Desiderio o Volontà (1/2)

La ragazza più forte e coraggiosa che io abbia mai incontrato, Betsy George, una volta mi disse che l'ansia dei primi appuntamenti è sopravvalutata.

"Non è così orrenda come si crede, anzi" aveva affermato sicura. "Ti dona un brivido di eccitazione che non puoi vivere in nessun altro modo."

Già all'epoca sapevo di non potermi affidare alle sue parole, poiché a pronunciarle era stata proprio lei, che per natura non era in grado di aver timore di niente e nessuno; quella che non si era spaventata nemmeno quando, al liceo, un ragazzo omofobo aveva minacciato di farle fare una brutta fine, se l'avesse rivista baciarsi con la sua fidanzata Melany.

Di risposta, Betsy lo aveva provocato ancora e ancora, inducendolo a peggiorare e aggravare ancor più le sue minacce, e poi era andata nello studio della preside e le aveva fatto ascoltare la registrazione che aveva fatto di nascosto col telefono.

Il ragazzo si era preso tre settimane di sospensione e poi uno dei suoi calci volanti, quand'erano fuori da scuola.

Quindi sì, ero cosciente di non potermi affidare minimamente alle sue parole, ma non pensavo fino a quel punto.

Stavo per andare in iperventilazione a causa dell'ansia, non potevo neanche fumare per rilassarmi, perché non avevo alcuna intenzione di puzzare di nicotina a quell'incontro.

E la cosa ridicola di tutto ciò era che nemmeno ero sicura che il mio fosse un appuntamento vero e proprio, in senso romantico.

Mancavano dieci minuti alle sei, dieci minuti prima che Dante si presentasse a casa mia, ed io continuavo ad esser straziata da migliaia di desideri che si scontravano tra di loro.

Il primo tra tutti, ovviamente, era quello di lanciarmi dalla finestra così da non dover affrontare lo scoglio dell'appuntamento-non-so-ancora-se-romantico. Dubitavo avremmo potuto realizzarlo in ambulanza o in ospedale.

Il secondo era quello di mandare a monte tutte le ore trascorse con Minnie mentre lei mi aiutava – torturava – a prepararmi per quell'evento.

Perché non si era limitata a sistemarmi i capelli, purtroppo per me, con la sua tecnica "Tu braccio schiavo, io mente schiavista", no.

Si era assicurata in tutto e per tutto che mi vestissi e agghindassi a dovere come di rado mi era capitato di fare anche prima che si scoprisse la verità su papà.

Lei aveva affermato che ero perfetta, io invece mi vedevo solo come una cosa.

Ridicola.

Per quella che doveva essere la settantesima volta, rientrai in bagno per guardarmi allo specchio sul lavandino. Detestavo farlo, io e gli specchi non eravamo mai andati d'accordo, non con le memorie che possedevo di loro, ma stavolta non avevo scelta.

Il riflesso che ottenni mi sciolse tutti i pensieri.

Era davvero troppo.

Minnie, attuando la tecnica che si era inventata per merito dei suoi gatti – dopo aver visto Tortellino comandare Pasticcino per far cadere a terra un bicchiere su un mobile a cui lui, con le sue rotelline, non poteva arrivare – era riuscita non solo a dare ai miei ricci una forma vera e propria, non più crespa e compatta come sempre, ma li aveva anche sfoltiti e accorciati fino a poco oltre le spalle, così che il loro peso non mi gravasse più come prima.

Io, con le mie mani e sotto sua attenta osservazione, mi ero occupata della parte tattile sul capo: farmi lo shampoo, dividere le varie ciocche, pettinarle. Lei si era occupata della sfoltitura, prendendo i ricci dalle loro punte per non dovermi toccare e applicando i vari prodotti sulla lunghezza delle ciocche.

Non contenta, mi aveva suggerito – obbligata – a fare un'acconciatura specifica per quei ricci. Uno chignon basso, alla base della nuca, li racchiudeva con mollezza e garbo, senza serrarli in una stretta violenta. Al contrario, ne permetteva la fuoriuscita di alcuni, lasciandoli pendere a mo' di decorazione da esso. Una forcina era stata sistemata nel punto in cui si generava quello chignon: semplice, sì, ma davvero troppo elegante. Un rametto dorato da cui sbocciavano piccoli petali e fiori bianchi, foglie pregiate.

Quell'acconciatura, di per sé, era bellissima, sembrava di quelle che si vedono nelle riviste dei negozi per abiti da sposa. I miei ricci di solito infermi, sul punto di scoppiare, per la prima volta avevano forme eleganti, quasi raffinate. Persino sul capo, seppur legati, mantenevano una loro libertà: si dipanavano come vortici continui e in perenne movimento, ad incastrarsi tra loro con forme morbide e soffici, volluttuose, perfette proprio perché tali.

Il problema era che dava un'idea sbagliata di tutto quanto, soprattutto per com'ero stata costretta a vestirmi da Minnie.

Mi aveva forzata a tirare fuori il vestito verde che avevamo comprato insieme e mai avrei pensato mi sarei ritrovata a indossare sul serio. Quel vestito in velluto verde muschio, dalle maniche lunghe, semplice, sì, ma fin troppo elegante e aderente sul mio fisico. Mi fasciava il corpo in un abbraccio determinato, senza alcuna indulgenza sui miei chili in eccesso.

Per non parlare della scollatura a V.

Posai i miei occhi su di essa, le guance già a fuoco.

"Se vede de striscio la linea che separa i seni, Riccioli Corvini!" aveva esclamato indignata Minnie, davanti alla mia protesta su quanto fosse profonda, ed in effetti, a dati oggettivi, era vero. Se ne vedeva giusto il principio, di quella linea, ma ai miei occhi era lo stesso esagerata. Inoltre, aderente com'era, quel vestito evidenziava ancor più la grandezza del mio seno. La sesta che portavo era palese, non c'era più modo di nasconderla.

E il vestito era corto come non mai, per me, abituata da sempre a nascondere le gambe con i pantaloni. Arrivava a metà coscia. Grazie al cielo, Minnie mi aveva permesso di indossare gli stivali alti, così che le porzioni di pelle scoperta rimanessero piuttosto esigue, ma restava il fatto che comunque appariva provocante.

Ero stata persino costretta a depilarmi ovunque e a rinunciare al mio rosario, per quella serata, così da mettermi una collanina dorata, sottile e semplice, coordinata a un paio di orecchini a clip di colore uguale: due gemme finte a goccia. Ad armonizzare tutto c'era il trucco leggero in viso, dopo una grande e sofferente sfoltitura delle sopracciglia. Poiché dovevo indossare la mascherina, ero stata risparmiata dal supplizio di fard e fondotinta, ma restava il problema di come erano stati resi i miei occhi: un contorno di matita sfumato con un ombretto verde leggerissimo, in richiamo alle mie iridi, fino a ricreare il famoso effetto cat-eyes, e il mascara ad allungare le ciglia.

Oddio.

Erano anni che non mi truccavo e vestivo in quel modo. Ero consapevole che Minnie aveva fatto un lavoro magistrale, se lo avessi visto addosso a qualsiasi altra ragazza, non avrei esitato a riempirla di complimenti, ma su di me l'effetto era tutto il contrario.

Invece che apparire raffinata, sembravo una provocatrice squallida. Il viso era gonfio per via dei chili di troppo, nemmeno i riccioli che erano stati lasciati liberi per levigarlo diminuivano quella sensazione, quell'eleganza ricercata si distorceva in una sensazione di anomalia sui miei tratti rotondi e sul mio fisico.

Oddio.

Era davvero troppo per un incontro con Dante che nemmeno sapevo definire cosa fosse.

E se lui avesse pensato che lo volevo sedurre, truccandomi e vestendomi in quel modo che non mi si adattava per niente?

E se avesse pensato che mi stavo facendo delle aspettative esagerate, quando magari, in realtà, quello era solo un banale incontro tra un ragazzo e una ragazza simil amici?

Ero ridicola, assolutamente ridicola.

Presi il telefono che avevo abbandonato sul lavandino per controllare l'orario.

Oddio, mancavano solo tre minuti.

Forse, però, ero ancora in tempo. Se mi fossi mossa veloce, avrei quantomeno potuto struccarmi e–

Sussultai quando il cellulare in mano vibrò con furia, all'arrivo di un messaggio.

Te avviso, Riccioli Corvini, ho ordinato a Coglione Assoluto de mandamme 'na tua foto appena te viene a prende'. Se scopro che te sei cambiata e struccata, dopo tutto l'impegno che c'ho messo, te devasto la casa e costringo ad anda' a vivere nella tua Ford di merda.

Oddio.

Perché mi faceva quello?

Forse era davvero giunta l'ora per me di lanciarmi dalla finestra, dopo tutte le volte in cui avevo sognato di farlo.

Lo squillo del campanello d'ingresso mi fece sussultare sul posto, il cuore affogò in un oceano di panico e glacialità.

Stavo per morire.

Pregavo di morire.

Non potevo farmi vedere da Dante in quel modo, per nessuna ragione al mondo, ma ormai conoscevo Minnie, sapevo benissimo che non aveva detto il falso, con quella minaccia.

Mi fissai il petto, la scollatura a V.

Oddio.

Avrebbe pensato di sicuro che ci stavo provando con lui.

Oddio.

Dovevo assolutamente nasconderla.

Lo squillo si ripeté, provocando nuovi tremori a tutto il mio corpo.

«A-Arrivo!» gridai disperata, mentre uscivo dal bagno. Corsi veloce prima al comodino accanto al letto, dove avevo lasciato i guanti verdi da indossare, e dopo averli messi in fretta, mi mossi verso l'appendiabiti al fianco della porta d'ingresso. Sfilai con le mani tremanti la giacca che avrei dovuto usare per quella sera: una giacca lunga, a doppio petto, tonalità panna. La abbottonai tutta così che nascondesse il vestito che indossavo, e poi presi dall'appendiabiti anche il cappello che Minnie mi aveva regalato per coordinare la mise.

Era un cappello verde e a cloche, dalla visiera ampia che, se indossato, nascondeva bene gran parte del viso. Minnie non avrebbe voluto darmelo – mettendolo avrei rischiato di rovinare l'acconciatura – ma il rischio che la gente mi riconoscesse permaneva, perciò era indispensabile. Il suo ordine era stato quello di indossarlo con più delicatezza possibile, così da non distruggere tutte le nostre ore di lavoro.

Lo strinsi tra le mani sempre più tremanti, già avvertivo il pizzicore della mia vergogna che mi investiva il viso. Specie perché, prima o poi, sarei stata costretta a togliermi quella giacca, e allora Dante avrebbe visto cosa indossavo.

Oddio.

Applicai il metodo Betsy anche per quel problema.

Il cuore mi martellava contro lo sterno, ero quasi sul punto di temere che mi stesse per rompere tutte le ossa, mentre aprivo la porta con la mano destra libera e la sinistra ancora serrata sulla visiera del cappello.

Mi bloccai non appena schiusi di poco l'uscio.

No, non ce la facevo.

Non ce la facevo proprio.

Il solo pensiero che Dante mi avrebbe vista in quel modo, truccata e agghindata così, anche senza scorgere il vestito che indossavo, e avesse pensato chissà cosa al riguardo – magari compatendomi per essermi illusa per quell'incontro tra noi due fino a ridicolizzarmi in quel modo – bastava per farmi venir voglia di offrirmi volontaria per una colonscopia gratuita.

Mi andava bene andare a vivere in macchina, ero un prezzo necessario da pagare per evitare la perdita della mia dignità.

Feci per richiudere la porta, ma non ne ebbi modo, perché dall'altro lato una pressione forte, quasi violenta, me lo impedì.

«Ohi, che stai facendo?»

Sussultai, nel sentire la sua voce. Non compresi se fosse divertita o alterata, comunque mi faceva venir voglia di sgozzarmi da sola.

«Ecco...» ciancicai, mentre spingevo con tutto il peso del mio corpo contro la porta. «Ho... Ho dimenticato di fare una cosa importante... Puoi tornare tra... un quarto d'ora?»

«Ma davvero?» Adesso era palesemente divertito, non lo nascondeva neanche. «Questa cosa che ti sei dimenticata di fare per caso riguarda come Minnie t'ha aiutata a vestirti?»

Udii la sirena dell'umiliazione sibilare con spietatezza nella mia testa.

«N-No...» gracchiai. «È un'altra cosa, davvero.»

«Ah sì? E che sarebbe?»

«Non... Non ti riguarda.»

«T'avviso che Minnie m'ha ordinato de dirti che non solo te devasta l'appartamento, ma te distrugge pure la macchina così che non puoi anda' a vivere manco là, se provi a rovinare tutto il suo lavoro.»

Dannazione.

Beh... c'erano comunque i ponti sotto cui andare a fare la senzatetto.

Continuava a bloccarmi dal chiudere la porta, nonostante io vi stessi applicando tutto il peso del mio corpo – ed era tanto peso – non avevo la più pallida idea di come allontanarlo. «Sul serio... non è quello» biascicai, per poi udire dall'altra parte il suono della sua risata sottile. Le tempie pulsarono di scatto nel sentirla. «Stai... ridendo di me?»

«Impossibile, non lo faccio mai

«Non è divertente!»

«Non lo è, infatti» dichiarò serio. «È adorabile.»

Volevo prenderlo a calci.

«Davvero» balbettai ancora. «Dammi... un quarto d'ora, solo un quarto d'ora. Devo soltanto... aggiustare alcune cose...»

«Conosco bene quella stronza, sa il fatto suo per 'ste robe, non c'è bisogno che te cambi.»

«Sì, invece» risposi all'istante, continuando a premere contro la porta. «Davvero... un quarto d'ora, Da–»

La voce mi morì in gola, perché lui obbligò l'uscio ad aprirsi, respingendo qualsiasi mio tentativo di bloccarlo. Indietreggiai veloce, aggrappandomi al cappello con le mani, la mia ultima ancora di salvezza. Udii il suono forte dei suoi passi che accedevano al mio monolocale, allora chinai subito lo sguardo per terra, sulla punta dei miei stivali in ecopelle scamosciata, avvertendo all'istante i suoi occhi su di me, non appena mi si posarono addosso. La vergogna mi divorò, fu un rapace che iniziò ad ingozzarsi del mio intestino, provocandomi un'incertezza tale da irrigidirmi sul posto.

Il silenzio che ne seguì mi gelò il sangue nelle vene.

Oddio.

Si stava facendo davvero un'idea sbagliata, poco ma sicuro, avrebbe pensato male dei miei intenti.

Era meglio correre ai ripari e per farlo potevo accusare la vera colpevole di quella situazione.

«Avevo detto a Minnie... di non esagerare...» blaterai nell'affanno, con le gambe sul punto di liquefarsi per la vergogna. «Non... Non mi ha voluta ascoltare, però... Per questo... se mi dai... un quarto d'ora...»

Sobbalzai quando sentii il suono dei suoi passi ancora una volta, rivolti verso di me. Ogni mia cellula marcì, scorsi la punta delle sue scarpe davanti alle mie. Scarpe nere, lucide e lisce, anche un po' eleganti, diverse dal suo solito stile. 

«Una sola regola.»

Oh no.

Di nuovo le regole? I muscoli diventarono cemento.

«Me guardi sempre negli occhi.»

Nella testa, mi immaginai mentre proseguivo la sgozzatura, stavolta ai danni di Agatha Fangirl, già in delirio per quella semplice frase.

Schiusi le labbra, presi un grosso respiro, l'aria mi aprì la gola serrata dal panico; per un coraggio ignoto, riuscii a risollevare piano il capo, così da poter guardarlo non solo in faccia, ma anche per il vestiario che aveva addosso.

Era in total black anche lui, ma l'effetto sul suo corpo era completamente diverso da quello che dava Minnie. Indossava un paio di pantaloni che se a prima vista potevano sembrare casual, nell'osservarli anche solo un po' più a lungo ne realizzavi presto l'eleganza semplice: il modo in cui gli cadevano sulle gambe senza fasciarle, impreziosendone le forme e la lunghezza. Il riverbero argentato della fibbia della cintura per qualche secondo mi incantò, in essa era stato infilato l'orlo della camicia. Una giacca nera, blazer, a concludere la mise.

Oddio.

Era uno di quelli a cui il nero stava d'incanto. Non lo faceva apparire né cupo né minaccioso, al contrario lo ringiovaniva, sottolineava la compattezza della sua fisionomia muscolosa e stabile, la raffinava fino a stemperare persino l'effetto sfacciato dei tatuaggi, rendendoli simboli di classe e distinzione.

Proprio come piaceva ad Agatha Fangirl.

In particolar modo quando, con il viso ormai alla temperatura del sole, incrociai il suo sguardo.

Come una tredicenne scema, la prima cosa che mi ritrovai a pensare fu che era fighissimo.

Si era sistemato i capelli, i ciuffi bruni gli ricadevano leggeri in fronte senza il loro classico disordine, sfiorandola appena; aveva sostituito i piercing all'orecchio destro con un paio d'anellini argentati da cui pendevano due piume esili in metallo che raggiungevano la curva squadrata della mascella. Erano un particolare irrilevante, se visti da soli, ma uniti alla sua mise e la sua pettinatura, la sua bellezza innata, perfezionavano il risultato di stile e signorilità che già era stato ottenuto prima. La famosa ciliegina sulla torta.

Proprio come piaceva ad Agatha Fangirl.

E mi stava sorridendo, quel suo sorriso smezzato, all'angolo destro delle labbra, capace di illuminargli gli occhi.

Proprio come piaceva ad Agatha Fangirl.

Stavo. Per. Morire.

Proprio come piaceva ad Agatha Fangirl.

Per davvero, quale diavolo era il mio problema? Forse ero io ad aver bisogno della diagnosi di uno psichiatra, non solo papà.

«Per la prima volta» disse, la voce severa di sempre, e il mio desiderio di tuffo dell'angelo dalla finestra si moltiplicò quando sollevò in aria la mano e si rigirò uno dei ricci lasciati liberi, a contornarmi il viso, attorno all'indice – proprio come piaceva ad Agatha Fangirl, «ringrazierò di mia spontanea volontà quella stronza. Le dirò che persino un demonio come lei sa riconoscere e valorizzare la bellezza.»

Oddio.

Perché continuava a dire frasi del genere con cui rischiavo ogni volta di fraintenderlo – proprio come piaceva ad Agatha Fangirl – e finire col cuore spezzato? Certo, almeno non aveva dubitato dei miei intenti, questa era senz'altro una buona notizia: gli era chiaro che il risultato del mio aspetto era solo frutto di Minnie, ciò non voleva dire, tuttavia, che l'immaginazione di Agatha Fangirl venisse a mancare, purtroppo per me.

Avrei dovuto dirgli che anche lui stava bene, vestito in quel modo? Così, tuttavia, correvo il rischio che pensasse ci stessi provando con lui.

Come funzionavano quelle cose? Non ne avevo idea. Betsy mi parlava spesso dei suoi appuntamenti con le ragazze con cui si frequentava, ma non aveva dubbi che fossero appuntamenti romantici, a differenza mia, e non ero certa che funzionassero allo stesso identico modo per una coppia etero. O forse sì? Mi pentii di non averglielo mai chiesto, in passato, convinta com'ero che mai mi sarei ritrovata a sperimentare un evento simile, nemmeno uno dalla natura ignota come quello.

Se fosse stata lì, mi avrebbe presa in giro alla grande per questo, considerando il numero di volte in cui l'avevo volutamente ignorata o chiamata illusa, mentre lei mi garantiva che prima o poi anche io avrei dovuto affrontare quello scoglio. Forse avrebbe addirittura fatto il tifo per Dante, nonostante mi criticasse alla grande per i miei gusti in fatto di uomini, solo perché per merito suo era riuscita a dimostrarmi di avere ragione.

L'unica sicurezza che mi rimaneva era che Agatha Fangirl stava già valutando quale canzone di Frank Sinatra mettere per la marcia nuziale.

Oddio.

Arretrai di qualche passo, staccando quella connessione tra me e lui, incarnata dal mio riccio avvolto al suo indice, e mi affrettai a mettermi il cappello a coche addosso. Lo sfruttai per celare – anche se solo in parte – il mio viso incendiato. «Grazie...» pigolai a fatica, calando il più possibile la visiera sugli occhi, di modo che io avrei potuto guardare lui ma lui non avrebbe potuto guardare me. Avrei rispettato la regola, così. A passo tentennante, presi la borsa che avevo lasciato sempre all'appendiabiti, una pochette in tinta con l'abito, dalla tracolla e la chiusura a bottone dorate. Un altro acquisto con Minnie che non avrei mai creduto mi sarei ritrovata ad usare davvero.

Sfilai veloce la mascherina per poi indossarla. Ero quasi grata di doverla mettere. Potevo pur sembrare malata, ma almeno mi risparmiava la vergogna di esser vista con la faccia a fuoco da lui. Ero sul punto di dirgli che potevamo andare, quando il mio sguardo ricadde sulla giacca nera che indossava e la mente tornò a quella che gli avevo – involontariamente – rubato.

«Mmm... Ho ancora... la tua giacca di jeans...» gracchiai, sollevando il capo per guardarlo, con una fatica immane. «Ecco... dopo tutto quello che è successo... non ho mai trovato il momento per ridartela, ma–»

«Non ce n'è bisogno.»

Lo fissai stupefatta, il suo ghigno si allargò.

«Puoi tenerla quanto vuoi. Di giacche ne ho tante.»

Oh santo cielo.

Non poteva dirmi quelle cose, lui non aveva idea di tutte le volte in cui mi ero ritrovata a fissare quella giacca, specialmente negli ultimi tempi, e a indossarla, pur sapendo bene di quanto fosse pervertita come cosa.

Proprio come piaceva ad Agatha Fangirl.

Perché era lei la vera pervertita della storia.

«Possiamo andare» dichiarò, bloccandomi dall'obiettare – proprio come piaceva ad Agatha Fangirl.

Quell'appuntamento o come diavolo si chiamava mi avrebbe uccisa.

Lo sentivo.

Proprio come piaceva ad Agatha Fangirl.

Un'altra cosa non mi era chiara di quello che stava accadendo, l'unica su cui, però, avevo la forza di porre quesiti a Dante. Lo domandai non appena entrammo nella sua jeep e lui richiuse la portiera.

«Se non devo cucinare... perché sei venuto a prendermi... così presto?»

Era una domanda lecita. Erano ancora le sei e di solito la serata per la vigilia, per chi non ne era l'organizzatore, iniziava dalle otto in poi. La famiglia Mitchell, tra l'altro, era una delle poche americane che cenava relativamente tardi rispetto alle altre. 

Un sorriso sornione gli attraversò le labbra – proprio come piaceva ad Agatha Fangirl – e quando si voltò a guardarmi, nell'attimo stesso in cui scorsi la luce divertita nelle sue iridi, capii di esser stata incastrata in un'altra delle sue trappole.

«Giusto» dichiarò, la voce serena. Si chinò col busto alla sua sinistra, infilò la mano nella tasca interna della portiera chiusa, per poi tirar fuori da essa... occhiali da sole? Aggrottai la fronte, quando me li porse. Erano occhiali da sole semplici, dalla montatura spessa e le lenti scurissime. «Dovrai sfilarti la mascherina e indossare questi per un po'.»

Non potei trattenermi: lo guardai allibita. Lui soffocò una risata, nel vedermi in quello stato.

Eravamo in pieno inverno, il 31 dicembre, per la precisione, ed era già buio. Il cielo si era trasformato in una lamina d'inchiostro, a dissolvere l'animosità di quel nero torbido solo le luci lontane del centro della metropoli, a malapena visibili dal quartiere in cui ci trovavamo. Se lì infatti si sfoggiavano colonne di luci e splendori, sfavillii d'insegne, ricchezze splendenti ad adornare la coltre di tenebre, in quel quartiere, invece, si percepiva solo la decadenza e le sue arrendevolezze. C'erano sì luci, ma poche e sfiatate, quasi a bocconi, ritagliate soprattutto nelle finestre delle case e degli edifici rovinati.

Era vero che, in una metropoli come quella e soprattutto in un quartiere come quello, non dava granché nell'occhio una persona con gli occhiali da sole seppur buio. Uno dei pochi lati positivi di essere in una grande città dell'America: le stramberie e assurdità erano talmente frequenti da essere ormai considerate d'ufficio, una regola naturale come le altre.

Questo comunque non spiegava perché diavolo avrei dovuto indossare occhiali del genere.

A mano esitante, li presi dal palmo di lui, ne aprii le stecche e, non appena lo feci, realizzai tutto quanto.

«Che cosa–»

«Minnie m'ha vietato categoricamente di coprirti gli occhi con qualche fascia, perché altrimenti te rovinerei il trucco» mi spiegò, mentre io fissavo allucinata... lo scotch nero che aveva applicato nella zona interna delle lenti, con una maestria tale che non lo avrei notato, se non fossi stata per inclinazione una persona attenta ai dettagli. «Perciò questo è il solo modo che ho trovato per fallo. So' abbastanza larghi, come occhiali, in più con la pettinatura e il cappello che hai, non hai bisogno della mascherina, bastano per non farti riconoscere.»

Ero confusa più di prima, lo guardai senza capirci nulla. «Perché dovrei... coprirmi gli occhi?»

Ghignò ancora. «Perché non devi vede' dove stiamo andando.»

Che diavolo?

«Non stiamo andando... a casa tua?»

«No.»

Sbattei le palpebre, lui soffocò un'altra risatina.

«Ma...» replicai, «come faccio a muovermi, scesa dalla macchina, se non–»

«Te guiderò io, se te sta bene.»

Quella risposta mi lasciò con un buco nel cuore. Implicava un contatto continuo e stabile tra me e lui. Indossavo i vestiti e i guanti, sì, e per quanto detestassi accettarlo, ormai anche Dante rientrava nella corta lista di persone che riuscivo a toccare, ma...

Non avrei visto niente, avrei sentito soltanto.

Le sue mani soprattutto.

Era un bene che fossi seduta, perché avrei rischiato di cadere a terra, in caso contrario. Una fucina aveva preso posto nel mio petto e stava surriscaldando e modellando ogni mio sentimento, che fosse piacevole o agonizzante. Il suo carico di lavoro aumentava a passo con l'immaginazione di un mondo in nero in cui il solo colore rimastomi non era da guardare con gli occhi, ma da percepire con la carne.

Lui.

A spaventarmi più di tutto fu realizzare che quel pensiero, invece che preoccuparmi e farmi sudare dal panico come sarebbe successo in passato, generò invece continue scariche di fermento ed emozione.

Quella era una situazione che succedeva sempre nei romanzi che mi leggevo da ragazzina.

Proprio come piaceva ad Agatha Fangirl.

Oh santo cielo.

Il primo istinto, innato, fu quello di aprire la portiera e scappare via, e forse gli avrei dato pure retta, se lui non mi avesse chiamata in quel preciso momento.

«Agatha.»

Lo guardai, la serietà che riluceva nel suo sguardo mi fece capire l'ultima cosa che avrei voluto capire.

«Ti fidi di me?»

Agatha Fangirl predominò in un secondo: «Sì.»

Che mi aveva fregata, ormai.

E non piaceva solo ad Agatha Fangirl, la cosa, no.

Piaceva anche a me.

Non avevo dubbi.

Aveva scelto quegli occhiali apposta.

A impedirmi di vedere quello che mi stava attorno non era solo lo scotch nero che vi aveva applicato, ma persino la montatura. Era fasciata agli angoli e quindi, anche quando provavo a guardare di lato, non mi era possibile scorgere nulla.

Tutto ciò che potevo fare era sentire: con l'olfatto, i rumori e suoni, le vibrazioni della macchina che marciava per le strade, i miei muscoli che si tendevano e rilassavano in continuazione, a un ritmo scellerato, come un foglio d'alluminio che veniva accartocciato e poi ridisteso ancora e ancora.

Il nervosismo proliferava nel mio corpo in brividi imperituri, mi costringevano a muovermi anche solo di poco, con gesti impercettibili: piegando le dita dei piedi negli stivali, arricciando la peluria finta delle maniche della giacca tra indice e pollice, sbattendo a ripetizione la lingua contro il palato superiore dell'arcata dentale.

Dopo circa un quarto d'ora, la macchina iniziò a rallentare per poi fermarsi. Non appena Dante spense il motore, uno squarcio di ansia e desiderio mi aprì in due il cuore. «Aspetta qui» lo udii dirmi.

Annuii, già rossa, per poi sentire il rumore della sua portiera che veniva aperta e richiusa e a cui seguì quello dei suoi passi fuori, attutito dall'abitacolo in cui mi trovavo, che raggiungeva il lato del mio sedile.

La portiera si aprì, una ventata d'aria fredda mi pizzicò la punta del naso. «Solleva la mano, Agatha» ordinò, ma con una dolcezza tale da far apparire quell'imperativo una richiesta.

Attesi qualche secondo, mandai giù deglutendo il tappo di cemento che si era andato a formare in gola, ne sentii il peso ricadermi in pancia.

Presi un grosso respiro e alla fine, dopo un altro istante, sollevai la mano destra.

«Se inizi a spaventarti, dimmelo» mi ordinò ancora. «È l'altra regola.»

Iniziavo ad odiarle, quelle regole, con la stessa intensità con cui Agatha Fangirl le amava.

«Ok» squittii, il corpo intero sobbalzò, quando la mia mano guantata fu avvolta dalle sue dita. Seppur non fossi a contatto diretto con la pelle nuda di lui, l'effetto fu lo stesso: sentivo quel nastro, quel filo, che si infiocchettava non più ai mignoli e nemmeno ai polsi, ma ai nostri cuori.

«Ce la fai?»

Mi mordicchiai il labbro, presi un altro profondo respiro, per poi annuire. «Ce... Ce la faccio.»

Non era la fobia a spaventarmi, con lui, non più. Questo era il vero problema, la causa più grande dei miei turbamenti: che Dante mi tentava, tentava, tentava, ed io cedevo, cedevo, cedevo. Senza volerlo, senza pensarlo, mi arrendevo a lui. Ogni sua goccia finiva per colorare l'impasto sterile qual era la mia anima, in movimenti impercettibili lo rimescolava così che finissi per assorbirlo in ogni cellula senza spaventarmi, affinché neanche un grammo ne rimanesse vergine, di goccia in goccia. E se dalle prime non avevo realizzato la loro importanza, ora che mi erano piovute dentro così tante, non potevo più ignorare il modo in cui mi avevano tinta di lui.

Mi aiutò a scendere dalla macchina, percepii l'inequivocabile timbro della sua mano sulla mia spalla, mentre con l'altra mi conduceva a passo lento ovunque stessimo andando.

Presi ancora un grosso respiro, mi obbligai a concentrarmi sulle altre sensazioni, i vari rumori, suoni, grandi o impercettibili, gli odori che mi circondavano.

Un paio di minuti più tardi, ci fermammo. Dante lasciò andare la mano sulla mia spalla per qualche secondo, udii quella che mi sembrava una porta pesante che veniva aperta, e dopo avvertii di nuovo le sue dita sul punto che avevano abbandonato prima.

«Dante?»

Una voce sconosciuta sopraggiunse alle mie orecchie, una voce un po' avanti con gli anni e femminile, ma Dante non rispose, solo l'aria parve venir smossa, l'attimo dopo, riprendemmo il cammino, sempre a passo lento. Ovunque fossimo, eravamo in uno spazio chiuso e ben riscaldato, perché l'aria fredda dell'inverno era scomparsa, sostituita da un calore travolgente.

«Chi... Chi era?»

«Una vecchia amica di mia madre, Olivia» mi spiegò, mentre marciavamo. Quell'informazione mi stupì. «Andavano a scuola insieme, mia madre la aiutò parecchio, nel corso degli anni. Le deve molti favori.»

Una vecchia amica di Jane? Perché diavolo ero finita in un posto in cui c'era un'amica di Jane?

Ci bloccammo ancora, il suono di un'altra porta che veniva aperta, stavolta più leggero e sibilante. Avanzammo di qualche altro passo, per poi bloccarci di nuovo.

«Adesso ci sono degli scalini» mi informò. «Sono scalini molto bassi, perciò dovrai fare molta attenzione.»

Gli scalini per la mia discesa all'inferno?

«Inizio... a preoccuparmi» confessai.

«Non hai nulla de cui spaventatte» mi rassicurò, stringendo con più forza la mano nella mia, e quella stretta mi si piantò in cuore con furia. «Non c'è nulla da temere, te l'assicuro. Attenta, qua iniziano gli scalini.»

Iniziai a scendere tali scalini con difficoltà. Mi dovetti aggrappare con più forza a lui e alle sue mani, ciò mi imbarazzava, spaventava ed emozionava contemporaneamente.

Non so dire quanto tempo perdemmo in quella discesa estenuante, so però che a un certo punto gli scalini terminarono e per qualche altro minuto il pavimento tornò a farsi piano. Ci fermammo poco dopo. «Ora devi girarti a sinistra» disse, aiutando il mio corpo a ruotare. «Forse sbatterai contro... qualcosa, ai lati, ma non ti devi preoccupare, non è nulla di che.»

«In che senso qualcosa

«Non è nulla di che» ripeté, mentre ci avviavamo. Scoprii presto che aveva ragione: iniziai a percepire ai miei lati... delle presenze materiali e inamovibili, come due muretti infiniti ma soffici. «Ok» mi chiamò, «possiamo fermarci.»

Mi bloccai, in piedi, con il calore del suo corpo davanti a me. Udii le sue mani muoversi nell'aria e poi il mio cappello che veniva tolto, scuotendo appena i ricci. «Non ce sta nessuno, quindi non te riconosceranno» mi assicurò. «Ma prima ti conviene toglierti la giacca.»

Mi impietrii. Il metodo Betsy non funzionava mai a dovere.

«Sto... Sto bene... con la giacca» cianciai, serrando con più forza le dita alla pochette.

«Qua dentro ci sta il riscaldamento acceso, se non te la togli creperai di caldo tra poco.»

«Posso... resistere, non–»

«Agatha.»

Avvampai con furia. Non avevo cuore di togliermi gli occhiali per vedere che espressione avesse in viso. «M-Mi prometti...» farfugliai, «che non ti metterai a ridere?»

«Perché me dovrei mette' a ridere?»

Esitai per qualche minuto. «Il vestito che Minnie mi ha fatto indossare... è molto bello... però a me non sta bene» confessai alla fine.

«Se non te stesse bene, quella stronza non te l'avrebbe fatto indossare.»

Serrai i denti, sempre più in panico. «Minnie è... di parte. Fidati... non mi sta bene.»

«Stai di nuovo sul tuo aereo, ve'?»

La stizza arrivò nell'immediato. «Per davvero? Non ti stanchi mai?!»

Non potevo vederlo, ma ero sicura che stesse sorridendo. «Testa. Di. Coccio.»

«Non sono su nessun aereo!»

«Già te ce vedo, ad aprì lo sportellone, ignorando tutti quelli che te urlano de fermarti, mentre butti il tuo paracadute perché dici che tanto non te serve...»

«Certo che userei il paracadute!»

«In attesa de vede' sotto di te un campo de cactus e istrici giganti per lanciarti...»

«Le istrici giganti non esistono nemmeno!»

«Le hai fatte nascere tu con i tuoi continui auto sabotaggi. Non te bastavano i cactus e quindi Madre Natura ha dovuto compensa' generando 'na specie nuova de fauna. Pensa quanto è grande il tuo pessimismo, c'è del talento

«Sono realista, io, realista!»

«L'aereo non è d'accordo.»

«Non esiste nessun aereo!»

«Manco le istrici giganti e i cactus a cui hai dato fuoco prima de partì con l'aereo so' d'accordo.»

«Con che coraggi ti lamenti dei gemelli, quando è proprio per colpa tua che sono diventati così?!»

«Merito mio, vorrai di'.»

Non ci vedevo più, e non solo letteralmente. «Sei un pallone gonfiato!»

«Meglio gonfio come un pallone che su un aereo da cui lanciamme.»

«Tu l'aereo lo porti direttamente nell'esosfera!»

«Purtroppo non c'ho il diploma e non me ricordo niente delle robe del liceo, quindi non so manco che stai a di'.»

Stavo per insultarlo di nuovo, quando avvertii una pressione leggera sul primo bottone della giacca. Avvampai in preda alla vergogna, consapevole ora del fatto che lui la stava slacciando. Fiammate bestiali mi investirono tutto il corpo, mentre lui scendeva agli altri bottoni, sfilandoli uno ad uno dalle loro asole.

«Puoi provare a gettarti da quell'aereo quanto te pare» lo sentii dire, arrivato all'ultimo bottone. Ci fu il suono del tessuto di lana che si strofinava contro il legno del disco, come uno strappo deciso. «Ma te trascinerò sempre indietro, ogni volta, per impedirti di buttarti.»

La sua voce era profonda e roca, mi incantò con la sua stabilità, non potei muovermi nemmeno quando i lati della giacca vennero schiusi dalle sue mani. Persi il guscio di tessuto dentro cui mi ero rifugiata, con dolcezza lacerante.

Tutto il mio corpo sospirò di piacere per esser stato sollevato così dalla cappa di stoffa in cui era stato sigillato, l'aria del posto – qualunque posto fosse – provocò un amabile torpore alla carne scoperta e quella sotto l'abito. Sebbene ci fosse solo l'oscurità a circondarmi, subito distinsi l'attimo in cui gli occhi di Dante si posarono su di me, sul vestito che avevo addosso.

Silenzio, troppo silenzio. Ripresi le mie fantasie sui vari metodi con cui buttarmi dalla finestra del terzo piano, e poi... il calore del suo corpo che si faceva più vicino al mio, l'odore del suo dopobarba, un profumo che non conoscevo e non sapevo identificare, provocatorio ma non fastidioso, proprio come chi lo stava indossando, a pochissimi centimetri dalla punta del mio naso.

Rischiai di cadere indietro, all'udire il respiro profondo e deciso della sua voce proprio al mio orecchio sinistro, carezzandone i contorni, l'elice che – non avevo dubbi – si era tinto di rosso. «Persino un cieco» mi sussurrò con sicurezza, ogni sua parola mi scivolò nel timpano con la seduzione e il fascino di un serpente, «si accorgerebbe subito della tua bellezza ora. Chiunque provasse a ridere di te, a vederti, t'assicuro non farebbe 'na bella fine.»

Aveva unito il complimento per me alla minaccia per gli altri.

Riuscivo già a vedere la mia tomba, la scritta sulla mia lapide: Proprio come piaceva ad Agatha Fangirl.

Sul serio, perché avevo gusti così di merda?

Razionale, dovevo restare razionale.

«G-Grazie» balbettai, indietreggiando appena. Trasalii di piacere, quando le sue mani tornarono sulle mie. «Cosa c'è?»

«Ti aiuto a sederti.»

La confusione andò a scacciar via, seppur in parte, il rischio di infarto. «Sedermi?»

«Sì, vieni, ti aiuto.»

Risalì con le mani alle mie spalle, indirizzando il mio corpo alla posizione giusta, facendomi ruotare, per poi pormi pressione sufficiente da farmi capire che era giunto il momento di abbassarmi. Restai di stucco quando, una volta fatto, mi accorsi che non mi trovavo su una semplice sedia... al tatto sembrava... una poltroncina. Era morbida, soffice, accoglieva il peso del mio corpo con mollezza, adeguandosi alle sue forme. Con le mani, tastai tutto attorno. Aveva anche dei braccioli strani, quella poltroncina... non erano morbidi come il resto, anzi, attraverso i guanti mi sembravano di un materiale duro.

Un altro battito mancò al cuore, quando, nel tentativo di tastarli, mi accorsi che uno dei braccioli aveva un buco proprio nella sua estremità.

Un buco profondo, sì, ma chiuso alla base, come nei–

«Puoi toglierti gli occhiali, ora, Agatha.»

Non era possibile.

Mi sfilai gli occhiali da sole con violenza, l'intero corpo a tremare sul posto, e sebbene seduta, dentro caddi, caddi proprio, sprofondai nell'immensità di sentimenti senza nome ma possessori di ogni incanto.

Ero al cinema.

A una sala cinematografica.

Diversa da quelle che un tempo frequentavo, tipiche dei multisala. Era ben più piccola, minuscola, in confronto ad esse, ma anche a prima vista, non appena potei guardarla senza indugi, appariva come una preziosa perla, unica al mondo.

Era uno di quei vecchi cinema che si frequentavano una volta, dalla capienza di massimo ottanta posti, con le poltrone in pelle vecchia e non richiudibili, di un marrone slavato, poggiate a file orizzontali su un piano dritto invece che inclinato. Anche il pavimento era quelli di un tempo, in ghisa e con mattonelle separate tra loro da fughe spesse, e così le pareti senza alcun tipo di decorazioni, solo un beige opaco che si era inscurito nel corso di tutti quegli anni. Nemmeno la luce forte proveniente dal soffitto stemperava il vissuto che si portavano addosso.

E noi eravamo proprio al centro della platea vuota: alla fila centrale e sulle poltrone centrali. Posti che nemmeno prima, con Betsy, mi ero mai potuta permettere. Sempre ci eravamo accontentate di quelli agli angoli, con lei che occupava il sedile al mio fianco in quanto la sola persona che ero in grado di toccare senza problemi.

Sollevai il capo davanti a me, al grosso schermo bianco dove sarebbe stato proiettato il film, con lunghe tende rosse raccolte ai suoi lati, come capelli raccolti attorno il viso.

Uno schermo che da anni non vedevo, un luogo che da anni non frequentavo più, un posto in cui ero sempre stata certa, dal giorno dell'incarcerazione di papà, mai più avrei potuto rimetter piede dentro.

Lo schermo bianco, acceso, mi bucò gli occhi, i colori del mondo attorno si sciolsero e gocciolarono sul pavimento, la poltrona su cui mi trovavo fu inghiottita da un universo di pure sensazioni e sentimenti.

«Rosemary m'ha detto che una volta le hai raccontato che te piaceva molto anda' al cinema con Betsy, prima.»

Girai il capo al sedile alla mia destra, dove ora si trovava Dante. Non fui in grado di sopprimere lo sciame di sentimenti che mi stava modellando il viso, mi divorava la carne pezzo per pezzo, curvava la bocca, faceva fremere le narici, tirava gli zigomi, tamburellava sulle palpebre per indurle a vibrare.

Lui mi guardò con un sorriso sottile, gli occhi fissi nei miei vittime del pianto.

«Questo è il cinema più vecchio del quartiere» mi spiegò. «È di proprietà della famiglia di Olivia da un sacco di generazioni, anni fa era frequentatissimo. Mia madre me portava sempre qui, se volevo vede' qualche film, da bambino. Ade', coi vari multisala in giro, ha perso un sacco dei suoi clienti, ma continua a tirare avanti, più o meno. Di solito, durante 'sti giorni de festa, resta chiuso, ho chiesto ad Olivia de famme 'sto favore, per compensa' a quelli che mamma le ha fatto nel corso degli anni.»

Stavo tremando così tanto che era un miracolo che il sedile non si fosse staccato dagli altri. Un palla di muco, pianto, saliva, parole disperate e di salvezza, si generò a metà gola. La mandai giù a piccoli respiri.

«Avevi anche detto» proseguì, «che ogni venerdì facevi con tuo padre la serata cinema, no?»

Le spalle si scossero di nuovo, il suo sorriso si allargò.

«Beh, oggi è venerdì» disse. «Quindi vale ancora come serata cinema, no?»

Le luci nella sala si spensero in quell'istante, sgranai gli occhi quando il brano When You Wish Upon A Star iniziò a suonare per tutta la sala, subito girai il capo: lo schermo bianco si era trasformato in un celeste acceso, un cielo che conoscevo bene.

La sigla della Disney.

Sgranai gli occhi, il titolo del film apparì davanti a noi, accompagnato da una musica d'orchestra mai udita finora.


Gigantic


«Io...» Provai a dire, nel tentativo vano di ritrovare contegno, di riergere i limiti assoluti dentro cui sempre mi ero chiusa per impedirmi di eccedere, di desiderare, ma la voce si avariò nell'attimo in cui incontrai gli occhi di Dante.

«Ti avevo avvertita» disse fermo, «che se c'era qualcosa che volevi, ti avrei aiutato ad averla.»

Più non riuscii a frenare le lacrime, piovvero dalle ciglia alle guance, pigre, rilassate, a sdraiarsi comode sul viso deturpato.

«Così...» gracchiai, sbattendo le palpebre per poter in qualche modo trattenere il mio pianto, «mi farete diventare... avida e viziata.»

Anche nel rumore forte della musica iniziale del film, riuscii a sentire la sua risata. La bocca arcuata a metà, uno sbuffo divertito. La sua mano sinistra si sollevò dal bracciolo, esitò per qualche secondo, e poi si avvicinò al mio viso. Persi tutta l'aria dai polmoni, non appena il suo palmo aderì alla curva della mia guancia, asciugandone col pollice le lacrime. Fu la carezza più umana che avessi mai ricevuto.

«Se tu diverrai mai avida e viziata» commentò, «i due flagelli diventeranno dei cherubini del paradiso.»

Quella battuta inaspettata, per quanto nel torto fosse, mi sorprese al punto che mi ritrovai a ridere senza accorgermene. Il suo sorriso si slargò, asciugò le ultime lacrime che mi piovvero addosso. Ricordai in quel momento il trucco che mi aveva messo Minnie, e pregai che quando mi aveva detto che era waterproof, nel concetto "water" della cosmetica degli ultimi quattro anni rientrassero anche i pianti.

Mi scostai da lui col viso, tornai a guardare lo schermo che mostrava un giovane Jack, bambino, mentre nella sua cameretta leggeva le leggende sui giganti.

Non ero nemmeno più sicura di cosa stavo facendo, ormai.

Io sapevo solo che adesso mi trovavo al cinema, proprio come anni fa in compagnia di Betsy.

Ma adesso, al mio fianco, non c'era Betsy.

C'era un ragazzo, un ragazzo che non potevo definire né amico né fratello come facevo con lei, un ragazzo che non le era simile in alcun modo, non nell'aspetto e non nel carattere, non nel legame e non nelle emozioni che gli attribuivo; un ragazzo a cui, comunque, mi stavo legando con una visceralità uguale a quella con cui mi ero legata a Betsy.

Strizzai le palpebre, con Jack nello schermo che iniziava a raccontare di come, per caso, un giorno ricevette per uno scambio iniquo dei fagioli magici che lo portarono a incontrare una gigantessa odiata da tutti, odiata dal mondo e soprattutto...  odiata da sé stessa.

Avrei potuto giurare di sentire la voce di mia sorella dal sedile accanto a me, ad accompagnare quella di Jack, la sua risatina goliardica mentre mi prendeva in giro: «Ah! Ti stanno descrivendo, sorella afefobica! Hai presentato la tua biografia alla Disney, per caso? Ha pure i ricci come i tuoi, la gigantessa! Ehi, prova a denunciarli, magari così diventi pure più ricca!»

Mi girai per guardarla in faccia, ottenni soltanto il vuoto di un sedile che mai sarebbe stato più usato, mai sarebbe stato più calciato dallo spettatore dietro che si lamentava della sua parlantina e voce acuta.

Era quasi inconcepibile realizzare quanto peso portasse in sé l'assenza di una persona.

Quanto gravasse in cuore la scomparsa di chi più avevo amato al mondo.

Ma era diverso, stavolta.

Diverso dai miei ultimi quattro anni passati a celebrare quel lutto solo con me stessa.

A questo pensai per tutto il tempo, mentre guardavo quel film che poche settimane prima nemmeno ero sicura sarei mai riuscita a vedere, emozionandomi per niente come una sciocca, come la bambina che ero stata una volta, davanti alle avventure di Jack e la gigantessa Lizzie, la loro storia d'amicizia prima e dopo d'amore.

Perché se da un lato avevo l'assenza, dall'altro adesso avevo la presenza.

Mi voltai verso quella presenza, ancora incredula, il sorriso impossibile da lacerare, per domandargli da quanto lui non si vedeva un cartone animato di quel tipo, ma non riuscii a dir nulla perché mi accorsi che non stava affatto guardando lo schermo.

I suoi occhi erano già su di me, quando io li incrociai. La luce dello schermo, che cambiava tinta e dolcezza ad ogni scena, illuminava la sua testa bagnandola in un perfetto gioco d'ombre là dove non raggiungeva il suo viso. Schizzi di tenebre approfondivano i suoi tratti duri, la simmetria del volto, il solco che separava il labbro inferiore da quello superiore, sollevato di poco, pochissimo, e fu proprio in quel poco che precipitò tutto il mio cuore, in quella bozza di sorriso che disegnò l'interezza del sentimento.

Era sbagliato, era così sbagliato. Lui, io, il posto in cui ci trovavamo, quello che stavamo facendo, quello che continuavo a desiderare e lui continuava ad esaudire.

Perché... Perché non riuscivo mai a smettere di desiderare?

Difficile per me ammetterlo, ma non potevo negare a me stessa che, dalla visione di Gigantic, tutti i miei nervi contratti generati dall'ansia per quell'appuntamento-non-so-ancora-se-romantico con Dante si sciolsero. I loro nodi si sfilacciarono senza che neanche me ne accorgessi, nel mentre m'incantavo a guardare la storia di Jack e la gigantessa Lizzie, con naturalezza e semplicità, si slegarono senza violenza alcuna.

Se da un lato ciò mi rasserenava, dall'altro una piccola parte di me continuava a preoccuparsene, ribadendomi tutti gli errori che stavamo compiendo e avremmo proseguito a compiere, arrendendoci in quel modo; eppure, la sua voce si smarriva nella mia testa, surclassata dal piacevole torpore di quei momenti e bisogni, come quella di chi prova ad urlare al fianco di una cascata grande quanto un titano.

Concluso il film, andammo a casa di Dante. Prima di raggiungerla, Dante si fermò a un ristorante là vicino e tornò con tre cartoni grandi, spessi e duri, rettangolari, tra le mani: la nostra cena ancora calda, ordinata apposta per quell'orario. Due antipasti abbondanti più che mai, con affettati, formaggi, marmellate e miele ad accompagnarli, fagioli dall'occhio nero tipici della nostra trazione, brasato alla zucca e stinco di maiale, torta di mais e tiramisù.

Erano anni che non mangiavo qualcosa del genere, anni che non festeggiavo in quel modo quella festività che faceva da comune denominatore a quasi tutto il mondo. Solo nel sentire il profumo di quelle pietanze che un tempo avrei cucinato ad occhi chiusi in un giorno simile, sentii una stretta serrata allo stomaco, ma non portò con sé soltanto dolore, portò... altro.

Forse... sollievo.

Arrivati a casa sua, quel sollievo non durò a lungo, o, per meglio dire, migliorò alla grande, andando così a peggiorare le preoccupazioni di quel rimasuglio di logica e buonsenso che mi era rimasto. Lo sentii delirare alla grande, non appena Dante aprì l'uscio del suo appartamento e io, dopo un paio di passi, mi accorsi di com'era stata apparecchiata la tavola.

Era una mise en place piuttosto semplice, in realtà, nulla di elaborato o sopraffino che sarebbe anzi andato a scontrarsi al massimo con lo smalto vecchio del trilocale: il tavolino era stato coperto da una tovaglia bianca in cotone morbido, ad attraversarla un runner di un rosso pacato. Piatti di ceramica che neanche credevo la famiglia possedesse erano stati sistemati ai due lati, sopra quelli da antipasti erano stati persino posati i tovaglioli di stoffa: piegati diagonalmente e con un nastro a chiuderli grazie all'abbraccio del suo fiocco.

Fu la candela posta come centrotavola a togliermi il fiato.

Era una candela a forma di cactus.

Un cactus identico a quello tascabile che lui mi aveva regalato mesi prima, con la sola differenza che era di dimensioni tali da superare in altezza i calici di vino, e che sulla sua cima si trovava un fiore rosso e aperto, spiegato nella sua corolla minuziosa, talmente grande da esser indossato dalla pianta come fosse una corona.

Era solo una candela, era solo un cactus, era solo un fiore, eppure, nell'attimo stesso in cui lo scorsi, appena presi fiato, riuscii a percepirne chiaramente il profumo: intenso, profondo, quasi liquido, a rovesciarsi nei polmoni con zampilli d'emozioni sconosciute.

Mi sentivo in procinto di perdere del tutto la testa, non avevo la più pallida idea di come comportarmi. Le possibilità che io stessi fraintendendo tutto c'erano, quel poco che mi era rimasto della logica non faceva altro che ricordarmelo, sbattendo in faccia le sue teorie ad Agatha Fangirl e i suoi costanti deliri. Le elencava a voce alta tutto quello che io non ero, non potevo, non sarei mai stata. Non ero una persona, non potevo fare niente di buono, non sarei mai stata interessante per qualcuno.

Ma... perché mai un ragazzo avrebbe fatto tutte quelle cose nei confronti di una ragazza che nemmeno le era chissà quanto amica? Pietà? Compassione?

Penzolavo da una fazione all'altra senza tregua, senza riuscire mai a trovar pace; ciò che restava fermo erano quei sentimenti che covavo in cuore, inamovibili da lì dal giorno in cui erano nati, e che portavano proprio il nome di Dante. Avrei potuto riconoscerli, forse, pur non avendoli incontrati prima d'ora, ma non ne avevo le forze né le motivazioni: avevo desiderato abbastanza in passato, avevo desiderato troppo in passato, avevo esaurito tutte le mie scorte.

Perché lo stai facendo? Che sia per affetto profondo o compassione umana, non lo vedi che non ho niente da darti, niente da offrirti? Non ci sono fiori con me, ci sono solo spine, e un giorno anche tu te ne accorgerai, e quando te renderai conto, vedrai quanto ti ho rovinato e spezzato, ti pentirai di esserti illuso così a causa mia, e io non ce la farei ad essere odiata e uccisa anche da te, non ce la farei a trovare la morte persino nei tuoi occhi. Perciò smettila, ti prego, smettila di farmi desiderare così, sono già in debito con Dio, non posso essere in debito anche con te.

Serrai le mani sulla mia pochette, la porta già chiusa alle mie spalle, compressi ogni pensiero e tormento fino a ridurne le loro dimensioni esose e poterli così richiudere dentro un cassetto che solo più tardi avrei aperto, più tardi, più tardi, più tardi.

Il metodo Betsy sarebbe dovuto funzionare a lungo, stavolta.

Mi schiarii la gola, dondolandomi sulle punte dei piedi, e dopo qualche istante passati a respirare profondamente, con lui che si dirigeva alla penisola della cucina per iniziare a preparare la nostra cena, mi costrinsi a muovermi. Mi sfilai il cappotto, deviai ogni pensiero scabroso riconducendolo ai miei doveri principali, ai miei obblighi.

Lo aiutai a preparare la cena, mettendomi al suo fianco sulla penisola per sistemare le portate ai loro piatti appositi, il volto rosso che già mi tradiva, smascherando subito i miei dubbi e il mio imbarazzo, ma proseguii nella mia condotta di voler ignorare ogni cosa, mentre lo supplicavo nella mia testa perché lui acconsentisse a fare altrettanto.

Con mio grande sollievo, lo fece.

Parlammo del più e del meno, quasi quella fosse una cena qualsiasi, nulla di che, andando così a bilanciare il mio grande strazio e la mia necessità di sicurezze. Accese la tv per mettere il programma televisivo con cui controllare il countdown per mezzanotte, togliendo tutto il volume, e poi, con mio sommo terrore, andammo a sederci.

«Come lo passavi il Capodanno, prima?» lo sentii chiedermi, mentre io fissavo con ossessività gli affettati sul mio piatto. Avrei voluto strafogarmi di essi per compensare al timore, come facevo da quattro anni, ma mi sarei solo umiliata.

Fui addirittura grata di quel quesito da parte sua, fu un ottimo modo per distrarmi.

«Fino ai sedici anni lo trascorrevo con papà, aspettavamo la mezzanotte e poi, appena scoccava, ballavamo insieme. Diceva... Diceva che il miglior modo per inaugurare un nuovo anno... era con il ballo, secondo lui» ammisi. «Cucinavo io, di solito, e quando non potevo, papà mi portava alla mia steakhouse preferita.» Non so perché, mi ritrovai ad arrossire e a giustificarmi subito: «A me piace molto la carne, perciò...»

Lo guardai di sottecchi, l'angolo destro delle labbra era sollevato. «Sì, l'avevo notato.»

Che vergogna. Non era un'offesa, la sua, lo sapevo, ma comunque non potevo che imbarazzarmi. Era meglio cambiare argomento, il più in fretta possibile: «Poi, quando avevo sedici anni, papà mi diede il permesso di passare il Capodanno fuori con gli amici... e così... lo trascorrevo sempre con Betsy e la sua comitiva. Io mi occupavo del cibo... e lei degli alcolici... illegali per noi minorenni.»

Era... bizzarro parlare di quei giorni. Erano ampolle che custodivano strazi profondi, ma nel mostrargliele il dolore che producevano si attenuava con piacevolezza, come quando si medica una ferita: prima senti il morso pungente del disinfettante, e poi il torpore piacevole di esser stato medicato. «Quindi tuo padre sa ballare?»

Un altro quesito strano che comunque non mi stupì, l'assenza di sorpresa era sufficiente per dirmi tutto quello che mi rifiutavo di ammettere. «Sì... Era un ottimo ballerino... ha insegnato anche a me, era molto bravo... coi lenti.»

Me li aveva insegnati poco dopo esser riuscita a toccarlo. Prima, invece, quando ancora l'afefobia me lo impediva, infiocchettava i nostri polsi con quel vincolo antico, il vincolo con cui da uomo che mi aveva messa al mondo si era trasformato nel mio papà.

Adesso quel nastro... erano le sue manette.

«Era appassionato anche lui di Sinatra?»

Quella fu la domanda che mi lasciò senza parole. Lo guardai a occhi sgranati e lui abbozzò il suo sorriso malefico. «Lo canticchi spesso.»

Una vergogna nuova montò in me, perché quello era un dettaglio che avrei voluto affogare in tenebre soffocanti al punto da ucciderlo. «No» risposi, la voce sicura e decisa, il tono di chi aveva digerito ogni cosa, «mia madre aveva la fissa per Frank Sinatra, lo metteva sempre alla radio.»

Ero grata del riscaldamento interno dell'appartamento, andò a consolare il gelo che stava proliferando nel mio petto.

«Che tipo era... tua madre?»

Sapevo la risposta che dovevo dare a memoria, la sapevo da sempre, forse da che ero stata concepita, ma era sempre difficile non far scivolare insieme alla voce l'oscurità che trattenevo in grembo.

«Era una donna molto bella. Non parlava granché, era un tipo piuttosto riservato, tranne per argomenti che le interessavano molto. A parte Sinatra, non aveva molte altre fisse, se non le storie d'amore.»

Lui aggrottò appena la fronte. «Le storie d'amore?»

Sentii lo stomaco serrarsi, non avrei voluto rivelargli così tanto, ma se non avessi risposto, avrebbe potuto insospettirsi. «Sì, le piaceva l'idea delle anime gemelle.» Quasi ebbi l'impulso di ridere, perché dopo quanto rivelatomi da papà sul suo conto e sulla storia di nonna Lily, quella sua fissa assumeva un significato ancor più distorto. «Suppongo fosse perché i suoi genitori non si amavano molto, perciò lei sognava di poter vivere una storia diversa.»

La sua perplessità fu evidente anche senza che vi ponesse quesiti in merito, non potevo neanche biasimarlo per questo, era una curiosità legittima, soprattutto visto che già sapeva che mio nonno era un pastore. Non ero obbligata a rispondergli, anzi, meno gli avrei rivelato, meglio sarebbe stato per tutti, ma sapevo bene che non dir nulla era il primo modo con cui indurlo a porsi dubbi sulla situazione, inoltre...

Per la prima volta dopo anni... sentivo il bisogno di parlare di lei, di parlare di lei davvero, senza più filtri a depurare le atrocità che entrambe ci portavamo dentro.

«Da quanto ne so... i miei nonni si sposarono più per pietà che per amore» spiegai, puntellando i denti della forchetta contro il triangolo di robiola. «Nonno Ludwig era avanti con gli anni e malvisto dalla sua comunità proprio perché un pastore senza moglie e figli, nonna Wendy era incredibilmente giovane ma anche orfana, malata e squattrinata. Lui provò pietà per lei che non sapeva più come tirare avanti e così le propose di sposarlo e lei accettò.»

Sembrò smarrito davanti alla mia spiegazione, e aveva tutti i motivi per farlo. Anche io, il giorno in cui ero venuta a sapere quella storia, a nove anni, ne ero rimasta stupefatta. Nessuno mai penserebbe che un pastore convolerebbe a nozze per motivi del genere, ma era anche vero che si trattava di tempi lontani dai nostri, in cui il concetto stesso di "amore" non equivaleva a quello che si aveva adesso.

«È stata tua madre a raccontarti la loro storia?»

Mi strinsi nelle spalle, addentai un altro pezzo di formaggio che mi ricadde nello stomaco con il peso di una biglia incandescente. «No. Alla mamma non piaceva molto parlare di quella storia, immagino fosse imbarazzante per lei ammettere di essere nata da una coppia che non si amava davvero. Una volta... quand'ero bambina... in cantina trovai il diario di mia nonna.»

E in quel diario avevo scoperto ogni cosa.

Avevo visto e finalmente compreso tutto. La catena del male, ignobile mostruosità, incarnata nell'inchiostro sulla carta ingiallita.

Ci fu qualche secondo di silenzio che mi si incastrò nel cuore, dopodiché lo sentii dire: «Non saprei, mia madre c'aveva la parlantina facile. So vita, morte e miracoli dei miei trisavoli a causa sua, me raccontava pure come andavano tutti i suoi appuntamenti. Roba che non se vede neanche nelle telenovelas assurde di Rosemary.»

Ero sorpresa di sentirlo parlare così facilmente di Jane. Realizzare che entrambi ci stavamo aprendo su quelle figure così importanti per noi era un altro indizio che volutamente scelsi di non cogliere. Mi sfuggì un sorriso, però, nell'immaginare Jane da giovane che tormentava un Dante appena adolescente con le tragicommedie del suo albero genealogico.

«Beh... non mi sorprende... visto anche il motivo per cui vi ha chiamati così» ammisi, lui sbuffò, uno sbuffo divertito.

«Anche a lei piacevano i lenti» spiegò, dopo aver mandato giù un sorso d'acqua. «Partecipava alle serate in cui erano previsti quei balli ogni volta che poteva, è a una di quelle serate che ha conosciuto il padre dei due flagelli.»

Sentirlo citare in quel modo Ryan fu un'altra sorpresa e l'ennesimo indizio che di mia iniziativa ignorai. «E ha insegnato anche a te a ballarli?»

«No, mi ha insegnato Ryan.»

Non potei nascondere lo stupore, nel vederlo lui mostrò una sorta di sorriso, quel genere di ghigno che portava con sé non crudeltà: amarezza. «Sosteneva che ogni uomo al mondo dovrebbe saperne un po' de danza, me costrinse a imparare.»

Nella sua voce non traspariva una forma di collera profonda, come invece era successo la prima volta che mi aveva parlato del padre dei gemelli; il rancore restava e così l'ira, ma non dilagava più nei suoi occhi. Max mi aveva detto che prima che Ryan diventasse abusivo, lui e Dante non erano particolarmente affiatati, ma a Dante non dispiaceva come compagno della madre. Supposi che in qualche modo, seppur non intenso, si fossero legati.

Ricordai quanto Minnie aveva affermato in merito alle considerazioni che il mondo faceva sui mostri come mio padre: che fossero una categoria a parte, aliena all'essere umano, di indole sadica e per questo capaci solo e soltanto di diffondere dolore e malvagità da che venuti al mondo. Forse era così che Dante finora aveva visto Ryan, con quel filtro di mostro assoluto che perciò mai e poi mai aveva portato del bene, e solo ora stava riconoscendo a sé stesso la sua umanità.

«Ballavi anche con Betsy, a Capodanno?»

Sentirla nominare di nuovo e non per bocca mia provocò una lacerazione intima al cuore, col sangue a sgorgare da quella ferita aperta, eppure... eppure non fu solo sangue, stavolta, fu una cascata di memorie che ora potevo riavvolgere in mente senza più guardarle soltanto con la lente della colpevolezza.

«No» risposi alla fine, «lei beveva di rado, solo in occasioni speciali, Capodanno era una di queste. Allo scoccare della mezzanotte era già ubriaca, di solito passavamo le ore successive in bagno con lei che mi giurava che non avrebbe mai più bevuto per il resto della sua vita e poi si incazzava a morte perché io non le credevo.»

Dal giorno in cui la polizia aveva aperto quel dannato capanno, Betsy George era stata immolata a ultima vittima di Lawrence Reid e solo per questo nominata dalle bocche altrui. Appariva nella telecronaca e nei giornali come una ragazza innocente in tutto e per tutto, come in effetti era, ma mai venivano riportate tutte le piccolezze e assurdità per cui io l'avevo amata con ogni mia essenza, le varie stramberie di cui tanto si vantava.

C'era un'ingiustizia sottile nel modo in cui il mondo aveva la tendenza innata a donare la santità massima alla vittima e la crudeltà assoluta al carnefice, quella divisione netta tra bene e male, in cui nel bene non poteva esister difetto e nel male non poteva esistere qualità, quasi riconoscerglieli avrebbe potuto farli sparire per sempre, cancellarli del tutto. Betsy George doveva essere sempre e comunque una ragazza perfetta e innocente in tutto e Lawrence Reid doveva essere sempre e comunque un mostro spietato e sadico in tutto.

«Danzavamo al ballo di fine anno» mi scoprii a raccontare, sbattendo le ciglia, «lo abbiamo fatto sempre, tranne l'ultimo anno di liceo.»

«Si era ubriacata di nuovo?»

Mi ritrovai a ridere, era... così bello che qualcuno la vedesse per quello che era, finalmente, la mia Betsy. «No» ammisi. «L'ultimo anno... lei si mise con una ragazza della scuola. Non era un tipo geloso, la sua fidanzata, non si preoccupava della mia presenza, ma sapevo che se fossi andata con loro, Betsy non si sarebbe goduta la serata appieno, si sarebbe preoccupata sempre di non lasciarmi sola, dato che era l'unica con cui potevo ballare, così...»

«Hai scelto di non andarci?»

Mi ammutolii, una nuova sofferenza mi risalì alla gola. «Sì» confessai dopo qualche istante. «Sapevo che lei non avrebbe mai accettato la mia scelta, se le avessi spiegato il perché, così... il giorno del ballo... le dissi per messaggio che mi ero presa un brutto virus gastrointestinale e che quindi non potevo più partecipare.»

Mai le avevo confessato la verità di quel giorno, la mia bugia. Non avevo dubbi che se l'avessi fatto, si sarebbe adirata al massimo, avremmo finito per discutere per ore intere, ma ora... mi pentivo amaramente di non averlo fatto.

Avrei voluto che conoscesse quel dettaglio di me.

Così, magari, mentre era nel capanno, quel banale dettaglio in qualche modo l'avrebbe potuta portare a pensare che non ero io la causa della sua sofferenza.

Un'illusione stupida, la mia, ne ero ben cosciente, ma non potevo che aggrapparmici.

Risollevai lo sguardo dal piatto, un silenzio innaturale andò a bloccarmi il cuore, quando scorsi il sorriso di lui, la luce della candela a forma di cactus che lo blandiva come un nastro aranciato; l'assenza di battiti in petto fece più male di quanto avrebbe fatto un loro accrescimento abominevole.

Leggevo la fiducia nei suoi occhi, nell'ambra delle iridi, la fiducia completa.

Serrai la mandibola, mi trattenni dal feroce impulso di sciogliermi lo chignon basso così da usare i capelli come tenda dietro cui nascondere il viso. Non avevo paura di lui, avevo paura di tutto ciò che quella fiducia comportava tra noi, di tutte le parole non dette e supposizioni che mi stavo creando in testa a causa di Agatha Fangirl, della sola pulsazione che mi era rimasta in assenza di quelle del cuore, che batteva nello sterno con fragori inumani, urlava la verità scorretta che mi era stata tramandata dalla catena di lei, il nostro peccato originale.

Voglio essere amata, voglio essere amata, voglio essere amata.

Il metodo Betsy.

Non dovevo dimenticare di usare il metodo Betsy.

Fino alla fine.

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