Blasfemia(2/2)
Onora il padre e la madre.
La prima volta che avevo sentito quel comandamento, le avevo chiesto: «Che significa onorare qualcuno?»
Lei non mi aveva risposto subito.
Eravamo nel suo studio, la stanza che, da che ne avevo memoria, era il mio nido d'apprendimento. Spoglia e arida come il resto della nostra villetta, pareti bianche e terse come lenzuola appena lavate e stese ad asciugare, il sottile effluvio dell'incenso, una finestra a lato che faceva da quadro artistico, mostrando sull'orizzonte il paesaggio della nostra città: monti alti e imperiosi a susseguirsi in incastri così bizzarri che avresti pensato esser impossibili per la natura, eppur stavano, loro, divinamente, a mo' di sfottò e presa in giro, sfoggiavano il rosso castagno che impregnava le loro rocce con disinvoltura tale da farti credere che fossero proprio quelle rocce e non il sole a tingere il tramonto.
Erano i soli colori che conoscessi: là, irraggiungibili, alla finestra.
Perché nella nostra casa vigeva la sterilità, un'ode costante alla parsimonia, e anche quello studio non ne era esente; il solo nucleo gravitazionale in cui ogni cosa esisteva e respirava era il tavolino in legno dove ci sedevamo, io per studiare e lei per insegnarmi e addestrarmi.
Non più figlia e non più madre, noi, non più sangue derivato dal sangue, ma allieva e maestra, bambina e Signora.
Io amavo quei momenti, erano tra i miei preferiti.
Perché, anche se poche volte, riuscivo a incrociare il suo sguardo.
Quegli occhi verdi che mi precludeva di giorno in giorno, che rifuggivano dai miei uguali, che riuscivo a vedere bene solo alle mie spalle e dentro i contorni netti di uno specchio. Ma quando riflessi, non erano più occhi, non erano più sguardi, era giudizio divino e concreto, tessuto con zelo dalla sua voce, a porre domande sempre diligenti, attente a qualunque dettaglio, così da farmi ammettere ogni mia colpa.
Quando riflessi, non erano più occhi, non erano più sguardi, erano aratri che rivoltavano il terreno della mia innocenza per rivelare i primi semi e germogli dell'errore, e così nemmeno i miei erano più occhi, nemmeno i miei erano più sguardi, erano sorgenti irrefrenabili di pianti avidi e ingordi a un punto tale da farmi credere che il male del mondo intero si fosse incarnato in ciascuna mia lacrima.
E davanti a quel quesito, per la prima volta, l'avevo vista esitare. Una situazione che mi era ignota, perché la Signora sapeva sempre tutto, la Signora conosceva sempre tutto; ma la fronte le si era accartocciata, stavolta, un velo di dubbio le era calato sullo sguardo di solito cristallino, ed io avevo sentito il cuore agitarsi da ogni parte quando mi aveva guardata sul serio, quando avevo avuto il privilegio di poterla finalmente vedere ed esser vista.
Era bella, la mia mamma.
La creatura più bella che abbia mai scorto.
Una chioma bionda e pelle diafana, il fisico fruttuoso ma privo d'eccessi, che ad osservare avresti creduto essere una statua greca che aveva preso vita, sempre in un costante equilibrio che raggiungeva con l'austerità della sua anima integerrima. Labbra carnose e ciglia fitte e folte, un viso a cuore gentile, unghie rosate e vestiti sempre eleganti a fasciarle il corpo. Ma il suo fascino maggiore, per me, era la gola: alta e snella, una circonferenza perfetta, con due piccoli nei in fila proprio a metà strada. Da lontano avresti potuto confonderli per il morso di qualche insetto, e invece erano solo pigmenti naturali della sua carnagione.
Aveva schiuso la bocca, la bocca tremante, aveva sussurrato con gli occhi chini sul libro aperto sotto di sé: «Significa amarli e obbedire sempre alle loro regole.»
E io l'avevo amata.
E avevo obbedito.
Sempre.
Alle sue regole.
Alle sue punizioni.
Ma c'era sempre stato qualcosa di sbagliato, in ciò, lo sapevo, lo sentivo, lo avevo poi compreso appieno quando la Signora mi diede il permesso di guardare la televisione e vedere il mondo e i suoi colori non più sterili bensì vivaci e splendenti.
Mi ero chiesta varie volte, troppe volte: "Perché anche noi non possiamo esser così?"
La sua risposta era la stessa.
"Perché infettiamo, io e te."
Ma si sbagliava.
Si sbagliava.
Adesso lo capivo sul serio.
Non era che infettavamo, noi due.
Era che non sapevamo come amare in modo sincero.
Nessuno mai ce l'aveva insegnato.
Adesso, però, bastava.
Basta così.
Non l'avrei mai compresa, non mia madre e non la Signora.
Non volevo più farlo.
La sala incontri non aveva alcun tipo di particolarità, quel giorno, se non il fatto che, a parte noi due, non c'era nessun altro.
Ciò non era chissà quanto sorprendente, eravamo ancora in periodo di festa, gran parte di coloro che andavano a far visita ai detenuti doveva essere fuori città o troppo impegnato per poter presentarsi lì, io ero stata l'unica, quel giorno, a non mancare all'appuntamento.
C'era però un elemento diverso rispetto a tutti i nostri precedenti incontri, un elemento di dubbia natura, incuneato negli anfratti più tetri della mia anima, il solo perno fisso e stabile di essa.
Prima, ero avvezza a sentirla in me con la sensazione di aver dentro un ammasso confuso di particelle che continuavano a disperdersi nel corpo e a slegarsi tra di loro, perdendo la loro forma d'origine nell'insieme, come un ciclone di coriandoli; adesso che quell'elemento ignoto s'era aggiunto, invece, aveva prevaricato su tutto. Si era insidiato a tal punto da scavare e superare i vari strati di carne, muscoli, ossa, nervi, sentimenti e rimpianti, li aveva aperti uno dopo l'altro per raggiungere la mia genesi e lì ergersi a chiodo fisso e inamovibile con cui portare la stabilità ineluttabile.
Era l'occhio del ciclone, da cui tutto nasceva e in cui tutto moriva, per quanto gli altri pezzi di me provassero a scappar da lui, sempre ritornavano al suo cospetto, poiché lui era il solo che poteva tenerli in vita.
Era bizzarro e inconcepibile soprattutto perché, pur nuovo, percepivo tale occhio come un vecchio amico per cui esser grata. Nell'averlo dentro, a impedire all'anima di sfaldarsi e perdere forma, non mi sentivo a disagio né reputavo innaturale quella situazione, ed era proprio ciò che la rendeva la più innaturale di tutte.
Guardavo mio padre, quel padre che avevo amato e amavo con ogni mia essenza, con ogni coriandolo che s'incarnava nella mia anima, e non appena il ciclone provava a trascinarmi via nel suo odio bestiale, l'occhio mi conduceva a sé, dentro di sé, nella zona isolata e protetta, così che potessi finalmente avere una visione completa di ogni cosa, della devastazione che mi portavo addosso e quella che vestiva i panni di Lawrence Reid.
Era seduto come al solito davanti a me, come al solito le mani erano ammanettate al tavolino, come al solito aveva perso peso, il viso si era riempito di nuove rughe e i suoi occhi caffè mi guardavano in un silenzio che poteva significare qualsiasi cosa.
Mi chiamò: «Bambina.»
Risentire la sua voce dopo quanto scoperto fu una forma di rabbia unica, che attecchì ancor più all'occhio fortificandone la stabilità. Curioso, ma la mia ira si faceva sempre maggiore nei sentimenti e sempre più quieta nelle percezioni.
«Oggi non indossi i guanti» commentò, «è successo qualcosa?»
Fu allora che ricordai.
Era vero, non indossavo i miei guanti.
Le mie mani nude erano riposte una sopra l'altra, a coprirsi a vicenda, i palmi sul tavolo, e quando le sollevai appena, ricordai quanto vi era stato scritto al loro interno.
Le girai così da vederlo. Le parole si erano già sbiadite in parte a causa del sudore e dei vari movimenti che avevo fatto, ma il pennarello nero era stato abbastanza incisivo da permettermi di leggerle ancora.
"Che grande! Che donna! Una vera donna!"
"E soprattutto sono ricca e con quattro coglioni!"
Fu sufficiente.
Fu l'ultima spinta di cui ebbi bisogno per poter smettere di desiderare di buttarmi nel ciclone e perder per sempre la serenità dentro l'occhio.
Inspirai a fondo, voltai il capo verso l'unica finestra della stanza. Piccola, quadrata, con solo il paesaggio delle alte recinzioni del carcere a farle da sfondo, ma mai mi era sembrata così bella la libertà, quando la scorsi là fuori.
Pensai quasi ingenua: "È ora."
"Se non lo faccio adesso, non lo farò mai più."
«Parlerò io, oggi» affermai decisa. «E tu ascolterai soltanto.»
Non ci fu risposta e già questa fu una risposta.
«Papà, io ho un segreto.»
Lo dissi a voce bassa, ma sicura. Le lettere si creavano nella mia testa con una spontaneità terrificante, quasi fossero sempre state lì, attaccate alle pareti interne del cranio, a disperarsi e urlare, e per tirarle fuori avessi dovuto usare lo scalpello, e ora i luoghi in cui erano stati incarcerate presentavano vuoti incolmabili e sanguinanti, eppure erano quel sangue e quei vuoti a garantirmi che quanto stavo per fare, quanto stavo per affermare, era la scelta corretta.
«Ho sempre avuto un segreto.»
Stavo continuando a guardare la finestra, la luce del primo mattino, pallida e bianca, che bagnava lene la sterilità della sala, così simile a quella della mia prima casa.
«Un segreto che non ho mai rivelato a nessuno, perché farlo significherebbe peccare di blasfemia e andare contro a Dio in persona.»
Sorrisi.
Sorrisi come facevo tutte le volte che pensavo a lei.
Ruth Carter.
Mia madre.
«E chi meglio di un mostro come te può diventare complice del mio peccato?»
«Agatha?»
Riposai le mani sul tavolino, continuai a guardare la finestra.
«Lei ti parlò mai di come morirono i suoi genitori?»
Ci fu silenzio dall'altra parte per parecchi secondi. «No.»
«Sono morti insieme» spiegai pacata. «Lei era fuori casa, quando accadde, la polizia fu contattata per via dell'odore di gas che proveniva dalla loro villa, li trovarono sul letto, stesi insieme, con le mani intrecciate.» Sbattei le palpebre per qualche secondo. «L'autopsia stabilì che nonna Wendy era morta sul letto per via di un infarto fulminante, nonno Ludwig la trovò già così, di ritorno dopo aver fatto la spesa, e accese il gas proprio per quel motivo: per morire con lei. Era il solo con la bocca spalancata nel tentativo di respirare.»
Non rispose, ancora non lo guardai.
Proseguii.
«Vero amore, non pensi?» commentai laconica. «Così, almeno, dissero i giornali locali. Così diceva sempre lei. Li chiamava i nuovi Romeo e Giulietta.» Chiusi gli occhi, li riaprii, la luce era accecante, ora, così tanto che faticavo a guardarla. «Ma poi, una volta, di nascosto, andai nella cantina di casa, trovai il diario di nonna Wendy e lo lessi tutto.» Un altro sorriso. «Sono sicura che anche lei lo avesse letto, ma si rifiutava di ammetterlo. Sai cosa c'era scritto, in quel diario, papà?»
Silenzio.
«C'era scritto che nonno Ludwig non aveva mai amato nonna Wendy» dichiarai serena. «L'aveva sposata per pietà, perché lei era rimasta povera e orfana dopo la guerra, e perché la gente non riteneva affidabile un pastore celibe alla sua età. L'aveva incontrata in un sanatorio durante un'epidemia di tifo. Lei, al contrario, si era innamorata subito di lui, bello e affascinante com'era, e per questo aveva fatto di tutto e di più affinché il suo amore venisse ricambiato.» Mi bloccai per un secondo. «Ma non ci riuscì mai.»
La luce si stava facendo davvero troppo accecante, ma mi rifiutavo di distogliere lo sguardo da essa.
«Nonna Wendy riuscì ad avere una sola figlia, Ruth Carter» spiegai. «La chiamarono così in onore a Rut del Libro di Rut. È una figura femminile del cristianesimo ed ebraismo molto importante, un'antenata di Re Davide e simbolo assoluto di gentilezza e altruismo. Fu nonno Ludwig a scegliere il suo nome, la sola cosa buona che fece per lei.»
«Agatha.»
«Perché per il resto, né lui né sua moglie la amarono» dichiarai. «Dopo la sua nascita, provarono in ogni modo ad avere altri figli, ma non ci riuscirono, e visto quanto lei era diversa fisicamente dal padre, la gente iniziò a sospettare che non fosse davvero sua figlia, incluso nonno Ludwig.» Sorrisi di più. «All'epoca non esisteva il test del DNA o di paternità, perciò non c'era modo di provare la loro consanguineità. In risposta a ciò, nonno Ludwig cominciò a picchiare sia figlia che moglie, e secondo te, con chi se la prese nonna Wendy, per quella natura violenta del marito?»
Un inspiro violento. Il mio.
«La chiamava "infetta"» dichiarai. «Diceva che doveva essere stata contaminata dal male, dal diavolo in persona, quand'era nel suo grembo, per questo non riusciva più ad avere altri figli, dopo di lei: perché lei le aveva infettato l'utero. Il suo diario era pieno di quegli insulti. Diceva che il solo modo per riuscire a espiarla era farla diventare devota a Dio così che la purificasse, che era la sua missione riuscirci, e per questo la portava sempre allo specchio del salotto, dove la costringeva a confessare tutti i suoi peccati. Quando nonno Ludwig le picchiava, a volte con vere e proprie fruste, dava sempre la colpa a lei, diceva che era la figlia la causa di tutto, perché nata infetta. D'altronde, il compito della moglie è sottomettersi al marito e il compito del figlio è onorare padre e madre. Così affermava, nel suo diario, nonna Wendy. E ogni volta che scriveva delle torture che subiva assieme alla figlia e quelle che lei stessa perpetrava alla figlia, scriveva anche che erano necessarie, perché erano solo frutto del loro amore.»
Socchiusi appena gli occhi, la luce era troppa, troppa, ma continuavo imperterrita a guardarla.
«Il mio giorno preferito era domenica» dissi, e dirlo fece ululare il ciclone come un vero animale, ma nel suo occhio ero al sicuro, protetta, persino al caldo, «perché la mattina andavamo a messa e lei mi prendeva per mano, lei mi permetteva di toccarla. Attendevo con ansia quel giorno, per tutta la settimana, non vedevo l'ora, speravo sempre che il tragitto da casa al maggiolino fosse il più lento possibile, perché così potevo stringerle la mano più a lungo. A lei non piaceva, odiava toccarmi, lo odiava così tanto che lo capivo solo guardandola, ma io ero così felice di poterlo finalmente fare che non m'interessava, volevo stringerle la mano anche solo per un minuto, mi bastava quello, mi bastava quel minuto per essere felice per tutto il viaggio in macchina e durante il corso dell'intera funzione.»
Mi parve di poterlo risentire in quel momento, il tocco caldo della sua mano, carne e dita morbide, unghie rosate, un palmo pallido rivolto verso di me.
«Una volta mi hai chiesto se io le volessi bene e io ti ho risposto che l'amavo tantissimo» proseguii. «Non ti ho mentito. Avrei voluto fosse una bugia, vorrei ancora che lo fosse, ma non lo era, era la verità, ma non era tutta la verità.»
I suoi capelli biondi ed occhi verdi, le sue labbra carnose, il fisico statuario, quel portamento con cui camminava sicura, tale che ero certa mai fosse stata colta da un dubbio in tutta la sua vita, quasi ogni sicurezza e determinazione al mondo fluissero nelle sue vene. Sempre l'avevo guardata, io, sempre l'avevo amata, lei e le sue punizioni, lei e le sue carezze mai ricevute, quella complessità che le incrinava lo sguardo quando lo incrociavo nel riflesso dello specchio in salotto.
«Io la amavo tantissimo» confessai, fu una ferita già aperta che aprii ancor più, la spalancai proprio, e dalla sua bocca di carne squarciata non sgorgò sangue, no, sgorgò putridume e sporcizia, abominevole vergogna, ed io mi sentii decontaminata, finalmente, dopo secoli passati ad essere corrotta da quell'immondizia. «Ma più gli anni passavano, più la odiavo altrettanto.»
Come i bouquet che tanto adorava, di cui ripudiava il declino e decadimento inevitabile.
«Volevo mi toccasse, ma si rifiutava anche solo di sfiorarmi. Volevo che mi desse il bacio della buonanotte, e invece mi chiudeva in camera al buio senza darmi possibilità di dirle anche solo "Sogni d'oro, mamma". Volevo che mi ascoltasse, quando le dicevo qualcosa, ma lei detestava il suono della mia voce. Detestava tutto di me a un punto tale che si rifiutava persino di incrociare i miei occhi. Non c'era mai una cosa giusta che riuscissi a fare. Qualunque scelta prendessi, qualunque mossa facessi, qualunque parola dicessi, era sempre e comunque sbagliata. Ripeteva su di me le stesse punizioni che aveva subìto lei, con la sola differenza che non mi toccava mai. Non usava la frusta, non usava i pugni, non usava i calci, mi faceva però stare in piedi per ore a pregare e mi costringeva a dormire così, se necessario. Non mi picchiava, ma mi impediva di mangiare troppo o troppo poco, e se sbagliavo nella quantità anche solo di poco, rimanevo senz'acqua per una giornata intera. Non mi urlava in faccia, ma se provavo ad uscire dalla mia stanza senza il suo consenso, non sarei più potuto uscire da essa per i prossimi cinque giorni. E sai perché, papà? Sai perché era così? Perché anche io ero infetta, proprio come lei. Perché se fossi stata giusta, lei sarebbe stata espiata dai suoi peccati, non sarebbe più stata un errore, avrebbe compiuto la sua missione: trovare un uomo capace di amarla come i suoi genitori si erano amati, disposto a morire per lei. E invece, per colpa mia, perché non ero stata abbastanza, tu l'avevi abbandonata ed ora era ridicolizzata da tutta la comunità. Avevo preso tutto da lei, la sua infezione, e niente da te, la perfezione, e così avevo rovinato ogni cosa: il progetto di Dio.»
Mi pizzicarono gli occhi, non ero certa se per il dolore o la collera.
«Io la amavo» sussurrai. «La amavo così tanto che obbedivo a tutto quello che mi diceva, che la studiavo tutto il tempo per cercare qualunque dettaglio con cui renderla felice, era stata lei a insegnarmelo, senza volerlo. Si accorgeva di tutto, non potevo nasconderle niente, le bastava un solo dettaglio e subito mi scopriva, pensai che, se avessi fatto la stessa cosa a fin di bene, l'avrei resa felice per una volta, ma sbagliavo anche così. Quando ci provavo, mi diceva che stavo peccando di vanità, mi ordinava di ritornare coi piedi per terra e di non dimenticare mai di essere umile. Diceva "Solo Dio può perdonare davvero, Agatha" e così mi portava davanti allo stesso specchio a cui lei era stata portata per tutta la sua vita da sua madre, a farmi confessare proprio come sua madre aveva fatto fare a lei. Diceva che eravamo così infette, noi due, da non poter nemmeno realizzare delle vere preghiere, ma solo desideri. "Ma non dimenticare mai, Agatha" affermava poi, "che un desiderio ha sempre un prezzo da pagare, non viene esaudito per carità per infette come noi, quindi non cedere alla tentazione di esprimerne uno, perché te ne pentiresti per il resto della tua vita".»
Tornai a guardare le mie mani, le rivoltai per scorgere di nuovo le scritte che Dory e Dorian mi avevano lasciato.
Sorrisi.
«Quando ho compiuto otto anni» dissi, riprendendo a scrutare la luce alla finestra, «commisi l'errore di provare ad andare nella sua stanza, di notte, per poter dormire con lei.» La fronte mi si accartocciò da sola. «Lei si adirò come non mai, perché avevo provato ad abbracciarla mentre riposava. Da quel giorno, aggiunse una nuova regola alle altre. D'ora in poi, quando non ero in camera mia, avrei dovuto esser sempre sorvegliata e portata in giro da lei con una corda di canapa legata alla mia vita. Come un cane a passeggio.»
Un inspiro violento. Il suo.
«Non so dire perché» commentai, «ma quella punizione fu la goccia che fece traboccare il vaso. Ogni volta che mi trascinava per la casa con quella corda, insieme all'amore che provavo per lei iniziò ad arrivare un odio profondo e primitivo. Ogni volta che mi faceva andare a quel maledetto specchio per confessare i miei peccati e scorgevo i suoi occhi nel riflesso, il mio odio aumentava così tanto che, a un certo punto, ho iniziato a immaginare scenari in cui lei soffriva atrocemente prima e poi moriva ancor più atrocemente.»
Le mani iniziarono a tremare, le chiusi in due pugni per impedirglielo.
Dovevo riuscirci, dovevo farcela, dovevo sbagliare, stavolta per il mio bene.
«Ho mentito» dichiarai. «Ho mentito, quando ho detto che dell'incidente non ricordo nulla. Ho una memoria dell'incidente, una sola, ma è sufficiente, perché è la prova assoluta di quanto la amassi e la odiassi.»
Aprii le labbra, presi un respiro profondo.
«Mi sono risvegliata, non capivo niente, ma l'ho vista, accanto a me, sul sedile del guidatore» ammisi. «Era completamente devastata, perdeva sangue da tutte le parti, aveva la testa schiacciata sul volante e gli occhi aperti rivolti su di me. Stava piangendo e delirando, soffriva così tanto che nemmeno riusciva ad urlare. Mi ha guardata, mi ha guardata dritta negli occhi, papà, per la prima volta mi ha guardata senza che ci fosse lo specchio a farci da intermediatore.»
Sorrisi ancor più.
«E sai cos'ho fatto io, quando l'ho vista in quelle condizioni?»
Scoppiai a ridere, con le lacrime a piovermi dagli occhi.
«Le ho riso in faccia» dissi. «Ho riso così tanto e così a lungo che la gola ha iniziato a farmi male. Le ho urlato contro: "Ehi, mamma, la vuoi sapere la verità?"» esclamai, con la stessa felicità di quel giorno, lo stesso entusiasmo di allora, a sollevarmi gli angoli della bocca. «"Ho espresso un desiderio a Dio, mamma! Gli ho chiesto di farti soffrire e poi ucciderti per sempre, così smetterai di odiarmi! E guarda, ora stai morendo sul serio! Sono così contenta, mamma! Finalmente non mi odierai più! Sono libera!"»
E lei era lì, in quella finestra, era lì, in quello scorcio di libertà, gli occhi verdi spalancati dal terrore, la paura a farle tremare le labbra così come tremavano a me in quel momento, il sangue a imbrattarle i capelli fino a far sparire il loro biondo naturale, l'orrore a tingerle il viso con la ferocia del mio entusiasmo in cuore, talmente intenso da produrre in me ansiti che cercavano di scerpare la carne che li intrappolava.
«Sai cosa mi ha risposto, lei, davanti alla mia gioia di vederla morire?» sussurrai con un filo di voce, le lacrime cadevano così copiose e celeri dagli occhi da ripulirmi, mi parve di vedere per la prima volta dopo anni passati nell'oblio della cecità. «Mi ha chiesto scusa, papà» gracchiai. «Mi ha chiesto scusa, mi ha detto...» Dovetti fermarmi per un minuto intero, per impedire al pianto di esplodermi in voce come stava facendo dalle ciglia. «Mi ha detto... che tutto quello che mi aveva fatto... non l'aveva fatto perché mi odiava, ma perché mi amava.»
Mi fermai, sentii solo il suono invisibile del suo respiro profondo e del mio, l'aria mi cadeva nei polmoni fino a farli soffrire, come se non fosse mai stata destinata a loro.
«Quando mi sono risvegliata in ospedale, con te al mio fianco, la prima cosa che ho fatto è stato chiedervi cos'era successo alla mamma, te lo ricordi?» chiesi. «Dalla vostra spiegazione, capii tutto e scoppiai a piangere, ma non lo feci solo per il dolore. Lo feci perché ero felice, felicissima. Così tanto che soffrivo, perché lei mi aveva detto per la prima volta che mi amava, ma io non riuscivo ad essere solo triste di averla uccisa, continuavo a godere, dentro, nel sapere che se n'era andata e che aveva sofferto atrocemente nel farlo per merito mio, proprio come avevo chiesto a Dio.»
Con lentezza mossi il capo, lo portai meccanico su di lui, nei suoi occhi dal color caffè, adesso dilaniati da una consapevolezza che non mi era mai capitato di leggergli in viso, identica alla mia.
Padre e figlia fino alla fine, noi due. Sangue del suo sangue, io, male del mio male, lui, ma no, c'era dell'altro, c'era molto più di tutto questo. C'erano fili intrecciati tra di loro in maniera bestiale e feroce, corde di canapa e nastri a infiocchettar cuori e polsi, anime corrotte dal più straziante degli orrori: essere il frutto di un'infinita catena del male, così antica da non saperne distinguere la genesi, eppure noi due non eravamo che la dimostrazione della sua esistenza e presenza.
In quella serie di peccati che ci scorreva dentro, che plasmava ciascun nostro respiro, che ci aveva legati tanto a fondo da non poter più distinguerci, s'impersonificava la sfumatura più abietta dell'essere umano, lo scheletro del male: la sua mostruosità.
Sorrisi.
«È questo quello che tu hai provato, quando mi hai portato via Betsy, non è così?»
La ragnatela di rughe che gli raggrinziva il viso s'increspò tutta insieme, rimpolpandogli il volto fino a farne lottare la carne per uscire al di fuori di sé stessa, soffocandogli gli occhi dilaniati dalla realizzazione che ora sapevo, sapevo tutto.
«Eri felice» pronunciai con voce serena, nel diluvio del mio pianto, «mi vedevi ammattire ogni giorno di più, dilaniata dal dolore, ed eri sempre più felice. Al tempo stesso, però, continuavi a disperarti, giusto? Ti straziava dentro vedermi così, ti faceva stare da schifo realizzare quanto stessi soffrendo e marcendo per colpa tua, e tu non capivi, proprio non capivi perché ti sentissi così.» Un'altra risata mi squarciò la gola, rimbalzò nella sala vuota con sadismo. Fu il rimbombo della grandine contro il vetro. Per la prima volta da che ero nata, mio padre trasalì. «Per questo motivo, mi odiavi ancora di più, pensavi che fossi io la ragione del tuo malessere, proprio come lei. Non sapevi spiegarti il motivo per cui stavi male fino a tal punto e così ti sei adirato ancor più con me, mi hai resa la causa di ogni cosa. Per questo hai scelto mia sorella Betsy, vero, papà?»
Non mi mentì.
Non ce ne sarebbe mai più stato bisogno. Entrambi i nostri segreti ora erano stati rivelati, sacrificati all'altare della verità, niente avrebbe potuto nasconderli come un tempo. Avevamo perso le nostre maschere di persone comuni a tutti e adesso ci guardavamo per quel che eravamo sul serio, nella nostra natura, occhi da mostro ed esseri umani, i miei, occhi da vittima e carnefice, i suoi.
Mi fissò dritto in faccia con ogni risposta a scavare più a fondo le sue rughe di sofferenza. Tremò, mio padre, al mio cospetto. Nessuno mi avrebbe mai creduto, se io gli avessi rivelato che Lawrence Reid, il mostro spietato che aveva ucciso così tante vittime in così tanti modi cruenti e bestiali, si era trovato a rabbrividire e rimpicciolirsi al cospetto della sua stessa figlia. Nessuno mi avrebbe mai creduto, se io gli avessi rivelato Lawrence Reid, il pluriomicida più odiato dell'ultimo secolo, temeva non la morte né l'inferno, non l'esecuzione prossima che lo attendeva né l'odio del mondo intero, bensì esser stato capito e compreso dal frutto del suo seme, esser stato visto com'era davvero, stupido e ignorante nei sentimenti, dalla bambina che aveva cresciuto e trasformato in donna.
Le risate che esplosero dalle mie labbra imbrattate di lacrime nacquero dal cuore e in onde concentriche che travolsero sia me che lui echeggiarono nel silenzio della sua risposta.
«Il mondo ti sopravvaluta davvero, papà» commentai. «Genio del male? Genio del crimine? Genio della malvagità? Stronzate, gigantesche stronzate. Non sei un genio, non sei una mente superiore alle altre, sei solo un pazzo, folle, psicopatico, così idiota da non capire nemmeno che il motivo per cui non potevi e non volevi uccidermi era perché mi vuoi bene. Idiota quanto lei che mi ha torturata per tutta la vita convinta di farlo perché mi amava.»
Lawrence Reid, davanti a me, non divenne nient'altro che il fantasma di sé stesso, dell'uomo che aveva finto di essere da che era venuto al mondo, si rivelò per ciò che sempre era stato: un composto di tremiti e singulti, di dolori feroci che gli otturavano la gola, di respiri folli che provavano ad essere accolti dai polmoni ma questi, bucati, li rifiutavano sempre, facendoli disperdere invano nel corpo, rendendoli inutili come lui.
La bocca mi si distorceva da sola, rovinata dai singhiozzi muti a cui mi rifiutavo di dar voce, le gote soffrivano perenni perché le violavo pur di mantenerle rilassate.
«Il giorno in cui la polizia mi ha portata alla centrale e mi ha mostrato le foto di quello che hai compiuto, il cranio di Betsy, il mio primo pensiero è stato che quello era il prezzo da pagare per il desiderio che Dio aveva esaudito per me» dissi. «Ma se è così, se davvero è questo il modo in cui devo scontare il mio debito, allora sai che c'è, papà? Andatevene a fanculo: tu, la mamma e Dio. Io me ne tiro fuori, non ho alcuna intenzione di continuare questo schifo di vita che tu e lei mi avete costretto a sopportare, sono stanca di sentirmi uguale a voi. Non me ne frega più un cazzo di ciò che vi ha reso così, non me ne frega più un cazzo dei motivi per cui siete diventati quello che siete. Avete preso le vostre decisioni, diventare dei mostri, e queste sono le conseguenze. Forse lei aveva ragione: eravate proprio anime gemelle, per quanto pazzi siete. Perciò, quando ti ammazzeranno, papà, e tu la incontrerai all'inferno, fammi un favore, salutala da parte mia e dille: "Agatha non si pente di niente, nemmeno di averti fatta crepare."»
Sbatté le palpebre, continuò a guardarmi negli occhi, un tumulto di ombre e luci si susseguirono in quelle iridi nocciola, indistinguibili, ma non m'interessava tradurle per provare a capirlo.
«Non ti verrò più a trovare» dichiarai. «Dalla prossima settimana, quando non mi presenterò più qui, non chiamarmi, non osare anche solo pensare di contattarmi in qualche modo. Sarò io a decidere quando o se rincontrarti per sapere altro o se lasciarti marcire qua fino al 5 agosto. Nel mentre, straziati per lo schifo d'uomo che sei e lo schifo di padre che sei stato per me, rovinati nel senso di colpa – sempre che un essere come te ne sia capace, chiaro – e distruggiti con la consapevolezza che mai, mai più, tu verrai amato da me come prima.»
Mi sollevai in piedi con meccanicità, lo scricchiolio della sedia in metallo sul pavimento fu simile allo squittio di una bestiolina ferita. Papà continuò a fissarmi cheto, senza pronunciare una sola sillaba, con la coda dell'occhio, scorsi la porta della sala aprirsi e la guardia carcerare iniziare a fare il suo ingresso.
Sovvenne alla mente il ricordo di mia sorella, il suo sorriso birbante, a sovrapporsi alla foto di quel cranio, di quei due occhi vuoti e denti scoperti, un'ossatura rovinata.
«Agente» pronunciai, la mia voce fu così tetra che udii i passi della guardia bloccarsi. «Sto per dare uno schiaffo in faccia a mio padre, la prego di non fermarmi, perché le garantisco che non andrò oltre a questo.»
Non ebbe modo di rispondere, l'agente, né mio padre di reagire alla mia affermazione: un suono deciso detonò nella sala vuota, un fuoco d'artificio d'ira, il rumore del mio palmo che si scontrava contro la carne rovinata e raggrinzita della guancia destra di Lawrence Reid.
Non lo guardai più, lasciai ricadere la mano sul fianco, sollevai il capo verso la guardia che si era fermata, a fissarci attonita, sollevai gli angoli delle labbra. «Ho finito, possiamo andare» dichiarai con tranquillità, per poi iniziare a incamminarmi verso di lei, verso l'uscita, verso la mia libertà.
Il primo anello che si rompeva in quella lunga, terrificante, catena.
«Agatha.»
Mi bloccai, proprio quando la guardia posò le dita sulla maniglia della porta metallica.
«Lei lo sapeva, l'aveva capito subito, il perché l'avevo scelta.»
Inspirai a fondo.
«Fu la prima cosa che mi disse: "Non ci riuscirai, non la spezzerai come speri, è più forte di tutti noi messi assieme."»
"Agatha, quante volte te lo devo ripetere?"
«Lo so» bisbigliai, mentre l'uscio si schiudeva.
«Lei non sarebbe mai stata amica di una persona debole.»
E me ne andai.
La corda di canapa... finalmente era stata tagliata.
Avevo appena compiuto la più grande blasfemia.
Ma mai più mi sarei sentita come quel giorno:
Viva.
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