Il filo d'Arianna

Il filo d'Arianna.

Uno dei miti più famosi dell'Antica Grecia.

Teseo, smarrito nel labirinto del Minotauro, riuscì a ritrovare la strada con cui uscire proprio per merito di quel filo che Arianna gli aveva dato in dono, e così era potuto sfuggire alla morte che inesorabile l'attendeva insieme a sofferenze e agonie indicibili.

Pochi mesi dopo la sentenza di condanna a morte di Lawrence Reid, un famoso criminologo venne intervistato, egli dichiarò che le menti come quelle di mio padre erano dei veri e propri labirinti in cui i criminali stessi erano sprofondati e da Teseo si erano trasformati in Minotauri.

Nessuno avrebbe saputo però dire con certezza chi avesse costruito quel labirinto tutt'attorno a loro: loro stessi? L'ambiente e le persone che avevano incontrato? Una predisposizione genetica? Tutte queste tre cose assieme?

Chi era stato il loro Dedalo?

Non lo si sapeva, forse non lo si sarebbe mai scoperto.

Di certo mio padre non lo sapeva.

E nemmeno io.

Era stato ironico e crudele ascoltare quell'intervista, perché io conoscevo bene il mito di Teseo e del filo d'Arianna, me ne aveva parlato una volta Betsy, una delle sue tante passioni a cui si dedicava anima e corpo invece che sul programma di studi scolastico.

Era stato ironico e crudele ascoltare quell'intervista, perché il giorno in cui avevo scoperto l'esistenza di quel mito, anni prima, avevo pensato di essere io quella intrappolata nel labirinto, Teseo, e mio padre Arianna, colui che mi aveva dato il filo per uscirne, per dimenticare l'oblio delle tenebre e del passato, lo smarrimento di un mondo di specchi, il peccato di esser nata.

Ma con quel filo papà era riuscito a tracciare una scia di luce persino nel buio assoluto del mio labirinto, e allora io mi ci ero aggrappata con forza e avevo iniziato a seguirlo, per non farmi trascinare dalle correnti dense di tutte le mie ombre. Mi ci ero aggrappata con forza e per la prima volta avevo osato andare avanti invece che indietreggiare.

Perché sapevo che dall'altra parte del filo, una volta uscita dal labirinto, ci sarebbe stata una casa ad attendermi.

La mia casa che era il mio papà.

Io avevo creduto in quel filo ogni giorno, mi ero fatta ammaliare dalla sua luce ogni giorno, l'avevo bramata per non perdere senno e memoria nell'oscurità viscerale che mi circondava.

E l'avevo seguito, quel filo, sì, ancora e ancora.

Ad ogni passo avevo sorriso, ad ogni passo avevo sperato, ad ogni passo avevo amato.

Ero stata felice.

Ma avevo dimenticato il dettaglio più importante, ciò che davvero mi differenziava da Teseo.

Che lui aveva ucciso il Minotauro.

Io no.

Il mio segreto era ancora vivo, lo sarebbe stato per sempre, e mai sarei riuscita a liberarmi di esso, sarebbe stato una condanna a gravarmi sulle spalle fino alla mia fine.

E per quanto con quel filo avessi tentato di allontanarmi da lui, il Minotauro rimaneva, restava e resisteva imperterrito, stringeva a sua volta il filo e lo trascinava indietro per impedirmi di arrivare all'uscita, per ricondurmi a lui, ricordarmi con costanza che c'era, esisteva, e mai mi avrebbe lasciata scappare.

Che lui era il vortice a cui inesorabilmente sarei ritornata, risucchiata dalla forza inaudita delle correnti di cui facevo parte, quelle contro cui mai avrei potuto nuotare, sempre solo farmi trascinare da loro, perché a quel vortice d'oscurità vi appartenevamo, io e il Minotauro, come il respiro ai polmoni.

In quel labirinto saremmo morti entrambi non uccidendoci a vicenda, ma sopravvivendo l'uno all'altra fino all'ultimo giorno.

Perché era il solo modo che avevamo di vivere, noi due.

Io Teseo e lui Minotauro, ma sempre e solo una cosa sola, sempre e solo un dolore unico, nostro e di nessun altro.

E quando quel filo si era rotto, spezzato per sempre dalla verità su mio padre, anche l'ultimo bagliore di luce era svanito.

Eravamo rimasti solo io e il Minotauro, a naufragare nelle tenebre.

Solo io e il mio segreto, a ritornare al nucleo di quel vortice.

Intrappolati per sempre in un labirinto di specchi e inganni, menzogne così ben calcolate da apparirmi naturali e sincere, oscurità talmente fitte e profonde da poterle bere invece che respirare, sentirle riempirmi lo stomaco come cascate d'acqua.

E il respiro del Minotauro alle mie spalle, sempre più profondo e iracondo, sempre più vicino.

La voce di lei a bisbigliarmi da lontano la solita, crudele, canzone:

Lo sai cosa devi dire allo specchio, Agatha?

Avevano detto che la mente di papà era un labirinto.

Un labirinto in cui non si sapeva come lui ci fosse finito o chi glielo avesse costruito attorno, chi fosse stato il suo Dedalo.

Avevano detto che ormai era troppo deviato e disturbato perché si potesse mai comprendere appieno quali erano i meccanismi con cui lavorava la sua mente.

E mi chiedevo allora come fosse possibile.

Come fosse possibile che in quell'infinità di persone al mondo, fosse stato proprio lui a darmi l'illusione di una speranza.

A farmi scoprire qual era il reale sapore di un sorriso.

L'incanto di un legame e di un affetto talmente profondo da farti credere che il paradiso esiste davvero e anche noi uomini e bestie possiamo realizzarlo.

Il suono fragoroso di una risata e quello divertito di due paia di piedi che ballano a ritmo di una musica festiva.

La meraviglia di svegliarsi il giorno di Natale e trovare regali sotto l'albero che tu e lui avete preparato con cura, scartarli estasiata non per i regali in sé, ma perché ne hai finalmente ricevuti alcuni, veri e sinceri, come mai prima d'ora.

Avere qualcuno da cui andare nel cuore della notte, dopo un incubo, e chiedergli se puoi dormire con lui, solo per stavolta, solo per non avere più incubi.

La delicatezza e il calore di un abbraccio che invece di farti credere di star infettando, ti dona la pace di poter essere accolta e accettata.

Perché?

Perché proprio lui?

Lui che era così complesso e deviato da essere un vero e proprio labirinto, era riuscito a vedere la bambina in me che nessuno aveva mai scorto, lui che era così folle e disturbato da non poter mai esser compreso del tutto, era riuscito a far ridere anche una creatura come me, che della risata ne conosceva solo il suono sintetico, quello prodotto da falsità e tormenti.

A insegnarmi a ballare appena scoccava la mezzanotte di Capodanno, perché per inaugurare un anno nuovo non c'è niente di meglio che una danza fatta bene, affermava ogni volta. E allora noi danzavamo sulle note dei nostri cantanti preferiti, ma in realtà non ascoltavamo neanche quelle canzoni, le nostre risate e continue battute coprivano tutti i suoni, riempivano l'aria, la saturavano della felicità che colmava i nostri cuori.

Il mio soprattutto.

A trovare il metodo di studio più adatto a me, a imparare a pulire con cura e dedizione ogni cosa, a non disprezzarmi per la mia altezza sproporzionata rispetto a quella delle altre ragazze che erano sempre più minute e delicate di me. Affermava con orgoglio che le donne alte avevano un fascino tutto loro e che non era certo il mio metro ottanta a rendermi meno femminile e carina.

Ad asciugare le mie lacrime ogni volta che piovevano dai miei occhi, senza mai alterarsi, senza mai arrabbiarsi per averle viste, per essere ancora così immatura da cedere al pianto. Si portava sempre un fazzoletto di stoffa in tasca proprio per quel motivo, per assicurarsi di poter sempre consolarmi in qualsiasi luogo e momento, nel caso stessi soffrendo.

La sua mente è un labirinto e lui si è trasformato nel Minotauro.

E com'era possibile, allora, che fosse stato proprio lui a farmi credere di poter essere salvata?

Perché io lo sapevo, ormai, lo sapevo.

Che da parte sua fosse una recita o meno, che fosse tutto un metodo calcolato in maniera ossessiva pur di ottenere la mia fiducia, per me non lo era stato.

Perché in certe occasioni una bugia che viene donata può trasformarsi in verità assoluta tra le mani di chi l'ha ricevuta.

Ed era quello il mio caso.

L'avevo compreso, l'ennesima condanna.

Se anche lui mi avesse detto che era stata tutta una menzogna, se anche mi avesse detto che mi aveva mentito in tutto e per tutto, che mai mi aveva amata, mai mi aveva voluto bene... questo comunque non rendeva in automatico falso l'amore profondo e la felicità che avevo provato proprio grazie alle sue bugie.

Quel filo io l'avevo toccato e sentito, era stato tanto materia quanto sentimento tra le mie dita, ne avevo visto la luce e l'avevo seguita per anni e per anni ne ero stata grata.

Nulla avrebbe potuto cancellare quella realtà dei fatti, non i suoi crimini, i suoi omicidi, le sue stragi, le sue vittime, i suoi orrori, nemmeno Betsy. Speravo ogni giorno accadesse, ma non ne ero in grado, ne ero per natura innata incapace.

La gioia che avevo provato al suo fianco era un tatuaggio indelebile sulla mia anima, più non potevo rimuoverla, per quanto mi sforzassi, nemmeno scuoiandomi viva.

Quanto si era scoperto su di lui non aveva cancellato quanto amavo di lui.

Si erano solo uniti insieme, in un ossimoro umanamente impossibile, ma mostruosamente vero.

Al tatuaggio si erano aggiunte le cicatrici.

Adesso era sì Lawrence Reid, l'assassino sadico e spietato.

Ma era anche Lawrence il mio papà.

L'uomo che più amavo al mondo.

Ed ora anche l'uomo che più odiavo al mondo.

Era Arianna e il Minotauro.

E il labirinto in cui sprofondava la sua mente deviata era lo stesso in cui annegavo io col mio segreto.

Io e papà non parlavamo quasi mai di lei.

All'epoca, avevo pensato lui tentasse di citarla il meno possibile per non arrecarmi altro dolore, rievocando la memoria dell'incidente, ora, però, ne dubitavo molto, specie una volta aver compreso che tra loro due c'era stato un accordo.

Un accordo che in qualche modo mi riguardava, mi aveva coinvolto.

Di per sé, già prima che si scoprisse tutto, da adolescente, mi ero fatta un'ipotesi simile dietro. Benché di mondo ne avessi visto poco, quando ancora vivevo nello Utah, sapevo, avevo compreso alla perfezione, che il rapporto che intercorreva tra le due persone che mi avevano fatta nascere non poteva esser definito comune o normale.

Ma mai avevo voluto porgli delle domande in merito a ciò, non mi era interessato farlo.

Una sola certezza avevo al riguardo e mi era bastata per decidere di non volerne saperne di più, specie dopo aver parlato con Betsy sull'aromanticismo di papà.

Lei amava lui.

Ma lui... lui non l'avrebbe mai amata.

Non avevo bisogno di conoscere altro.

Tanto era stato sufficiente per farmi capire.

E così avevo proseguito la mia vita nel silenzio di quelle verità che mai avrei voluto far uscir fuori, perché non ce n'era più bisogno, ormai, mi dicevo, perché avevo papà, adesso, avevo Betsy, Lucas, Joanne, non aveva senso provare a scoprire qualcosa sul perché della mia nascita, sul perché a differenza di tutti gli altri io ero così mostro.

Non volevo esserlo, quindi fingevo di essere come tutti, pur consapevole di quanto sbagliassi.

Fingevo che la mia afefobia fosse solo un problema come tanti, i guanti la soluzione per risolverli, e sorridevo e ridevo come tutti, e mi mascheravo per somigliare a quei tutti, indossavo abiti umani identici a quelli degli altri, evadevo le domande che la riguardavano stando attenta a filare con la voce quell'intricata e sadica trappola di menzogne che da troppi anni ero solita tessere.

Proprio come lei mi aveva insegnato.

Con così tanta devozione e cura da non farmi cadere e crollare nemmeno davanti allo sguardo della psicologa, con così tanta smania e ossessività che riuscivo ancora a sentire il suo respiro addosso, a sussurrarmi all'orecchio le parole che dovevo pronunciare per non rovinare tutto, per non far vedere al mondo quant'ero mostro.

Davanti ai quesiti che mi venivano posti sul periodo prima dell'incidente stradale rielaboravo la storia, la ritrascrivevo con una maestria talmente assurda che mi ritrovavo addirittura a credere a quelle favole, a illudermi che davvero fossero successe sul serio. Strecciavo i fili del mio passato e li rintrecciavo di nuovo tra loro in maniera artificiosa, così da ricondurre qualsiasi mio problema all'incidente stradale: il vero e unico trauma che avessi mai vissuto, spiegavo ogni volta, perché prima ero come chiunque, lo giuro, prima ero normale.

Una sola era la verità su cui mai avevo mentito.

La domenica mattina lei mi portava sempre a messa.

E io le ricordavo tutte, quelle domeniche, ciascuna di esse, a memoria.

Ricordavo la mia mano stretta alla sua, le dita intrecciate.

Le sue unghie sempre ben curate, le dita rosee, il modo in cui mi affascinava osservarle muoversi, come se potessero generare musica anche suonando l'aria.

Il calore immenso che quel semplice tocco mi donava e che mi faceva venir voglia di scoppiare in un pianto profondo di sollievo e al contempo agonia, ma poi risollevavo lo sguardo e scorgevo gli occhi di lei, quel giudizio infernale con cui mi lasciava capire che avevo sbagliato di nuovo e che per questo più tardi avrei dovuto chiedere perdono allo specchio.

Quegli occhi verdi, intensi, capaci di ammutolirmi semplicemente schiudendo le ciglia e fissando le loro pupille nelle mie.

Gli stessi che incontravo ogni giorno, guardandomi allo specchio.

E anche dopo l'incidente, sapevo di non poter dire nulla, di non poter fare nulla.

Avevo giurato.

Alla sola essenza che mai mi fosse stata accanto con lei: Dio.

E sapevo, sapevo bene che non avevo alternative, sapevo bene che quella promessa mi era troppo dentro perché potessi spezzarla.

Era la sola salvezza che avessi mai conosciuto.

Un pomeriggio di quando avevo diciassette anni, mentre stavo cucinando la torta per il compleanno in arrivo di Betsy, di lì a pochi giorni, in cucina, e papà preparava il caffè, ai fornelli accanto a me, lo sentii chiamarmi all'improvviso.

«Agatha, bambina.»

Stavo montando con la frusta la panna nella ciotola che tenevo ferma sul ripiano in granito con la mano libera, e quando mi voltai, mi accorsi che lui mi stava guardando con forza e il dubbio gli scavava gli occhi dello stesso colore del caffè che stava uscendo in quel momento dalla caffettiera.

«Tua madre» pronunciò, e sebbene il mio corpo rimase fermo e rigido sul posto, sebbene il mio volto rimase sereno e riposato, dentro di me il cuore si capovolse, si staccò da tutti gli altri organi e mi ricadde nello stomaco, «le volevi bene?»

In tanti mi avevano posto quella domanda, la prima tra tutti la psicologa che avevo frequentato anni prima, ma se pronunciata proprio da lui, il dolore che mi provocava era identico a quello di venir scuoiata viva.

Non solo perché a nominarla era stato proprio lui, mio padre, l'uomo che più amavo al mondo.

Non solo perché era proprio di lei che mi stava parlando.

Non solo perché per l'ennesima volta avrei dovuto celare e nascondere tutto, soffocarlo nella mia ragnatela di inganni e menzogne.

Ma soprattutto per la risposta che gli diedi.

«Sì.»

La sola che mai avrei voluto pronunciare.

«L'amavo tantissimo.»

La verità più crudele che possedessi.



«Non pensavo saresti venuta oggi, bambina.»

Guardai papà sul tavolo della sala incontri, aveva la solita espressione tranquilla e serena in viso, quella un po' comica che tanto lo caratterizzava, ma le rughe gli soffocavano gli occhi e così le labbra un po' storte in una smorfia.

Non potevo biasimarlo per quel pensiero, perché aveva ragione.

L'avevo pensato, l'avevo pensato eccome, di non andare a trovarlo, quel martedì mattina, dopo la nostra ultima telefonata, dopo quanto mi aveva confessato su di me, sui suoi piani di uccidermi, sulla nostra vita.

Ma al mattino, non appena avevo aperto gli occhi, avevo realizzato di non riuscirci.

Il corpo si era mosso da solo, come una calamita attratta dal suo opposto aveva fatto di tutto per poter anticipare quel momento, mentre il cuore deflagrava in continue esplosioni con cui gli urlava di fermarsi, che non eravamo pronti, che non lo saremmo mai stati.

Ma ero lì di nuovo, ora.

Seduta al solito tavolino, nella solita sala con altri tavolini, con il mio solito padre assassino che indossava la sua solita divisa da carcerato.

«Non sei così intelligente come credi, allora» risposi con voce roca e, nel sentirmelo dire, papà sogghignò divertito.

«Ahimè, temo proprio che tu abbia ragione, bambina» confermò, iniziando a ticchettare le dita sul tavolo, l'unico gesto che gli era permesso, visto che le mani erano ancora ammanettate. «Un altro lato di me stesso che ho scoperto troppo tardi.»

Presi un grosso sorso d'aria, pronta per parlare, quando lui mi interruppe di nuovo: «So quali sono le prossime domande che mi vuoi fare, bambina.»

Trasalii sulla mia sedia. La voce era rimasta cordiale, ma avevo subito percepito quel tono d'avvertimento che tanto lo caratterizzava quando in passato mi aveva rimproverata.

«Fammene altre.»

Strinsi con furia la mandibola, i denti rischiarono di slittare.

«Non sei pronta per ascoltare le risposte a quelle che mi vuoi fare adesso» proseguì imperterrito lui, continuando a tamburellare le dita sul tavolino.

«Come fai a sapere quali domande voglio farti?»

Lui sollevò l'angolo destro delle labbra, andando a intensificare il reticolo di rughe che gli intrappolava il viso. «Non sarò un campione in empatia, bambina, ma in quanto a logica me la cavo piuttosto bene, modestie a parte. Dopo quello che ti ho detto per telefono, tre sono i quesiti principali che mi vuoi porre, non è così?»

La saliva mi si calcificò nella gola, trasformandosi in un tappo di ferro.

«La prima: quand'è stato il giorno specifico in cui ho capito che non potevo ucciderti.» Chiuse gli occhi per qualche istante. «La seconda: quando ho compreso di non poterti uccidere, ho compreso anche il perché?» Le gengive iniziarono a bruciarmi, tant'era l'intensità con cui stavo serrando la mascella. «La terza: cos'ho provato, quando ho scoperto di non essere in grado di ucciderti.»

Schiuse le labbra, risollevò le palpebre per guardarmi, una sofferenza che di rado mi capitava di vedergli gli soffocò lo sguardo. «Il tutto per capire se ciò è collegato a Betsy George.»

Non potei nascondere il tormento che andò a scavarmi la fronte e nel vederlo il dolore che gli dilaniava gli occhi aumentò a dismisura, ma ancora... non ero sicura di quanto potermi affidare ad esso.

Non ero sicura di niente, ormai.

Né su di lui né su di me.

«Te l'ho detto, bambina, non posso ancora risponderti in merito a lei» proseguì ancora, la voce sempre più roca.

«Quando potrai farlo, allora?»

«Quando verrai da me e mi dirai: Qualunque sia la tua risposta, ad ammazzarla sei stato solo e soltanto tu

Strizzai furiosa gli occhi, contrassi tutti i muscoli per impedirmi di esplodere in un grido disumano. Avrei solo voluto sollevarmi in piedi, afferrare la sedia di metallo dove ero seduta e usarla per colpirlo in faccia ancora e ancora, fino a fargli schizzare il cervello dal cranio e spalmarlo sui muri bianchi della sala.

Ma il mio corpo non si mosse, rimase di pietra sul posto, a guardarlo.

Un silenzio profondo andò a travolgerci, interrotto soltanto dai tavolini distanti da noi, dove altri detenuti stavano incontrando e parlando con i visitatori. Mi umettai il labbro secco, strinsi le dita tra di loro, quel giorno avvolte da un paio di guanti color rosa perlato.

«Ci sono altre domande che mi vuoi fare, però, non è così, bambina?»

Nuovi brividi tornarono a fustigarmi ossa e nervi, faticai a mantenermi ferma sul posto senza tremare.

«Domande che non riguardano Betsy George e nemmeno le mie altre vittime» continuò, e più parlava più io avrei voluto uccidere entrambi. «Domande che riguardano lei

Mi morsi il labbro, avvertendo il sapore del sangue, e strinsi con ancora più forza le dita tra loro. «Perché...» gracchiai a fatica. «Perché sei così... fissato nel parlare di lei?»

«Perché spero che nel conoscere la storia, bambina, tu possa davvero capire chi sono i reali colpevoli di tutto.»

Chiusi ancora gli occhi, espirai ed inspirai.

Non volevo proprio parlarne, non di lei, non del loro passato.

Ma volevo anche farlo.

Ero vittima del conflitto di quei due desideri opposti tra loro e proprio non sapevo più come uscirne.

Proprio non sapevo più a cosa credere.

Io sapevo solo che quello davanti a me era mio padre e la donna di cui stavamo parlando colei che mi aveva partorito.

E non capivo più cos'era giusto fare, cos'era giusto sperare.

Parlare di lei mi era sempre difficile, una condanna vera e propria, e doverlo fare proprio con papà, l'uomo che adesso più amavo e odiavo al mondo... era un'ironica crudeltà, la solita presa in giro da parte di Dio.

Ma la bocca si mosse, prima che potessi fermarla: «Come l'hai incontrata? Tu sei nato e vissuto in Arkansas, lei nello Utah, com'è possibile che vi siete incontrati?»

Le labbra di papà si sollevarono in alto, una luce intraducibile ai miei occhi gli illuminò lo sguardo. Sembrava... quasi orgoglioso. «Mi dovetti trasferire nello Utah per qualche mese per via di un progetto di lavoro» rispose con flemma, come a voler concedermi tutto il tempo possibile per digerire al meglio le sue parole e l'orrore che portavano con sé. «Proprio nella città in cui viveva lei. Un giorno, in quella città, dovetti partecipare a un convegno in merito al legame che vincola scienza e religione.»

Sussultai sulla sedia, papà abbozzò un altro sorriso.

«E lì l'ho incontrata» disse alla fine, pacato. «Lei era un'insegnante di religione ben vista e rispettata in quella comunità, era stata chiamata per parlare della scienza dalla prospettiva del cristianesimo protestante, io da quella di uno scienziato ateo. Fu un convegno che tutti quanti i partecipanti affermarono esser stato straordinario. Discutemmo sul palco per ore, io e lei.»

Mi contorsi le dita tra loro, trovando a stento la forza per respirare normalmente. «Te l'ha ricordata subito?» gli domandai. «Te l'ha ricordata subito... nonna Lily?»

Papà attese qualche secondo, voltò il capo sulle sue mani, le unghie tagliate fino alla carne, fece una smorfia. «Lo intuii subito» ammise alla fine. «Difficile a credersi, soprattutto perché, nel sentirla parlare da fuori, nessuno avrebbe potuto immaginarlo, ma io... io lo compresi all'istante. Gli occhi... I suoi occhi... avevano la stessa identica ossessione di quelli di mia madre, il modo in cui mi guardavano...» Un altro sorriso abbozzato. «Quando, dopo il convegno, lei mi chiese di andare a bere qualcosa insieme per poter proseguire la nostra discussione, io accettai per capire se le mie sensazioni fossero giuste o meno.»

Il sorriso si fece più grande.

«E lo erano.»

Congelai sul posto.

Papà sospirò. Non sembrava turbato da quanto stava dicendo, anzi, pareva quasi divertito, ma forse... nemmeno lui era certo di cosa stava provando, persino in quel momento. «Il che era strano, per me. Ormai l'avrai capito, bambina, io non sono uno che si affida alle sensazioni, visto che raramente le provo, ma in quel caso... sentivo di doverlo fare. Così accettai la sua proposta di bere qualcosa insieme e davanti alla conferma su quanto fossero giuste...»

Si fermò.

E poi, all'improvviso, scoppiò in una fragorosa risata. Così imponente da far sobbalzare anche gli altri seduti ai tavolini lontani da noi, da far trasalire me.

Continuò a ridere per almeno un minuto, per poi calmarsi all'improvviso, schiarirsi la gola, e tornare all'espressione giocosa di sempre. «Non appena la ascoltai, non appena lei iniziò a delirare su quanto fosse la sua missione aiutarmi a ritrovare la fede, la volontà di Dio, perché noi due eravamo legati indissolubilmente...» Un'altra risatina, stavolta sottovoce, e di nuovo io rabbrividii, mentre il cuore si squarciava da solo nel petto. «Ho pensato subito: La distruggerò, rovinerò per sempre il suo sogno

Le dita ora mi facevano male, tanto le stavo torchiando.

«Perché... era simile a nonna Lily? Volevi... Volevi punire nonna Lily... attraverso lei?»

Tornò a tamburellare le dita sul tavolino, gli occhi chini su di esso. «Immagino di sì» rispose alla fine, dopo qualche secondo di silenzio. «Era identica a lei, la sua goccia sputata, per quanto diversa d'aspetto. La stessa ossessione con Dio, lo stesso delirio su come io fossi l'uomo perfetto, quella sua stupida idea che fossimo anime gemelle... era proprio lei, in tutto e per tutto.»

Si fermò ancora.

Ma fu sufficiente perché comprendessi tutto.

Tutte quelle cose che mi era ormai chiaro nemmeno lui capiva su sé stesso.

Perché sua madre Lily era stato il suo inferno, ma anche l'unico legame che avesse mai conosciuto, l'unica persona che avesse mai visto.

Era vincolato a lei in maniera primitiva, anche dopo la morte, l'ultimo richiamo all'umanità che gli era rimasta, sia per l'odio che l'amore che provava nei suoi confronti... Era inevitabile che la scegliesse, ritrovandosi una donna così simile a quella che lo aveva rovinato per sempre, all'unica verso cui aveva provato sentimenti veri e sinceri e che aveva considerato persona e non oggetto, per quanto inconsapevole fosse di ciò.

Come un'ape a un fiore, così mio padre si era sentito attratto dal fantasma di sua madre, incarnato nel corpo di lei, negli occhi di lei.

Forse lui non l'aveva capito, ma l'inconscio lo aveva fatto senz'altro, e per la prima volta aveva assunto il predominio sulla sua razionalità mostruosa, comandandolo, inducendolo a comportarsi come mai aveva fatto prima d'ora.

«Perciò...» biascicai a fatica. «Il tuo piano... per distruggerla... era ingannarla?» Risollevò gli occhi su di me, deglutii. «Farle credere che tu... ti stessi innamorando di lei, che lei stesse riuscendo a compiere la sua missione... La volontà di Dio... e poi lasciarla?»

Piegò ancora le labbra all'insù, annuì. «Esattamente, bambina.»

Mi sentii divorare da una mandria di bestie che si cibava di me e del mio dolore.

«Ucciderla, torturarla... quello non le avrebbe fatto niente» proseguì. «Non era il dolore più grande che avrebbe potuto sperimentare... mentre farle fallire il miracoloso progetto di Dio... quello sì che l'avrebbe distrutta.» Sghignazzò ancora. «Così iniziai a frequentarla per il mese successivo, dando sempre più adito ai suoi deliri religiosi.»

Incerta, mi ritrovai a dire: «Ma l'hai sottovalutata, non è così?»

Sorrise di nuovo. «Già» rispose con un sospiro. «L'ho considerata troppo identica a mia madre» ammise alla fine. «Mia madre, quando era viva, mai avrebbe corso il rischio di rimanere incinta. Il perché puoi già immaginarlo, bambina. Era single, vedova, e viveva col figlio, era legatissima a lui... avrebbe attirato troppi sospetti, una gravidanza improvvisa da parte sua, figurarsi poi se nata con un incesto, il rischio che il bambino uscisse con qualche malformazione era troppo alto, i sospetti sarebbero aumentati ancora.»

Non seppi spiegarmi con che coraggio non mi sollevai dalla sedia per andarmene via, per fingere di non dover conoscere quelle verità che mi erano sempre state negate.

«Non mi era proprio passato di mente la possibilità che lei, invece, avrebbe fatto di tutto per vincolarmi a sé e così non mi sono preoccupato di controllare che tutto fosse apposto, ai nostri incontri.»

Mi morsi di nuovo il labbro.

«Tu sei riuscito ad incastrarla, però, non è così?» chiesi a quel punto. Papà inarcò il sopracciglio. «L'hai... L'hai manipolata... perché confessasse di...»

«Di aver bucato i preservativi, sì.»

Sentii una mano chiudersi attorno allo stomaco in un pugno, fino a farlo esplodere.

«E così... l'hai minacciata... di portarla in tribunale...» Il suo sorriso si fece più grande. «Lei... non avrebbe mai corso quel rischio, però... e allora...»

«Abbiamo raggiunto un compromesso.»

Proprio non compresi come fossi ancora in grado di respirare.

«C-Cosa prevedeva... il compromesso?»

«Lei avrebbe finto di avere una relazione stabile e duratura con me» rispose all'istante, ed io tremai sul posto. «Avrebbe detto a tutti quelli del posto che purtroppo per il mio lavoro non potevamo vederci spesso e che quindi dovevamo vivere separati, ed io, oltre che a riconoscerti subito, di tanto in tanto avrei dovuto venirvi a trovare per mantenere quella facciata e, ovviamente, darvi i soldi necessari per garantirvi una vita dignitosa. Provò a trattare convincendomi a sposarla, ma rifiutai categoricamente, quello era il massimo che le avrei concesso, e lei lo sapeva bene. E per quanto non esser sposata ma con un figlio fosse una vergogna ai suoi occhi, non lo era quanto esser stata abbandonata dal padre di tale figlio... Quella sì che era un'onta indicibile, una condanna assoluta, non l'avrebbe mai tollerata. Sarebbe stata considerata una poco di buono dalla sua comunità cristiana, diceva. Al tempo stesso, però, si rifiutava di abortire, proprio per via della sua fede.»

Sì, lo sapevo.

Lo sapevo bene.

E adesso tante cose mi erano chiare.

Il motivo per cui, quando papà ci veniva a trovare, lei era sempre così felice, così estasiata.

Il motivo per cui si vestiva così impeccabilmente, perché lo costringeva sempre a uscire fuori, non appena arrivava.

Non solo per passare del tempo con lui.

Ma anche per far vedere a chi la conosceva che c'era davvero una relazione, tra loro due, che non era stata abbandonata dall'uomo che amava, dall'uomo che Dio le aveva detto esser stato destinato a lei.

«Papà?» lo chiamai, lui continuò a guardarmi in silenzio. «L'incidente stradale... lo hai... provocato tu?»

Sollevò entrambe le sopracciglia e poi, d'improvviso, rise di nuovo. Non più forte come prima, ma con molta decisione, come se avessi fatto la battuta più divertente del mondo. «Bambina» disse, «sarà orrendo da dire, me ne rendo conto, ma mi lusinga che tu pensi io sia capace di una simile impresa. Mi dispiace rovinare la stima che hai del mio genio criminale, ma no, non l'ho provocato io l'incidente stradale. Nessuno al mondo, nemmeno un mostro deviato come me, potrebbe mai controllare a distanza la mente di un ubriacone fradicio così che si metta alla guida e riesca ad investire in pieno una macchina precisa.»

E fu orrendo per me realizzare quanta delusione provai davanti alla sua risposta.

«Uccidervi non mi sarebbe convenuto comunque, per quanto fastidioso fosse esser stato incastrato da lei ed esser costretto a quel teatrino» ammise. «Ma finché mantenevamo quella distanza e dovevo avere a che fare con voi per quelle settimane durante il corso dell'anno... potevo tollerarlo.»

Ci fu un lungo minuto di silenzio da parte di entrambi. Papà tornò a chinare il capo, a guardarsi le mani le cui dita ora erano intrecciate come le mie. «All'epoca, quando vi venivo a trovare, non mi interessavo granché a voi, facevo solo la mia parte dell'accordo e poi me ne andavo, cercavo di mantenere una buona reputazione, così da non attirare a mia volta sospetti, il massimo indispensabile, si potrebbe dire.»

Sì, avevo immaginato anche quello.

Benché ogni volta che ci incontravamo, lui mi portasse fuori al parco, fosse sempre gentile con me, mi riempisse di regali, e lei fosse felice come non la vedevo mai quand'eravamo solo noi due... io la sentivo.

La sentivo sotto la pelle, da che ero minuscola.

Quella patina di innaturalezza che copriva i visi di entrambi, soprattutto quello di lei, che gioiva per motivi che poi, l'attimo in cui lui se ne sarebbe andato, si sarebbero trasformati in crimini.

Crimini di cui c'era un solo colpevole.

«So che ti stai chiedendo come ci sono arrivato, bambina.»

Mi morsi di nuovo il labbro, assaporai ancora una volta il sapore del sangue, papà, con gli occhi sempre volti alle sue dita, aggrottò appena la fronte. «Quando vi venivo a trovare, quando parlavo con te e lei al telefono... sembravate stare bene. Lei continuava a riempirti di complimenti, si vantava di te con me in continuazione... all'epoca pensai che lo facesse sia perché davvero lo credeva, visto che tu, nella sua mente, eri il frutto di due anime gemelle scelte da Dio, sia perché al tempo stesso voleva provare ancora e ancora a convincermi a rendere vera la nostra relazione, non più una recita.»

Ci fu un minuto intero di silenzio, da parte di entrambi, capace di dir tutto.

«Poi ti sei trasferita da me, dopo l'incidente, e nel corso degli anni ho iniziato a intuire che c'era qualcosa di molto più profondo dietro.»

Non volevo più ascoltarlo, volevo solo annegare nell'acqua così che tutti i suoni mi arrivassero ovattati in testa, di modo da avere la scusa perfetta per dire di non poterlo più ascoltare, ma tutte le mie cellule mi obbligavano a restar ferma lì, sulla mia sedia, a continuare a tremare e sanguinare dal labbro.

«C'era qualcosa che non andava» ripeté papà, la voce arrochita. «Qualcosa che non mi tornava. Quando avevi i tuoi incubi, ad esempio, spesso farfugliavi di cose che non riguardavano minimamente l'incidente, e di tanto in tanto non riuscivi a tollerare nemmeno di guardare il tuo riflesso, evitavi gli specchi come se ti potessero uccidere.»

L'aria mi violentò le narici.

«Era naturale, in fondo, che tu mi lasciassi degli indizi, bambina» mormorò, e non seppi proprio se lo avesse detto per consolarmi o meno. «Vivevamo insieme, era inevitabile. Anche io li ho lasciati a te, non c'era modo di nasconderli, non quelli.»

Il cuore... faticavo a sentirlo, batteva con così tanta violenza che il dolore era troppo forte perché mi facesse male.

C'era e basta, esisteva e basta.

«Mi ci sono voluti parecchi anni, si può dire... che l'abbia capito del tutto poco dopo il mio arresto» andò avanti, la fronte sempre più corrucciata. «Come ti ho detto, fatico davvero a capire le emozioni, bambina, e non solo le mie, ma anche quelle degli altri. O forse, più che faticare a capirle, le minimizzo in maniera automatica, e quello che ai miei occhi appare come un banale dolore in realtà si rivela essere una sofferenza immensa. Per questo ci ho impiegato così tanto tempo per fare due più due, per capire chi è la causa dei guanti che indossi. Inoltre, mi veniva difficile da credere, visto come lei si comportava con te, quand'eravamo insieme. Eri la sua principessa, ti venerava, era entusiasta come non mai, e anche tu... quando parlavi di lei, lo facevi con così tanta serenità... eppure non sei mai stata brava con le bugie, ti tradisci subito quando ne dici una, ma con lei non avevi problemi, eri sincera sempre e comunque. Ti leggevo la verità negli occhi.»

Un'altra risatina da parte sua, che mi si incastrò tra i battiti con l'agonia di un tumore.

«Quando ho capito, mi sono reso conto per la seconda volta di quanto stupido fossi. Se solo ci avessi riflettuto bene, se solo avessi provato a sentire un po' di più, l'avrei capito subito. In fondo, mia madre ha fatto la stessa cosa con me. Mi ha addestrato da che ne ho memoria, e lei era la copia spudorata di mia madre.»

Non ce la facevo più, volevo solo scoppiare a piangere, fuggire via. «Pa-»

«Agatha, bambina» mi interruppe. «Lo so cosa stai pensando, adesso.»

«No, tu non lo-»

«Stai pensando: "Sono davvero identica a mio padre, in tutto e per tutto, abbiamo pure lo stesso passato. Sono sul serio un mostro come lui.

Era umiliante esser letta così da lui, un mostro del genere. «N-Non avevi detto...» balbettai disperata. «Che non capivi granché... le emozioni?»

«Ed è così» confermò, e una luce d'amarezza gli calcò lo sguardo. «Ma... da un po' di tempo... ho imparato a comprendere meglio le tue... e le mie che riguardano te.»

«Da quanto tempo?»

Un sorrisetto. «Furba, bambina, molto furba, ma non ci cascherò. Anche perché» fece un cenno col capo all'orologio sulla parete là accanto, «ci rimangono circa sei minuti, prima che la guardia venga a prendermi.»

Serrai la mascella di nuovo, inspirai ancora.

«Bambina» mi chiamò ancora, e a fatica riuscii a reggere lo sguardo con cui mi incastrò a sé, al suo volto martoriato dalla stanchezza e il crimine, «te lo ripeterò fino a quando è necessario: tu non sei come me.»

Le lacrime tornarono a bruciarmi gli occhi, le ricacciai indietro sbattendo con rabbia le palpebre.

«Avremo un passato simile e forse è anche per questo che ci siamo legati così, forse è anche per questo che ti vedo come una persona e non un oggetto, ma...» Si bloccò di nuovo. «Ma tu non sei me, bambina, e non lo sarai mai

Riuscire a non urlare fu uno sforzo bestiale.

«Tu non reciti quando sei con gli altri, i sentimenti che provi sono autentici e sai riconoscerli alla perfezione, sei gentile, sei buona, sei dolce. Tutte cose che io non sono mai stato e non ho neanche mai desiderato essere. L'unica cosa che per me è sempre contata è uccidere e la sola eccezione nel corso di tutta la mia vita sei stata tu. In questo momento, se tutta la popolazione del mondo morisse tranne te, a me non fregherebbe nulla, anzi, me ne dispiacerei perché, se tanto dovevano morire, avrei voluto essere io ad ammazzarli, così almeno mi sarei divertito tantissimo.»

«Papà, per favore-»

«Bambina, ascoltami bene» mi bloccò. «Lei non era normale, è il motivo per cui, a differenza delle altre donne, l'ho scelta.»

Lo stomaco mi si rovesciò dentro, andando a buttare sulle viscere tutte le sue secrezioni, quando incrociai i suoi occhi determinati.

«So che già sai o comunque sospetti il motivo per cui era così, non ho dubbi al riguardo» proseguì, e la mia fronte si contrasse di nuovo. «Ma avere passati simili non ti rende in automatico persone simili, sono le differenze a contare, in questo caso, e la differenza tra noi due e te, bambina, è il fatto che tu hai spezzato la catena.»

Bugiardo.

«Il problema è che non te ne sei ancora resa conto.»

Non ebbi più il coraggio di guardarlo negli occhi, con il segreto a pulsarmi al posto del cuore per tormentarmi di nuovo.

«Bambina, ti ricordi quando, a dodici anni, tornato a casa da lavoro, tu mi facesti trovare a sorpresa il gelato alla nocciola fatto da te, con la macchina che ti avevo comprato?»

Sì, lo ricordavo.

Lo ricordavo fin troppo bene.

Papà sorrise, l'amarezza a dipingergli le labbra e gli occhi. «Mi dicesti che me lo avevi preparato perché avevi capito che era il mio gusto preferito, avevi chiesto che ti comprassi la macchina apposta solo per farmelo, ed io... rimasi sorpreso.» Si fermò ancora. «Perché nemmeno io... lo sapevo, che era il mio gusto preferito, e tu invece lo avevi intuito solo osservandomi.»

Uno spillo acuminato mi bucò entrambi i polmoni.

«Nonostante quello che lei ti ha fatto, ami così tanto il mondo e le persone da cercare sempre i dettagli e i particolari più scontati così da poterle rendere felici dopo» sussurrò a fatica. 

Un altro minuto di silenzio, l'ultimo che ci rimaneva prima che la guardia venisse a prenderlo.

Sollevai di nuovo gli occhi, incrociai i suoi.

E non mi sembrò più Lawrence Reid, lo spietato assassino.

Non mi sembrò più il Minotauro che viveva in un labirinto senza uscita.

Mi sembrò papà, il mio papà, Arianna.

Colui che mi aveva dato il filo.

«Come puoi anche solo pensare» mormorò, il tono straziato quanto le mie lacrime in gola, «di essere uguale a me?»


Tornata a casa, non so perché, andai a guardare le ultime mail ricevute.

Lucas mi aveva scritto

Agatha, vorrei parlarti.






Nota autrice

Qualcuno per caso ha detto...

✨T✨R✨A✨U✨M✨A✨?

Eh oh, era da troppo tempo che non se vedeva Lawrence, toccava che rimediassi 💅🏻💅🏻💅🏻

Come sapete, con Lawrence ormai cerco di non dilungarmi troppo perché c'ho il panico de spoilerarvi mezzo mondo.

TUTTAVIA

Vorrei fare un'analisi su quanto Agatha riflette in merito a lui e al rapporto con sua madre e nonna Lily, lo sapete che ogni scusa è bona per me per il momento pippone-analisi.

Lawrence, come detto e ribadito da lui, Agatha e me medesima, ha subìto a causa del TRAUMAH di ammamma bella (e anche per una predisposizione mentale/genetica forse) un totale distacco dalla sua parte emotiva.

Non è apatico, ma fatica NA CIFRA a percepire le proprie emozioni e quindi comprenderle.

Se può dire che fatica quasi quanto me quando provo a convince le fan accanite dei libri trash che sono definiti trash non perché noi che li critichiamo semo degli stronzi insensibili che vogliamo insultare gli autori/autrici che li hanno scritti, ma perché fanno passare il messaggio che un omo che te mena, abusa, maltratta, non rispetta la tua volontà, mezzo te stupra tra un po', è VERO AMOREH, quando in realtà è solo na relazione tossica.

O come me quando provo a fare qualche calcolo matematico senza calcolatrice azzeccandoci col risultato.

Nsomma, na cosa QUASI impossibile.

Il fatto che lui, alla fine del capitolo, dica che LUI STESSO non sapeva che il gusto nocciola del gelato è il suo preferito lascia intendere molte cose. Non è neanche certo dei suoi stessi GUSTI sul cibo, quindi capite quant'è compromesso a livello di comprensione del proprio io.

È stato plagiato così tanto, ha recitato il ruolo di una persona che non era così tanto a lungo, da non sapere praticamente NIENTE di sé se non una cosa:

Uccidere lo gasa NA CIFRA.

E non solo lo gasa, ma gli dona proprio un sentimento di superiorità, perché PUÒ UCCIDERE TUTTI, non c'è un solo oggetto che non saprebbe uccidere.

Almeno fino ad Agatha, stando a quanto dice lui.

TUTTAVIA (pt. 2)

Questo NON significa che Lawrence NON SI SIA MAI LEGATO A NESSUNO PRIMA DELLA FIGLIA.

In questo caso, come Agatha stessa nota, era legato ad ammamma Lily.

Perché? Non era la pedofila bastarda che ha abusato de lui? Non l'ha persino ammazzata, rendendola la sua prima vittima? Quindi come fa ad essere legato a lei?

PROPRIO per questo si intuisce che lo era, invece.

Sua madre è stata letteralmente l'unico legame che lui abbia mai avuto, non con un oggetto, ma con UNA PERSONA.

Che fosse na bestia immonda, na schifosa pedofila malata e invasata religiosa, era comunque sua madre ed era anche l'unica con cui aveva intrattenuto una relazione.

Na relazione MALATISSIMA, sia chiaro, ma comunque vincolante per lui.

PER QUESTO Agatha ritiene che lui la amasse e al contempo la odiasse, pur non rendendosene conto: era sua madre, colei con cui ha vissuto e da cui è stato plagiato da che era bambino, con cui ha intrattenuto i suoi primi rapporti (sessuali e non) e con cui ha dato il via alla sua carriera da attore, fingendosi il padre Stuart.

Na specie di sindrome di Stoccolma, sì.

Ma anche più profonda, perché di per sé in realtà Lawrence, appigliandosi alla sua mostruosa razionalità, era consapevole che quello che c'era tra loro fosse sbagliato. Lo stesso, però, inevitabilmente si è legato a lei: la donna che era sua madre e la donna che lo ha rovinato.

Motivo per cui, quasi di sicuro, ha scelto lei come sua prima vittima, non solo perché malata terminale e quindi più facile da uccidere come esperimento senza fasse sgamare.

E motivo per cui, quando s'è beccato davanti la mamma de Agatha, anni e anni dopo, da ormai serial killer appurato, rendendosi conto di avere la copia sputata de Lily davanti, subito l'ha scelta.

Perché?

Perché lui in lei vedeva ammamma Lily, quindi SUBITO ha voluto di nuovo ripetere l'esperienza per punirla, stavolta, però, non uccidendola, ma dandole la sofferenza PIÙ GRANDE che potesse mai sperimentare:

Rovinarle il progetto di "Dio".

E so che non me crederete, forse, ma nel suo modo malato e deviato, questo è dovuto anche all'amore che provava per lei.

Ripeto: sto libro non se chiama Ignobili affetti ad cazzum.

Giungiamo ora al secondo personaggio di cui s'è discusso in questa storia, colei che, insieme al padre dei gemelli, ha ottenuto il premio di:

GENITORE PIÙ PEZZEMMERD' DELL'ANNO.

Cioè ammamma de Thaty.

In realtà, ancora sappiamo POCHISSIMO sul suo conto, ma quello che ci è stato detto è fondamentale, rivela TANTISSIME cose su di lei, sul rapporto che aveva con Lawrence e soprattutto quello che aveva con Agatha.

1) Invasata religiosa al massimo

2) S'è convinta che Lawrence e lei fossero destinati da DDDDIOH e che fosse la sua missione convertirlo.

3) Ha bucato l'☂️ a Lawrence fottendolo, ma poi Lawrence ha fottuto a lei e così so arrivati al compromesso.

4) Sto compromesso non è piaciuto a nessuno dei due, SOPRATTUTTO a lei, visto che, come Lawrence stesso dice, usava Agatha provando a convincerlo de trasformare la loro relazione in una vera e non più fittizia.

Or dunque, la conclusione a cui possiamo arrivare è una soltanto:

Non ce stava con la testa.

VERISSIMO.

E crudele da dire, ma PROPRIO PERCHÉ così identica a Lily, ha fatto vivere ad Agatha un'esperienza TERRIBILMENTE simile a quella che ha vissuto Lawrence.

Lui stesso suppone che uno dei motivi per cui vede la figlia come persona e non oggetto è proprio questo: perché nel suo inconscio aveva intuito che Agatha portasse le sue stesse cicatrici.

Mi preme come al solito ricordarvi una cosa già detta, ma la ripeto perché non se sa mai:

Agatha SA o comunque sospetta cos'ha reso la madre quella che era.

Quindi si intuisce che come Lawrence anche lei abbia avuto un passato orrendo alle spalle.

Agatha più volte ripete che lei è il frutto di un ciclo di malvagità e mostruosità da parte di ENTRAMBI i genitori, confermato poi da Lawrence il quale, però, le dice:

Tu hai spezzato la catena.

Forse alcuni de voi penseranno che io sto ad esagerare coi TRAUMI, potrebbero dirmi:

Simo, ma non potevi semplicemente fare sì che Agatha c'avesse il babbo serial killer pezzo di merda e basta? Me pare un TRAUMA sufficiente, no?

NO.

Ve suggerisco, se ve va, di andarvi a leggere le biografie dei criminali più orrendi e crudeli della storia, scoprirete che almeno il 97% de loro sono il frutto di queste continue catene di malvagità e tossicità che se sono intrecciate tra di loro.

Perché anche se a volte sì, la malvagità può essere innata, SPESSO in realtà è il frutto di un CICLO VERO E PROPRIO che manco si capisce quando è iniziato e che viene trasmesso di generazione in generazione.

Sto ciclo vede che tutti i suoi membri, seppur in contesti diversi, vivano esperienze di crudeltà simili: ambiente tossico -> loro che lo subiscono e ne diventano vittime -> crescono e diventano tossici a loro volta -> trasmettono tale violenza e crudeltà alla generazione dopo allo stesso modo -> la generazione dopo vive e fa le stesse cose, pur in maniera sottilmente diversa.

E lo dico non perché volevo fare a tutti i costi soffrire Agatha al massimo perché sono una scrittrice sadica e bastarda, ma PERCHÉ È VERISSIMO, è così che purtroppo funziona in gran parte dei casi, come quando la vittima di bullismo si trasforma dopo in un bullo.

Da vittima a carnefice, e così, ancora e ancora.

Come detto: ANCHE questa è l'umanità delle persone.

Lawrence lo ribadisce: Agatha NON è come lui, HA SPEZZATO LA CATENA, il problema principale è che lei - per via del suo segreto - non lo realizza ma si considera identica al padre e alla madre.

Ci tengo a sottolineare quanto risponde Agatha davanti alla domanda del padre sulla madre:

Le volevo bene tantissimo.

E Agatha dichiara che è la SOLA verità che vorrebbe non possedere, l'unica su cui vorrebbe mentire ma non può.

Quindi, di nuovo, possiamo intuire che il rapporto suo con la mamma era terribilmente intricato e terribilmente simile a quello di Lawrence con Lily.

Ma ricordiamo:

Anche se simile, non vuol dire che fosse IDENTICO.

Come la mamma di Agatha non era IDENTICA in tutto e per tutto a Lily.

Un'altra cosa:

Lawrence NON SA nel dettaglio COSA la madre di Agatha facesse alla figlia, ma ha capito - non si sa QUANDO - che l'ha plagiata e che è la CAUSA PRINCIPALE della sua afefobia. Ha intuito la cosa nel corso degli anni e poi ci è arrivato e dice anche di essersi sentito stupido, perché appigliandosi alla sua razionalità, non ha capito la verità.

Cioè che Agatha MENTIVA ogni volta che parlava della madre, come la madre gli mentiva ogni volta che gli parlava di Agatha.

Sottolineo che Lawrence pensava che le cose andassero bene tra quelle due ANCHE E SOPRATTUTTO perché Agatha, secondo la mente malata della madre, era il frutto di due anime gemelle destinate da Dio, e considerato quant'era invasata religiosa, non era così difficile a credersi.

Nel capitolo Fregato sotto un commento che diceva che lei aveva incastrato Lawrence con una figlia per avere una relazione con lui, ma non riuscendoci del tutto, quindi che diavolo ci aveva ricavato, dissi:

Qualcosa forse lo ha ottenuto, ma di sicuro non come lo voleva lei. Quindi secondo voi, con chi se l'è presa per questo fallimento parziale del suo piano? SPOILER: di certo non Dio.

Bene, tenete a mente questa cosa.

Vi ricordo che Lawrence NON SA del segreto di Agatha: il giuramento con Dio.

Al momento a conoscere l'esistenza del segreto è:

Agatha

Dio (secondo lei)

Noi lettori (che non conosciamo ancora IL CONTENUTO della promessa, tranne me, obv, che so la scrittrice faiga 😎💅🏻)

Dante (seppur in modo parzialissimo e senza che Agatha ne sia consapevole)

Il segreto, come detto e ripetuto, non riguarda solo quello che Agatha ha vissuto con la madre, anzi.

Il principale motivo per cui Agatha non può rivelare cos'ha vissuto con ammamma bastarda è perché lei, esprimendo il suo desiderio, ha giurato a Dio che non avrebbe mai detto niente a nessuno fino alla fine dei suoi giorni, purché Lui lo realizzasse.

Perciò Agatha ha come dire "sacrificato" il suo permesso di dire la verità in cambio del desiderio.

Questa è una cosa MOLTO importante, tenetela a mente, muffins.

Un'ultima menzione:

Lucas.

Come vi dissi, Lucas e Joanne ricopriranno un ruolo molto importante, Joanne in particolar modo, ma non dimenticateli, mi raccomando.

Soprattutto il fatto che Lucas ha scritto ad Agatha.

Vorrei farvi notare la differenza di come entrambi hanno reagito davanti alla morte di Betsy:

Joanne che accusa e odia Agatha.

Lucas che cerca di rimediare ai "danni" causati dalla moglie e al tempo stesso di rassicurare Agatha del fatto che Joanne non crede minimamente alle accuse che le rivolge, è solo dilaniata dal dolore.

La prima è quindi vittima assoluta della propria agonia.

Il secondo a suo modo è riuscito a mantenere una sorta di razionalità.

E sia chiaro: NESSUNO DEI DUE STA SBAGLIANDO, NEMMENO JOANNE.

Joanne sbaglia nel mandare le minacce ad Agatha, sì, nel riempirla di insulti, ma di nuovo, qua si sta sforando alla grande la razionalità, entriamo nella profondità assoluta dei sentimenti. Non intendo giustificare quello che Joanne fa ad Agatha, sia chiaro, ma è evidente che al momento lei non è lucida e ha bisogno di trovare qualcuno da odiare per poter andare avanti.

Il fatto che lei ed Agatha fossero così legate prima della morte di Betsy spiega anche perché ora lei si comporti così, in parte.

Bene, ho detto tutto.

Ah, con 'sto libro mi aspetto presto la scomunica e lo sbattesimo da parte de Papa Francesco, ma dato il soggetto che chiama frocetti omosessuali, il mio agnosticismo dichiarato da anni e mai accettato dai miei genitori...

Forse sarà la volta bona che lo accetteranno, se appendo la scomunica a mo' di trofeo all'ingresso di casa 🤔

E ora, per tornare alle GIUOIE...

NEL PROSSIMO CAPITOLO DI IGNOBILI AFFETTI:

Due gemelli nostri EROIH amanti dei soldi, del buon cibo e delle tette stratosferiche, desiderosi di trasformare la loro amata Thaty nella loro cognata.

Una sessantenne sommelier delle telenovelas, dei manzi e soprattutto dei pettorali nudi dei manzi, che se magna sempre popcorn quando deve guardare i due coglioni disagiati.

Un Orange Boih con un solo obiettivo in testa: uscire a qualunque costo dalla friendzone in cui Hope Summer Verginy l'ha ficcato quando manco lo considera un friend.

Una Hope Summer Verginy afefobica con un solo obiettivo in testa: impedire a qualunque costo la resurrezione della fangirl di una volta per i bad boih coatti e super tatuati, specie quando c'hanno un piercing LÌ, sul loro sacro Albero Azzurro (in questo caso Albero Arancione).

Da un lato: Orange Boih, colui che è stato più e più volte friendzonato, eterozonato, brotherzonato e anche mi-metti-a-disagio-perché-si'-'nu-picc-strunz-zonato. Colui che sta a fare di tutto per far capire alla sua Hope afefobica che i suoi complimenti sono sinceri e soprattutto che se la vole bombare per davvero.

Dall'altro lato: una Hope Summer Verginy afefobica convintissima al mille per mille che Orange Boih si diverta a prenderla per il culo e che mai e poi mai la considererà una donna, una vera donna (cit. Dory), visto TUTTE le volte che lui ha detto e ribadito che mai se la vorrebbe scopare. Cosa che, mi pare ovvio, senza volerlo fare apposta, RICORDERÀ AD ORANGE BOIH come garanzia assoluta (secondo lei) che MAI se prenderà na sbandata per lui, per tranquillizzarlo.

Da un lato: Orange Boih, masculo alfa con le palle rotte dal martello, che dopo la sua dichiarazione d'ammmmore (compresa solo da lui e noi lettori, non certo la sua Hope) farà de tutto e de più per far sì che Hope sia sua. Fottesega dell'afefobia, del babbo serial killer, dei TRAUMIH, ad Orange Boih ormai questo non importa.

Avrà la sua Hope Summer Verginy (e la sua 🥔) a qualunque costo, in questa vita o... in questa vita.

Dall'altro lato: una Hope Summer Verginy afefobica che MAI E POI MAI se vole prendere na cotta stratosferica per un uomo a cui è certa di stare ancora un pochino sul cazzo (e non come vorrebbe lui), convinta che si maciullerebbe il cuore (senza sapere che lo sta maciullando a lui) se se prendesse sta sbandata.

E infine...

Un tacchino.

Un tacchino da infarcire come un certo Orange Boih vorrebbe infarcire la sua Hope Summer Verginy.

Una verità che Hope Summer Verginy vuole A TUTTI I COSTI nascondere ad Orange Boih:

Che lei è Verginy al 100%, Una Hope Extra Verginy d'oliva, non OGM, biologica in tutte le essenze, più levissima e altissima e purissima dell'acqua Rocchetta che elimina l'acqua delle cimici, nemmeno un leggiadro bacetto sulla guancia s'è mai scambiata con un omo.

Ma con un tacchino 🦃 che dovrà infarcire come lei mai è stata in ventisette anni di vita, davanti a due gemelli malefici e sadici che vogliono trasformarla nella loro cognata, un Orange Boih che quando la guarda pensa a come riuscire lui a infarcire lei come quel tacchino e un'ultra sessantenne che osserva il tutto come se fosse un documentario sull'accoppiamento tra un mega pittbull e un barboncino toy...

Riuscirà la nostra Hope Summer Verginy a nascondere ad Orange Boih la sua assoluta, totale e massima verginità?

Riuscirà a non far risorgere la fangirl che nel suo inconscio desidera soltanto scoprire se il famigerato piercing esiste davvero e si trova proprio lì, nel suo magico e masculo Nagini?

E soprattutto...

Riuscirà Orange Boih nella sua impresa di far capire alla sua Hope Summer Verginy che vuole pupparla davvero e non prenderla per il culo?

Questo e tante altre cose ancora, nel prossimo capitolo!

IGNOBILI AFFETTI:

La battaglia tra due teste di coccio.

Noi crediamo nella prima.

Daje, Dante, conquista la tua Hope!

Ti amiamo tutti qua, te lo giuro, e famo tutti il tifo per te!

...

(Tranne Agatha)

P.s.

Ve ricordo che se volete aggiornamenti o vedere le cose/meme scemi che faccio/dico, potete seguirmi su IG all'account:

sasha_nye_

😎💅🏻

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top