Cocido madrileño
Imparai a controllare in gran parte la mia afefobia a quattordici anni, grazie ai vari esercizi suggeriti dalla mia psicologa e la pazienza di mio padre che mi aiutava a metterli in atto ogni giorno.
Il risultato che ottenni fu che, a pelle coperta, ero praticamente in grado di fare tutto, vivere quasi normalmente, come gli altri ragazzi della mia età. Non era piacevole, ma ci avevo preso l'abitudine, al punto che, ormai, neanche più andavo in panico dopo. Era solo un fastidio, come un sassolino nella scarpa che, sapendo di non potertelo togliere, anzi, di averne al contrario bisogno, finivi per accettare e permettevi di accompagnarti per il resto del tragitto.
Solo alcune cose non ero proprio in grado di tollerare anche da vestita del tutto: i gesti che comportavano inevitabilmente un contatto troppo esteso e profondo, che coinvolgeva in contemporanea più punti del corpo, come gli abbracci o le carezze continue protratte a lungo.
Ero riuscita persino a imparare a gestire i momenti di panico davanti a un contatto a pelle nuda. Li vivevo, sì, ma la mente più non si svuotava né finivo per delirare in assoluto. Riuscivo a mantenermi lucida per poter agire di conseguenza e calmarmi.
La sola eccezione erano, per ovvie ragioni, i gesti più intimi, come il sesso, che di sicuro mi avrebbero fatta ammattire all'istante.
Anche i baci mi erano del tutto proibiti, che fossero sulla guancia o sulle labbra; pur essendo una romanticona, una di quelle che si emozionava come una scolaretta a leggersi i romanzi in voga del momento, dove i due protagonisti facevano di tutto e di più al limite della legalità, una di quelle che su Wattpad lasciava tremila commenti emozionati già al primo bacio tra i due, ero ben conscia del fatto che mai avrei potuto sperimentare cose del genere per me.
Per quanto desiderassi a mia volta vivere storie d'amore simili, per quanto mi facessero impazzire, il corpo, al solo pensiero di entrare in un'intimità del genere con un altro essere umano, s'accartocciava subito come un foglio di carta in un pugno, brividi continui andavano a scuoterlo, sudore copioso lo ammantava.
Mai l'avrebbe tollerato.
E io avevo accettato subito ciò.
A discapito della mia fantasia da adolescente in preda agli ormoni, sapevo di non essere né in diritto né nella posizione di poter avere una relazione o anche solo attività sessuali.
Era contro natura ai miei occhi.
Sognavo quelle storie d'amore per ore e ore, tanto mi travolgevano, ma non dimenticavo mai di tenere i piedi saldi a terra, di non illudermi troppo con la mia immaginazione.
Mi accontentavo dell'idea di innamorarmi, un giorno, a distanza, in senso unilaterale e mai ricambiata. La sola forma di romanticismo che volevo e potevo concedermi.
Ero ben consapevole che nel mio futuro non mi sarei mai sposata e mai avrei avuto figli, che sarei rimasta single a vita, e forse proprio per questo avevo sviluppato una passione così profonda per i cattivi ragazzi, i dark romance e le boy band dai membri tatuati dalla testa ai piedi e pieni di piercing, noti più per i loro aspetti trasgressivi che per le doti canore.
Compensavo la realtà dei fatti con l'immaginazione, un modo per non addolorarmi troppo per la consapevolezza di come sarebbe stata la mia vita in futuro.
Le sole persone che riuscii a toccare a pelle nuda, con cui fui capace di avere contatti fisici estesi come gli abbracci, furono due.
Mio padre e Betsy.
Papà fu il primo con cui ottenni quel grande traguardo, a quindici anni, durante le vacanze estive.
Avevo notato che il mio corpo, pian piano, aveva iniziato sempre più a rilassarsi quand'era vicino al suo, al modo in cui più non si tendeva anche solo di poco nell'avvertirlo, al modo in cui anche a toccarlo coi guanti non provavo quel fastidio ormai abitudinario, quel sassolino nella scarpa.
Era come se avesse del tutto ceduto, come se, al suo fianco, sentisse di essere al sicuro, che mai sarebbe stato odiato e giudicato da lui, al contrario invece sarebbe stato rispettato.
Così, uno dei tanti venerdì sera che passavamo a guardare scadenti film romantici in soggiorno, con popcorn, patatine, marshmallow, CocaCola e il dolce che preparavo sempre per i weekend, mi rivolsi a papà.
Eravamo seduti sul divano di pelle, io a sinistra e lui a destra, papà come al solito si era messo abbastanza distante di modo che non ci fossero sfioramenti imprevisti tra i nostri corpi e io non mi spaventassi per questo, col tavolino in vetro, tra noi e la televisione, carico di tutte le schifezze per goderci la serata.
Mi voltai a guardarlo, aveva il viso fisso sullo schermo, le sopracciglia un po' contratte, stava mangiando una fetta della torta di mele che avevo preparato quel mattino, reggendola davanti alla bocca con la mano.
Lui non apprezzava particolarmente quei film, anzi, si può dire proprio che li odiasse, non perché non li considerava adatti agli uomini, ma perché mai aveva compreso un sentimento come l'amore. Non lo riteneva né appassionante né travolgente come in tanti dichiaravano fosse, e si infastidiva tantissimo per le scelte stupide e illogiche che i personaggi prendevano ogni volta proprio a causa di quell'emozione ai suoi occhi così poco interessante.
Quando ne avevo parlato a Betsy, qualche mese prima durante la pausa pranzo a scuola, sedute sulla panchina del cortile, lei mi aveva detto: «Oh, capisco, quindi tuo padre è aromantico, eh?»
«Che significa aromantico?»
«È un tipo di orientamento affettivo» mi aveva spiegato, «è molto complesso, in realtà, ma per dirla in parole semplici: non riesce a provare interesse per l'amore romantico.»
«Come l'asessualità?»
Betsy aveva scosso la testa. «No, è diverso. In realtà, anche l'asessualità è più complicata di come appare, visto che rientra a sua volta in uno spettro, ma dato che so quanto odi i miei sproloqui, cercherò di dirla in maniera veloce. Gli asessuali possono desiderare l'amore romantico, ma non provano forme di attrazione sessuale, quindi, in genere, non sono interessati al sesso. Gli aromantici, invece, sono interessati al sesso, ma non alle relazioni amorose.»
Quella spiegazione rapida da parte sua mi aveva permesso di comprendere un altro aspetto di mio padre che mi era sì noto, ma che mai avevo capito appieno.
Se devo essere sincera, mi veniva davvero difficile immaginare come una persona non potesse desiderare una relazione romantica, come un'emozione così venerata da tutti - l'amore - non potesse affatto interessare qualcuno; ma al tempo stesso, ero consapevole che quella mia difficoltà era sicuramente dovuta alla mia presa di coscienza che, pur volendolo smaniosamente, mai avrei potuto avere una relazione.
«Quindi mio padre non può amare?» avevo chiesto a Betsy, mentre sorseggiavo un brick di tè al limone.
«Romanticamente no» aveva risposto lei, le gambe accavallate. «Però non significa che non può provare altre forme d'amore, sia chiaro, come quello familiare. Lo vedi da te ogni giorno, no? Sei la sua cocca» mi aveva strizzato l'occhio e io avevo ridacchiato. «Ma dubito che porterà mai in casa vostra una donna per dirti: "Agatha, Ciliegina, lei d'oggi in poi sarà la tua nuova mamma."»
Eravamo scoppiate a ridere insieme. «E secondo te ciò lo rende infelice?» le avevo domandato a quel punto.
Betsy aveva arricciato il nasino. «Dovresti chiederlo a lui. A me tuo padre non sembra un tipo infelice, se devo essere sincera. Certo, nella nostra società gli asessuali e aromantici vengono giudicati molto, forse persino più di noi omosessuali. La gente fatica a concepire il fatto che ci sono persone in questo mondo che per natura non sono interessate al sesso o alle relazioni.»
Ci avevo riflettuto su. In effetti, la sua spiegazione illuminava tante ombre che avevo ancora su mio padre. Era un bell'uomo, d'altronde, e sapevo, anche se lui cercava di non parlarne, che si frequentava con molte donne, ma mai me le aveva presentate e mai aveva protratto quelle frequentazioni per più di un paio di mesi.
E molte cose adesso mi apparivano chiare anche in merito alla relazione tra lui e la mamma.
«Ehi, amica, che faccia che stai facendo» mi aveva chiamato a quel punto Betsy, ed io ero sussultata sul posto, accorgendomi solo in quel momento di quanto avessi, senza volerlo, contratto il mio viso. «Che c'è? Sei preoccupata per lui?»
Avevo morso il labbro, per poi scuotere la testa. «No, stavo solo... pensando.» La presa della mia mano sul mio brick si era fatta più forte, andando a piegarlo a metà. «È solo che... secondo te si può essere felici, anche senza mai innamorarsi?»
«Certo che sì» aveva risposto subito lei. «L'amore non è tutto, ci sono tanti altri tipi di affetti che possono riempire la nostra vita. Come l'amicizia e la fratellanza.» Di nuovo mi aveva fatto l'occhiolino e si era indicata fiera, avevo ridacchiato ancora. «O quelli tra genitori e figli, come nel caso tuo e di tuo padre. Anche a milioni di chilometri di distanza si capisce quanto vi volete bene.»
Ero arrossita furiosamente nel sentirla, e lei aveva sghignazzato. «Ma guardala, la nostra Ciliegina cocca del papà!»
«Ahhhh! Smettila!» Le avevo lanciato in testa il brick vuoto di tè e lei aveva lanciato un urletto stridulo.
Ripensai a quella conversazione che avevo avuto con Betsy, quel venerdì sera, mentre osservavo papà accigliarsi sempre di più davanti alla decisione della protagonista del film di scappare via dalla città a causa di un fraintendimento con il suo fidanzato.
Anche se lui era aromantico e non gli interessavano affatto quelle cose, voleva comunque passare con me quei venerdì a guardarci film del genere, pur detestandoli con tutto sé stesso, forse più di quanto detestasse già i cartoni della Disney.
E quel pensiero, in qualche modo, fu l'ultima spinta necessaria per darmi un po' di coraggio.
«Papà» lo chiamai.
Lui finì l'ultimo boccone della sua fetta di torta, lo sguardo ancora dritto davanti allo schermo: «Agatha, bambina, tu sei tutto per me, ma giuro che se dopo questo film ne vuoi vedere un altro, chiamo all'istante il mio avvocato e ti diseredo subito.»
Scoppiai a ridere. «No, non è quello, anzi. Visto come ti sei sacrificato, possiamo vederci uno dei gialli o thriller che tanto ti piacciono, basta che mi risparmi Hitchcock.»
«Hitchcock è la vita, bambina, il solo e vero motivo per cui meritiamo di venire al mondo.»
«Non mi sembra più così in vita, adesso.»
«Ah! Che figlia crudele che ho! Povero Hitchcock! Poveri gialli e thriller! Non sei degna del nome che ti ho dato con tutto il mio cuore! Avrei dovuto chiamarti Fidela Castra, non Agatha.»
«Non avresti comunque potuto chiamarmi Fidela Castra, papà, credo proprio che non si possa fare.»
«Se la gente può chiamare i propri figli Scianél e Maicol, allora io posso chiamare la mia Fidela Castra.»
«Ti arresterebbero subito, lo sai, vero? Penserebbero che sei comunista.»
«Meglio essere arrestato da comunista che avere una figlia che insulta Hitchcock.»
Sghignazzammo insieme di nuovo, papà si voltò a guardarmi. «Quindi cosa c'è, bambina?»
Tentennai per qualche secondo, fissandomi le mani sulle cosce. Quella sera indossavo un paio di guanti che sempre lui mi aveva regalato, rosa e con milioni di cuoricini rossi sul tessuto.
«Posso... Posso provare a stringerti la mano?» mormorai a fatica, mentre il mio volto divampava per la vergogna.
Non ebbi il coraggio di guardarlo in faccia, ma percepii lo stupore attraversare il suo corpo, il suo sguardo stupefatto addosso.
«Senza i guanti?»
Il mio rossore aumentò a dismisura, a fatica annuii.
«Ne sei sicura, bambina?» mi domandò. «Non ti stai sforzando?»
«Penso... Penso che con te ce la posso fare» bisbigliai, continuando a fissarmi le mani.
Per qualche minuto lui tacque. Sapevo che era indeciso, che aveva paura che non fossi pronta e che, al momento del contatto, avrei iniziato ad avere i primi sintomi del panico: la tachicardia, la sudorazione, il respiro affannato.
«Bambina» mi chiamò, «non devi costringerti a farlo, se non te la senti.»
«Me la sento» esalai tutto d'un fiato, mentre il volto si imporporava ancora. «Magari solo... solo per qualche secondo. Voglio... Voglio provarci.»
Di nuovo rimase in silenzio per un bel po'.
«Va bene» disse alla fine, la voce roca, «ma devi promettermi che appena inizi a stare male interrompi subito il contatto. Non ti devi forzare a mantenerlo.»
Annuii a fatica.
«Ok, bambina» disse allora, e finalmente ebbi il coraggio di guardarlo. Mi stava donando il suo classico sorriso da papà, quello che gentile, delicato e amorevole con cui mi aveva indotta a parlare la prima volta, dopo mesi e mesi di silenzio, appena trasferita là. Lo stesso con cui mi aveva insegnato ad andare in bici. Mi porse la mano, il palmo all'insù. «Pronta?»
Fissai quella mano per un bel po', le sue dita lunghe e grandi, il palmo largo, la pelle rosea. Subito, all'idea di sfiorarla con la mia, fui trafitta da un senso di disgusto, ma un'altra emozione mi scalfì l'animo l'istante dopo.
Il pensiero di poter finalmente scoprire cosa significava esser toccati senza venir detestati.
Di conoscere il calore di un corpo che non fosse il mio.
Di un corpo che apparteneva alla prima persona che mi aveva amata e che io avevo amato.
Inspirai a fondo dal naso, espirai dalla bocca, mi sfilai veloce il guanto.
«Ricordati: appena ti senti male, smettiamo subito.»
«Sì» risposi, e allungai la mano verso la sua.
Serrai la mascella, le dita a un centimetro da quelle di papà.
Sei sporca, contaminata, mi rifiuto anche solo di sfiorarti.
«Agatha, bambina.»
Mi accorsi che la mano stava tremando.
Risollevai il capo, incrociai gli occhi caldi di papà.
«Anche se ti ci vorranno cinquant'anni per riuscirci, non mi arrabbierò, ti aspetterò sempre, non avere fretta.»
La sua voce era seria e sicura, e lo era anche il suo sguardo.
Fu la goccia necessaria per far traboccare il mio vaso di coraggio.
Per trovare la forza di scacciare via quella voce nella testa, di ignorare lo zampillo di uno specchio a cui dovevo elencare i miei peccati, il rumore di una corda di canapa che veniva legata alla mia vita.
Posai il mio palmo su quello di papà, lo avvolsi tra le mie dita.
Trasalii.
Quello... quello era il calore di un altro essere umano.
Quello... quello era il calore del mio papà.
Dolce, confortevole, delicato come lui, come tutte le cose che aveva fatto per me.
Deglutii, mentre stringevo con più forza la sua mano.
Mi ritrovai a pensare: Questo è davvero il mio papà.
Non mi faceva male, e soprattutto io non facevo male a lui.
Non lo stavo rovinando toccandolo in quel modo, non lo stavo sporcando.
Era solo una stretta di mano qualsiasi.
Solo un contatto qualsiasi.
Era il mio papà ed io ero sua figlia.
Ed era bellissimo.
Finalmente... finalmente, dopo anni, conoscevo davvero il sapore di una stretta di mano, il suo tepore confortante.
Era così bello che per un attimo mi ritrovai a credere di essere in paradiso, lacrime gocciolarono dai miei occhi e nel vederle lui sobbalzò. «Bambina, ti senti male?» domandò preoccupato, scossi subito la testa.
«No, è solo che...» mi ritrovai a balbettare. «Non pensavo potesse essere così.»
Lo vidi sorridere, la sua mano strinse la mia a sua volta.
«Ti fa paura?»
Scossi ancora la testa. «No, se sei tu no.»
Le labbra gli si arcuarono ancora di più. Carezzò il dorso della mia mano col suo pollice. «Stai per far piangere anche me, figlia dannata, mi rovinerai la reputazione» commentò, ed io scoppiai a ridere. «Un giorno... riuscirai a farlo con tutti, bambina, non solo con me, ne sono sicuro.»
Aveva gli occhi lucidi quasi quanto i miei, ed io avrei voluto sul serio credergli, avrei voluto farlo con tutta me stessa, ma mi accontentai di sognare quel giorno, di illudermi che sarebbe arrivato sul serio, ben conscia però che sarebbe rimasto solo un miraggio.
Ma avevo papà, adesso.
Avevo lui, e tanto mi bastava.
Perché finalmente avevo potuto toccare qualcuno che mi amava.
Farmi toccare da qualcuno che mi amava.
La stretta si fece forte, un vero e proprio vincolo tra noi due, saldo quant'era il legame che ci univa e ci rendeva una famiglia.
«Bambina» mi chiamò a quel punto, ed io tornai a guardarlo, i suoi occhi lucidati dalle lacrime erano seri, un misto di sollievo e preoccupazione li tinteggiava, «di cos'hai veramente paura? Di toccare o di essere toccata?»
"Di contaminare" fu la risposta immediata che pensò la mia mente, ma non trovai il coraggio di pronunciarla ad alta voce.
«Non lo so neanche io» bisbigliai alla fine.
Lui non rispose più, ma sapevo che non mi credeva, glielo lessi negli occhi.
«Agatha, bambina» mi chiamò alla fine. Lo guardai: il suo sguardo severo ma al contempo dolce d'affetto mi scaldò il cuore come adesso stava facendo la sua mano. «Sono fiero di te, lo sai questo, vero?»
Il cuore mi fece male, tanto pulsò per il sollievo e la felicità di sentirsi dire quelle parole che sapeva di non meritare, ma aveva desiderato con strazio dal giorno in cui era venuto al mondo.
«Sì» sussurrai. «Grazie, papà.»
Lui sorrise di nuovo, gli occhi gli si illuminarono. Tornò a guardare la televisione.
«Direi che possiamo vederci Il sospetto, che te ne pare?» chiese a quel punto.
«Lo sapevo che avresti suggerito Hitchcock lo stesso. Conosci quel film a memoria, papà.»
«Lo sai che per rendere il latte così bianco nel bicchiere ci mise dentro una lampadina?»
«Me l'hai detto settemila volte.»
«Non è mai abbastanza, bambina, tendi a dimenticare tutti i particolari sulla genialità di Hitchcock, tu.»
«Va bene, allora, ma solo per questa volta. Il prossimo venerdì ci riguardiamo Titanic.»
«Ti prego, bambina. Questa è vera e propria istigazione al suicidio.»
«Andiamo, non è così male.»
«Per colpa di quel film, adesso ogni volta che sento alla radio la voce di Céline Dion ho voglia di farmi esplodere dei petardi vicino alle orecchie nella speranza di diventar sordo.»
Scoppiammo a ridere insieme.
«Non smetterai mai di chiamarmi "bambina", non è così?»
La sua stretta sulla mia mano si fece più forte.
«Non importa quanto crescerai, Agatha, per me tu rimarrai sempre la mia bambina» mormorò. «Anche quando sarai una vecchia rugosa.»
Mi ritrovai a sorridere, mentre osservavo a mia volta lo schermo del televisore dove stavano partendo i titoli di testa.
«Ti voglio bene, papà.»
«Anche io, bambina.»
Passammo quel venerdì sera a guardarci Il sospetto di Hitchcock, senza più parlare.
A farlo furono le nostre mani intrecciate.
Il solo contatto con cui potemmo affermare ciò che già sapevamo: il nostro amore.
Quella che poi, più di tutti, sarebbe diventata, per me, la mia più grande condanna.
Venerdì pomeriggio mi risvegliai intontita, con il mio proverbiale mal di testa a squassarmi le cervella.
Mi risollevai dal materasso spoglio, scivolai dal letto, mi alzai in piedi.
Mi ero addormentata alle dodici del mattino e ora il risultato era che mi sentivo ancor peggio di prima.
Il silenzio del mio monolocale accolse il rumore dei miei passi nudi sul pavimento in resina, mentre avanzavo verso il bagno per andare a lavarmi.
Dopo essermi fatta la doccia, aver indossato una delle mie tante felpe giganti, quel giorno di colore rosso, e un paio di jeans slavati, mi diressi verso il tavolino al centro dell'appartamento, dove avevo lasciato il mio cellulare.
Di solito non lo guardavo mai, dato che non avevo più nessuno con cui comunicare. Le sole persone che mi chiamavano erano i giornalisti che avevano scovato il mio nuovo numero di telefono o la polizia.
I soli messaggi che ricevevo, oltre alle pubblicità, erano le mail minatorie.
E fu proprio ciò che guardai, quando accesi lo schermo ed entrai nella mia posta elettronica.
Quella mattina erano 124.
Erano diminuite drasticamente rispetto ai primi anni, questo era certo. Non sapevo come le persone avessero fatto a scoprire il mio nuovo indirizzo mail, supposi fosse stata una delle famiglie delle vittime, che aveva ingaggiato qualche investigatore privato. Non sarebbe stata la prima volta.
Quando vivevo ancora nella mia vecchia città, Mirefield, la gente del luogo aveva creato un sito apposito dove mi monitorava: chiunque mi vedesse in giro, aggiornava gli altri in quel sito su dove mi trovassi, la mia posizione, in modo da "salvaguardare l'incolumità degli altri".
Almeno, quella era la scusa che utilizzavano, e forse era davvero con quell'intento se all'inizio avevano creato quel sito, ma subito dopo si era aggiunto un altro fine, ben più vendicativo.
Ovvero far sì che chiunque volesse mi potesse raggiungere per potermi insultare.
Le autorità avevano provato a intervenire più e più volte, ma in assenza di una mia denuncia e anche con la censura delle piattaforme non era servito a granché.
Anche quando quel sito veniva cancellato, se ne creava subito dopo un altro.
Sapevo già che la gente di Mirefield, adesso, non vedendomi più in giro e scoperto che avevo venduto la villa di famiglia - il luogo incriminato - si stava domandando dove diavolo fossi finita, così come sapevo che non gli ci sarebbe voluto molto per scoprire che mi ero trasferita lì, con l'intento di seguire mio padre.
Il mio nuovo appartamento, quel buco di monolocale, presto sarebbe stato scoperto, e non avevo dubbi sul fatto che avrebbero trovato qualsiasi modo per vandalizzarlo.
Ero al terzo piano, dubitavo sarebbero riusciti a spaccarmi le finestre ancora una volta con un sasso, ma sapevo bene che avrebbero senz'altro utilizzato altri metodi per rovinarmi.
Cliccai sui miei vecchi messaggi, quelli che avevo conservato del mio vecchio numero di telefono, il mio indice andò subito sul contatto Betsy.
Sorella afefobica, per la festa, secondo te, mettere le sigle dei cartoni animati quant'è sfigato da uno a sedici milioni?
Dipende: quali cartoni? Non mi scadrai nella banale Sailor Moon.
Come osi! Sailor Moon è praticamente la perfezione assoluta!
Lo dici solo perché c'è una delle tue coppie preferite.
Sailor Uranus e Sailor Neptune sono LA coppia, sorella, non una coppia qualsiasi. È grazie a loro se credo nell'amore vero, non i cartoni Disney.
Non so, non ho avuto modo di apprezzarle, dato che la TV le faceva passare per cugine.
Bleah, non mi ricordare quest'incubo, sorella. Al solo pensiero ho di nuovo i brividi. L'incesto è la cosa più anti-sesso che sia mai stata concepita in questo mondo.
Non lo erano i bigodini di tua nonna?
Quelli sono i secondi. I terzi invece sono quegli orrendi stivaletti che indossi che sembrano pantofole. Il vero motivo per cui sei ancora single, altroché la tua afefobia.
Almeno grazie a quelli i miei piedi sono sempre al caldo d'inverno, tu invece non fai altro che lamentarti di quanto ti si stiano congelando.
Ti ripudierò come sorella, un giorno o l'altro. Quindi? Sigle cartoni animati sì o no?
Per me vanno benissimo, finiremo senz'altro per farci il karaoke, specie quando vi ubriacherete tutti appassionatamente.
Guarda che ho tutte le intenzioni di far ubriacare anche te. Stavolta ci riuscirò, ne sono sicura. Sarai più ciucca di Ciuchino.
Non mi avrai mai.
Vedremo, sorella, vedremo. Preparerò dei cocktail stratosferici, nemmeno il tuo autocontrollo sovraumano riuscirà a resistere alla tentazione di berli uno dopo l'altro.
Se c'è del cianuro dentro lo farò senz'altro.
Non tornare ai tuoi istinti suicidi, mi vuoi far diventare figlia unica a un'età così giovane? Almeno aspetta che mi sposi e adotti qualche bambino, così gli lasci in eredità i tuoi soldi.
Che infame che sei.
Se non vuoi, sbrigati a trovarti un bel manzo e a copulare con lui, almeno potrai dare quei soldi ai tuoi figli, non ai miei.
Come faccio a copulare con un manzo se neanche riesco a toccare qualcuno senza guanti?
Fidati, amica, un modo si trova sempre. E poi la tua passione sfrenata per i manzi tatuati e pieni di piercing è così forte che, secondo me, quando incontrerai quello giusto gli salterai addosso d'istinto.
Non è così sfrenata, e poi non per forza devono avere tatuaggi e piercing perché mi piacciano.
Hai ragione: devono anche essere dei bastardi, tossici e insensibili pezzi di merda. Proprio come quello dell'ultimo libro che ti sei letta.
Cosa c'era che non andava in lui, stavolta?
Ha letteralmente RINCHIUSO per mesi la protagonista in una cella per corteggiarla.
Vabbè, ma era per proteggerla dal padre di lei che voleva ucciderla, in realtà.
Il tuo concetto di "proteggere" è alquanto deviato. A volte mi spaventi, sorella, sul serio. Hai dei gusti di merda, lasciatelo dire.
Non sono così tremendi.
Il libro prima che ti sei letta aveva un fottuto YANDERE.
Gli yandere sono sacri.
Ripeto: gusti di merda. Non solo tatuati, pieni di piercing, ma anche psicolabili.
Cos'hai contro tatuaggi e piercing, adesso?
Niente, se non fosse che per te sono un vero e proprio feticismo.
Adesso non esagerare.
Dimmi una tua cotta che non abbia UN SOLO tatuaggio o piercing, ti sfido.
...
AH-AH! Ti ho fottuta, sorella. Ora, come dicono sempre i romanzi orrendi che ti leggi, mi butto tra le braccia di Morfeo, che domani mi devo svegliare presto per andare a correre.
Va bene, buona notte. Ah, che ne dici di Doraimon?
Ci sta, sorella, ci sta. Doraimon va bene con tutto, anche con l'alcool.
'Notte, Betsy.
'Notte, feticista incurabile degli yandere.
Quella era stata la nostra ultima conversazione.
Il giorno dopo, al mattino, papà l'aveva rapita.
Deglutii nel rileggere quei messaggi, la serenità e abitudinarietà con cui ce li eravamo scambiati, ignare del futuro che ci aspettava, inconsapevoli della tragedia che si sarebbe abbattuta nelle nostre vite di lì a poche ore.
Sbattei le palpebre, travolta dall'agonia, tornai indietro, cliccai su una delle mille mail che continuavo a ricevere ogni giorno.
Come fai a guardarti allo specchio?
Ma con che coraggio vai ancora a trovare quel mostro ora che sai tutto?
Devi dire la verità al mondo, se hai un minimo di coscienza, un briciolo di umanità, devi confessare tutto.
Sei solo un'assassina.
Non meriti più di essere felice, mai più.
La verità prima o poi uscirà fuori, non credere che te la caverai per sempre.
Avresti dovuto fare tu la fine di Betsy George.
Muori.
Scesi più in basso, cliccai su un'altra mail.
Buona sera, signorina Reid,
Sono Rebecca Price, una giornalista freelance, le scrivo per chiederle-
Eliminai subito quella mail, solo dopo aver letto la prima riga.
Sospirai, riposai il telefono sul tavolino, mi coprii il volto con le mani, mentre la mia bocca si squarciava a causa dell'urlo che stavo disperatamente cercando di trattenere.
Il 5 agosto.
Dovevo aspettare il 5 agosto.
Lo squillo furioso del campanello mi fece sobbalzare, distraendomi da quei pensieri.
Non era il campanello del citofono, quello, ma della porta d'ingresso.
Mi accigliai, avanzai incerta verso di essa, per poi poggiarmici sopra e guardare dallo spioncino.
Spalancai la bocca.
Non ci potevo credere.
«Thaty!» La voce di Dorian esplose con così tanta forza che riuscii a sentirla anche attraverso la porta. «Thaty, che c'hai da fare?»
Come diavolo... Come diavolo avevano fatto a superare il portone d'ingresso dell'edificio? E soprattutto, come diavolo facevano a sapere che il mio appartamento era proprio quello: al terzo piano? Non c'era neanche il mio vero nome sul campanello, ma uno fittizio.
Dallo spioncino, li osservai: come sempre erano vestiti uguali, con un paio di pantaloni marroni e due maglioncini rossi, sulle spalle gli zaini di scuola. Sorridevano più divertiti che mai.
Non ci potevo credere. Perché diavolo erano lì?
Cosa dovevo fare adesso?
Dante mi aveva detto di cacciarli via... ma da come sorridevano birbanti, sapevo che non sarebbe stato facile.
Forse dovevo fingere di non essere là dentro.
«Thaty, guarda che lo sappiamo che ci stai, eh!» continuò Dory. «Te vediamo l'ombra sotto la porta.»
Mio Dio, erano delle fottute spie.
Mi schiarii la gola, provai a camuffare la mia voce così che sembrasse quella di qualcun altro: «Avete sbagliato casa, non c'è nessuna Thaty, qua dentro.»
«Thaty, non t'offende di nuovo, eh, ma fai proprio cagare a recitare.»
Mi sentii avvampare davanti al commento di Dorian. Sapevo che aveva ragione.
«Ce scommetto che Dante t'ha detto de cacciarci» proseguì la gemella. «Che c'hai paura che te mena se ci fai entrare?»
Dorian sbuffò. «Non te preoccupare, quello non mena la gente così a caso.»
«Sarà pure coglione, ma la maggior parte del tempo è tutto fumo e niente arrosto.»
«Tranne con le cimici.»
Inevitabilmente, sentii l'angolo delle labbra tremare. Avevano una vera e propria passione per le cimici, quei due.
«Sono... Ho l'influenza» gracchiai alla fine. «Non posso farvi entrare, ve la trasmetterei.»
«Meglio, così non siamo costretti ad andare a scuola» commentò Dory.
Dio mio.
«C'è un'infestazione di scarafaggi nel mio appartamento» buttai fuori a caso.
«Gli scarafaggi ce piacciono, so le cimici il problema» replicò deciso Dorian.
«E comunque potevi trovalla 'na scusa migliore, eh, Thaty. Certo che sei davvero una principessina innocente, eh?»
Sentirmi dire questo da una dodicenne era più umiliante che mai.
«Il mio appartamento è sporchissimo, non posso farvelo vedere.»
«Non ce credo manco morto, c'hai l'aria de una che pulisce pure le fughe del pavimento con lo spazzolino, tanto sei fissata.»
Era sempre più imbarazzante perché ci aveva azzeccato in pieno. Era proprio quello che facevo.
«Il... Il soffitto perde acqua, c'è un sacco di muffa, è troppo tossica per voi.»
«Thaty, te lo devo di', meriteresti un premio per quanto fai schifo a mentì. Come fa la gente a pensa che sei un'assassina, visto quanto fai cagare con le balle?»
Dovevo essere felice di quel commento da parte di Dory od offendermi a morte? Nemmeno io lo sapevo.
Mi schiarii ancora la gola. «Perché siete venuti qui?» domandai a quel punto, aggrappandomi con la mano alla maniglia d'ottone della porta in legno.
«Ce piaci, Thaty, te l'abbiamo detto. Quando qualcuno ce piace, vogliamo conoscerlo a tutti i costi. Come dice una gran donna, cioè io, la gente che sta sul cazzo è sempre troppa, quella che te piace sempre troppo poca, quindi tocca tenessela stretta.»
«E poi sei ricca.»
Non sapevo più se scoppiare a ridere per l'assurdità di quella situazione o iniziare a sbattere la testa contro il muro nel tentativo di provocarmi un trauma cranico.
«Non sono così interessante» mormorai alla fine. «Sul serio, sono noiosa da morire.»
«Impossibile. Solo a vederti arrossì per le stronzate ce migliori la giornata» dichiarò deciso Dorian ed io, per l'appunto, arrossii.
«E non sei una cimice, soprattutto.»
«E poi sai cucinare, un grande requisito per stacce simpatica.»
«Non ho niente con me da cucinarvi» risposi, ed era la verità. Avevo solo merendine e schifezze con cui mi abbuffavo di continuo. L'avrei fatto persino adesso, se loro non fossero comparsi. «E vostro fratello si incazzerebbe a morte se vi facessi entrare.»
«Non te preoccupa de quel coglione, sappiamo gestirlo» replicò Dorian. «Che credi che non sappiamo com'è fatto, quel rimbambito? Lui pensa de potecce comandare, ma è impossibile. Manco Dio sarebbe bono a farlo.»
«E poi se prova a ditte qualcosa, lo menamo noi, non c'hai da temere.»
«Davvero, sono contenta di piacervi così tanto, ma non posso farvi entrare.» Inspirai a fondo. «Siete ancora piccoli, perciò non potete comprendere bene, ma farvi amica una come me vi porterà solo guai.»
«Non sei tu che diventi amica nostra, siamo noi che diventiamo amici tuoi.»
La mia presa sulla maniglia si fece così forte da farmi male, nell'udire le parole di Dorian.
«P-Perché...» mi ritrovai a balbettare, in preda allo strazio. «Perché ci tenete così tanto?»
Un secondo di silenzio.
«T'abbiamo detto che ce piaci» rispose Dorian. «E poi c'hai l'aria de una che non riesce più a sorride da tanto, Thaty.»
Un dolore primitivo mi squarciò lo stomaco, faticai a ritrovare il respiro.
«E noi semo bravi a far sorride la gente, specie quella che ce piace.»
Lottai contro l'impulso di scoppiare in un pianto a dirotto, con gli occhi che mi bruciavano così tanto a causa delle lacrime trattenute che a stento riuscivo a vedere cos'avevo davanti.
«Ve l'ho detto» gracchiai alla fine, «queste sono solo le conseguenze delle mie azioni.»
Di nuovo silenzio da parte loro, per un minuto intero.
Poi, la voce di Dory: «Fratello, piano b?»
«Piano b.»
Un brivido di preoccupazione mi attraversò la schiena. «Piano cosa?»
«Dorian!» tuonò Dory a quel punto con forza. «Esci il cazzo!»
Spalancai la bocca, sconvolta.
«E io uscirò le tette!» dichiarò ancora solenne Dory.
«Che cosa?!» strillai. «No! No che non lo farete!»
«Oh sì che lo faremo, Thaty» confermò Dorian con voce più fiera che mai.
«Proprio qui, in 'sto corridoio de merda.»
«Vedo già qualcuno che sta aprendo la porta per vedere che sta a succede. Sicuro in mezzo ce sta qualche pedofilo.» Dorian assunse una voce terribilmente scandalizzata.
«Finiremo per esse guardati da pervertiti!»
«Perderemo per sempre la nostra innocenza immacolata de bambini!»
Dory squittì tragica: «Tutti i nostri dolci sogni d'infanzia distrutti per l'eternità!»
«Le nostre virtù!»
«Come diavolo fate a conoscere la parola "virtù"? E poi non potete farlo! Sul serio, non vi vergognate neanche un po'?»
«Le tette so mie, decido io che facce.»
«È il cazzo mio, decido io quando uscillo.»
Non ci potevo credere! Cosa diavolo dovevo fare?
«C'hai cinque secondi di tempo per aprì la porta, Thaty» mi avvertì Dorian.
«Vi prego, riflettete un attimo, io non-»
«Cinque.»
«Andiamo! Non avete un minimo di pudore?»
«Quattro.»
Oddio, dallo spioncino vidi che si stavano davvero cominciando a spogliare. Stavo per svenire.
«Vi supplico!»
«Tre!»
Spalancai la porta, ormai disperata, e non riuscii neanche a vederli, li sentii soltanto superarmi e gettarsi di corsa dentro l'appartamento.
«AH!» udii Dorian esclamare. «T'avemo fottuta!»
«T'avevo detto che funzionava come piano b, Dorian.»
La mascella stava per cadermi a terra. Mi voltai per guardarli, si stavano sorridendo più compiaciuti che mai, si diedero persino il cinque.
Quando tornarono a guardarmi, risero della mia espressione sbigottita. «Sei davvero 'na principessa vergognosa, Thaty» commentò Dory, compiaciuta. «Te dovevamo chiamà Sissy, non Thaty.»
Richiusi la porta alle mie spalle, prima che qualche vicino provasse a guardare meglio la situazione.
Fissai i due gemelli, il volto in fiamme.
«Davvero 'na principessina» confermò Dorian nel guardarlo. «Meglio, altrimenti avremmo dovuto ricorrere al piano c.»
«Il piano c?»
«Pisciacce addosso.»
Oddio.
Mi passai le mani sul volto.
Non avevo idea di come comportarmi con quei due, sul serio.
«Voi...» mormorai. «Davvero... io non...»
«Piuttosto, Thaty, che appartamento de merda» disse Dorian, guardandosi attorno. Non potevo neanche biasimarlo, aveva ragione. Il mio appartamento era un buco, sterile e senza alcuna decorazione, dai muri grigi, un monolocale con un letto attaccato alla parete destra, l'armadio accanto, una cucina dall'altra parte minuscola, dai pensili di un legno distrutto, e un tavolino al centro della stanza che si affacciava a un televisore a parete vecchio di millenni. «Peggio del nostro.»
«Vero, vero, a proposito, perché non c'hai lenzuola sul letto? Che te piace dormì crepando de freddo?»
«E manco hai sistemato tutti gli scatoloni» aggiunse poi Dorian, osservando i quattro scatoloni giganti che si trovavano ancora accatastati alla base della penisola della cucina. «Da quanto stai qui?»
«Che ce sta dentro?»
«Voi» balbettai disperata, mentre continuavano a zampettare in giro per l'appartamento per studiarlo, «non avete altre cose da fare? E vostro fratello lo sa dove siete?»
«Dante, intendi? C'ha mandato la vicina de casa a prenderci da scuola» rispose Dory.
«Se chiama Rosemary, ce sta simpatica, ma oggi volevamo stare con te.»
«Così quando s'è fermata con la macchina davanti a casa nostra semo usciti e scappati verso casa tua.»
«E Rosemary è vecchia, c'ha tipo sessant'anni, non c'ha voglia de inseguicce.»
«Per sicurezza l'abbiamo comprata: le abbiamo detto che le davamo le foto dei pettorali de Dante se non lo chiamava per avvertirlo che non stavamo da lei.»
Dorian annuì. «Perché oltre che vecchia è pure pervertita.»
«Non scopa da tipo la nascita de Cristo, quindi ce sta. E poi Dante, anche se pure lei sa quant'è coglione, è gnocco, quindi le piace, finché lui non apre bocca, ovvio.»
Possibile che in quella famiglia così assurda non ci fosse una sola persona normale?
«Vostro fratello si incazzerà a morte, lo sapete questo?»
I due si strinsero nelle spalle. «Tanto se incazza sempre e comunque, pure quando non facciamo un cazzo» rispose Dorian. «Tipo quella volta de qualche giorno fa. S'è incazzato letteralmente perché non avevamo fatto un cazzo.»
Mi accigliai. «Nel senso... che non avete fatto quello che dovevate fare? Tipo i compiti?»
Sobbalzarono nello stesso momento.
«I compiti so sopravvalutati» affermò austero Dorian.
«La scuola è sopravvalutata» concordò la sorella.
«La vita è sopravvalutata.»
«Le cimici so sopravvalutate.»
Fissai i loro zaini neri, ancora sulle loro spalle. «E non avete compiti da fare, oggi?»
Di nuovo sobbalzarono.
«No» dichiararono insieme all'istante.
Una fitta di nostalgia mi trafisse il petto, perché il modo in cui lo affermarono, così veloci e sbrigativi, era identico a quello di Betsy ogni volta che mentiva a me e sua madre per non studiare.
«Dovreste farli, lo sapete, vero? È imp-»
«Dorian, guarda che ce sta qua!» Sbattei le palpebre. Quand'era arrivata ai miei scatoloni, Dory? Non l'avevo neanche vista! Era una scheggia, santo cielo! Li stava aprendo con grande interesse. «Che roba è?»
«Libri, Dory» rispose il fratello, ora accanto a lei, mentre ne tirava fuori uno. «Oddio, ma so quei libri orrendi che se legge sempre Rosemary!»
Avvertii il mio volto prendere fuoco.
«Forse non dovreste-»
«Guarda le copertine, Dory!» mi ignorò Dorian, sfilandone un altro. «Ce stanno sempre i pettorali tatuati!»
«E i titoli so sempre tutti uguali» confermò la gemella. «Ahhhh, capisco, Thaty, capisco tutto. Te piacciono i tatuati, eh? Quelli col carattere de merda.»
Mi pentii amaramente di aver portato con me quei libri, adesso, durante il trasferimento. Neanche li leggevo più da anni, ormai, lo avevo fatto solo perché erano stati i miei amici più cari dopo Betsy e non avevo avuto il coraggio di separarmene.
«Quindi c'avevamo ragione» mormorò Dorian, le dita sul mento in posa di riflessione mentre scrutava la copertina del libro che aveva in mano. «Dante è il suo tipo.»
«Forse dovemo tornare al piano originale: far sì che sia lui a scopassela, non aspettare che cresci così te la scopi tu.»
«In effetti, a parte le cimici, di solito a Dante piacciono le tette, e quelle de Thaty so stratosferiche.»
«E anche se non lo vole mai ammette, glie piacciono pure le timidine. Compensano la sua coglionaggine.»
Arrossii con furia, corsi verso di loro, gli strappai i libri di mano e li ributtai dentro lo scatolone. «Non è il mio tipo» biascicai. «Questi sono i libri che leggevo una volta, da ragazzina, tutto qui.»
Mi guardarono con aria da vecchi eruditi, come se già conoscessero tutto di me, inginocchiati davanti agli scatoloni e con sorrisetti spavaldi.
«Thaty, c'hai gusti di merda, lasciatelo di'» mi rimproverò Dory. «Però ce sta, eh, non semo tutti perfetti. Come dice una gran donna, cioè io, tocca avecce qualche difetto, sennò che gusto c'è a prendere per il culo?»
«Vi prego» li scongiurai, riportandomi le mani al viso ormai così rosso da non poterlo più neanche sentire, tanto stava bruciando. Li udii sghignazzare. Non avevo cuore di guardare i loro visetti compiaciuti.
«E questo-ehi, questo non sembra un libro, che cos'è?»
Mi costrinsi a riabbassare le mani, un sussulto mi travolse, quando mi accorsi che i due gemelli erano arrivati allo scatolone in fondo.
Lo scatolone che conteneva tutti i miei attrezzi di cucina.
E in mano... in mano adesso Dorian stava stringendo il mio ricettario.
Quello in pelle, dal color mogano, chiuso da una fascetta che si stringeva a fiocco proprio al centro della copertina.
Il primo ricettario che avevo mai realizzato da sola, da che avevo dieci anni, uno dei tanti regali che mi aveva fatto papà una volta che era iniziata la mia passione per la cucina. Lo avevo usato così tanto nel corso degli anni che era consumato non solo sulla copertina ma anche nelle pagine interne, era lì che avevo trascritto le ricette dei miei esperimenti migliori, quelle che avevo modificato ancora e ancora fino ad ottenere un risultato che mi appariva soddisfacente.
In quel quaderno c'erano i miei ultimi tredici anni di vita.
Tredici anni passati a tentare nuovi piatti, riprovarli, ancora e ancora, chiedere a papà di assaggiarli, sentire il suo parere, prepararne degli altri e far giudicare Betsy, segnarmi quali erano i preferiti in assoluto di tutti e tre, così da poterli riproporre in occasioni speciali.
Il respiro evase dai polmoni, più non riuscii a muovermi dal posto, mentre Dorian lo apriva e insieme alla sorella guardava al suo interno. Entrambi sgranarono gli occhi. «Cazzo, Thaty, ma sei fantastica!» esclamarono insieme.
«L'hai scritto tu, ve'? C'è il tuo nome in prima pagina» continuò Dorian.
«Sul serio, che figata! E quanto sei ordinata! Mai vista 'na roba simile, Thaty!»
«E 'ste ricette le hai inventate tutte tu?»
«Sul serio hai fatto la foto di ciascun piatto e l'hai spiaccicata qua? Dio, come sembrano boni! Me li magnerei pure là nella carta.»
«Che significano le tre file di cuoricini che stanno all'angolo della pagina? Perché sono sempre cinque ma cambia ogni volta quanti ne hai colorati? Perché la prima fila è verde, la seconda è rossa e la terza gialla?»
«Che bella scrittura che c'hai, poi! La mia è tipo 'na zampa de gallina.»
Impedirmi di piangere fu uno sforzo sovraumano, non so in che modo ci riuscii. Sbattei le palpebre costantemente, impedendo al volto di contorcersi.
«Era... Era il ricettario che ho iniziato a scrivere... da bambina» risposi alla fine, con un filo di voce. «Non tutte le ricette sono le mie... alcune... le ho solo modificate da altri libri e rese... migliori secondo il mio parere. Mentre i cuoricini...» Mi violentai per riprendere fiato. «Erano... Erano le scale di valutazioni, da uno a cinque. La fila di cuoricini verdi era la mia, quella rossa della mia amica Betsy e la gialla...» Deglutii rumorosamente. «Di mio... Di mio padre.»
I nostri colori preferiti.
I due si scambiarono un'occhiata, per poi guardarmi con sorrisi così dolci che impedirmi di crollare fu violenza pura. «Sei 'na brava donna, Thaty» dichiarò Dorian. Un'altra fitta acuta mi squassò il cuore. «Lo vedi perché ce piaci?»
Avrei solo voluto piangere di nuovo, ma non me la sentivo, non ancora, davanti a dei bambini che non sapevano niente, che non avevano la più pallida idea di tutti i crimini che avevo commesso.
Del mostro che ero.
«Qual è la tua ricetta preferita in assoluto?» mi domandò a quel punto Dory, e fui grata di quel cambio improvviso d'argomento.
«Lo spezzatino di cinghiale al vino rosso.»
Mi guardarono confusi. «Il cinghiale se magna?» mi domandò Dorian, ed io non riuscii a trattenere il sorriso.
«Sì, anche se è una carne particolare rispetto alle altre» ammisi. «Ha un odore e un sapore molto forti, non è per tutti. Ed è anche molto difficile da cucinare.»
«Mai magnata, adesso so curiosa.» Dory la cercò nel ricettario, usando gli adesivi che avevo attaccato ai bordi dei fogli, in fila uno sotto l'altro, con le lettere dell'alfabeto stampate sopra di essi, per guidarsi. «Wow!» esclamò una volta averla trovata. «Guarda che figata, Dorian!»
«Thaty, un giorno di questo ce lo prepari?»
Mi sfuggì un risolino. «Non posso» dissi, «c'è il vino dentro, siete ancora troppo piccoli.»
Fecero una smorfia identica.
«Allora facce qualcos'altro col cinghiale. Guarda qua, Dory» lui indicò la pagina che aveva appena voltato. «Pappardelle al ragù di cinghiale? Cazzo so le pappardelle?»
«È... un tipo di pasta italiana.»
Inarcarono le sopracciglia. «C'hai pure robe italiane in 'sto libro?» chiese sconvolta Dory.
«Ci sono... Ci sono ricette di tutto il mondo, in realtà, quelle che mi sono piaciute di più.»
Sbarrarono ancor più gli occhi.
«Thaty» dichiarò d'improvviso Dorian, con una serietà mostruosa, «scopate Dante subito.»
Spalancai la mascella, stupefatta.
«Devi» continuò la gemella. «Così oltre che dacce i tuoi soldi e toglierci quella cimice sgravata, ce cucini pure. Non possiamo aspetta che Dorian diventi uomo perché ti scopi lui, semo piccoli, abbiamo bisogno de cresce con le robe giuste, oh.»
«Dante non sa manco riscaldare 'na zuppa.»
«Creperemo de stenti senza de te.»
Dorian assentì col capo. «Come i bambini in Africa.»
«Soffriremo de fame, tutti rinsecchiti, per il resto dei nostri giorni.»
«Che saranno pochissimi. Non arriveremo manco ad avecce i peli alle ascelle.»
«Come i bambini in Africa.»
Cercai di non ridere. La loro faccia tosta non aveva limiti.
«Dubito di piacere a vostro fratello, anzi, sono piuttosto sicura che appena saprà che siete qui da me, mi vorrà uccidere.»
«Non te preoccupa, t'abbiamo detto che lui è tutto fumo e niente ciccia» replicò Dorian.
«E poi basta che esci le tette. Fidate, manco quel coglione saprebbe resiste a tette come le tue.»
«Hai davvero un'ossessione per le mie tette, Dory.»
«So donna pur io, oh, so riconosce delle belle tette quando le vedo. È il requisito per esse vere donne, sapelle riconoscere. Mica so cimice.»
Mi morsi il labbro per trattenermi dallo sghignazzare.
«Se proprio non voi scopattelo, allora cucina solo per noi» proseguì Dorian, gli occhi ancora fissi come quelli della sorella sulla foto della ricetta. Sbavavano persino dalle ciglia.
«Ce lo meritiamo» garantì lei. «Semo simpatici, noi, mica come quel coglione.»
«Non credo ve lo meritiate, dopo che mi avete minacciata in quel modo e siete irrotti così in casa mia» feci presente, entrambi si strinsero nelle spalle.
«Come dice una gran donna, cioè io, tocca fa quel che tocca fa per fa la cosa giusta.»
«Ehi, perché non ci fai questa?» Dorian aveva voltato alcune pagine. Lesse ad alta voce, le sopracciglia corrucciate: «Cocco madripengo?»
Non riuscii più a contenermi, scoppiai in una fragorosa risata, e nel sentirla entrambi sorrisero più fieri che mai. «Cocido madrileño» lo corressi a quel punto. «È un piatto spagnolo molto particolare, tipico di Madrid.»
«Wow» esalarono insieme. «Sembra bono, a guardare la foto.»
Strinsi le mani tra di loro, inspirai con forza.
Era uno dei piatti che Betsy adorava più in assoluto, glielo preparavo sempre per il suo compleanno.
Mai avrei creduto che qualcuno mi avrebbe richiesto di farlo, dopo di lei.
«Ok, cocco madrucomebhotichiami, scegliamo te» dichiarò decisa Dory, puntando l'indice contro la foto.
«Guardate che non ho ancora accettato di prepararvelo» feci notare, entrambi mi fissarono stizziti.
«Ma semo simpatici» si lamentò Dorian.
«E semo boni» aggiunse Dory.
«Siete dei piccoli criminali incalliti» li corressi.
«Vero anche questo, ma te piacciamo comunque, Thaty, mica ci fotti a noi» replicò Dorian. «Lo capiamo subito, quando piacciamo a qualcuno, noi.»
Il problema era che aveva ragione.
Quei due bambini per quanto sfacciati, volgari, impertinenti e criminali mi piacevano davvero da morire.
Per la vivacità con cui affrontavano la vita, la sfacciataggine con cui riuscivano a non farsi sottomettere da nessuno, quella capacità innata di voler trovar del buono anche in mostri come me.
Sopraggiunse alla mente il ricordo delle mail appena lette, tutti gli insulti che avevo ricevuto solo quel giorno.
Non meriti più di esser felice, mai più.
Cosa dovevo fare?
Come dovevo comportarmi?
Avevo la sensazione che qualunque decisione avessi preso, sarebbe stata comunque quella sbagliata.
Sapevo che avrei dovuto cacciarli via, ma non avevo idea di come riuscirci.
Non ero il tipo da usare la forza fisica, non ne ero proprio capace e in più anche coi guanti mi sarebbe riuscito lo stesso difficile.
Ed ero più che consapevole del fatto che non importa in che modo avrei provato a convincerli ad andarsene, loro non avrebbero mai cambiato idea.
E l'orrore più grande tra tutti era la consapevolezza che una parte di me voleva che restassero lì, che continuassero a parlarmi, a trattarmi come una comune donna qualunque che gli stava simpatica e per questo volevano frequentare.
Anche se era un errore, anche se io ero un errore.
Sbattei le palpebre, li guardai.
Erano davvero tutto ciò che io non ero mai stata e mai avrei potuto essere.
Vita, coraggio, forza.
Pura umanità.
Non riuscivo proprio a trovare un metodo con cui scacciarli via, non me ne veniva in mente neanche uno. Erano persino più testardi di Betsy, sotto certi aspetti, e lei era sempre stata di coccio.
Nel pensarlo, un'idea mi fece sussultare sul posto.
Betsy.
Tornai a guardare i due monelli, ancora presi a sbavare dietro quel piatto.
Erano molto simili, quei due, a lei, anche se differenti sotto tanti altri aspetti, ma una cosa in comune l'avevano eccome, oltre la testardaggine.
L'assenza totale di voglia di studiare.
E nel corso degli anni, uno solo era stato lo strumento perfetto con cui ero riuscita a convincere quella pelandrona di Betsy a mettersi sopra i libri, pur lei detestandolo con tutta sé stessa.
Avevo l'impressione, a guardare come perdevano saliva davanti alla foto del piatto spagnolo, che avrebbe potuto funzionare anche su di loro.
Mi irrigidii.
Ma... ero in diritto di farlo?
In fondo, per loro ero una sconosciuta, e non...
Deglutii di nuovo, a fatica, strinsi con più forza le mie dita intrecciate.
Comunque non se ne sarebbero andati, non importava cosa gli avessi detto, tanto valeva provarci e sfruttare l'occasione.
«Vi cucinerò quel piatto» gracchiai alla fine, e i loro occhi si illuminarono, veri astri splendenti, «ma in cambio dovrete fare una cosa per me.»
Si accigliarono, mi guardarono perplessi. «Che cosa?» domandò Dory.
«Voi il cazzo de Dante? Dacce un po' de tempo, troveremo il modo de-»
«No, no, niente del genere» la interruppi subito. «Se farete questo per me, vi cucinerò un piatto qualsiasi di quel ricettario, quello che vorrete voi, purché non contenga alcool, ovviamente.»
«Thaty, che ce voi fa vende gli organi?»
Scoppiai a ridere.
«No, Dorian, nulla del genere.»
Sorrisi.
«Fatemi vedere i vostri compiti di scuola.»
Nota autrice
Dico solo: ho riso un casino.
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