Cane
Tornata a casa, quella sera, posai sul comodino accanto al letto i due regali che avevo ottenuto d'improvviso quel giorno, senza un vero motivo alle spalle.
Il modellino tascabile di Herbie, ancora dentro il cofanetto, col coperchio sollevato perché potessi guardarlo prima di addormentarmi.
E il cappello nero, con la stampa di un gattino bianco sopra la visiera larga, aperto dietro di modo da far passare la mia nuvola di ricci, datomi da Minnie prima che uscissi di casa.
«Se te nascondi sempre i capelli in quel modo, sotto il cappuccio, finirai per morì soffocata» mi aveva detto mentre me lo porgeva, «non te credere de essere l'unica riccia, in 'sto quartiere di merda, se farai vede' i tuoi capelli, la gente non te identificherà subito, specie se continui a indossà la mascherina. Prova a nasconderli a vista.»
«Nasconderli a vista?» avevo domandato io.
Lei aveva annuito. «Tutte le foto che ce so' di te sono praticamente uguali: c'hai sempre i capelli sciolti e sempre della stessa lunghezza. Se te fai un'acconciatura diversa, la gente non farà subito il collegamento, soprattutto i dementi. Ora te mostro come usa' sto cappello così da sistemarti i capelli, cerca de renderli più pomposi possibili, 'na vera palla gigante de ricci, così chi te vede non te identifica subito co' le foto tue che ce stanno su internet.»
E così mi aveva spiegato in che modo trasformare la mia chioma da sempre indomita in una vera e propria palla gigante di ricci che sbucava dall'uscita aperta del retro del cappellino e mi ricascava sulle spalle.
«Truccate anche un po' gli occhi» mi aveva suggerito Minnie, analizzandomi, «ce so' un sacco de modi con cui se può camuffare un po' la forma degli occhi, anche se la gente, demente com'è, manco se ricorderà de che colore so' i tuoi.»
«Non credo... sia così semplice...» avevo detto un po' divertita.
«Tu sottovaluti la demenza delle persone, riccioli corvini» aveva ribattuto lei, «pensa che quando me ne vado in giro struccata io, nessuno me riconosce, tra un po' manco quel coglione che me scopo ne sarebbe capace.»
Non avevo avuto cuore di farle notare che il suo stile dark era proprio la sua firma, proprio per questo era difficile identificarla quando non lo indossava, ma avevo accettato di farmi dare qualche consiglio da lei su come truccarmi gli occhi in modo da farli apparire anche solo di poco di una forma diversa.
Era così bizzarro, tutto ciò, quell'aiuto che stavo ricevendo da una totale sconosciuta, proprio non sapevo spiegarmi come fosse possibile.
Fissai il cappellino che mi aveva dato, lo presi, seduta sul bordo del letto, e me lo rigirai tra le dita. Era di prima qualità e sicuramente appena comprato, non aveva alcuna traccia di usura in sé.
L'aveva preso apposta per me, e di sicuro non aveva avuto il tempo di comprarlo quando Dante mi aveva incastrata scrivendole dei lokum che avevo fatto per lei e Max. L'aveva acquistato ben prima, forse addirittura subito dopo il nostro primo incontro.
Non riuscivo proprio a capire perché.
Compassione? Pietà? Senso di solidarietà?
Per me?
Proprio per me?
La figlia di Lawrence Reid?
Faticavo a concepirlo.
I miei ultimi quattro anni di vita erano stati caratterizzati dalla solitudine più totale e la condanna assoluta da parte del mondo. La sola compagnia che avevo avuto era stata mio padre, quando lo andavo a trovare in carcere, e proprio perché lui, non era mai stata una compagnia chissà quanto piacevole, visto che ad ogni incontro deperivo sotto la pressione delle mille domande che non osavo fargli.
Ogni festività, celebrazione e pasto l'avevo passato con i miei sensi di colpa, al punto che, ormai, neanche più mangiavo agli orari giusti, semplicemente mi abbuffavo di schifezze quando avvertivo il bisogno di cibarmi di qualcosa.
I soli doni che avessi mai avuto fino ad allora erano stati i continui atti di vandalismo alla mia casa e alle mie macchine, i sassi che venivano lanciati contro le finestre, le scritte e gli insulti sulle pareti della villa, la mia mail a scoppiare di minacce, i tre pestaggi che mi avevano devastata, l'ultimo in particolar modo.
L'odio era sempre stato l'unico regalo che avessi mai conosciuto.
E ora, invece, ne avevo ricevuti ben due della natura opposta, ed erano lì, davanti a me, uno tra le mie mani e uno sul comodino accanto al letto.
Sollevai gli occhi per guardare quest'ultimo.
Herbie.
Mi chiesi se Dante me lo avrebbe comunque regalato, se avesse saputo che uno dei motivi per cui amavo così tanto i film su quel maggiolino era perché da bambina li guardavo sempre con papà e insieme a lui mi divertivo a ripetere le sue battute. Considerando come non concepiva proprio la mia decisione di andare ancora a trovarlo, dubitavo l'avrebbe fatto.
Era il motivo per cui faticavo così tanto a raccontargli del mio passato, perché, che lo volesse o meno, il mio passato era stato visceralmente inciso dalla figura di mio padre, ogni giorno era stato timbrato dalla sua presenza e l'affetto che provavo per lui.
Se avesse saputo quanto lo avevo amato, quanto ero stata felice per merito suo, ancor più non avrebbe capito la mia scelta di continuare a vederlo, visto che era lo stesso uomo che mi aveva distrutto per sempre quella gioia, che mi aveva tradito.
E sapevo anche che da un punto di vista logico aveva ragione, ma per ironia della sorte era proprio tutto ciò, proprio tutta quella felicità e quell'affetto che ero riuscita a sentire grazie a papà, se ora non riuscivo ad abbandonarlo, a lasciarmelo alle spalle.
E c'era anche molto di più dietro.
A parte papà, io non avevo più nessuno.
Non un amico, non una famiglia, non un confidente.
Era tutto ciò che mi era rimasto.
Un essere immondo, abominevole, disgustoso, uno spietato assassino.
Ma comunque tutto ciò che mi era rimasto.
Ed era anche il solo possessore di tutte quelle verità che mi erano ancora celate, l'unico che conosceva dal principio alla fine la vera storia del mio dolore ancestrale, che non si limitava a quello che mi aveva provocato uccidendo Betsy.
Strinsi la visiera del cappellino tra le dita, ne seguii il contorno duro con i polpastrelli.
Se Dante avesse scoperto... che soffrivo al pensiero che mio padre sarebbe morto di lì a pochi mesi, che mi addoloravo alla consapevolezza che quelli erano gli ultimi giorni che mi erano rimasti da passare con lui... pur continuando ad odiarlo e a desiderare al contempo la sua morte...
Come mi avrebbe guardata?
Sarebbe rimasto disgustato come tutti gli altri, probabilmente, mi avrebbe di nuovo dato della senza cervello.
Al nostro prossimo incontro... cos'avrei dovuto chiedere a papà? Quale domanda avrei dovuto fargli? Ce n'erano milioni che non riguardavano Betsy, ma non ero certa di poter trovare il coraggio di porgergliele, specie dopo quanto scoperto con la mia ultima visita.
È stata la sola che mi ha fregato.
Il cappello prese a tremare e così i miei respiri.
Non volevo pensare a quello, non volevo pensare a lei, ma era inevitabile, ora che tutte le ombre erano state diramate sulla loro relazione.
Non avevo neanche bisogno di chiedergli perché non l'avesse uccisa, perché non si fosse vendicato su di lei per quell'affronto che gli aveva fatto, per il modo in cui letteralmente lo aveva violentato, facendosi mettere incinta senza il suo consenso.
Perché sarebbe stato subito colui su cui la polizia avrebbe indagato, essendo il suo partner sessuale e il padre del bambino che portava in grembo. Era risaputo, in fondo, che alla morte o scomparsa di una donna il primo sospettato era sempre il fidanzato, l'ex o comunque il suo amante, considerando la statistica elevata dei femminicidi. Anche solo provare a simulare un incidente sarebbe stato comunque troppo rischioso, specie se si fosse scoperto che lui mai aveva desiderato figli.
Lo stesso motivo per cui non l'aveva denunciata, pur essendo stato abusato da lei proprio come aveva fatto sua madre, incastrato in quel modo con una paternità che mai aveva desiderato.
Ma anche così, lei comunque aveva fallito nel suo piano, almeno parzialmente, visto che non era riuscita ad ottenere ciò che più desiderava nel modo in cui voleva: un anello al dito, infilato proprio dalle mani di mio padre.
Qualcosa, però, l'aveva ottenuto.
Solo non nel modo in cui lo desiderava.
Da bambina, mai avevo compreso la loro relazione, mai avevo capito come funzionasse, mi era sempre sembrata strana e bizzarra, soprattutto per la differenza abissale tra il modo in cui si comportava lei, così estasiata e felice di rivederlo, e lui che era sì sorridente, ma solo con la bocca, mai negli occhi.
Di una sola cosa ero certa: tra quei due c'era stato un patto.
Conoscendo ora la razionalità mostruosa di mio padre, potevo già ipotizzare in che modo era stato capace di fuggire in parte da quella trappola che lei gli aveva teso: probabilmente era riuscito a provare che lo aveva incastrato. Forse l'aveva manipolata fino a indurla a confessare tutto quanto senza volerlo, l'aveva registrata e l'aveva minacciata di portarla in tribunale, una vera e propria onta per lei, una vergogna devastante.
E lei di certo non poteva sapere che mai lui avrebbe messo in pratica quella minaccia, proprio perché così avrebbe corso il rischio di venir investigato o di attirare attenzioni spiacevoli. Era impossibile che conoscesse la vera natura di mio padre, non sarebbe arrivata a tanto pur di averlo, se così fosse stato.
Il solo e vero motivo per cui lo desiderava fino a quel punto era perché, come agli occhi di tutti, papà le era apparso come l'uomo perfetto.
Proprio come nonno Stuart appariva a nonna Lily.
Era la volontà di Dio.
E così si erano accordati con un compromesso che aveva scontentato entrambe le parti, soprattutto lei.
Tuttavia, dubitavo avrei trovato il coraggio di chiedere a papà, al nostro prossimo incontro, cosa comportasse nel dettaglio quel compromesso.
Mi passai le mani sul viso, provai a frenare i tremiti che mi travolgevano, mi aggrappai con la mano alla croce del mio rosario.
Era un modo indiretto con cui Dio mi stava spiegando il perché fossi così? Il perché meritassi così tanto quella punizione? Il perché mi avesse sempre odiata, da che ero venuta al mondo?
Perché ero nata da due creature del genere?
La conferma della mia natura di mostro?
Ormai mi era chiara solo una cosa, ora che conoscevo la storia di entrambi.
Io ero il risultato finale di un ciclo di malvagità e sofferenza, il prodotto di una genealogia di crudeltà e peccato, l'ultimo anello di una catena fabbricata con il sadismo e l'empietà dell'animo umano.
Forse Dio mi aveva dato l'opportunità di spezzarla, quella catena, forse mi aveva dato l'opportunità di redimermi davvero da quella natura mostruosa con cui ero venuta al mondo.
Ma di risposta avevo gettato al vento quell'occasione, l'avevo calpestata sotto ai miei piedi nell'attimo stesso in cui su quel lettino, a mani congiunte, gli avevo chiesto di realizzare il mio desiderio.
Lui l'aveva realizzato non per rendermi felice, ma per punirmi per aver ceduto, come coloro che mi avevano messa al mondo, alla mostruosità.
Lo sai cosa devi dire allo specchio, Agatha?
Mi tremò il labbro inferiore, lo morsi fino a raggiungere il sangue.
Ho sbagliato, ho sbagliato, ho sbagliato.
«Sono sempre stata sbagliata.»
Posai il regalo di Minnie sul comodino, presi il modellino di Herbie e lo strinsi tra le dita mentre mi sdraiavo sul letto, il lato destro del viso affossato nel cuscino.
Peccai ancora, per l'ennesima volta, portandomi quel maggiolino minuscolo al cuore, lasciando che a confortarmi fosse il ricordo dell'uomo più odiato d'America, il mostro che tutto il mondo ora odiava quasi quanto Dio odiava me.
«Ciliegina, lo sai, vero, che un maggiolino del genere non potrebbe mai vincere a gare di corsa?»
«Sì, ma Herbie non è un maggiolino come gli altri, papà! È un maggiolino che parla ed è moooolto intelligente! È un maggiolino tutto matto, per questo ha vinto!»
«Devo iniziare a sentirmi geloso? Per una macchina? Guarda che ho ancora un po' di dignità, io!»
«Nono, papà, tu rimarrai comunque il migliore per me! Sei il mio principe azzurro!»
«Ottima mossa con cui comprarmi, Ciliegina. Ti sei salvata dal venir tolta per sempre dal mio testamento.»
«Tanto non hai nessun altro a cui dare i tuoi soldi.»
«Come osi?! Disgraziata! Non è così che ti ho cresciuto! Potrei donarli tutti a qualche orfanatrofio, che ne sai?»
«Basta che prima mi compri un maggiolino, poi puoi darli tutti a chi vuoi.»
«Stai diventando sempre più viziata, Ciliegina, mi stai facendo dubitare delle mie doti da buon padre di famiglia.»
«Quindi non me lo prenderai il maggiolino?»
«Vedremo, Ciliegina, dipenderà tutto da cosa mi cucinerai stasera per cena.»
«E dici a me che sono viziata?»
«Almeno sono stato un buon padre nell'insegnarti a rispondere a dovere, visto come stai rigirando la frittata adesso. Devi solo imparare a farlo anche con gli altri, non solo con me, Ciliegina.»
«E se li faccio arrabbiare?»
«Falli arrabbiare. Non temere le reazioni degli altri, Ciliegina, non plasmarti per accontentarli. Tu devi sempre metterti al primo posto, sopra ogni cosa.»
«Anche sopra di te?»
Ci furono vari secondi di silenzio.
«Soprattutto sopra di me.»
Dante aveva ragione: il mercato del quartiere pullulava di persone, per lo più donne e anziane. Ce n'erano così tante ad attraversare le stradicciole delimitate dalla fila di bancarelle che a stento si riusciva a vedere il terreno su cui camminavano.
Ed erano solo le sette del mattino.
Nell'aria si sentivano i vari odori dei cibi e alimenti che venivano esposti dai vari commercianti, quello del pesce era, ovviamente, il più forte, ma veniva spesso sormontato da quello della frittura o dei formaggi. Un misto di effluvi che non sapevi distinguere tra loro, che si disperdeva nell'aria gelata di quei primi giorni di novembre.
I due gemelli pestiferi erano davanti a me e Dante, più fieri e orgogliosi che mai, come al solito vestiti in modo identico: jeans lunghi, felpa bianca di Naruto e un paio di scarpe da ginnastica dello stesso colore. Avevano insistito fino allo sfinimento per accompagnarci a quella spesa ed io ne ero stata più sollevata che mai. La loro presenza in qualche modo mi rilassava e mi faceva sentire più a mio agio anche quand'ero in compagnia di Dante.
Benché il regalo che mi aveva fatto era stato senz'altro un'ottima spinta con cui rivalutarlo e non temerlo più come prima, mi sentivo comunque un po' in apprensione all'idea di stare da sola con lui per tutte quelle ore, mentre ero intenta ad osservare e studiare i vari prodotti offerti dalle bancarelle. Temevo con tutto il cuore le figuracce che avrei potuto fare davanti a lui e quanto ancora gli sarei sembrata sfigata per la mia passione stratosferica per la cucina.
Sapere di avere Dory e Dorian con noi era stato un grande sollievo.
«Guarda, gemella mia con la vongola» disse Dorian, fissando al fianco di Dory la piazzola gremita di gente e bancarelle, «un giorno tutto questo cibo sarà nostro.»
«Cucinato da Thaty» specificò Dory.
«Con i suoi soldi» specificò Dorian.
«E i suoi quattro coglioni.»
«Avremo la panza piena per sempre.»
«E i brufoli dell'adolescenza.»
«E soprattutto saremo ricchi, non lo dimenticare.»
Mi trattenni dal ridere, sistemandomi meglio la mascherina che mi copriva metà faccia. «Sono qui solo per dare un'occhiata» spiegai e loro si voltarono a guardarmi con dubbio, «e per comprare qualcosa da farvi per secondo dopo le pappardelle, non covate troppe speranze.»
Dorian schioccò la lingua. «Non ce credo manco morto.»
Dory annuì. «C'hai proprio l'aria de una che quando va al mercato finisce sempre per comprasse mezzo mondo.»
«Quella che davanti a un prodotto bono non riesce a trattenesse e lo prende all'istante.»
«Che se mette a parlare col venditore sulla qualità della roba che vende per saperne morte, vita e miracoli.»
Lei assentì ancora col capo, l'aria da donna vissuta. «Come le nonnine che ti dicono sempre che ti sei sciupato.»
«E noi siamo molto, molto sciupati» confermò Dorian con voce tragica.
«I pantaloni de pochi mesi fa ade' ce cascano tutti» squittì Dory, la mano al petto, un'espressione sofferente in viso. «Finiremo con le mutande de fori in mezzo alla gente.»
«Tutti ce vedranno il pacco» proseguì Dorian con la stessa drammaticità della sorella. «Non potremo più esse bambini dentro.»
«Tutta la nostra infanzia distrutta in un attimo» continuò Dory, la voce sempre più rovinata dal dolore, vere e proprie lacrime a calcarle gli occhi.
«Finiremo pe' diventà quegli adolescenti che compiono stragi nei licei.»
«Compenseremo l'assenza de un padre e una madre con le droghe.»
«Mai più bambini innocenti» esalò Dorian in posa teatrale.
«Solo adulti cretini» concluse Dory nella stessa posa.
Mi ritrovai a tossire per camuffare le risate, con Dante alla mia destra che sospirava e si massaggiava le tempie.
«Non mi sembrate così sciupati» feci notare a quel punto, «visto che vi divorate tutto quello che vi cucino.»
«Tutt'apparenza, Thaty» mi garantì Dorian. «Semo piccoli, dovemo nutrirci per bene, non è abbastanza quello che ce fai tu.»
«Esatto, c'avemo bisogno ancora de più per cresce» confermò l'altra. «Altrimenti come faccio a fammi ave' tette stratosferiche come le tue?»
«Non è così che funziona» ribattei, trattenendo gli sghignazzi.
«Come dice una gran donna, cioè io, per delle zizze giganti tocca provà de tutto.»
«E poi io voglio la barba, da cresciuto» specificò Dorian. «Ma non me crescerebbe manco morto, se non magnassi a dovere. E ce sta già in famiglia un omo che ormai non è più omo da quanto se sta a fracassà le palle, devo compensà in qualche modo coi miei coglioni.»
«E non ha manco più il cervello, co' tutte le cimici che s'è scopato, quindi tocca che compensi pure quello.»
«Dorian» la voce di Dante era più profonda che mai, «ti aspetta un bel lavaggio nasale, non appena torneremo a casa.»
Dorian impallidì e sussultò sul posto, lanciò un'occhiataccia di puro odio al fratello maggiore. «Pensa a recuperà le tue palle, non al mio naso» gli sibilò contro, dandogli un calcio alla gamba che non scalfì neanche di poco Dante.
Ridacchiai ancora. Dory spostò lo sguardo dal suo gemello su di me, un sorrisetto compiaciuto le attraversò le labbra. «A proposito, Thaty» disse d'improvviso, «che voi comprà de preciso?»
«Non saprei» mormorai, risollevando lo sguardo sulle varie bancarelle, in quella zona tutte dedicate all'ortofrutta. «Dato che le pappardelle col cinghiale sono molto pesanti, pensavo a qualcosa di leggero, un contorno con verdure. Magari potrei fare la ratatouille.»
Il sorriso di Dory si fece più grande, quasi birbante. «La ratatuglia, eh? Ora che ce penso, il gemello mio coi coglioni aveva detto de volella assaggià per via del cartone.»
«Vero, vero» confermò Dorian, ritornando al fianco della gemella, lo stesso sorriso della sorella. «Che m'hai sentito mentre lo dicevo per caso?»
I loro ghigni malefici mi confondevano, soprattutto perché, di tanto in tanto, passavano lo sguardo su Dante al mio fianco. Mi accigliai. «Oh... hmm, sì» dissi a quel punto. «Mi è sembrata... una buona idea, dato che la ratatouille ha le verdure che più vi piacciono, come i peperoni e... le cipolle.»
Mi irrigidii nell'attimo stesso in cui avvertii lo sguardo del loro fratello maggiore su di me, con la pesantezza di una vera e propria cannonata sulle mie spalle.
Non volevo più continuare a pensare male di lui, visto il regalo che mi aveva donato e il modo in cui si era ricordato di Herbie per tutto quel tempo, ma certo mi era difficile non farlo, se i suoi occhi mi trapassavano da parte a parte in quel modo ogni volta che parlavo di qualcosa che riguardava i suoi fratellini.
Vidi i due gemelli battersi il pugno, sembravano aver ottenuto una grande vittoria. «Cinquanta punti tutti» udii Dorian sussurrare alla sorella.
«Minchia dici, almeno ottanta, ci scommetto il tuo cazzo.»
«Non scommettere sui cazzi degli altri, bastarda.»
«Non posso più fallo su quello de Dante, ormai non ce l'ha più.»
Dante fu su di loro l'attimo dopo, li afferrò per i capi e, come al solito, fece scontrare le loro fronti. Nel sentire le bestemmie che si levarono in aria, nessuno mai avrebbe potuto immaginare provenissero da due dodicenni.
«Andiamo» dichiarò lui con tono deciso, per poi voltarsi verso di me con la sua solita espressione appena corrucciata.
Avevo imparato, ormai, che il suo viso naturale non era particolarmente scontroso come ai nostri primi incontri, dove si era ritrovato sempre irritato per via della situazione e dell'irritazione, solo un po' più severo rispetto agli altri e forse anche per questo motivo adesso mi era più facile guardarlo negli occhi, anche se l'istinto di rifuggire da essi continuava a persistermi dentro.
«Mmm, sì, andiamo» mugugnai alla fine, sistemandomi meglio la borsa a tracolla sulla spalla e iniziando a muovermi con loro, coi gemelli davanti a noi che ci spianavano la strada e confabulavano chissà quale altro piano malefico per prendere in giro il fratello maggiore.
Iniziammo ad entrare nel cuore del mercato, spostandoci tra la gente che lo ammassava, con le voci dei commercianti che urlavano a squarciagola per convincerti a passare alle loro bancarelle e quelle degli altri clienti che marciavano a casaccio da un punto all'altro per osservare e decidere cosa comprare.
Erano ormai quattro anni che non frequentavo un posto del genere, ma la nostalgia e amarezza che mi travolse fu così potente da riempire del tutto quel vuoto che si era creato nel corso del tempo. Conoscevo bene quel mondo, molto bene, lo avevo frequentato praticamente per tutta la vita, da che ero solo una bambina, per arricchire ancor più la mia passione per la cucina.
«C'era un mercato simile, nella tua vecchia città?» sentii Dante chiedermi, e io annuii, mentre osservavo le bancarelle che fiancheggiavano i lati delle stradicciole, una ad una.
Non aveva più senso mentirgli, non su questo. E per quanto sapessi che non apprezzava la mia decisione di andare a trovare mio padre, che lo volesse o meno, aveva ricoperto un ruolo fondamentale nella mia vita. «Lì il mercato c'era sempre il venerdì» mi ritrovai ad ammettere, quasi d'istinto. «Ci andavo... Ci andavo sempre con... con papà, ogni settimana. Era lui che... reggeva tutte le buste.» Esitai per qualche secondo. «E... si assicurava anche... che non toccassi per sbaglio... qualcuno a pelle nuda.»
Non rispose subito, così lo spiai di sottecchi. Aveva il viso ancora rivolto ai suoi fratellini, davanti a noi, ma non sembrava... particolarmente irritato. Mi domandai se stesse cercando di mascherare il suo giudizio o se, semplicemente, stava iniziando anche solo in parte a provare a capire il mio punto di vista.
«Anche lui cucinava come te?»
La sua domanda mi sorprese a dismisura, non credevo avrebbe voluto saperne altro sul suo conto. Mi strinsi la tracolla della borsa tra le dita. «No» risposi dopo qualche secondo di silenzio. «Era... Era una frana in cucina, lui. Ero sempre io... quella che se ne occupava, ma è stato lui a... far nascere questa passione in me. Sai... dopo che mi trasferii da lui... ero molto... silenziosa» Non ero sicura di voler proseguire, ma ormai avevo cominciato, non potevo più fermarmi. «Per convincermi a parlare... provò ogni giorno... a cucinarmi qualcosa... ma non ci riuscì, una volta... lo aiutai... e lui... vedendo come mi ero divertita...»
La voce mi si incrinò, approfittai di una bancarella di verdure lì alla mia destra per distrarmi e iniziare a guardare i vari prodotti infilati in delle scatole di legno aperto che s'incastravano tra loro come in un puzzle. «Credevo avessi sempre vissuto con lui» lo sentii dire al mio fianco, mentre analizzavo dei peperoni rossi uno ad uno.
Non mi stupì ciò, Dante non mi sembrava un appassionato di true crime come Minnie, e di per sé le informazioni che riguardavano la mia vita prima che mi trasferissi da papà erano state divulgate poco, in quanto non contenevano alcun particolare interessante o di valore.
Per il mondo.
Non certo per me.
Forse il solo ambito in cui avevo imparato a mentire bene, senza venir mai scoperta, neppure dalle psicologhe che avevo incontrato nel corso degli anni. Un meccanismo che mi si era incastrato dentro dal giorno in cui ero venuta al mondo, l'addestramento di una vita.
Presi uno dei sacchetti di carta offerti dalla bancarella, in cui inserire dentro i prodotti, e iniziai a infilarci i peperoni che mi servivano, con la voce fredda e tranquilla che sempre aveva caratterizzato qualsiasi conversazione avessi avuto in merito a quel periodo spiegai: «Fino ai dieci anni vivevo con mia madre, nello Utah. Poi, mentre andavamo a messa, un ubriaco travolse la nostra macchina con la sua. Io ne uscii salva per miracolo, anche se ingessata dalla testa ai piedi, mentre mia madre...» Mi fermai a guardare il peperone rosso che stringevo ancora in mano. «Morì molte ore dopo mentre la operavano in ospedale. Da allora ho vissuto con mio padre in Arkansas.»
Proseguii a infilare i peperoni nel sacchettino di carta, con il suo sguardo addosso. «È per via dell'incidente che è nata la tua fobia?»
Ero felice che non mi avesse fatto qualche forma di condoglianza o mi avesse detto qualche frase di rito come "mi dispiace tantissimo", non ero sicura che sarei riuscita a mantenere la mia facciata. «Sì» risposi, l'ennesima menzogna, ma sapevo già bene che nessuno, nemmeno lui, di solito così bravo a smascherarmi, se ne sarebbe reso conto, «gli psicologi hanno detto che è dovuto al trauma di essermi ritrovata completamente ingessata dappertutto e di aver dovuto fare la riabilitazione per quasi quattro mesi, per poter riprendere il comando totale del mio corpo. Anche se non ricordo nulla dell'incidente, è stato comunque impattante nella mia mente, e inoltre avevo appena perso mia madre.»
E quasi come a voler prendermi in giro, quasi come a volermi deridere per quella trafila di bugie che stavo facendo uscir fuori una dopo l'altra, un abbaio forte mi esplose alle spalle. Mi voltai per guardare cosa stava succedendo: in mezzo alla strada, tra il via vai di persone, una signora di mezz'età stava trattenendo il suo maltese col guinzaglio. Il cagnolino stava cercando di raggiungere una minuscola chihuahua a qualche metro da lui.
«Fermo, Chuck!» esclamò la signora, mentre riportava indietro il maltese col guinzaglio. «Devi stare calmo e fermo, t'ho detto!»
Gli occhi mi caddero dal guinzaglio alla pettorina a cui era collegato, una vera e propria imbracatura che gli imprigionava la vita e a causa di cui lui non poteva fuggire dalla padrona, non importava quanto ci provasse e si disperasse per riuscirci.
«Agatha?»
Sobbalzai sul posto nel sentire Dante chiamarmi, mi accorsi troppo tardi di aver stretto con troppa forza il peperone che ancora avevo in mano e adesso si era tutto deturpato per colpa di quella presa salda.
«Oh» esalai con un filo di voce, grata della mascherina che mi nascondeva il sorriso, «scusa, mi sono distratta.»
«Hai anche paura dei cani?»
«No» risposi in automatico, tornando a guardare le verdure. «Mia madre ne aveva uno, vederlo me l'ha ricordato, dato che stavamo parlando di lei.»
«Che tipo di cane?»
Tornai a guardare il peperone distrutto nella mia mano.
«Cattivo.»
«Detesto fallo, ma me tocca da' ragione a quei due demoni stavolta.»
«C-Cosa intendi?»
«C'hai proprio 'na malattia della spesa, tu.»
Mi sentii arrossire fino alla radice dei capelli, era un bene che il cappello che mi aveva dato Minnie potesse nasconderlo almeno in parte. Fissai con intensità il banco pesce che avevo davanti, concentrando gli occhi su uno dei salmoni più belli che avessi mai visto, disteso sul ghiaccio come una sirena su uno scoglio. «N-Non è così grave» mi difesi a fatica.
«Un quarto d'ora passato a parlare con il tizio dell'ortofrutta sulla qualità dei suoi spinaci.»
«E-Era importante... per sapere... se ben... coltivati.»
«Venti minuti passati a discutere con il macellaio sui dieci metodi diversi per marinare il pollo.»
Allargai più che potei la mascherina, così che potesse celare le guance vermiglie. «Non... si smette mai di imparare» biascicai.
«E quando hai sentito quella vecchietta lamentasse perché non sapeva che cucina' per il Ringraziamento alla nuora celiaca, hai passato la bellezza di mezz'ora a darle tre ricette diverse.»
«Era... importante anche quello» provai a difendermi. «Se c'è traccia di glutine... per un celiaco... è molto pericoloso, perciò...»
«E vogliamo parlare degli altri quindici minuti che hai passato a spiegare a un'altra vecchietta come distinguere un cocomero buono da uno cattivo solo dal suono che fa quando bussi sul guscio? Quando siamo ancora agli inizi de novembre e di cocomeri non ne vedremo neanche l'ombra per i prossimi mesi?»
Una scarica di nervosismo mi attraversò, mi voltai a guardarlo irritata, lui aveva un sopracciglio inarcato, le buste della spesa in una sola mano. «Ti sei messo... a contare il tempo?» chiesi indignata.
«Era inevitabile, visto che non potevo fa' altro» ribatté, la voce particolarmente divertita.
L'indignazione crebbe. «Te l'avevo detto... che potevo andare al mercato da sola» dichiarai offesa. «Sei tu... che hai insistito.»
«Di solito se va al mercato per comprare il cibo e poi tornarsene a casa, non per mettese a fare conversazioni gastronomiche improbabili.»
Aveva ragione, non potevo negarlo, sarebbe stato corretto da parte mia scusarmi, visto che, a differenza di mio padre, lui non conosceva proprio quel mio terribile difetto, ma il suo tono di presa in giro mi impermalosiva troppo, proprio non riuscivo a non rispondergli. «N-Non avevi detto... che non sei così stronzo?»
«Mica sto a fa' lo stronzo, sto solo facendo nota' questa tua mania.»
«Non è una mania» ribattei.
L'angolo destro del suo labbro si sollevò, un'altra scarica di irritazione mi attraversò mentre arrossivo come non mai. Era da lui che i gemelli avevano ereditato la voglia innata di prendere in giro tutti, era un bene che fossero distanti, troppo presi a rimirare il bancone delle caramelle per badare a noi, temevo che avrebbero potuto per la prima volta trovarsi d'accordo con lui.
«Se non è 'na mania, come la definiresti te?»
«U-Una... passione, tutto qua» borbottai con sempre più sdegno e il suo sorrisetto impertinente si fece più grande. «Non... non mi indurrai... a rivalutarti come dici di voler fare... se continuerai a prendermi in giro così.»
«Non sempre le prese in giro so' fatte per insulta', sai?»
«Quindi mi vuoi dire... che non mi stai insultando per la mia... mmm... passione?»
«Intendi mania?»
«Passione!»
L'irritazione aumentò quando il suo ghigno si allargò ancora.
«Non ti sto a insulta'» specificò, «come t'ho detto, stavo solo a fa' notare questo tuo particolare.»
«Non... Non è nulla di che» balbettai, riprendendo a fissare la testa del salmone, i suoi occhi spalancati e privi di vita.
«Non me sembra nulla di che.»
Aggrottai la fronte, continuando ad osservare quegli occhi. «C-Che intendi?»
«Quella tizia della nuora celiaca stava a parla' parecchio distante da te e manco così ad alta voce, però tu l'hai sentita lo stesso. Stessa cosa quella vecchietta del cocomero.»
L'unico modo che avevo per raffreddarmi un po' la faccia, ormai, era buttarla sullo stesso ghiaccio su cui era disteso quel meraviglioso salmone. Stava di nuovo provando a dirmi quant'ero inquietante?
«Lo so che è... strano, ma-»
«Non stavo a di' questo.»
Volevo spaccarmi di nuovo la testa contro qualche superficie solida.
«Allora cosa?»
«Che stai sempre attenta a chi che te circonda e ai dettagli, tutto qua.»
Mi accigliai ancora. «Non... Non capisco cosa ci sia... da far notare, se non... quant'è inquietante... la cosa.»
I suoi occhi su di me. Ero davvero diventata capace di sentirli all'istante, un super potere vero e proprio.
«Tu c'hai davvero 'no strano modo de valutatte» dichiarò deciso, e il rossore adesso era arrivato persino alla schiena, non avevo neanche bisogno di controllarmi da qualche parte per rendermene conto.
«Non è strano...» farfugliai.
«Te sto a di' che badi ai particolari della gente che di solito nessuno nota, e subito te pensi di esse inquietante.»
Mi feci di marmo sul posto, la fronte come le guance, adesso. «Beh... lo è...»
«Da quando sta' attenti è 'na cosa inquietante?»
Quasi avrei voluto essere al posto di quel salmone, adesso.
«Non capisco... perché parlarne» mormorai.
«Si chiama conversazione.»
«Le conversazioni... non prevedono... argomenti interessanti, di solito?»
«Questo non lo è?»
«Cosa c'è di interessante... nel sapere... che sono un po' più attenta degli altri?» replicai piccata, mentre sognavo di buttarmi tutto quel ghiaccio oltre la teca in faccia.
«Manco 'na zappa o un fucile. Un cannone, ecco che te dai ai piedi.»
Non riuscii più a contenermi, gli scoccai un'occhiataccia. «Non ricordavo... avessi la laurea in psicologia.»
«Non me serve 'na laurea in psicologia per nota' che appena qualcuno te fa vede' qualche tua qualità, tu subito ce soffi sopra come con un castello de carte.»
«Non faccio così...» mi lamentai. «Sono solo... consapevole di me stessa. So riconoscere... le mie qualità, davvero.»
«E sentiamo, quali sarebbero le tue qualità, secondo te?»
Volevo prendere quel salmone e usarlo per prenderlo a schiaffi. Perché ogni volta finivamo su quel discorso? «Me la cavo in cucina... e con lo studio.»
«E poi?»
Fu umiliante, perché non seppi che altro aggiungere, e se di solito ciò non era un problema, in questo caso, invece, mi sembrava quasi di star confermando quanto lui affermava, il che ero più che consapevole non era vero.
«Un cannone» ripeté. «Un vero e proprio cannone gigantesco, me chiedo come fai ancora a cammina'.»
Lo fulminai con un'altra occhiataccia, il suo ghigno si fece compiaciuto come non mai, inducendo un'altra vampata di rossore sul mio viso. «Nemmeno... mi conosci così bene...» balbettai ancora. «Con che sicurezza... lo dici?»
«Non te conoscerò da anni, sì, ma c'ho due occhi che funzionano a meraviglia.»
«Mettiti gli occhiali... allora, perché a me non sembra.»
Sorrise del tutto. Si stava divertendo un mondo a prendermi in giro, non lo nascondeva neanche. Volevo picchiarlo sul serio con quel salmone, adesso. Non lo capivo minimamente, quel ragazzo, perché ricondurre le nostre discussioni sempre lì? E quel che capivo ancor meno era il modo stupido in cui una parte di me spingeva perché lo ascoltassi, nonostante tutti gli anni di conferme avute in merito alla mia natura banale e orrenda.
«Forse a dovesse mettere gli occhiali sei tu, non io.»
«Ci vedo alla perfezione» replicai piccata.
«Vuoi scommetterci su?»
«Adesso... oltre che prendermi in giro... mi vuoi pure far diventare ludopatica?»
Non seppi spiegarmi da dove mi fosse uscita quella battuta, e ancor meno seppi spiegarmi come mai lui si fosse messo a ridere in quel modo così profondo, visto che era davvero tremenda. Forse stava ridendo della mia faccia la cui temperatura aveva raggiunto quella del sole. C'era da dire che era ancora più bello, quando rideva così, correvo sul serio il rischio di riesumare la vecchia Agatha di una volta, fangirl al massimo per i tatuati bad boy come lui, così mi costrinsi a tornare a fissare il salmone, la mia ancora di salvezza da una cotta che mi avrebbe lasciata solo con un cuore sbrindellato più di quanto già non lo fosse ora.
Davvero, quel ragazzo ai miei occhi stava diventando un mistero grande quanto mio padre. Perché ridere, se neanche gli piacevo?
«Non era... così divertente» borbottai.
«Non saprei, c'hai 'no strano modo de valutatte, tu, te l'ho detto.»
«E tu di dimostrare che non sei così stronzo» replicai di nuovo oltraggiata, riprendendo a marciare lungo la stradicciola, affiancata da lui, purtroppo per me.
«Cosa c'è de così stronzo nel farti capì in quella testa de coccio che c'hai che te smonti pezzo per pezzo pur di non riconoscere le tue qualità?»
«Non eri tu quello di coccio?» risposi.
«Più de te sicuro, ma anche tu non scherzi.»
Lo fulminai di nuovo con un'occhiataccia, lui sogghignò, specie quando vide come avvampai. «N-Non sono di coccio» balbettai. Stavo sul serio andando contro la mia natura, ad affrontarlo così senza neanche scusarmi dopo per come gli rispondevo. Era per colpa sua? Per il fatto che sapeva sempre pizzicarmi nei punti più dolenti? E la cosa assurda era che pur irritata al massimo, non mi sentivo più così a disagio come prima. Quel battibecco non era rancoroso come tutti i precedenti avuti ai nostri incontri iniziali. «E non capisco... cosa ci trovi così tanto da ridere... in tutto questo.»
«Penso che se' la prima ragazza che conosco che s'indigna in 'sto modo quando qualcuno prova a falle un complimento.»
«Se non sono complimenti veri... non vedo perché... esserne felice.»
«Chi t'ha detto che non so' veri?»
«Nessuno. Lo so e basta.»
«De coccio, vedi?»
Mi fermai per guardarlo stizzita, il suo ghigno si inerpicò ancora, andando a raddoppiare il mio rossore e quando se ne accorse, nonostante la mascherina e il cappello, dovette tossire per camuffare la risata, di conseguenza un altro fulmine di irritazione mi colpì. «N-Non è così divertente.»
«Mica stavo ridendo de te, ho pensato a 'na battuta.»
«Lasciami indovinare... la battuta aveva... una testa di coccio?»
«Incredibile, sai pure legge nel pensiero, ma manco questa la vedresti come 'na qualità, ve'?»
Ripresi a camminare a passo duro, lo sguardo fisso davanti a me, mentre sentivo ancora i suoi sghignazzi al mio fianco. «Ti considero... molto più stronzo... di quanto ti considerassi prima, adesso» borbottai.
«Perché me so permesso de fatte qualche complimento?»
«Perché stai ridendo di me» replicai.
«Guarda che ride di qualcuno non per forza è un insulto, eh. Pure i due flagelli te prendono sempre in giro, ma a loro mica glielo dici che so' stronzi.»
«Ti stai paragonando... a due dodicenni, non... ne sarei così fiera, al posto tuo.»
«Almeno ade' me rispondi senza più scusatte in continuazione.»
Avvampai di nuovo, rendendomi conto di quanto avesse ragione, ma dubitavo di poter considerare quello un progresso. «È colpa tua» farfugliai ormai disperata, incapace di comprendere cosa stavo provando.
«Merito mio, semmai.»
Un'altra occhiataccia da parte mia, un altro ghigno da parte sua.
Non concepivo più quello che stava accadendo tra di noi, non riuscivo a capirlo. Volevo davvero credere di star procedendo nella direzione giusta, ma la paura di cedere un'altra volta alla tentazione mi soffocava la gola. Ero contenta che non fosse più burbero come una volta, ma non comprendevo proprio cosa ci trovasse di così simpatico e divertente in quel battibecco, in me, visto che la mia faccia era un incendio vero e proprio e dovevo apparirgli come un pomodoro troppo maturo.
Era a causa di Herbie, ne ero certa. Da quando me l'aveva regalato, la parte più illusa di me continuava a sperare di poter in qualche modo fidarmi di quel ragazzo, visto come aveva ricordato quella mia passione, quando il resto del mondo me l'aveva insultata e devastata con un singolo gesto di vandalismo.
Se davvero non mi prendeva in giro con cattiveria... quale altro motivo aveva per farlo? Forse, dato che piacevo ai suoi fratelli, voleva provare a tollerarmi e a rendere più semplice il nostro rapporto così travagliato? Un modo per calmare le acque ed evitare di discutere costantemente con loro?
Ma era difficile a credersi, visto che per colpa mia veniva ingiustamente preso in giro da loro perché ossessionati invano con l'idea che mi andasse dietro. Al posto suo, anzi, sarei stata ancora più arrabbiata, di certo non mi sarei messa a fare battute.
«C'hai un bel caratterino» disse all'improvviso. «Quando non te fai prende dal panico e la timidezza.»
Arrossii ancora. «Se l'avessi davvero... non rideresti così.»
«T'ho detto che mica se ride sempre per insulta'.»
Puntai lo sguardo davanti a noi, fissando i gemelli lontani che non avevano smesso di sbavare davanti a quella teca di dolci. «Allora perché ridi?»
Silenzio da parte sua, per un bel po' di secondi. «Se te lo dico, non me credi.»
Quella risposta mi confuse. «Non puoi... già saperlo.»
«Oh no, lo so eccome» replicò sicuro. «E non solo non me crederesti, ma penseresti di nuovo che ti sto a insulta'.»
«Se lo penso... allora è perché lo stai facendo.»
«Penseresti la stessa cosa pure se qualcuno te dicesse grazie per aver salvato un bambino che stava ad affoga' in mare.»
Spalancai la bocca, oltraggiata, lui proseguì imperterrito: «Che me vuoi di' che non è così?»
«No!» risposi d'istinto. «Non mi conosci... così bene come credi. Direi... che era il mio dovere e non... non c'è bisogno di ringraziare.»
«Quindi mi vuoi di' che non crederesti che la gente penserebbe male de te?»
Ora mi spiegavo anche da chi i gemelli pestiferi avevano ereditato l'abilità di lanciare frecciatine. Mi fermai davanti a una bancarella di gioielli, stranamente non affollata, non tanto perché interessata ad essi, quanto per evitare di raggiungere Dory e Dorian proprio in quel momento, con la mia faccia che ormai stava per diventare cenere.
Scrutai una collana a casaccio, un girocollo di finte perle. «Questa conversazione... ha un senso?» domandai di nuovo, sentendomi ancora il suo sguardo addosso.
«Stavo a riprova' quanto detto prima.»
«E poi dici a me... che sono di coccio.»
«T'ho detto anche che io lo so' molto più de te.»
La cosa grave era che aveva senz'altro ragione, quella discussione ne era la prova palese.
Feci cadere lo sguardo su un paio di orecchini piccoli, a forma di stella, dorati. Un pensiero mi attraversò la mente: «Dory... ha i buchi alle orecchie, ma se n'è strappato uno del tutto, vero? Quello al lobo sinistro. Per questo... non indossa orecchini.»
Ci fu qualche secondo di silenzio. «L'hai visto?»
«Ha i capelli quasi sempre legati... quindi mi è capitato di notarlo.» Continuai a scrutare quel paio di gioielli. «Anche a... Betsy successe... una volta, quando avevamo... dodici anni. Si fece di nascosto... quei buchi da sola e così... finì per strapparsene uno perché non sapeva come trattarlo.» Mi ritrovai a ridere al ricordo. «Sua madre Joanne... quando lo scoprì... la mise in punizione per un mese intero e così Betsy, che era una tipa che si legava al dito ogni cosa... pochi anni dopo... per dispetto... si fece il piercing all'ombelico sempre da sola.»
«Famme indovina', si beccò l'infezione.»
Ridacchiai di nuovo. «Sì, fu tremendo, ma almeno... le servì da lezione. Per tutti gli altri piercing... andò sempre da chi di dovere.»
E io la prendevo in giro ogni volta, per quello, rinfacciandole il modo in cui mi accusava di avere cotte solo per personaggi pieni di piercing e tatuaggi, quando lei era uguale a loro. Di risposta, Betsy mi diceva sempre: «Sì, ma io non ho il loro carattere di merda! Sono fantastica! E soprattutto non sono una yandere.»
Il cuore si addensò di nostalgia e dolore, una patina d'umidità nata dalla sofferenza ne rivestì la carne.
«Tu non ne hai, immagino, considerata la tua fobia.»
«No» confermai. «Mi è difficile... accettare di venir toccata in quel modo... da uno sconosciuto, anche se indossa i guanti. Besty si propose di farmeli lei... ma dopo i risultati che aveva avuto con sé stessa... per ovvie ragioni rifiutai.»
Mi accorsi troppo tardi di quanto detto, nell'attimo stesso in cui lui domandò: «Quindi lei riuscivi a toccarla.»
Mi parve che il terriccio incolto delle strade fosse diventato melma pura. «Sì» sussurrai a fatica. «Ci riuscii... a sedici anni.»
Dopo papà.
Ma questo non avevo ancora il coraggio di confessarglielo, anche se già immaginavo lo sospettasse.
Lo sentii prendere fiato, forse per dirmi qualcosa, quando una voce alle nostre spalle, del tutto sconosciuta alle mie orecchie, ci interruppe.
«Dante?»
Mi sistemai meglio la mascherina e chinai ancor più in basso la visiera del cappello, prima di voltarmi a mia volta verso la proprietaria di quella voce.
La riconobbi in un istante.
Era stata nominata così tante volte dai due criminali incalliti e descritta così nel dettaglio sempre da loro che non ci impiegai neanche mezzo secondo per intuire chi fosse.
Vicky.
La famosissima cimice, la nemica giurata di Dory e Dorian.
E proprio come Dory e Dorian avevano detto, era il perfetto stereotipo di Barbie.
Non troppo alta come me e nemmeno troppo bassa. Lunghi capelli mossi che le arrivavano al petto, biondi e mossi, un visetto da bambola, occhi azzurri come non mai, labbra carnose, un nasino adorabile, sopracciglia curatissime, e un fisico proporzionato in tutto e per tutto, dotato di curve che non eccedevano né nella prosperità massima né nella piattezza assoluta.
Un paio di pantaloni aderenti, di finto camoscio, marroni le fasciavano le gambe snelle, una maglia altrettanto aderente era coordinata ad essi, di una sfumatura più intensa, simile al legno bruciato, dalle maniche lunghe.
Indossava quel tipo di trucco che dubitavi persino ci fosse, tant'era stato messo bene e in modo così privato da non sembrare neanche esistesse, e sorrideva con delicatezza a Dante, ancora al mio fianco.
Era davvero una bellezza stravolgente, così tanto che al solo scorgerla l'opinione già orrenda che avevo del mio aspetto sprofondò ancor più nel baratro dell'inferno. Specie nel confrontare il suo outfit con il mio: la solita felpa che mi andava larghissima e un paio di jeans che avevano visto decisamente giorni migliori.
In mezzo a tutta quella calca di persone che attraversavano la strada in una direzione o in un'altra, lei riluceva proprio, sembrava un diamante splendente.
E splendeva anche il suo sorriso, quello con cui ci si avvicinò, con gli occhi incollati a Dante. «Non sapevo fossi qui!» esclamò, con quella voce così delicata da assomigliare al suono di un pianoforte. «È raro vederti al mercato, non sei mai stato il tipo.»
Mi domandai come comportarmi. Dante non sembrava né felice né rattristato da quel rincontro, aveva l'espressione severa di sempre e guardava Vicky con indifferenza. Non ero certa di come interpretare ciò, visto e considerato che era la ragazza con cui si frequentava, anche se solo sessualmente.
«Avevo alcune commissioni da fare» replicò, il tono freddo non smorzò il sorriso di Vicky.
«Se me l'avessi detto, ti avrei accompagnato! Conosco tutte le bancarelle di qua!»
A prima vista appariva come una ragazza gentile e beneducata, ma non sapevo quanto fidarmi, visto quello che mi avevano detto sia i gemelli che Minnie in merito a lei. Inoltre, sembrava che mi stesse ignorando volutamente, come se neanche mi avesse vista, il che era evidentemente impossibile, vista e considerata la mia statura.
Iniziavo a sospettare il perché di quel suo comportamento nei miei confronti, e ciò non mi piaceva per niente.
«Non ce n'era bisogno» rispose ancora lui.
«Che fine avevi fatto? Ogni volta che ti scrivo, ormai, dici sempre che hai da fare.»
Forse era il caso che mi allontanassi, non mi sembrava opportuno stare lì ad ascoltare in modo così palese la conversazione, ma proprio non sapevo come dileguarmi senza che Dante se ne accorgesse.
«Perché ho da fare» confermò lui, sempre con quel suo tono freddo.
«Si tratta dei gemelli? Perché sai che potrei-»
«Non ti riguarda» la interruppe bruscamente, e il sorriso di Vicky oscillò. «Non abbiamo mai avuto quel tipo di rapporto da arrivare a tanto.»
Stavo davvero sentendo troppo. Quasi avrei voluto che Dory e Dorian si accorgessero di tutta quella situazione e mi portassero via, ma erano ancora incollati a quella maledetta bancarella di dolci, come un drogato a una dose gratuita di eroina, neanche si erano voltati a guardarci.
«È solo che...» proseguì imperterrita lei, «mi è sembrato strano, che tutto d'un tratto tu fossi sempre così impegnato da non scrivermi più.»
Quindi Dante aveva proprio interrotto i contatti con lei? Questo spiegava perché fosse così disperata nel parlargli in quel modo. Non sembrava che le avesse fatto ghosting, visto che aveva detto che le rispondeva ai messaggi, semplicemente si era allontanato e aveva smesso di frequentarla nel modo che conoscevano.
Strano, riflettei, ma non così tanto. Forse aveva trovato una ragazza che lo interessava di più, o forse semplicemente si era stufato di Vicky. C'era anche da dire che non stavano davvero insieme e non erano mai stati una coppia, quindi non aveva alcun dovere di darle qualche giustificazione.
Avrei quasi provato pena per Vicky, condannata a una cotta per un uomo che mai l'avrebbe ricambiata, ma dopo aver saputo il modo in cui aveva tentato di comprarsi i gemelli per ottenere il cuore di Dante, la mia compassione nei suoi confronti si era annullata del tutto.
Capitava spesso di perdere la testa per qualcuno che si frequentava solo sessualmente, d'altro canto, ma ciò non giustificava i continui tentativi di approfittarsi di due bambini di cui non le interessava niente nella realtà.
«Era quello che avevamo deciso sin dall'inizio: nessun impegno» replicò ancora Dante.
«Sì, ma-»
«Non vedo perché proseguire la conversazione, allora.»
Cielo, era davvero di ghiaccio adesso. Faticavo a immaginare come mai l'avesse frequentata, visto com'era duro con lei in quel momento. Supposi l'aspetto. Era una bella ragazza, non lo si poteva mettere in dubbio, proprio Barbie in tutto e per tutto.
Vicky, a sua difesa, non si lasciò abbattere da tutto ciò, ma decise purtroppo di cambiare strategia.
Posò i suoi occhi su di me.
E nonostante il sorriso aggraziato che mai aveva smesso di indossare, intuii subito che direzione avevano preso i suoi pensieri, mi bastò incrociare il suo sguardo.
Una ragazza al fianco di Dante, a fare la spesa con lui al mercato.
Dopo che lui aveva smesso di scriverle per incontrarsi.
«È un piacere» si presentò, senza allontanarsi da Dante, «io sono Victoria, puoi chiamarmi pure Vicky.»
La piega che stava prendendo quella situazione non mi piaceva per niente, soprattutto perché non avevo alcuna intenzione di rientrare nelle ire di una ragazza che neanche conoscevo per un motivo che non era neanche vero dell'1%.
«Oh, il piacere è mio.» Aggrottai la fronte, quando lo sguardo di Dante calamitò severo su di me.
Aveva paura che per colpa mia non avrebbe più potuto frequentare Vicky, nell'eventualità che cambiasse idea su di lei?
«Io sono... Ag-ostina.»
Lui inarcò un sopracciglio, avvampai. Non mi era venuto in mente nessun altro nome che avesse le due lettere iniziali uguali al mio, se non quello.
«Non ti ho mai vista da queste parti, e hai anche un curioso outfit, Agostina» commentò Vicky, squadrandomi dalla testa ai piedi. «Indossi persino i guanti.»
«Oh, è dovuto al fatto che...» Dovevo assolutamente sistemare quel fraintendimento. «Ho una brutta psoriasi.»
L'altro sopracciglio di Dante si inarcò.
Vicky mi guardò stupita.
«Già» confermai, grata per la mascherina. «Sono qui perché c'è un'ottima clinica specializzata per la sua cura.»
«E come conosci Dante?»
«Vicky, non ti-»
«Oh, io e lui siamo vecchi amici d'infanzia!»
Oddio, avevo commesso un errore? Dante mi stava dando fuoco con gli occhi, ma ormai avevo fatto esplodere quella bugia, non potevo più tirarmi indietro, soprattutto visto come Vicky mi stava guardando con quel sorriso di plastica. «Ci conoscevamo... quand'eravamo molto piccoli, siamo praticamente fratelli.»
Perché mi stava fulminando in quel modo? Lo stavo aiutando, santo cielo! Non avrebbe fatto certo una bella figura se Vicky avesse frainteso il nostro rapporto e avesse pensato che frequentava una come me.
Lei mi guardò sempre meno convinta, così gettai l'altra bomba: «La mia ragazza... fra poco sarà il suo compleanno, così ho chiesto a Dante di darmi una mano... per comprare il necessario... per il pranzo con cui festeggiarlo.»
Il sorriso di lei mi inquietava di secondo in secondo sempre di più.
«Che idea carina! Come si chiama la tua ragazza?»
«Oh, si chiama-»
«Non sono affari tuoi.»
Sobbalzammo insieme quando Dante parlò con quel tono di voce profondo e gelato. Vicky riprese a guardarlo, lui allora pronunciò da boia: «Una sola era la condizione: niente impegni e aspettative. Tu eri d'accordo. Questo è quanto.»
Vicky impallidì, perdendo la carnagione rosata che tanto le era naturale.
Tornò a fissarmi, saette al posto degli occhi. Trasalii.
«Andiamo.»
Non osai disobbedire, specie ora che sembrava più irritato che mai. Salutai Vicky con un cenno del capo e avanzai con lui a passo deciso verso la stradicciola, tornando a immergerci nel viavai di persone.
Un silenzio profondo riempì i nostri passi per troppi, troppi secondi.
Poi, d'improvviso: «La tua ragazza?»
Lo guardai confusa, aveva il viso dritto davanti a sé. «Oh... ho pensato...» balbettai, di nuovo rossa in viso, «che se avesse creduto che ero omosessuale... non avrebbe... mmm... frainteso.»
La sua fronte si aggrottò così tanto che mi ritrovai a preoccuparmene.
Silenzio per qualche altro secondo.
«Che t'importa che fraintenda?»
Sul serio me lo stava chiedendo? «Beh...» Mi sistemai di nuovo la mascherina. «Non mi piacerebbe per niente... se per... causa mia... tu non potessi più...» Mi bloccai alla ricerca del termine più adatto. «Frequentare chi vuoi.»
Adesso era accigliato quasi quanto Minnie. Mi stavo sul serio preoccupando.
«Hai sentito anche tu. Non ci frequentiamo più, io e lei, da parecchio.» Sembrava una vera e propria vipera.
«Sì, ma...» Proprio non capivo. «Magari un giorno vorrai... Mmm... rifrequentarla... e allora...»
«Non accadrà.»
Che freddezza spietata, santo cielo. Mi dispiaceva tantissimo per Vicky ora.
«Non... si sa mai nella vita... su queste cose...»
«E perciò tu hai deciso di trasformarti all'improvviso nella mia sorella lesbica e amica d'infanzia?»
Perché mi guardava così? Davvero, che avevo fatto di male? «Almeno così... non avrai problemi... con le altre» feci notare. «Meglio, no?»
L'ennesima saetta.
«Le altre?»
«Sì, le altre ragazze... con cui ti frequenterai in futuro» mi sembrava di star spiegando l'ovvio. «Se ti dovessero vedere con me... continuerebbero a fraintendere, quindi-»
«Non ho bisogno di nulla di tutto ciò.»
Sobbalzai di nuovo davanti al suo tono imperioso e l'irritazione che gli scavava la fronte.
Quale diavolo era il suo problema? Avrebbe dovuto esserne felice, e invece si stava alterando come non mai. Era perché gli aveva dato fastidio che fossi dovuta ricorrere a dei mezzi così infami? A delle scuse del genere? Avrebbe preferito che ne usassi altre?
«Non ho bisogno né di una sorella lesbica né di un'amica d'infanzia» specificò duro. «Di fratelli ne ho già abbastanza, quei due flagelli del demonio, e non voglio alcun aiuto.»
Oh, quindi si stava indignando perché il suo orgoglio da bad boy capace di conquistare qualsiasi ragazza era stato ferito con il mio tentativo di dargli una mano? Riteneva un'offesa al suo ego che io pensassi gli bastasse avere al proprio fianco una come me per non riuscire più ad avere partner con cui spassarsela?
«Non vole-»
«Caso. Chiuso.»
«Ma non voglio che per colpa mia, se in futuro tu trovassi una ragazza che-»
«Chiuso.»
Aprii la bocca per obiettare, ma venni fermata dalla voce di Dory alle mie spalle.
«Thaty, noi fonderemo una religione su de te.»
Sia io che Dante ci fermammo per voltarci indietro. Dory e Dorian erano con le lacrime agli occhi, i visetti arrossati a causa delle risate. Mi domandai da quanto tempo fossero alle nostre spalle. Erano dei veri e propri ninja.
«Il Thatianesimo» confermò Dorian.
«Colei che compì il miracolo» continuò Dory, l'aria tragica.
«Polverizzare per sempre due coglioni.»
Nota autrice:
Nel prossimo capitolo farò il riassunto dei punteggi ottenuti tra questo e quello.
Posso solo di' 'na cosa.
Dante, amico mio, ce ne avrai de lavoro da fare.
Da notare che Dante, in una sola botta è stato
FRIENDZONATO
BROTHERZONATO
ETEROZONATO
Nessun omo al mondo ha mai sofferto così.
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