelle. Le zampe posteriori erano libere e si sdraiavano sulle piastrelle grigie del pavimento in maniera innaturale, dritte e al contempo flosce, quasi non avessero più ossa. Indossava un pannolino bianco che gli copriva tutta la zona inguinale.

Stava dormendo, arricciato quasi in sé stesso, le zampette anteriori nascoste tra il busto e il pavimento, gli occhi chiusi, il pelo tigrato e lucido che sembrava brillare grazie ai veli delicati del sole che andavano a vestirlo, ed era un vero e proprio motorino: il suo ronfo era talmente potente che riempiva tutta la stanza, era stato proprio quello a svegliarmi.

Schiusi le labbra, sempre più stupefatta. 

C'era Tortellino ai miei piedi, che dormiva beatamente come se nulla fosse.

Tortellino, il gatto di Minnie e Max.

E mai e poi mai Minnie avrebbe portato Tortellino fuori di casa, considerando anche le sue disabilità, quindi c'era una sola spiegazione a tutto ciò.

Non ero più nel mio monolocale, ma nell'appartamento dei due gattari più assurdi mai incontrati finora. Quella doveva essere la camera degli ospiti.

La bocca mi si spalancò ancor più, mi passai le mani sul viso, non ancora del tutto capace di pensare in maniera lucida, e solo allora realizzai di quanto mi facessero male gli occhi: bruciavano con furia, pesavano addirittura, quasi al loro posto, incastrate nelle palpebre, ci fossero due palline di piombo che erano state ripescate dal magma di un vulcano in eruzione.

Oddio.

Fissai le mie dita, realizzai un altro dettaglio che prima non avevo notato.

Non indossavo i miei guanti.

I ricordi di quanto accaduto mi investirono, travolgendomi tutti insieme sotto il loro getto costante e violento.

Oddio.

Io... Io ero a casa di Minnie e Max.

Dopo che ero stata trovata da quella coppia di pseudo giornalisti e criminali ed ero stata difesa da Dante.

Oddio.

Dopo che ero esplosa in quel modo con Dante.

Oddio.

Dopo che Dante mi aveva detto tutte quelle cose.

Oddio.

Dopo che io ero crollata e mi ero lasciata stringere da lui tra lacrime e urla bestiali.

Oddio.

Ecco perché soffrivo così tanto agli occhi e la causa di quel mal di testa atroce: avevo pianto e gridato per almeno un'ora senza fermarmi mai, allacciata come un polpo a Dante, ignorando volutamente tutte le accuse e le ritorsioni della mia fobia, fino a quando lo stress e la fatica non mi avevano fatta crollare, stavolta letteralmente.

Oddio.

Mi portai le mani al viso per nasconderlo persino alle oscurità della stanza, tant'ero andata a fuoco. Ero insicura su quello che avrei dovuto provare in quel momento, davanti a quella successione di eventi che mai avevo contemplato si verificasse nella mia vita, quel che mi era certo erano le emozioni che mi stavano deflagrando in ventre contro la mia stessa volontà.

Vergogna, sì.

Ma anche tremendo sollievo.

E la più ingiusta di tutte.

Speranza.

Inspirai a fondo con i palmi a coprirmi tutta la bocca e gli occhi, chiusi le palpebre brucianti per provare a dare contegno a tutte quelle sensazioni che da anni, troppi anni, non sperimentavo e che per questo motivo adesso mi scoppiavano dentro senza alcuna pietà, andando a trasformare in macerie qualunque mio tentativo di arginarle, rinchiuderle di nuovo nelle loro gabbie.

Che dovevo fare? Come mi dovevo comportare? Non potevo affrontare Minnie e Max in quelle condizioni, smarrita com'ero, e non ero nemmeno certa che Dante non fosse con loro, oltre la porta di quella stanza che era appena aperta e da cui si intravedeva un'altra fenditura di luce. Come avrei dovuto guardarlo, d'ora in poi, dopo tutto quello che gli avevo urlato contro e... dopo tutto quello che lui aveva affermato?

Era stupido da parte mia, me ne rendevo conto, viste le assurdità e le sofferenze che avevo appena vissuto, ma la parte che più la mia mente tornava a ricordare senza sosta, facendola ripartire da capo fino alla fine come in un film, era proprio il momento in cui lui si era inginocchiato ai miei piedi e aveva iniziato a parlare.

Il mio cervello infame aveva persino memorizzato parola per parola quanto mi aveva detto e ora quelle parole mi intasavano la testa, soffocando lo strazio generato dal sogno, ostruivano i canali del pensiero limpido per poterli otturare con i sentimenti più assurdi e ridicoli di tutti.

Partoriti proprio da lei, la sola che mai avrebbe dovuto ritornare e che invece non solo era ritornata, era letteralmente risorta dalle sue ceneri a causa sempre di Dante.

Agatha Fangirl.

Se potessi tornare indietro, pesterei a sangue sia il me di quei giorni che tutti quei pezzi di merda.

Mi passai le mani tra i capelli, i ricci erano così crespi in quel momento che mi bloccarono le dita ammanettandole tra le loro ciocche, ed io mi ritrovai a prender fuoco di nuovo tanto per questo quanto per ciò che stavo ricordando contro il mio consenso.

Non permetterò più a nessuno di farti quelle cose, mai più. A costo di andare a spaccare il setto nasale di quegli stronzi, uno ad uno, mi assicurerò che mai più qualcuno ti farà del male, che saranno loro a finire in prognosi riservata, così che chiunque qua capisca appieno cosa gli succederà se prova a toccarti.

Si era persino scusato per i nostri primi incontri, non si era limitato a dire che si era sbagliato, si era scusato in tutto e per tutto, riconoscendosi in torto e me nella ragione.

Aveva intuito che citavo papà in sua presenza per sondare il terreno con lui, capire quanto ancora mi giudicasse per l'amore che provavo, e non si era arrabbiato affatto per la cosa, mi aveva anzi detto che desiderava io gliene parlassi, sì, ma solo se io lo desideravo a mia volta.

Oddio.

Perché ricordavo tutto quanto così nel dettaglio?

Perché lui aveva usato le esatte parole per cui Agatha Fangirl delirava come una pazza una volta?

Era ridicolo, non c'era da emozionarsi così, avevo ventisette anni, ero un'adulta, non più un'adolescente in preda agli ormoni e non avevo motivi di fantasticare in quel modo, per quanto si fosse in effetti realizzato uno dei grandi sogni di Agatha Fangirl: un cattivo ragazzo – super tatuato e pieno di piercing proprio come piacevano a lei – che minacciava di compiere una strage per proteggerla.

Oddio.

Per davvero, Agatha Fangirl? Di tutte le assurdità e i dolori vissuti, questo era quello che continuava a ricordare ancora e ancora?

E con mio grande supplizio, non solo lo ricordava.

Lo analizzava proprio nel dettaglio, alla ricerca di un motivo che avesse indotto Dante a dire quelle esatte parole.

E il motivo che Agatha Fangirl stava andando a ripescare non mi piaceva per niente, in maniera uguale a quanto faceva impazzire di gioia lei.

Soprattutto perché stava assumendo sempre più senso anche alla mia mente razionale, non solo alle fantasie folli e deliranti dell'adolescente che ero stata un tempo e che in parte avevo ripreso ad essere.

Oddio.

Aveva davvero troppo senso. Quale ragazzo avrebbe fatto affermazioni del genere, così forti e categoriche, per una ragazza che nemmeno gli interessava da quel punto di vista? Non mi aveva semplicemente detto che io ero nella ragione e lui nel torto, aveva proprio dichiarato che avrebbe pestato a sangue chiunque avesse provato a farmi del male.

Un ragazzo... avrebbe mai fatto dichiarazioni simili per una tipa a cui voleva dare una mano solo perché piaceva ai suoi fratellini?

Dopo anche tutti gli eventi che si erano sviluppati prima?

La giacca, il mini cactus, il mignolo?

Me ne sbatto i coglioni delle spine.

Oddio.

Afferrai il cuscino e me lo portai in viso per provare a soffocarmi così da ridurre l'ossigeno che arrivava al cervello fin troppo fantasioso per colpa di Agatha Fangirl.

Stavo sul serio delirando, l'immaginazione stava prevaricando alla grande sulla mia razionalità e il problema era che non potevo in alcun modo fermarla.

Dovevo calmarmi, dovevo ritornare lucida, non aveva senso lasciarsi trascinare in quel modo dalle correnti della fantasticheria e dell'illusione, per quanto forti e violente fossero. Avevo bisogno di tempo per digerire tutto, per riassumere contegno e soprattutto riportare i piedi a terra così da non attribuire sentimenti impossibili a Dante.

Un paio d'ore almeno.

Era meglio se tornavo sotto le lenzuola fingendo di non essermi mai–

Delle voci si levarono da oltre la porta socchiusa della stanza, bloccando il mio delirio. Trasalii sul letto e il cuscino mi cadde, deglutii con forza per tornare a guardare la porta.

Con grande coraggio, mi costrinsi a scivolare dal letto, rimettermi in piedi stando attenta a non disturbare il sonno di Tortellino, e mi avvicinai all'uscio schiuso.

Lo aprii di poco, quel tanto che mi bastava per vedere cosa c'era dall'altra parte.

Ero davvero a casa di Minnie e Max, nella loro stanza degli ospiti, e davanti a me c'erano i due divani del salotto, Minnie era seduta su quello che fronteggiava la porta della camera, era al fianco sinistro di Max, le gambe accavallate, una sigaretta appena accesa tra le labbra. Alla sua destra si trovava Lucciolina, appiccicata alla sua coscia contro cui strusciava la testa, degli altri micini non c'era traccia, dovevano essersi nascosti nelle loro mille tane sparpagliate ovunque nel trilocale.

A preoccuparmi furono due particolari.

Minnie era sporca di sangue. Stranamente, quel giorno aveva rinunciato al suo vestiario gotico e dark e indossava un paio di jeans aderenti e un maglioncino di lana bianca che aveva delle grosse chiazze rosse sulle maniche e sul colletto.

E sicuro come la morte non era suo quel sangue.

Il secondo particolare era l'uomo che lei stava fissando con il suo classico sguardo incollerito, seduto sul divano opposto al suo e che quindi mi dava le spalle, ma la sua chioma di un castano scuro, come cioccolato fondente, mi era troppo nota perché potessi confonderlo con qualcun altro.

Dante.

«Perché minchia ti sei vestita così se sapevi che avresti pestato a sangue quei due pezzi di merda?» lo udii domandare, risentire la sua voce mi fece sussultare ancora e fece perdere un battito al mio cuore.

Minnie sbuffò una nuvola di fumo, staccando la sigaretta sul posacenere del tavolino che separava i due divani. Max le scoccò un bacio sulla guancia, ignorando il suo viso inviperito. «Proprio perché lo sapevo l'ho indossato, così quei due cretini vedevano coi loro occhi i risultati delle loro azioni» rispose decisa e schietta.

Mio Dio.

Non si era limitata alla macchina.

«Che vuoi finire in carcere?»

«Non finisco in carcere io, Coglione Assoluto, sanno molto bene che non me possono fare niente, col materiale che abbiamo sulle loro merde.» Continuò a guardarlo funesta, ma dopo qualche secondo un sorrisetto sadico le tranciò le labbra. «Me fa piacere vederti con 'sta faccia, Coglione Assoluto, ade' finalmente hai capito cosa succede quando fai lo stronzo massimo senza sapere un cazzo.»

Mi impietrii sul posto, con la mano a calcificarsi sulla maniglia, da parte di Dante non ci fu alcuna risposta e ciò mi preoccupò.

Stavano parlando a voce bassa, forse per non svegliarmi, fui per la prima volta grata del mio ottimo udito.

«Non essere così sadica, amore» la rimproverò Max, mentre lei prendeva un altro tiro dalla sigaretta. «Non andarci giù pesante ora, stai ancora alterata per quei due stronzi.»

«E tu me hai fermato prima che potessi godermela appieno.»

«Amo il tuo lato crudele, lo sai, ma c'è limite a tutto, amore, anche con pezzi di merda del genere, e non mi va di doverti andare a trovare in carcere.»

Minnie esalò un altro sbuffo di fumo. «Devono solo ringrazia' che non avevo ancora visto in che condizioni avevano ridotto Riccioli Corvini, quando l'ho incontrati, manco i tuoi coglioni mi avrebbero trattenuta dall'ammazzarli.»

Un'altra fitta andò a lacerarmi il cuore e gli occhi tornarono a bruciare, mandai giù un viluppo di lacrime già pronto a cadermi dalle ciglia.

«Non ce credo ancora che sul serio le hanno fatto quei discorsi» commentò Max. «Hanno citato pure i gemelli e i genitori di Betsy George per falla senti' in colpa, persino un coglione come me non arriverebbe mai a tanto.»

«Perché sei coglione, tu, non pezzo di merda.»

Max sorrise estasiato dal complimento fatto da Minnie, probabilmente uno dei pochi che riceveva, le scoccò un altro bacio sulla guancia, con lei che continuava a fumare e fissare Dante.

«Tu l'avevi davvero preso sottogamba quel che te avevo detto, Coglione Assoluto» disse lei, «quando t'ho spiegato in che modo la gente rincoglionita la sta a condanna' de tutto e de più pure solo se respira. Lo so che non te piacciono i social, ma non puoi sottovaluta' così il potere dell'opinione pubblica.»

Sbattei le palpebre con furia, Dante restò in silenzio per un minuto intero.

«Ohi, stronza massima» la chiamò alla fine. «Che cosa sai tu de Lawrence Reid?»

Quel quesito mi stupì, lasciandomi a bocca aperta, sorprese persino Max e Minnie. Quest'ultima aggrottò la fronte, spense la sigaretta ormai finita nel posacenere e poi si issò Lucciolina sulle cosce per cominciare ad accarezzarla.

«Un cazzo.»

«Non me prendere per il culo, sei 'na fanatica de true crime da quando sei stata concepita.»

«Quello che conosco io è solo il pluriomicida pezzo di merda» replicò fredda. «Ma de Lawrence Reid non so un cazzo.»

Max la guardò smarrito. «Che intendi, amore?»

«Intendo che conoscere i crimini di una persona non significa conoscere la persona in tutto e per tutto» rispose all'istante lei. «Persino dei serial killer passati tipo Ted Bundy, a discapito delle mille biografie che ce stanno sul loro conto e me so' studiata, non potrò mai dire di conoscerli come persone. Stessa cosa vale per Lawrence Reid. De lui so i suoi delitti e orrori, posso fare ipotesi sul suo conto come sta a fa' mezzo mondo, ma non l'ho mai incontrato e men che meno c'ho mai parlato, perciò no, non so un cazzo de lui. Se vuoi sape' chi è Lawrence Reid, la sola persona a cui devi fare 'sta domanda è Riccioli Corvini, non certo me.»

Un altro minuto di silenzio, Minnie cominciò a dare i grattini a Lucciolina tra le sue orecchie. Max, a quel punto, intervenne: «Pensi che ne parlerebbe?»

«Riccioli Corvini c'ha un tremendo e immenso difetto che ho capito all'istante e scommetto i tuoi due coglioni rotti che anche tu hai capito in fretta, perché pur de coccio c'hai ancora un cervello» tuonò Minnie, sempre rivolta a Dante. «Se pente di tutto quello che fa e pensa.»

L'aria mi violentò la gola.

«Considerando la vita che sta a condurre, non c'è da sorprendersi, in realtà. C'ha il mondo intero che vuole falla sentire in colpa pure se si soffia il naso e si pulisce il culo ed è stata isolata da tutti, manco una stronza come me saprebbe resistere a 'na situazione del genere senza crollare nei rimorsi e rimpianti. Il suo carattere timido e la bassa stima che ha di sé, poi, ha peggiorato tutto.»

Max giocherellò con una ciocca grigia di Minnie, mentre un altro silenzio pesante inondava il salotto, ottemperato soltanto dalle fusa di Lucciolina.

«'Na cosa però mi è chiara, lei vorrebbe e sente il bisogno di confidarsi su suo padre con qualcuno» proseguì ed io trasalii. «Non lo fa sia per come il mondo la giudica, sia per la paura folle che se lo facesse, verrebbe condannata ancora di più non solo perché lo va a trovare, ma soprattutto per gli orrori che lui le rivela proprio quando lo va a trovare.» Sollevò lo sguardo da Lucciolina per rivolgerlo di nuovo a Dante. «C'ha paura che se te ne parlasse, la prima cosa che tu le chiederesti sarebbe: "Come cazzo fai a vole' bene a un pezzo di merda che pensa, fa e ti dice 'sti abomini?

Mi morsi il labbro fino a sentire il sapore ferroso del sangue.

«È di questo che credi che parlino?» chiese Max.

«Penso de sì, ma solo lei lo sa davvero.»

«E tu pensi» la chiamò ancora Dante, «che una persona così può essere stato un buon padre, prima che si scoprisse tutto?»

Un fulmine mi saettò nelle vene.

Minnie rispose all'istante: «Sì.»

Sia Dante che Max sussultarono. «Toglietevi dalla testa st'idea che i mostri come Lawrence Reid sono alieni che non c'hanno sentimenti se non quelli omicidi. Mangiano, bevono, pisciano e cagano come tutti quanti. Non provano molte delle loro emozioni nella maniera sana e naturale che abbiamo in gran parte, certo, ma per quanto alcune possano essere malate, tossiche e deviate, so' sempre emozioni. Non so' demoni usciti dall'inferno e partoriti da Satana, so' stati sgravati come tutti quanti da un uomo e una donna e appartengono alla stessa razza nostra, quella umana, e quindi possono instaurare legami e fare del bene ad alcuni. Orrenda verità, lo so, ma è così. Non li giustifica, sia chiaro, ma è come funziona. Il fatto che sono dei mostri non vuol dire che il 100% delle loro azioni da che sono nati abbia causato solo e soltanto del male.»

Strizzai gli occhi voracemente.

«Lo so» rispose Dante, stupendo per la seconda volta Minnie e Max e anche me. La sua voce era profonda come sempre, ma appariva quasi... granulosa. «Sto solo cercando di capirci qualcosa di più sul suo conto. Anche proprio per la questione di Betsy George.»

Una pugnalata al cuore, nel sentire quel nome.

Minnie serrò la mandibola. «Lei è la vittima che se capisce de meno: l'unica che lui conosceva sul serio, non un'estranea come le altre.»

«Perché però ammazzare proprio lei?» chiese Max. «Lo so che è 'na cosa orrenda da pensa', ma se era così cara alla figlia, perché non ha continuato a scegliere sconosciuti?»

La mano sul pomello cominciò a tremare.

Minnie sospirò. «Non te lo so dire, non c'ho la sfera di cristallo. Certo è che tra le mille ragioni per cui Riccioli Corvini va a trovarlo, c'è anche per chiedergli di lei.»

Era così, era proprio così.

«C'è la possibilità che abbia scelto Betsy George per far male alla figlia?» chiese Dante, ed io sussultai, sanguinando dentro. «Che anche per questo o solo per questo l'abbia scelta?»

Minnie contrasse con furia la fronte. «Non nego che è una possibilità» ammise dopo qualche secondo di silenzio, ed io ebbi voglia di marcire. «Ma appunto, una possibilità tra altre mille. Le ipotesi sul perché abbia scelto proprio lei sono infinite: magari Betsy George sospettava qualcosa sul suo conto, magari era attratto da lei in qualche modo, magari l'ha beccato a far qualcosa e allora ha dovuto rapirla per forza, magari semplicemente c'ha avuto voglia improvvisa di sfidare i suoi limiti e sperimentare il brivido di correre il rischio con lei. Stiamo parlando comunque de un uomo con una psicologia distorta, malata proprio, deviata. Per quanto bravo a camuffasse con gli altri, sicuro non c'ha lo stesso modo de ragionare e sentire nostro, quindi comprenderlo è difficile per noi che semo sani de testa, forse addirittura impossibile. Ma te ripeto quanto già detto: non devi chiedere a me per questo, devi chiedere a Riccioli Corvini.» Sospirò. «Il confine tra bene e male in queste situazioni di merda smette di esistere: le due cose se uniscono insieme e non se possono più distingue'.»

Deglutii ancora, con Dante che taceva per un altro paio di minuti.

«Allora te chiedo un'altra cosa che non c'entra con 'sta storia ma con una roba mia, visto che sei fanatica di 'ste schifezze» disse severo, Minnie inarcò un sopracciglio. «In una relazione tossica, se il partner abusivo schiatta, può continuare ad abusa' della sua vittima anche dopo la morte?»

Quel quesito mi lasciò perplessa. Di chi stava parlando? Si riferiva a Jane e Ryan? All'impatto che le loro morti avevano avuto sui gemelli?

«Tipo fantasma dello spirito del Male Passato?» domandò Max e subito Minnie gli diede una gomitata violenta allo stomaco, senza neanche voltarsi a guardarlo, continuando a fissare Dante e ignorando volutamente i lamenti del suo compagno piegato in due per il dolore.

«Di che genere di abusi stiamo parlando?» gli domandò, la fronte corrucciata.

Dante esitò per qualche istante. «So' sicuro che se tratti de abusi mentali in particolar modo, ma non escludo anche quelli fisici.»

Max era perplesso, benché ancora dolente a causa della gomitata, lo stesso mio smarrimento lo stava travolgendo, era palese che non comprendeva a sua volta, visto che Jane non era sopravvissuta a Ryan. Forse davvero si riferiva ai gemelli.

Minnie si accigliò. «Intendi abusi emotivi come il gaslighting?»

«Intendo un vero e proprio plagio del cervello.»

La memoria di uno specchio e due occhi verdi mi perforò i pensieri, ma la cacciai via l'istante successivo. Non era quello, non avrebbe mai potuto esserlo.

Lei tamburellò le dita sotto il mento di Lucciolina, storse le labbra nere in una smorfia. «A livello teorico sì» rispose alla fine. «Ma dipende da moltissimi fattori, in realtà: dal tipo di abusi, la loro durata, ripetitività e violenza, quanto si sono protratti nel tempo e con quale intensità, l'età della vittima quando li ha subìti, l'ambiente in cui viveva e il suo carattere, il rapporto che la legava al carnefice, in che modo è stata plagiata e su che cosa. E soprattutto se la vittima è consapevole del plagio e di essere una vittima» dichiarò alla fine. «Se non ne è consapevole, è possibile.»

«Anche se il partner abusivo è morto?»

«Se lei non realizza appieno che il partner era abusivo e se non ha mai parlato con qualcuno di tali abusi, specie professionisti del settore, di modo da iniziare almeno in parte a comprendere la loro reale natura e non considerarli più come normalità assoluta, sì, è forse un po' raro, ma comunque possibile. C'è un motivo se non ce se libera mai facilmente delle sette più deviate, anche dopo che i loro capi so' stati incarcerati o so' schiattati.» Storse il naso. «Si è mai provato a discuterne con la vittima in questione di ciò?»

«È impossibile per il momento, è 'na bomba atomica che scoppierebbe l'istante stesso in cui viene nominata.»

Minnie schiuse le labbra. «È così grave?»

Ci fu un secondo di pausa. «È  grave abbastanza da farle avere 'na visione completamente distorta de concetti normali che so' comuni a tutti noi.»

Lei strabuzzò gli occhi, guardò Max, per poi ritornare a Dante con il suo ciglio perenne. «È anche molto importante capire che legame aveva col partner abusivo. Di che rapporto stiamo parlando?»

Lucciolina sollevò il capo e d'improvviso rivolse gli occhi verso di me. Era impossibile, ma quasi arrivai a credere che mi avesse vista.

Un miagolio acuto, festante e al contempo furioso interruppe Dante prima che potesse rispondere.

Il miagolio di Lucciolina.

Che mi aveva vista eccome.

Balzò dalle cosce di Minnie per atterrare sul pavimento con un'eleganza encomiabile e come richiamati da quel suo grido, anche gli altri gattini iniziarono ad uscire dalle loro tane, uno dopo l'altro, per seguirla.

E stavano venendo tutti verso la mia porta.

Oh no.

Indietreggiai in fretta, per poi inciampare quando mi ritrovai tra i piedi, dal nulla, Tortellino. Nel tentativo di non calpestarlo, caddi all'indietro, la fortuna volle che mi rovesciai di spalle sul letto, ma non riuscii comunque a trattenere l'urletto di stupore.

Atterrai sul materasso quasi rimbalzando e con un'improvvisa voglia di scavare una fossa ai miei piedi e seppellirmici.

La porta prima schiusa si aprì di colpo, spalancata dall'orda di micetti che per cause incomprensibili aveva deciso di farmi visita.

Mi risollevai a sedere sul bordo del letto, trovandomeli tutti ai piedi: Lucciolina a fare da capa assoluta e indiscussa su tutti gli altri, Tortellino alla sua sinistra, dietro di lei Pasticcino, Biscottino e Fiorellino.

Una vera e propria nuvola di gatti pelosi dai colori più diversi che non solo mi guardava con un'intensità tale da mettermi quasi a disagio, perché sembravano indecisi se assalirmi in quanto nemica o corrompermi per ottenere nuove coccole, ma era diventata un trattore gigante: le loro fusa erano così forti che non riuscivo a sentire altro.

Quando risollevai il capo alla porta, sentii la vergogna investirmi tutta la faccia, non appena scorsi le figure di Dante, Minnie e Max appostati sulla soglia.

«Io...» biascicai. «Ecco, non lo so... perché stanno facendo così.»

Minnie serrò le sopracciglia, scrutò i suoi gatti, poi tornò a fissare me.

«Hanno capito chi gli cucinerà per le prossime settimane.»

Nota autrice pt. 2

Ce vediamo alla parte due de sto capitolo!

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