Ciliegina
Di solito, la gran parte dei condannati a morte in America non muore per la condanna in sé.
La scelta della data della loro pena capitale tende sempre a venir posticipata nel corso degli anni e perciò coloro che devono subirla finiscono per morire per cause diverse: malattie, vecchiaia, infarti, uccisi da altri carcerati o fattori esterni.
Non era questo il caso di mio padre.
Quello che si era scoperto su di lui – la natura dei suoi orrori, il numero delle sue vittime, il lungo periodo di tempo in cui aveva operato senza mai farsi beccare, le sevizie che aveva applicato – era stato un vero e proprio ordigno di dolore e agonia, una bomba nucleare d'abominio che aveva indignato il mondo intero e l'America specialmente, il luogo in cui quei crimini erano stati commessi.
La pressione da parte del procuratore e, soprattutto, dell'opinione pubblica era stata troppo forte e violenta; il tribunale, a soli tre anni e mezzo dalla sua sentenza, si era ritrovato per forza di cose a stabilire una data che in alcun modo avrebbe dovuto o potuto essere prorogata.
Lawrence Reid sarebbe stato giustiziato il 5 agosto dell'anno prossimo, a dieci mesi di distanza da quella scelta.
La sua esecuzione sarebbe avvenuta nel carcere di Wimborne, una metropoli sempre in Arkansas, dove era stato trasferito subito dopo tale decisione.
Iniezione letale.
Ma dopo quanto successo, né Lawrence né io ne eravamo rimasti sorpresi.
Anzi, si può dire che entrambi stessimo aspettando quasi con impazienza quel momento.
Il segreto di Lawrence Reid era stato scoperto dalla polizia la notte del 7 gennaio di quattro anni prima.
A mettere in moto quell'intrinseco meccanismo che aveva distrutto per sempre la mia vita era stata una segnalazione anonima che aveva indicato Lawrence come un pericolo per il pubblico.
Aveva detto che stava fabbricando delle bombe, che era un terrorista.
Così la polizia era irrotta nella sua villa, prima, in quel momento vuota poiché sia io che lui eravamo fuori casa, e poi nel capanno del terreno privato, a metri e metri e metri di distanza dal retro della villa stessa.
E forse aveva pensato, una volta averlo fatto, che se avesse scovato solo delle bombe sarebbe stato molto meglio di ciò che in verità si era trovata davanti.
Che le bombe, in confronto, erano il paradiso.
La notizia non aveva atteso un istante a diffondersi a macchia d'olio non solo in America, ma anche nel resto del mondo.
Il caso più scandaloso dell'ultimo decennio, secondo solo al famosissimo caso Murray, scoppiato sette anni prima, la cui natura, però, era completamente diversa.
Il caso Murray aveva riempito i cuori della popolazione mondiale con un affetto profondo, uno spirito di solidarietà mai visto prima d'ora nei confronti delle vittime.
Il caso Reid, invece, aveva corrotto gli animi di tutti con un odio viscerale, primitivo, un bisogno impellente di vendetta nei confronti di Lawrence.
E nei confronti miei.
Lettere minatorie, minacce di morte, continui atti di vandalismo alla nostra villa, insulti, sputi, da parte di tutti: anziani, bambini, donne, uomini, adolescenti, dei ceti sociali più diversi e da ogni parte del globo.
Ero stata aggredita tre volte nel corso degli ultimi quattro anni, in una di queste ero finita in ospedale, in prognosi riservata, devastata e in fin di vita.
Ne ero uscita fuori per un soffio.
I social erano impazziti di nuovo davanti a quella notizia, commenti che esplodevano per la felicità davanti alla mia possibile dipartita, alla mia sofferenza e agonia.
Ma mai avevo sporto denuncia, né per quelle aggressioni né per tutte le minacce continue, il vandalismo, gli insulti su ogni tipo di piattaforma e nella mia posta elettronica.
Sapevo che sarebbe stato inutile, comunque, come provare a infilare in un secchiello tutta l'acqua dell'oceano, e al tempo stesso non volevo.
Perché sapevo anche che me lo meritavo.
Lawrence Reid, un chimico straordinario, un tempo conosciuto per le sue doti eccellenti in quella professione, adesso era diventato il criminale più mostruoso d'America.
Aveva superato l'abominio dei serial killer più noti: Ted Bundy, Jeffrey Dahmer, John Wayne Gacy.
Perché lui non era un serial killer.
Non solo.
Era di più, molto di più.
Alcuni lo definivano un terrorista, altri un assassino spietato dai mille modus operandi, altri ancora la reincarnazione del demonio.
Tutti avevano ragione, tutti avevano torto.
Non esisteva un solo appellativo capace di racchiudere in sé tutti gli orrori compiuti da Lawrence Reid. Persino i giornali, di solito così inclini a dare soprannomi a chiunque, non avevano saputo come altro definirlo se non Il mostro.
Nessuno era in grado di spiegarsi come fosse riuscito ad andare avanti senza farsi scoprire per più di trent'anni. I criminologi più famosi lo avevano definito un vero e proprio genio della crudeltà e disumanità.
Non aveva mai lasciato un solo indizio di sé, non uno, nel corso di quelle tre decadi. Come diavolo ne fosse stato capace proprio non si riusciva a capirlo.
L'unico motivo per cui si era scoperto tutto quello che aveva fatto erano state le migliaia di prove trovate in quel capanno, i suoi trofei. Con quelle, Lawrence era stato collegato indissolubilmente alla quantità incalcolabile di reati - stragi e omicidi - da lui commessi in giro per il paese.
Reati che i vari Stati in cui erano stati compiuti nemmeno avevano compreso esser connessi tra di loro, tant'era diversa la loro natura, la tipologia delle vittime, il modus operandi, e i cui colpevoli, fino a quel momento, erano rimasti sempre ignoti.
E c'era chi sospettava ne avesse commessi anche altri, molti di più, che la natura crudele di Lawrence fosse scaturita sin dall'adolescenza, forse addirittura dalla prima infanzia, ma quell'ipotesi non era mai stata confermata.
Perché Lawrence, in realtà, non aveva mai parlato.
Mai aveva spiegato come, quando, in che modo, mai aveva pronunciato una sola parola sui suoi crimini, dalla notte in cui la polizia lo aveva arrestato e portato in centrale.
Due sole dichiarazioni c'erano state da parte sua, dal giorno in cui era stato arrestato.
La prima, mentre lo interrogavano mostrandogli tutte le prove trovate, era stata: «Sì, l'ho fatto.»
Non si era mai detto innocente, non aveva neanche provato a trovare una qualsiasi scusa o giustificazione ai suoi omicidi. Aveva accettato tutte le conseguenze delle sue azioni senza piangere, ribellarsi, obiettare, fingersi pentito o al contrario orgoglioso, persino davanti alla sentenza della giuria sulla sua condanna a morte.
Impassibile era stato prima, impassibile sarebbe rimasto dopo.
E la gente, i giornalisti, gli avvocati, i poliziotti, tutto il mondo non aveva potuto che porsi una sola domanda, la più importante di tutte:
Perché?
Come poteva un semplice essere umano arrivare a tanta crudeltà?
Cosa gli era successo perché diventasse così?
Avevano indagato anche su questo, sventrato il suo passato fino al suo concepimento, ma tutto ciò che avevano scoperto era sempre tutto ciò che già si sapeva: nato e cresciuto in Arkansas, di bell'aspetto, buona e ricca famiglia, padre amorevole morto per cause naturali quando aveva otto anni, madre amorevole morta per cause naturali quando ne aveva diciannove, voti sempre eccellenti, laurea con lode, tre master, due dottorati, migliaia di premi e traguardi, un vero e proprio prodigio nella sua professione, sempre adorato da tutti per il suo carattere sbarazzino e comico, mai avuto un nemico, mai stato sposato.
La particolarità per cui era noto era che non era granché incline a mantenere rapporti saldi e permanenti. Aveva degli amici, sì, ma di quelli che incontri di tanto in tanto e con cui non ti frequenti con assiduità. Aveva avuto delle donne, sì, e anche tante, ma mai aveva iniziato con loro vere e proprie relazioni che andassero oltre la sfera sessuale. Non era il tipo, diceva, non gli interessava l'amore, per niente.
Era quel genere di persona che andava d'accordo con tutti ma non approfondiva mai troppo le conoscenze, quel genere di persona con cui ti sganasciavi dalle risate, quand'eri con lei, con cui ti divertivi da morire durante le serate fuori, ma che manteneva comunque una certa distanza.
Non era un asociale, non era un misantropo, non era un recluso, preferiva però farsi i fatti suoi quando poteva.
L'unico legame stabile, profondo e duraturo che aveva mai avuto, dopo sua madre, ero io, sua figlia.
Agatha Reid.
Nata per sbaglio quando lui aveva ventotto anni da una delle tante donne con cui si era sempre e solo intrattenuto sessualmente. Mi aveva riconosciuta subito, da che ero venuta al mondo, dandomi il suo cognome. Era stato proprio lui a chiamarmi così, in onore della sua scrittrice preferita: Agatha Christie.
Ma non avevamo mai vissuto insieme fino ai miei dieci anni, quando mia madre era morta in quell'incidente stradale da cui ero sopravvissuta per miracolo. Allora lui, la sola famiglia che mi era rimasta, mi aveva preso con sé, trasferendomi dallo Utah per portarmi nella sua casa, in Arkansas, una villa in campagna di due piani ereditata dai genitori, dal terreno privato immenso, in cui aveva sempre vissuto da solo fino a quel momento.
E proprio in quel gigantesco terreno privato si trovava il capanno che si era costruito in totale autonomia anni addietro e che aveva subito insonorizzato, lo stesso dove la polizia aveva scoperto il suo segreto.
In merito a ciò, Lawrence aveva fatto la sua seconda dichiarazione, ripetuta da lui allo sfinimento ogni qualvolta veniva interrogato, la sola frase che pronunciava, restando poi in silenzio: «Agatha non c'entra niente con questo. Non ha mai saputo nulla dall'inizio alla fine, è innocente in tutto e per tutto. Io sono il solo colpevole.»
Ovviamente, non era stato creduto. Nessuno lo avrebbe mai fatto, considerando la mostruosità dei suoi crimini.
La polizia aveva in effetti convenuto il fatto che il capanno era stato costruito in una posizione tale da non poter esser scorto in alcun modo da nessun punto della villa, non solo perché terribilmente distante ma anche perché nascosto del tutto da due alberi di quercia. Inoltre, considerata la bravura di Lawrence nel non farsi mai beccare dalle autorità in tutti quegli anni, non sarebbe stato poi così sorprendente se fosse riuscito a non farsi vedere da me, mentre trasportava i corpi delle vittime dalla macchina parcheggiata davanti al capanno stesso al suo interno. Senz'altro si sarebbe assicurato, quando lo faceva, che io non fossi lì vicina.
Ma era comunque troppo difficile a credersi.
È impossibile che la figlia non sapesse, era quanto dichiaravano ogni giorno migliaia e migliaia di persone, giornalisti, avvocati, le famiglie delle vittime. Per forza di cose doveva sapere, per forza di cose doveva essere una sua complice.
Quale figlia non visiterebbe mai, neanche una volta, nel corso di tutto quel tempo, il capanno della sua stessa casa?
Quale figlia non si accorgerebbe mai del fatto che suo padre, quel padre con cui vive da anni, è letteralmente un mostro che ha ucciso così tante persone? Eppure ci saranno stati degli indizi!
Specie quando l'ultima vittima è stata proprio Betsy George, la sua amica d'infanzia.
Impossibile, dichiarava la telecronaca, sapeva tutto, per forza.
E la stessa cosa pensava la polizia.
Come per mio padre, aveva sventrato la mia vita e il mio passato fino al concepimento, ogni respiro e passo da me compiuto, alla ricerca di anche la più minuscola, infinitesimale prova che potesse collegarmi ai suoi crimini.
Come per mio padre, aveva scoperto tutto ciò che già si sapeva: cresciuta nello Utah fino ai dieci anni da sua madre che le aveva fatto homeschooling fino ad allora, timida, introversa, protestante, e con un'afefobia nata subito dopo l'incidente stradale.
Un'afefobia che aveva imparato a controllare nel corso degli anni coi guanti. Grazie ad essi poteva toccare qualsiasi persona, l'unico requisito fondamentale era che la sua pelle nuda non entrasse in contatto con la pelle nuda di altri.
A parte questo, però, le autorità non avevano trovato nulla, non un capello, non un'impronta digitale, non la più evanescente traccia di DNA.
Niente di niente.
Con grande disappunto e indignazione della popolazione globale, davanti a quell'assenza di prove, la polizia era stata costretta a togliermi dalla lista dei sospettati.
Ma il mondo intero non ci aveva creduto, neanche per un secondo. Colpevole ero e colpevole sarei rimasta, dichiarava, ed era legge.
Lo dicevano tutti, anche quelli che mi conoscevano da anni, seppur in modo superficiale, adesso umiliati all'idea di aver avuto a che fare con me.
Un'assenza di prove non garantiva l'innocenza assoluta, d'altro canto, non agli occhi degli sconosciuti, almeno.
E se anche non avessi mai collaborato, se anche non avessi partecipato attivamente a quegli omicidi e quelle stragi, qualcosa di sicuro la sapevo, qualcosa di sicuro conoscevo.
Ero rimasta sola, annegando nell'odio del mondo intero.
Non me n'ero lamentata.
Sotto un certo aspetto quasi ne ero stata felice.
Avere qualcuno disposto a credermi innocente, quando io stessa non ero sicura di esserlo, mi avrebbe solo fatta sentire più in colpa.
Avevo detto la verità, sì, l'avevo detta. Ma non bastava per farmi sentire non colpevole, al contrario, invece, quasi credevo sul serio di esserlo proprio a causa di essa.
Papà mi ha sempre vietato di entrare in quel capanno e io ho sempre obbedito.
Non mi avevano creduto.
Nessuno mai lo avrebbe fatto, d'altronde.
E io non potevo dire di più, spiegarmi meglio, il vero motivo per cui avevo obbedito ciecamente a quell'ordine.
Non sarebbe servito a niente comunque, anche se avessi potuto farlo.
Avrei solo confermato che razza di mostro fossi, lo sapevo, avrei solo indotto la gente ad odiarmi di più, a comprendere che la mia bestialità c'era da prima ancora che conoscessi davvero mio padre.
Un mostro da che era bambina.
Tale padre, tale figlia.
Avevo guardato le foto di ciò che gli agenti avevano trovato in quel capanno, le prove dei crimini di mio padre, nella sala interrogatori, e all'istante mi ero ritrovata a vomitare fino a perdere il senno, buttar fuori la bile nata alla sola vista di quelle immagini abominevoli.
Ma il vomito, si sa, non è una dimostrazione d'innocenza, a volte, anzi, è solo il risultato della colpevolezza.
Io sapevo unicamente che Lawrence, quell'uomo che ora il mondo odiava con tutto il cuore con la stessa intensità con cui amava i fratelli Murray, era mio padre, l'uomo più importante della mia vita, e che per questo motivo proprio non riuscivo ad odiarlo soltanto, proprio non riuscivo ad abbandonarlo.
Sebbene lo desiderassi in ogni mia particella.
Andavo da lui ogni martedì, non saltavo una visita, anche se ciò significava peggiorare di gran lunga l'ira che la popolazione mondiale provava nei miei confronti, la certezza che fossi sua complice, e il mio disprezzo per me stessa.
Come può fare una cosa del genere? tuonava il mondo. Se fosse innocente, non lo farebbe mai. Se fosse innocente, non potrebbe neanche guardarlo negli occhi.
Forse aveva anche ragione.
Io stessa non ero in grado di comprendermi più.
Non riuscivo a spiegarmi proprio il perché non ci riuscissi, a staccarmi da lui, anche dopo tutto quello che aveva fatto, che mi aveva fatto, il perché davanti all'idea che sarebbe morto tra poco, invece che gioirne unicamente, al contempo me ne straziavo.
Non lo capivo, non mi capivo.
Sentivo soltanto quella catena che ci legava, così stretta a noi che non riuscivo a ignorarla, liberarmi da essa, nonostante lo desiderassi con la stessa smania di un moribondo che pregava per il sollievo della morte. Per natura e codardia non potevo che ascoltarne i bisogni e l'indole, riportandomi inevitabilmente a quella sala d'incontri ogni volta, sedermi davanti a lui al tavolino, guardarlo e parlarci.
Sebbene lo sapessi, lo sapessi benissimo, che razza di mostro fosse.
Che quello che aveva fatto nel corso degli ultimi trent'anni, forse di più, era quanto di più infernale potesse mai esistere al mondo.
Che per colpa sua troppe famiglie tuttora soffrivano un tormento disumano più grande del mio.
Che il numero delle sue vittime accertate era settantatré e comprendeva ogni genere ed età: donne, uomini, anziani e bambini, addirittura neonati o veri e propri feti uccisi nel grembo insieme alle loro madri.
Una di quelle vittime, l'ultima, era anche la sola persona che veramente avessi considerato mia amica. La seconda che avessi mai amato dopo mio padre.
Betsy.
Betsy George.
La bambina che si era seduta al banco al mio fianco, il mio primo giorno di scuola, dopo che mi ero trasferita, quella che mi aveva difesa tutte le volte che gli altri compagni di classe provavano in ogni modo a toccarmi per farmi impazzire a causa della mia afefobia, quella che a quattordici anni aveva dato un calcio volante allo stomaco a Benjamin Clownes quando lui aveva provato a baciarmi a tradimento dal nulla, quella che mi aveva insegnato la ricetta segreta di famiglia dei biscotti alla cannella, quella con cui avevo fatto migliaia di pigiama party, quella con cui ero andata in vacanza per festeggiare i nostri ventun anni, in Italia, solo per poter sperimentare di persona la cucina di quel paese.
La mia migliore amica, anche di più, una sorella, così si definiva sempre lei con grande orgoglio: gonfiava il petto, si indicava con estrema fierezza col pollice, sfoggiando il suo sorrisetto birbante che sempre l'aveva caratterizzata.
Non avremo il DNA in comune, ma l'anima è la stessa.
Il solo altro legame che ero riuscita a costruire con grandissima fatica nel corso degli anni.
Scomparsa dal nulla e nel nulla trentadue giorni prima della scoperta.
Il suo cranio era stato l'unico resto trovato di tutte le vittime di Lawrence Reid - quelle che aveva ucciso singolarmente in quel capanno - al di fuori dei trofei. Ancora non se n'era disfatto, quando la polizia era intervenuta.
E tra le migliaia di prove le autorità avevano rinvenuto anche le foto che la ritraevano mentre veniva seviziata per settimane intere, per poi essere uccisa.
In quelle foto lui non appariva mai, solo lei e gli strumenti con cui veniva rovinata per sempre, il volto devastato dalla paura e l'agonia, le lacrime che lo scavavano, gli occhi fuori dalle orbite in supplizio.
E lo stesso valeva per le foto di tutte le altre vittime.
A cosa gli servissero, quelle foto, non si sapeva, lui non l'aveva spiegato. Molti criminologi avevano supposto le riguardasse per rievocare l'eccitazione provata nell'eseguire quelle torture.
Impossibile, latrava allora come un cane il mondo, era la sua migliore amica, non c'è possibilità che non sapesse, che non l'abbia aiutato, che non l'avessero scelta apposta insieme.
Nemmeno lui compariva in quelle foto, eppure le torture le ha fatte lo stesso! Chi ci dice che non ci fosse anche lei al suo fianco mentre accadeva? Chi ci dice che lui non abbia voluto proteggere la figlia distruggendo le prove che la riguardavano, per sicurezza? O che non l'abbia fatto lei stessa?
Perché mai la figlia andrebbe ancora a trovarlo, se fosse innocente, quando quel mostro ha torturato e ucciso persino la sua unica amica, colei che la considerava una vera e propria sorella, nella loro stessa casa?
Chi mai continuerebbe a frequentare un mostro del genere dopo tutto quello che ha fatto?
Io non lo sapevo, non lo sapevo proprio.
Non mi capivo, non mi sentivo.
Ogni giorno mi svegliavo e mi rendevo conto di non avere più alcuna certezza, solo dubbi strazianti e incubi ferrei pronti a masticarmi ad ogni inspiro ed espiro.
Ogni giorno mi svegliavo e mi rendevo conto di meritare di morire, ma sapevo di non poterlo fare, che ancora mi era vietato.
E piangevo e mi vergognavo di piangere.
E soffrivo e mi vergognavo di soffrire.
E urlavo e mi vergognavo di urlare.
E tacevo e mi vergognavo di tacere.
Qualunque cosa facessi, sapevo solo che era quella sbagliata.
Qualunque cosa dicessi, sapevo solo che era quella sbagliata.
Qualunque cosa pensassi, sapevo solo che era quella sbagliata.
Come se da quel dannato giorno fossi stata catapultata in una scacchiera in cui non c'erano più caselle bianche o nere, solo grigie: nessuna mossa, da parte di nessun pezzo, non importava quale fosse - regina, cavallo, torre, alfiere, re, pedone - avrebbe potuto cambiare le sorti di quella partita.
Errore ero ed errore sarei restata fino alla fine.
Avevo un'unica certezza assoluta: il mio segreto.
Quel segreto che nemmeno la polizia aveva potuto scovare, pur indagando con competenza sul mio passato, trucidandolo proprio.
Il segreto che s'incarnava nei guanti che indossavo sempre, che mi rendeva incapace di toccare qualsiasi altro essere umano a pelle scoperta.
Il segreto che m'impediva di avere relazioni, anche solo sessuali, pur avendole sempre desiderate a causa della mia indole romantica.
L'unica vera ragione che mi aveva indotta ogni giorno a non cercare di svelare quello di mio padre.
L'unica vera ragione per cui davanti al suo ordine "Non entrare nel capanno per nessun motivo al mondo", pronunciato il giorno stesso in cui mi ero trasferita in quella villa, avevo annuito e mai disubbidito, mai.
Perché lo sapevo, lo sapevo bene, che Lawrence aveva un segreto. Non ero così stupida, in fondo, neanche da bambina, mai avevo creduto alla sua scusa: "Ci sono troppi oggetti pericolosi, là dentro, bambina, come la motosega e il fucile, lo sparachiodi, non voglio che ti fai male per sbaglio, pasticciona come sei."
Così come lui sapeva bene che anche io ne avevo uno, perché neanche Lawrence era stupido, mai aveva creduto alle mille scuse che gli avevo dato in merito alle mie difficoltà. Viveva con me, d'altronde, vedeva tutte quelle incongruenze sul mio conto, nonostante i miei tentativi di nasconderle, tutte quelle cose che andavano oltre ciò che si sapeva di me, di cui mai avevo parlato alle mie vecchie psicologhe.
E proprio per questo non mi ero permessa di disobbedire a quel divieto neanche una volta, di scoprire il suo segreto, non ne avevo avuto il coraggio e la forza.
Sentivo che sarebbe stato ipocrita e vigliacco da parte mia pretendere una cosa del genere: sfondare a forza la barriera con cui si separava in parte dal mondo ma rifiutarmi di far crollare la mia.
Volevo essere una figlia corretta, coerente per quel che mi era possibile.
Perché lo avevo giurato, io, avevo giurato di non rivelarlo mai a nessuno, quel mio segreto. Lo avevo giurato alla sola esistenza che avessi amato prima di mio padre: Dio.
Un vero e proprio sacramento, per me, un voto di silenzio così fondamentale e primitivo da venirmi impossibile anche solo pensare di spezzarlo, dal momento in cui l'avevo siglato. Come chiedere a un pesce di imparare a volare.
E il giorno in cui la polizia mi aveva portata in centrale, il giorno in cui mi aveva mostrato quelle foto, seduta al tavolino della stanza degli interrogatori, la prima cosa a cui avevo pensato, la prima in assoluto, era stato il ricordo di quel desiderio espresso anni e anni prima proprio a Lui:
"Mi va bene qualunque cosa, Dio, qualunque, sono disposta a tutto, accetterò qualsiasi punizione, l'importante è che lo realizzi. Non lo dirò mai a nessuno, se lo farai, lo giuro."
Quando Gli avevo detto quelle parole, nella mia camera da letto, inginocchiata sul materasso, le mani congiunte e gli occhi rivolti alla croce appesa alla parete davanti a me, mai nella mia ingenuità di bambina avevo pensato a tanto.
Avevo sempre creduto che mi avrebbe fatto scontare quel debito dandomi qualche malattia incurabile, un tumore o la schizofrenia, ad esempio, o facendomi morire giovane, impedendomi di avere un futuro vero e proprio.
Avrei dovuto immaginarlo, avrei dovuto capirlo.
Un desiderio del genere, un segreto del genere, così disumano, non poteva essere compensato con sofferenze simili.
Perché mostro lo ero sempre stata, ben prima di andare a vivere con mio padre e diventare davvero sua figlia. Era stato il giudizio di uno specchio a rivelarmelo, per anni e anni.
E davanti a quelle foto così abominevoli, a quella del cranio della mia migliore amica, di mia sorella, non avevo potuto che dirmi:
"Capisco, quindi è questo il prezzo da pagare."
La causa per cui, l'attimo dopo, mi ero ritrovata a vomitare.
Ero sempre stata una persona timida, io.
Da bambina, dopo il trasferimento, mi vergognavo per tutto, anche a legarmi i capelli in una semplice treccia. Avevo la paura folle di venir presa in giro, per questo, di esser considerata ancor più brutta di quanto già mi credessi.
Una timidezza tale da impedirmi persino di entrare in un bar per comprare anche solo una semplice bottiglietta d'acqua. Una timidezza tale da bloccarmi dall'alzare la mano per chiedere alla maestra se potevo andare in bagno, durante la lezione, per paura che si arrabbiasse, anche se non ce n'era veramente motivo.
Trattenevo l'urina per tutto quel tempo, fino a quando non suonava la campanella della pausa, e allora camminavo il più in fretta possibile per raggiungere il bagno. Una volta essermi liberata, aspettavo nella cabina, seduta sul water, che la ricreazione finisse, per non incontrare i miei altri compagni di classe e rischiare di umiliarmi davanti a loro balbettando, inciampando, apparendo come una stramboide.
Non osavo guardare le persone negli occhi, tenevo sempre il capo chino per terra, fisso sulla punta delle mie scarpe, con il volto ad avvamparmi così tanto che il mio incarnato pallido ed esangue diventava una vera e propria fornace.
Ciliegina, così mi chiamava papà a quei tempi.
Fu il soprannome che trovò due giorni dopo il mio trasferimento in Arkansas, nella sua villa in campagna. Avevo trascorso quei giorni rinchiusa nella mia nuova stanzetta, seppellita sotto le coperte, la faccia ad affogare nel cuscino, senza dire una parola o mostrare alcuna emozione.
Non dormivo, pensavo soltanto.
Pensavo cose che non ricordo neanche, probabilmente fantasie infantili tipiche di quell'età, e ad occhi chiusi pregavo per quel Dio in cui credevo così tanto, lo ringraziavo e Gli chiedevo perdono.
Pregare sarebbe stata un'attività quotidiana che mai mi sarei scordata di compiere, nemmeno nei miei giorni peggiori. Solo dopo la scoperta avrei smesso di farlo.
Non ne avevo più motivo.
Non mi ero dilettata nell'indagare e scoprire la mia nuova casa e camera, non mi era interessato nulla. In parte, non volevo proprio farlo. Il mio unico desiderio era restare lì, su quel letto, avvolta dalle lenzuola come una crisalide, per il resto dei miei giorni.
Papà cercava di parlarmi, entrava ogni ora nella mia stanza, si inginocchiava davanti al materasso così che i nostri occhi fossero allo stesso livello, e col suo sorriso affabile e delicato di sempre provava a comunicare con me, a farmi uscire da quel guscio in cui mi ero rintanata.
Ma io non rispondevo, non rispondevo mai, evadevo il suo sguardo, voltavo il corpo dall'altra parte così che non fossi costretta a incrociarlo, mi stringevo in posizione fetale, l'unico abbraccio che potessi concedermi.
La psicologa che mi aveva preso in cura ci aveva detto che era una reazione naturale al lutto e il trauma che avevo appena subìto: la perdita di mia madre, il dolore provato, sia fisico che mentale, la convalescenza in ospedale durata per quasi quattro mesi, la riabilitazione.
La mia afefobia, nata e scoppiata subito dopo l'incidente stradale, aveva detto, era sicuramente dovuta a ciò.
E aveva provocato non pochi problemi non solo a me, ma anche ai medici, infermieri e fisioterapisti che si erano occupati del mio caso per aiutarmi a riprendermi dopo l'incidente.
Non tolleravo il tocco di nessuno, non importava chi fosse, non sarei stata in grado di sopportare nemmeno la carezza di un neonato.
Appena il mio corpo entrava in contatto con quello di un altro essere umano, anche attraverso i vestiti, impazzivo letteralmente, perdevo del tutto me stessa. La mente si annebbiava, un buco nero andava a risucchiarmi i pensieri e i ricordi, le memorie di quegli attimi così folli, e quando mi riprendevo mi riscoprivo sempre nascosta in qualche posto bizzarro nella speranza che nessuno mi trovasse.
In quei minuti di incoscienza per me, chi mi guardava vedeva una bambina di dieci anni del tutto fuori controllo che gridava come una bestia, si strappava i capelli, saltava, correva, sbatteva la testa contro il muro fino a farsi sanguinare la fronte, piangeva così tanto da farsi scoppiare i capillari, si rotolava per terra, vomitava e si pisciava addosso.
Un vero e proprio animale, avrebbero detto in molti.
Il solo modo che avevano per calmarmi era allontanarsi da me il più possibile, per rassicurare quella belva d'impulsi in cui mi trasformavo che non mi avrebbero più sfiorata con un dito; allora io, animale, sollevata andavo a rifugiarmi in qualsiasi luogo mi apparisse un nascondiglio perfetto per non esser raggiunta.
Nei casi peggiori, quando nemmeno in quell'incoscienza ero in grado di calmarmi, erano costretti a sedarmi.
In quei quattro mesi in ospedale non solo avevo dovuto fare una lunga riabilitazione, ma avevo iniziato anche una terapia psicologica per affrontare il trauma dell'incidente, del lutto, e per tentare di, se non guarire proprio, almeno diminuire le conseguenze devastanti di quella mia nuova fobia, di modo che potessi condurre una vita il più normale possibile.
Papà mi era rimasto accanto per tutto quel tempo. Aveva richiesto un permesso speciale per potersi assentare dal suo lavoro in Arkansas per riuscirci. Ma proprio come per i dottori, gli infermieri e la psicologa, neanche con lui parlavo.
Ascoltavo e basta, annuivo o scuotevo la testa davanti alle domande più basilari.
La psicologa di quel periodo mi aveva insegnato di giorno in giorno a non smarrirmi nell'incoscienza davanti a una forma di contatto fisico. Pur non parlandole e non rispondendo alle sue domande, avevo obbedito comunque alle richieste che mi faceva, sempre a capo chino, e la persona con cui le mettevo in atto era proprio mio padre.
Era lei a chiedermi con chi desideravo sperimentare quegli esercizi, e io lo indicavo ogni volta.
Perché era il solo che mi era noto in quel luogo, sebbene comunque uno sconosciuto ai miei occhi. Ma in confronto a tutti quegli infermieri e medici e alla psicologa stessa, era lo sconosciuto meno sconosciuto di tutti.
E papà sorrideva, mi guardava con la sua dolcezza di sempre, faceva di tutto per semplificare quel processo così difficoltoso e agonizzante per me, per diminuire al massimo il mio panico e terrore, per garantirmi che no, non mi avrebbe mai fatto del male, che quella era solo la sua mano, solo la sua mano.
Forse già da allora avevo iniziato a legarmi a lui in quel modo primitivo che avrebbe poi caratterizzato il nostro rapporto, grazie a quei piccoli sorrisi che mi dedicava ogni giorno, alla pazienza e tranquillità con cui affrontava i miei problemi come se in realtà non fossero nulla di che, come se in realtà io fossi ancora solo e soltanto una bambina qualunque, non diversa dagli altri. A differenza della psicologa e dei medici che, pur non dicendomelo, non potevano nascondermi la loro preoccupazione immensa.
E proprio a causa della mia timidezza profonda mi veniva ancor più difficile accettare i loro occhi saturi di pietà; ma quando guardavo quelli di papà, invece, in essi scorgevo soltanto delicatezza e affetto. Non sapevo se erano sinceri, all'epoca, ma erano comunque meglio di nulla, così mi dicevo.
Grazie a quella terapia psicologica, uscita dall'ospedale, ero finalmente in grado di tollerare un tocco senza dare di matto e trasformarmi in un animale.
Certo, continuavo a non sopportarli, anche il più piccolo sfioramento, specie se a pelle nuda, era sufficiente per farmi tremare sul posto, provocarmi una sudorazione copiosa che mi ricopriva il corpo, ma rimanevo cosciente di me, ero persino in grado di sopportare quegli effetti collaterali.
Il trasferimento in Arkansas era stato progettato già tre mesi dopo l'incidente. Gli assistenti sociali non ne erano stati molto felici, all'inizio, almeno fino a quando non erano venuti a parlarmi e ne avevano discusso con me con molta insistenza, ascoltando anche il parere della psicologa.
Davanti al mio evidente sollievo di andarmene via non solo da quell'ospedale, ma anche dalla città in cui ero nata e cresciuta, non avevano potuto che accettare la cosa.
Papà in realtà si era detto favorevole alla possibilità che fosse lui a trasferirsi lì, di modo che non mi traumatizzassi ancora per un cambio di scenario, ma dopo almeno dieci sedute con la psicologa, quest'ultima aveva ritenuto una buona idea permettermi di ricominciare una vita nuova in un luogo dove non sarebbero potuti riaffiorare i ricordi del dolore appena vissuto, del lutto e l'incidente che mi avevano devastata.
E così ero finita nella sua villa in Arkansas, a vivere in quella casa finora abitata solo da un uomo single, mai stato sposato, con una carriera di successo. Anche lì avrei continuato a frequentare una psicologa pedagogica, lo avrei fatto per i futuri quattro anni.
La notte del mio secondo giorno lì, papà venne di nuovo a trovarmi in camera mia. Si inginocchiò come al solito davanti al mio letto, così che i nostri sguardi si potessero incrociare.
Mi sorrise in quel modo che presto avrei imparato ad amare con ogni mia fibra ed essenza, con quegli occhi che mi ricordavano veri e propri chicchi di caffè, quelli che la mamma macinava al mattino e io adoravo andare ad annusare di nascosto, senza farmi vedere. Il loro profumo mi induceva a credere di essere già adulta e invincibile.
Con sé aveva un pacchetto regalo celeste, avvolto da un nastro dello stesso colore di quei chicchi.
«Ho un regalo per te, bambina» mi disse, la voce così morbida da farmi credere di star sognando.
Mi misi a sedere sul letto senza dire una parola, mentre lui posava il regalo al mio fianco, attento a non sfiorarmi con un dito.
Le mie mani tremarono quando trovai la forza di sfilare il nastro e aprirlo, e sentii la meraviglia travolgermi come una marea nello scorgere cosa si trovava al suo interno.
Un paio di guanti per bambini, di pura seta, verdi come i miei occhi. Semplici, ma eleganti.
E nel vederli, nell'accorgermi di quanto mi apparissero belli, il regalo più straordinario del mondo, un vero e proprio incanto, una fiaba che diveniva realtà, arrossii inevitabilmente con furia, così tanto che le guance mi sembrarono andare a fuoco.
Papà, nel vedermi, scoppiò a ridere con forza. Una risata a me sconosciuta, felice, che mi ammaliò più di quanto non avesse già fatto quel dono.
Una risata che mi indusse a credere, anche se per la frazione di un secondo, di meritare a mia volta di essere amata, pur essendo un mostro.
«Ma guardati» mormorò giocoso, divertimento puro a sfavillargli nello sguardo, «sei proprio una ciliegina.»
Nessuno mai mi aveva dato un soprannome. Sempre ero stata giudicata per la mia caratteristica di arrossire per qualsiasi emozione, quella era la prima volta in assoluto che qualcuno la trovava così tenera e delicata da indurlo a sorridere in quel modo.
Sincero, vero.
Non una sola ombra di condanna a calcargli il riso.
Fu quel giorno che cadde la mia prima goccia d'amore nel cuore.
Quel cuore che per tutto quel tempo sempre era stato vuoto dentro, sempre era stato spento, incancrenito nella carne solo dall'odio per me stessa, per la prima volta sentì cadere al suo interno una lacrima d'affetto.
Nata e generata proprio da lui e per lui.
Colui che in futuro il mondo intero avrebbe chiamato Il mostro.
Nota autrice
Sì, questa storia è ambientata nello stesso mondo di "Apologia di Callisto", lo avrete capito anche voi, visto chi è stato citato.
L'ho ritenuto molto interessante come esperimento da fare, proprio perché "Ignobili affetti" e "Apologia di Callisto", sebbene a primo impatto possano sembrar storie molto simili, sono invece AGLI OPPOSTI.
Tesi e antitesi.
Un piccolo avvertimento, di modo che la sezione commenti non si riempia di critiche sulla mia rappresentazione del cristianesimo e in generale della fede.
Agatha è credente, sì.
Lo è sempre stata, tantissimo, da che era bambina, come si vede qui.
Ma proprio perché umana, e per tanti altri fattori che non posso rivelarvi adesso perché SPOILER SPOILER SPOILER il suo concetto di "fede", di "Dio" e di "preghiera" sono diversi da quelli che conosciamo noi.
La mia non vuole essere un'accusa nei confronti del cristianesimo - non pensatelo mai - ma una semplice ed ennesima rappresentazione dell'umanità di Agatha che, di nuovo, dà prova di essere talmente rotta dentro, talmente distrutta, da non riuscire neanche ad avere un rapporto sano con Dio.
E non è Dio la causa di ciò, lo ripeterò all'infinito se necessario. Che esista o meno, che ci sia o no, non è Dio ad aver reso Agatha così, ad indurla ad avere questo concetto sbagliato di fede.
Sono state tante altre cose, tanti altri fattori che forse potete intuire in parte già da ora, ma che verranno rivelati più avanti, di capitolo in capitolo.
In fondo, non è poi così strano, se ci riflettete, incontrare un fedele del genere, che ha concetti sbagliati di cristianesimo e Dio.
Basta andare su facebook, in qualsiasi post su qualche extracomunitario morto in mare, per vedere quanti ringraziano letteralmente Dio per aver tolto "la feccia della società" e che nel proprio profilo fb sono pieni di immagini di Madonne, rosari, crocifissi e Gesù bambini.
Non è questo il caso di Agatha, però, che sia chiaro.
Agatha ha un rapporto sbagliato con Dio per sé stessa soltanto.
Penso si sia potuto vedere già da questi primi capitoli: Agatha si odia. Non si può neanche dire che ha una bassa autostima come tanti di noi.
Si odia e basta, con tutta sé stessa, e lo fa da quando era una bambina.
E proprio per questo odio viscerale che ha nei suoi stessi confronti è del tutto incapace di considerarsi meritevole della bontà di Dio, a differenza degli altri. Proprio per questo ha un concetto così sbagliato di Lui, ma lo ha, ripeto, solo per sé stessa.
Io non parlo di divino, nelle mie storie, ma di esseri umani. Dio, la religione, la fede, vengono sempre e solo mostrati dagli occhi delle persone, e proprio perché persone possono sbagliare.
Di nuovo vi ripeto quanto detto nel capitolo precedente:
Non fidatevi così tanto di Agatha e delle sue opinioni, specie quelle che riguardano lei e la sua persona.
Che sia davvero un mostro o meno lo scoprirete più avanti, ma non fidatevi troppo dei suoi giudizi.
Quello che dovete sapere, adesso, e non dimenticare mai e poi mai se davvero volete conoscere la nostra protagonista, è quello che viene spiegato in questo capitolo.
Ovvero che Agatha, nel corso di TUTTA la sua vita, ha avuto soltanto TRE legami fondamentali, che sono stati i capisaldi della sua intera esistenza:
Il primo con Dio.
Il secondo con Lawrence.
Il terzo con Betsy George.
Betsy sarà un personaggio IMPORTANTISSIMO, muffins, davvero tanto, quanto lo è Lawrence.
Poco o niente sappiamo ancora di lei, ma quel che è stato detto qui è sufficiente per farci comprendere tre cose:
1) Betsy è stata la prima e unica amica di Agatha, da che era bambina.
2) Betsy era così legata ad Agatha da considerarla una sorella.
3) Betsy è stata, ahimè, l'ultima vittima di Lawrence.
Perché Lawrence l'ha fatto? Non diceva di amare sua figlia? Non diceva di volerle bene? Non glielo ha detto proprio al capitolo precedente?
Perché allora uccidere proprio la sola altra persona a cui la figlia che dice di amare era legata oltre a lui?
Forse non ama Agatha, in realtà? Forse in realtà la odia proprio?
Lo capirete, muffins, o forse, in realtà, non lo capirete del tutto, perché Lawrence è umano, sì, ma un mostro umano, il cui modo di pensare, sentire e provare è diverso da quello che conosciamo noi che - perdonatemi il termine - ci stiamo ancora con la testa.
So cosa state pensando, adesso che si è scoperto un po' di più su quanto fatto da Lawrence, su che razza di mostro sia e specie sul fatto che ha torturato e ucciso Betsy.
Agatha è una cogliona a volerlo ancora andare a trovare e stargli accanto.
Sì, c'avete pienamente ragione.
La scelta più razionale, logica e saggia da fare sarebbe come minimo mandarlo a fanculo, augurargli le peggiori sofferenze, un'agonia dilaniante e non guardarlo mai più in faccia, rifiutarsi anche solo di pensare a lui.
Continuare ad andarlo a trovare è sbagliato, distruttivo, forse anche stupido.
Ma per quanto lo sia, Agatha continua a farlo.
Come detto, è solo un essere umano, distrutto ancor prima che la verità su suo padre, il suo segreto, venisse scoperto.
Inevitabilmente non può agire con raziocinio.
Detesto dirlo, ma è importante farvi notare il fatto che adesso, nel tempo presente della narrazione, Agatha letteralmente non ha più nessuno al suo fianco se non, per l'appunto, suo padre.
Che è lo stesso stronzo pezzo di merda schifoso bastardo che ha provocato tutto ciò, ma è comunque, ahimè, anche l'unica cosa che le rimane di quella che una volta era sia la sua vita che la sua famiglia.
Betsy è morta.
E come detto in questo capitolo, non ha più neanche un "rapporto" vero e proprio con Dio, visto che ha smesso di pregare.
L'opinione pubblica la odia, fatica proprio a credere alla sua innocenza, LEI STESSA non si ritiene innocente (pur non avendo davvero fatto nulla), non ha manco un cane accanto a sostenerla, quelli che la conoscevano, pur non essendo amiconi, le hanno voltato le spalle (e vedrete alcuni COME lo hanno fatto)
Per quanto sia vomitevole da dire: Lawrence è davvero l'unica cosa che le rimane. Uno dei migliaia di motivi per cui non riesce a staccarsi da lui, perché senza di lui non ha più niente di niente a cui aggrapparsi.
Non una famiglia, non un amico.
Il suo rapporto con suo padre è tossico, malato sotto certi aspetti, sano sotto altri.
Ed è proprio questo il punto.
Perché è così? Lo capirete meglio, muffins, ma già da questo capitolo sicuramente lo avrete compreso in parte.
Con l'ultima parte di questo capitolo, si comprende che Agatha, prima di Lawrence, non è MAI stata amata per davvero. Lawrence è stata letteralmente la prima persona a volerle bene - al di là che tale affetto fosse sincero o meno da parte di lui (questo ancora non ci è chiaro), per Agatha LO ERA ECCOME.
È proprio questo il punto.
Riflettiamoci, muffins: una bambina del genere, con un trauma alle spalle che non conosciamo, ma che è evidente l'ha indotta a credere da sempre di non meritare affetto, che si ritiene un mostro, conosce per la prima volta qualcuno che è disposto ad amarla davvero (almeno così appare ai suoi occhi).
Inesorabilmente si legherà in maniera primitiva a quella persona, trasformandola in una vero e proprio cardine IMPRESCINDIBILE della sua vita, fino alle ossa.
Lo renderà una parte integrante di sé - e questo si vedrà ancor meglio dopo - al punto da non RIUSCIRE a liberarsene anche se SA che è la cosa giusta da fare.
I guanti che Lawrence le ha regalato nel corso degli anni saranno FONDAMENTALI, un simbolo vero e proprio non solo dell'afefobia, ma del suo segreto.
E anche - e soprattutto - dell'affetto che prova per il padre: colui che ha cercato oltre ogni misura a insegnarle a convivere con quel suo problema, ad affrontarlo di volta in volta.
Perché dentro di sé Agatha ha una grande sofferenza, che si porta dietro da che era una bambina, a cui poi si è aggiunta quella della scoperta su suo padre e la morte di Betsy.
Agatha, semplicemente, era rotta sin da piccola, e quanto accaduto dopo con Lawrence l'ha spezzata ancora di più, poiché lui è stato lo stesso uomo che l'ha aiutata, pur da rotta, a riprendere in mano la sua vita.
Il primo essere umano ad averla amata sul serio.
Come dimostrato da quei guanti.
Tremendo, davvero tremendo.
Questa storia sarà un'altalena costante tra il presente e il passato di Agatha, e poiché narrata sempre dal pov di Agatha, la cui memoria di quel periodo è completamente corrotta dal dolore, a volte questi balzi dall'oggi allo ieri potrebbero confondere.
Ma vedrete, muffins, vedrete e capirete, ve lo assicuro.
Posso concludere così la mia analisi e il mio avvertimento, non voglio aggiungere altro o rischio involontariamente di fare spoiler.
Fatemi sapere che ne pensate!
P.s.
So che siete sicuri che con questa storia vi riempirò solo di lacrime, follia, odio, dolore e agonia, ma vi voglio rassicurare su una cosa:
Non ci saranno solo quelli.
Vi ricordo, per chi mi ha già letto, che ho saputo farvi ridere anche con le mie altre storie altrettanto strazianti: Moonlight lullaby, La custode di cuori, Apologia di Callisto...
La prima parlava di un cieco e una depressa autolesionista.
La seconda di una che ha perso la madre ingiustamente e che doveva risolvere il mistero (scritto malissimo btw) sulla morte di uno studente.
La terza letteralmente di un fratello e una sorella dove il primo era malato terminale di leucemia da quando aveva tredici anni.
E anche con queste storie vi ho fatto sganasciare dalle risate, non solo piangere.
Quindi non odiatemi troppo, pliz.
E sì, muffins, con il prossimo capitolo vedrete che rideremo anche.
Un bacio!
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