Betsy George

Nota autrice pt. 1

So cosa me volete di', bastardi.

"Simo, 'sto capitolo non è un capitolo, è un rotolone regina che non finisce mai come la tua depressione!"

C'avete ragione, è lunghissimo, ma volete sapere perché non l'ho diviso?

L'HO FATTO PE' VOI, MUFFINS!

Perché la prima metà di questo capitolo indovinate cos'è?

Esatto.

TRAUMA.

E dato che so tipo tre capitoli de seguito che stemo a parlà de TRAUMI dovevo compensare in qualche maniera per non mandarmi/vi al CSM tutti insieme appassionatamente, no?

E soprattutto per evitarmi di ricevere nei prossimi mesi denunce sporte contro di me da parte vostra per tutti i danni morali/psicologici/psichiatrici che vi ho provocato.

Perciò l'ho unito all'altra metà, la seconda, che invece di TRAUMI è risate.

Risate forti.

L'HO FATTO PE' VOI, CREDETEMI!

Bene, ora me taccio che se no altro che rotolone regina, infinito come la mi passione per la caponata di mia nonna diventa 'sto capitolo!

Sciau!





Si chiamava Betsy George.

Ventitré anni. Figlia unica di Joanne e Lucas George. Scomparsa il 6 dicembre alle sette del mattino, dopo che era andata a correre come faceva sin da adolescente, un giorno sì e un giorno no.

L'ultima a vederla fu proprio sua madre, che l'aveva salutata da dietro il bancone del loro bar di famiglia dove avevano fatto colazione insieme, mentre la figlia se ne andava uscendo dalla porta d'ingresso del locale.

Dopo non si seppe più nulla di lei, era come se si fosse letteralmente smaterializzata.

La polizia setacciò tutti i vari percorsi che era solita fare quando andava a correre, affidandosi ad ogni genere di strumento, inclusi i cani molecolari, non ne tralasciò neanche uno, ma non trovò niente, nulla di nulla, neanche la più piccola prova che fosse passata da quelle parti.

Prese persino in considerazione la possibilità che Betsy fosse scappata di casa per farsi una nuova vita, ma non c'erano indizi che lasciassero intendere ciò: aveva un rapporto meraviglioso sia con la madre che col padre, amava la città in cui era nata e cresciuta, Mirefield, con tutta sé stessa, era single, adorava lavorare nel bar di famiglia, aveva persino progettato di dare una festa quel weekend, proprio in casa sua, per festeggiare con tutti i suoi amici il nuovo trilocale in cui si era appena trasferita. Il giorno prima avevamo fatto insieme la spesa necessaria per quell'evento.

Non aveva portato con sé neanche il suo cellulare. Non lo faceva mai, in realtà. Diceva che quando andava a correre voleva godersi quel momento senza alcun tipo di distrazione: l'aria che inspirava, il rumore dei suoi passi, il dolore ai muscoli affaticati, il sudore, i paesaggi e le persone che incontrava, si rifiutava categoricamente anche solo di ascoltare la musica. Al momento della partenza, aveva solo la bottiglietta d'acqua nel marsupio legato alla sua vita.

E dai tabulati telefonici e i suoi messaggi non era risultato niente: nessun problema, nessuna litigata, nessun'incongruenza.

Non aveva relazioni tossiche alle spalle: la sua ex storica, Melanie Baker, con cui era stata dai suoi diciotto anni fino ai ventuno e con cui si era lasciata in totale amicizia e serenità, neanche abitava più lì da due anni. Si era trasferita a Boston per lavoro e mai si era spostata da quella città negli ultimi mesi. Era proprio per quel motivo se si erano lasciate, perché Betsy non se l'era sentita di seguirla, di separarsi dai genitori e la sua vita a Mirefield. A riprova del fatto che mai se ne sarebbe andata via di sua spontanea volontà.

La sua omosessualità fu un'altra pista che la polizia vagliò con cura: avevano pensato che forse la sua scomparsa fosse dovuta a qualche omofobo che in segreto l'aveva sempre odiata, essendosi lei dichiarata lesbica da che era una ragazzina, fregandosene dei giudizi e le critiche altrui, ma fu solo un altro buco nell'acqua.

Aveva i suoi nemici per questo, sì, ma non così violenti da poterle o volerle fare qualcosa.

Betsy aveva avuto la fortuna di avere sempre accanto a sé persone che non avevano esitato un istante ad accettare il suo orientamento sessuale. Quando aveva fatto coming out, a soli tredici anni, i suoi genitori non si erano affatto turbati, non avevano avuto problemi con ciò, e così i suoi amici. L'avevano trattata come sempre, l'avevano considerata come sempre: Betsy George, solo e soltanto Betsy George.

Io inclusa.

Persino la chiesa del suo quartiere - che lei frequentava non perché credente ma perché mia amica, per passare più tempo con me e aiutarmi con le varie attività - era sempre stata aperta alla comunità LGBTQ+, fu la prima a organizzare gruppi di ricerca di volontari per poterla ritrovare.

In quei gruppi di ricerca c'ero anche io.

Come la polizia, setacciamo per settimane tutte le zone in cui avremmo potuto scovare se non proprio il suo cadavere, almeno qualche suo oggetto o indumento, qualunque tipo di indizio.

Come la polizia, non trovammo niente.

Trentadue giorni dopo la sua scomparsa, Betsy George sarebbe divenuta famosa al mondo intero per essere stata l'ultima vittima di Lawrence Reid.

Tutti avrebbero conosciuto il suo nome e il suo volto solo per questo, tutti l'avrebbero ricordata solo per questo.

Ma c'era molto di più da sapere su di lei, in realtà, molto di più.

Betsy George, figlia di Joanne e Lucas George e la mia prima e sola amica.

Nota a chi la conosceva per tre particolari indimenticabili.

Il primo, i suoi boccoli rossi che sembravano sempre essere appena usciti dal parrucchiere.

Il secondo, la sua statura da nana da giardino per cui tanto la prendevano in giro e di cui lei si lamentava in continuazione.

Il terzo, il suo carattere forte e indomabile, grazie al quale affrontava a testa alta qualsiasi problema e persona.

Una volta diventate amiche, migliori amiche, sorelle, molti avrebbero detto che noi due, insieme, eravamo la dimostrazione palese di quanto fosse vero il modo di dire: "Mai fidarsi delle apparenze."

Io, Agatha Reid, che ero sempre stata la più alta della classe, che avevo un viso duro, il naso dritto, le sopracciglia foltissime, i lineamenti molto spigolosi, un fisico non tozzo ma ben più grande rispetto a quello di gran parte dei miei coetanei, e i capelli corvini così ricci da essere quasi afro a esplodermi in testa come una nuvola immensa, possedevo un carattere terribilmente timido e impacciato.

Mi vergognavo sempre di me stessa, faticavo a parlare con gli altri, a socializzare, arrossivo in continuazione non appena provavo qualsiasi forma di emozione con grande intensità. Balbettavo spesso, inciampavo altrettante volte, tentavo di tutto per non farmi notare, mi rinchiudevo nel mio guscio e mai trovavo la forza di ribellarmi anche a chi se lo meritava. Preferivo restare in silenzio il più possibile, la chiacchierata non era il mio forte, e accusavo gli insulti, l'odio e le prese in giro sulla mia fobia, il mio aspetto e la mia timidezza senza mai ribattere, senza mai provare a difendermi.

Accettavo quelle beffe, mi dicevo nell'inconscio che me le meritavo.

Secchiona in tutto tranne che in una materia: educazione fisica. Ero una vera e propria frana. A causa della mia eterna vergogna mi sentivo a disagio a fare attività sportive davanti agli altri, certa che, pasticciona com'ero, sarei stata inevitabilmente odiata e derisa, e proprio a causa di ciò, presa fin troppo dal mio disagio interiore, finivo sempre per fallire in tutto. Prendevo centinaia di pallonate, cadevo ad ogni lezione, mi ferivo, sbucciavo, riempivo di lividi. Una calamità naturale vivente che storceva sempre la bocca dei professori.

Betsy, invece, a prima vista una bambolina, da sempre la più bassa della classe, che da grande avrebbe raggiunto solo il metro e cinquantaquattro, con il nasino alla francese, le lentiggini sul viso, i boccoli ramati e il corpicino minuscolo e magrissimo, era un vero e proprio tornado, un'esplosione di allegria e vigore, incapace per natura di provare paura.

Amava qualsiasi tipo di sport, aveva un'energia e una resistenza fisica ineguagliabili. Era quella che tutti a scuola chiamavano per chiederle se le andava di giocare con loro a qualche partita di pallavolo, calcio, basket o badminton durante la pausa pranzo.

Ma la sua passione più grande, senz'altro, era correre. Non si stancava mai di farlo. Cercava di partecipare a tutte le gare sportive della scuola che comprendessero quell'attività.

Nel resto delle materie, invece, era una frana quanto lo ero io in educazione fisica. Non perché non le capiva, semplicemente non le piacevano proprio e perciò non aveva mai voglia di studiarle. Litigava in continuazione con la madre per questo, ero io che la trascinavo ogni volta alla sua scrivania e la costringevo a stare sopra i libri, ignorando tutte le sue lamentele e i tentativi di distrarci. Più e più volte Joanne mi ringraziava, mi ripeteva che se non fosse stato per me, come minimo quell'incurabile idiota della figlia avrebbe finito per ripetere l'anno almeno sette volte. Il giorno in cui prendemmo il diploma, con le lacrime agli occhi mi guardò e disse: «Hai compiuto il miracolo, Agatha. Che Dio ti benedica.»

Ma in realtà, a suo modo Betsy studiava, solo che lo faceva per i fatti suoi e sugli argomenti che le interessavano e di rado insegnavano a scuola: la geopolitica degli ultimi trent'anni, le lotte al cambiamento climatico, le diverse tipologie di diete, anche e soprattutto quelle etiche, l'ambientalismo, le varie religioni, i movimenti politici, il cinema, la fotografia, i fumetti, la psicologia.

Era stato proprio per via di quegli studi che si faceva in privato, scaturiti da una sua curiosità innata, che era riuscita a comprendere meglio sé stessa e il suo orientamento sessuale a un'età così giovane.

Era sfacciata, decisa, estroversa, dalla parlantina interminabile, poteva passare da argomenti serissimi come la guerra in Vietnam ad altri insensati come l'importanza di mettere prima i cereali nella tazza e poi il latte, a colazione, così potevi mangiarne di più. Neanche capivi come ci riusciva, sul serio, ti affogava così tanto con le sue parole che quando ne riemergevi a stento ricordavi il tuo nome.

Quando lo riteneva necessario, non aveva problemi ad usare la violenza, se ne vantava persino. Collezionava note di demerito una dopo l'altra come fossero trofei, sin dalle elementari, perché aveva la pessima abitudine di dare calci volanti a chiunque provasse a dar fastidio, prendere in giro o bullizzare chi più amava. In particolar modo me.

Se ne fregava sempre se era lei la vittima di quelle derisioni, neanche le sentiva, da un orecchio le entravano e dall'altro le uscivano, ma quando invece quelle derisioni venivano rivolte a persone a cui voleva bene non esitava un istante ad agire. Si vendicava in modo tale che chi le aveva messe in atto ci pensasse due volte a rifarlo.

Eravamo agli antipodi, sia di aspetto che di carattere, e forse per questo ci eravamo legate in quel modo, forse per questo ci consideravamo sorelle.

In Betsy io vedevo tutta la forza e il coraggio che non trovavo in me stessa, in me Betsy vedeva la pacatezza e la diligenza di cui era priva.

In verità, mai avevo compreso perché fosse così affezionata a me, mai l'avevo capito.

Fu proprio lei ad avvicinarmisi, il mio primo giorno di scuola, cinque mesi dopo che mi ero trasferita in Arkansas.

Era la prima volta che frequentavo una scuola vera e propria, avendo studiato sempre in casa con mamma che mi faceva da insegnante, prima di allora, ed ero ancor più a disagio per ciò.

Era stato papà a insistere perché non proseguissi con l'homeschooling, e la psicologa dell'epoca, davanti ai giganteschi miglioramenti che avevo fatto in quegli ultimi mesi - riprendere a parlare, sopportare per tanto tempo i tocchi degli altri grazie ai guanti, mostrarmi attiva e sorridente, felice - si era detta d'accordo.

Entrambi ritenevano necessario che iniziassi a frequentare bambini della mia età, non solo incontrati per caso ai parchi giochi a cui papà mi portava sempre, sia perché così imparassi ad aprirmi agli altri per migliorare la mia timidezza, sia perché ciò mi avrebbe senz'altro aiutato in futuro ad affrontare le difficoltà del mondo e le mie.

Io avevo accolto la notizia in silenzio, fingendomi tranquilla per non deludere papà, ma dentro mi ero sentita morire, terrorizzata all'idea che non ce l'avrei mai fatta.

Ero seduta al mio banco, durante la ricreazione, con lo sguardo chino, le mani intrecciate sul ripiano, tentavo disperatamente di far sì che i miei ricci mi coprissero tutto il volto, così da nascondere la mia bruttezza evidente. Sentivo gli sguardi dei i miei compagni di classe addosso e ciò mi imbarazzava da morire.

Sapevo di apparire bizzarra a loro, non solo per essere la nuova arrivata, ma anche per essere la bambina che indossava dei guanti.

Così tenevo gli occhi fissi proprio sulle mie mani intrecciate, provavo in ogni modo a non umiliarmi ancora di più, ad apparire il più normale possibile.

Poi, d'improvviso, udii il suono di una sedia accanto a me che veniva trascinata.

Quando sollevai il capo alla mia destra, mi ritrovai quella bambina seduta al mio fianco. Aveva unito il suo tavolo al mio, e mi guardava con un sorriso a trentadue denti, gli occhi giocosi, i boccoli ramati legati in due codine con elastici dalle perle di plastica di un rosa accesissimo.

«Ciao!» mi salutò. Aveva una voce incredibilmente acuta, mai sentita così prima d'ora. «Io sono Betsy, Betsy George! Sono la più figa di tutti qua dentro, fidati di me! E anche la più grande! Sono la prima ad aver compiuto dieci anni, sai? E sono anche molto intelligente! Tu sei Agatha, vero? La maestra ci ha parlato di te! Che bel nome che hai! Da dove è stato preso? Anche a me piacerebbe tanto chiamarmi Agatha! Non mi piace proprio il mio nome. Ci credi che mamma e papà me lo hanno dato perché gli piaceva Betsy Palmer? La conosci? No, vero? Ci credo! Mica è così famosa! Davvero, come diavolo gli è venuto in mente di chiamarmi così? Avrei preferito di gran lunga esser chiamata in onore di Angelina Jolie!»

Era un vero e proprio missile, nulla poteva fermarla, le parole le uscivano dalla bocca una dopo l'altra senza freno, la conducevano da un argomento all'altro come una pallina impazzita, ed io provai sia una profonda invidia per questo che un estremo disagio.

Avrei voluto essere come lei, riuscire a esprimermi come lei, ma allo stesso tempo mi sentivo ancora più sbagliata, proprio perché, a differenza sua, non me la cavavo affatto con le parole, sapevo solo arrossire.

E così avvenne.

Il mio intero volto prese fuoco, così tanto che persino lei, preda della logorrea, se ne accorse. Mi fissò, sgranò gli occhi, poi sorrise. «Ma sei adorabile!» esclamò felice, inducendo così il mio rossore a farsi ancora più forte. «Che carina che sei, Agatha! Un vero e proprio pasticcino!»

Era la seconda persona, dopo papà, che si meravigliava in quel modo per la mia caratteristica di arrossire, e ciò mi provocò una fitta nel cuore, ma non di dolore.

«Ehi, senti, ti va di mangiare con me?» mi chiese a quel punto. «Per merenda io mi sono portata un panino.» Me lo mostrò, ancora avvolto dalla carta alluminio, lo aveva tenuto in mano per tutto quel tempo.

Ed io non seppi rispondere a voce, mi limitai soltanto ad annuire e arrossire di più, smagliandole il sorriso e rendendolo immenso.

Mi osservò mentre da sotto il banco tiravo fuori il tramezzino che mi ero fatta quella mattina da sola, lo guardò curiosa mentre lo scartavo. «Cosa c'è dentro?»

«T-Tonno e... insalata... e pomodori.»

Una smorfia di disgusto l'attraversò, mentre a sua volta scartava la merenda. «Ti piacciono le verdure?» Quando annuii, fischiò con forza. «Cavolo, sei proprio un'adulta! Io non riesco manco a mangiare la pasta col sugo, tanto mi fanno schifo i pomodori. Litigo sempre con la mamma per questo. Tu hai qualche cibo che non ti piace?»

A stento trovai il coraggio di scuotere la testa.

«Wow, davvero grande!» Addentò il suo panino, lo masticò con energia. «Ehi, perché indossi i guanti?»

Davanti a quella domanda sussultai senza volerlo.

La mia afefobia era una vergogna immensa per me, una tremenda piaga che mai avrei voluto venisse scoperta, ma era inevitabile, non potevo farci proprio niente, e ciò che più temevo, ciò che più mi terrorizzava, era il pensiero che gli altri mi avrebbero potuto insultare per questo, umiliarmi più di quanto non lo facessi io da sola.

Ma non potevo mentire, né tirare in ballo qualche scusa improbabile, comunque lo avrebbe scoperto dopo. «I-Io» bisbigliai a fatica, «non riesco mo-molto a toccare le persone, se-senza i guanti.»

Lei inarcò le sopracciglia, sorpresa. «Tipo che ti fa senso?»

Riuscivo già a immaginarmi le derisioni che sarebbero susseguite a quella verità, e il solo pensiero bastò per farmi arrossire di nuovo. Annuii con difficoltà, mi violentai proprio per farlo. «Una cosa... simile.»

«Mmm» commentò lei, per poi dare un altro morso al suo panino. «Beh, ci sta.»

Non potei trattenermi: la guardai stupita. Betsy proseguì: «Anche io ho cose che mi fanno senso, sai? Tipo le rane. Bleah, le rane fanno proprio schifo. O il gorgonzola. Solo a sentire l'odore brrrrr! Mai, mai lo mangerò! Oh, e le cavallette! Una volta una mi è saltata in faccia! Ho gridato così tanto che la gente pensava ci fosse l'ambulanza! Ah, e anche gli occhi dei pesci. Non ti fanno impressione? Cioè, sul serio, sono così grandi e ti fissano in un modo super inquietante! Non hanno manco le palpebre! Papà mi ha comprato dei pesciolini rossi l'anno scorso, ma li ha dovuti dare a qualcun altro perché a guardarli scoppiavo subito a piangere!» Fece una smorfia. «Quindi coi guanti puoi toccare la gente?» mi domandò a quel punto.

«Un po'... ma non a lungo... e solo... con le mani» ammisi alla fine, dopo un minuto di silenzio. Lei finì il suo panino.

«Cavolo, deve essere difficile, però, ehi, ci sono tanti modi con cui toccare le persone anche senza i corpi!» dichiarò. La guardai confusa. «Tipo giocando con la palla! Puoi colpire la gente e toccarla con quella!» Mi fece l'occhiolino, arrossii ancora. «Cavolo, Agatha! Diventi più rossa dei miei capelli!»

«S-Scusa.»

«Mica ti devi scusare! È una cosa bella, sai? Sei super carina!»

Strinsi le labbra, guardai il mio tramezzino ancora intoccato.

Mai mi ero ritenuta carina, mai lo avrei fatto anche in futuro, ma comunque sentirmelo dire mi rese felice.

«T-Ti va bene... parlare con me?» domandai a quel punto, Betsy mi scrutò confusa, ed io esitai di nuovo, prima di riprendere a parlare: «Non sono... molto interessante, io.»

«Per me lo sei» replicò subito, pulendosi la bocca dalle briciole con la manica della sua maglietta bianca. «Sei buona, tu, e a me piace stare con le persone buone.»

Mi irrigidii tutta, ovunque, fuori e dentro.

Buona.

Avrei voluto ridere e scoppiare a piangere nello stesso momento.

Sapevo bene che non lo ero, che non lo ero affatto.

Il segreto, il mio segreto, era la prova vivente che tutto possedevo in me tranne bontà.

Ma non potevo dirglielo, non osavo farlo.

«Non mi conosci neanche.»

«L'ho capito a guardarti. Sono brava a capire le persone, io» dichiarò con grande orgoglio, gonfiando il petto. «Sai, ti ho vista all'ingresso di scuola, prima che la campanella suonasse.» Non compresi, la fissai sbattendo le ciglia. «Eri con il tuo papà! Un bell'uomo tra l'altro! Davvero figo e ganzo! Ti ho sentito che gli dicevi di fare attenzione alle cose che usa per lavoro! Di non mescolarle troppo che se no si fa male!»

Altro fuoco mi divampò in viso. Papà aveva riso tantissimo per quella mia richiesta ingenua. Sapevo solo che era un chimico, io, e nella mia testa infantile un chimico era una persona che sicuramente lavorava con sostanze super pericolose che potevano esplodere da un momento all'altro, una sorta di alchimista che correva il rischio di perdere la vita ogni secondo.

«Una bambina che vuole così bene al suo papà per forza è buona!» esclamò allora Betsy. «Anche se non so che lavoro fa, un po' mi spaventa, se gli hai detto quelle cose.»

«È... un chimico.»

«Oh, quelli che lavorano con quei liquidi strani?»

«Non lo so... credo di sì.»

Betsy sorrise. «Che figo! Mio papà e mia mamma invece hanno un bar. Si chiama Betsy's, lo hanno chiamato così proprio per me! Un po' imbarazzante, lo ammetto, però mi piace, anche se detesto il mio nome. Mi fa sentire suuuuuper importante!»

Non lo feci apposta, mi ritrovai a ridere senza volerlo, e il sorriso sempiterno di lei si allargò a dismisura.

«Hai una bella risata, Agatha! Dovresti ridere di più, sai? Beh, non ci sono problemi, io so far ridere bene le persone!»

E scoprii nel corso dei giorni prima, delle settimane dopo e degli anni poi che era vero.

Verissimo.

Betsy sapeva far ridere tutti, chiunque.

Persino me.

E non per prenderti in giro, non per umiliarti, non per deridere gli altri.

Sapeva far ridere perché ti mostrava il lato giocoso della vita anche nei suoi aspetti più crudeli.

Faceva battute tremende, orribili, freddure che erano talmente brutte che ridevi proprio per quello, non perché erano divertenti.

Ogni giorno entrava in classe esclamando «Buongiorno al mondo intero e a quello parzialmente scremato!» e tutti noi ci sganasciavamo, anche se faceva schifo come battuta ed era scontatissima, solo perché era lei a farlo.

Fu questo che mi insegnò, questo che mi mostrò della vita.

La risata.

Con quel fuoco che le scavava le vene e la rendeva capace di affrontare anche i nemici più forti, con quella volontà ferrea di trovare la luce persino nelle tenebre più profonde.

Betsy mi insegnò a ridere davanti ai mille lividi che mi procuravo durante educazione fisica, davanti al mio volto che divampava ogni volta, davanti ai miei mille inciampi, davanti ai miei voti tremendi in ginnastica, davanti al mio balbettio, davanti alla mia timidezza.

E non per umiliarmi, non per detestarmi.

Ma per imparare ad apprezzare anche questo, i miei difetti.

Mi insegnò che davanti a uno sguardo celare il proprio non serviva niente, ti sconfiggeva soltanto.

A fissare negli occhi chi avevo davanti, anche se dentro mi sentivo morire, anche se dentro mi sentivo tremare.

«Non devi cambiare» mi diceva sempre, «devi solo provare a lottare per te stessa

Io ridevo con Betsy e lei rideva con me.

La naturalezza con cui mi trattava, quella capacità di considerare normale anche ciò che non lo era affatto ai miei occhi inevitabilmente mi incantò. Sapevo che non stava mentendo, sapevo che non erano bugie, le sue. Se ne fregava e basta, davvero.

Era questo l'incanto di Betsy, il più grande miracolo che ogni giorno realizzava con tutti: ai suoi occhi le tue storture non erano altro che particolarità come tante altre, sempre e comunque, che fossi alto, basso, nero, bianco, etero, gay, magro, grasso, timido, sfacciato, stupido o intelligente.

Betsy non vedeva categorie, non vedeva etichette, non vedeva errori.

Betsy vedeva esseri umani.

Solo e soltanto esseri umani.

Come lei.

E li vedeva non solo in chi amava, ma anche in chi odiava, persino nei bulli con cui litigava perché mi prendevano in giro, persino nei professori con cui discuteva ogni giorno per i suoi terribili voti.

Persino in me, io che da sempre mi consideravo mostro.

Lei fu la sola persona al mondo, dopo mio padre, che nel corso degli anni riuscii a toccare anche a mani nude, senza più provare alcun tipo di paura. La sola persona al mondo, dopo mio padre, da cui riuscii a farmi toccare e non solo con carezze semplici, ma anche veri e propri abbracci stritolatori, baci sulla guance, pizzichi, solletichi, buffetti sul capo.

Perché eravamo amiche, noi due.

Sorelle, così ci chiamava sempre.

Io lo pensavo a mia volta, ma non osavo dirlo a voce.

Sentivo di non meritarla, sentivo di non essere degna di un'amica del genere. Non comprendevo perché mi volesse così bene, perché ci tenesse così tanto a stare al mio fianco, quando niente di buono avevo da offrirle.

Io che ero brava solo a studiare e cucinare, solo in quello.

Che non sapevo fare altro, che non avevo un carattere interessante, che neanche potevo toccare le altre persone senza l'aiuto dei guanti.

Ero inutile, lo sapevo, totalmente inutile, come amica e sorella, ma Betsy negava sempre la cosa.

Sapeva bene che lo pensavo e non avevo il coraggio di dirglielo, e allora cercava in ogni modo di farmi comprendere il suo punto di vista, di aiutarmi a vedermi come lei mi vedeva.

Affermava ogni volta: «Agatha, io non sarei mai amica con una persona debole, te l'ho detto un sacco di volte, quando lo capirai?»

Ma io non potevo crederle.

Non ne avevo proprio il coraggio.

Avevo il terrore che facendolo l'avrei condannata alla sofferenza.

Che un giorno si sarebbe svegliata e si sarebbe accorta finalmente di tutte quelle cose che non andavano in me e che io sentivo e vedevo ad ogni secondo e respiro, del mostro che sempre ero stata, e allora mi avrebbe odiata come mi odiavo io e si sarebbe detestata per essermi stata accanto per tutto quel tempo.

Una notte di quando avevamo sedici anni ed ero rimasta a dormire a casa sua dopo un'intensa sessione di studio per un test di chimica, Betsy mi chiamò nell'oscurità.

«Ehi, Agatha.»

Ero sdraiata sul lettino pieghevole che tirava sempre fuori e metteva accanto al suo materasso quando mi ospitava, sepolta sotto il piumone che profumava di detergente alla lavanda.

«Cosa c'è?»

«Me lo dirai, un giorno, perché ti odi così tanto?»

Davanti a quella domanda, sentii subito gli occhi bruciare, riempirsi di lacrime, il cuore annegare in un abisso di sofferenze così profondo da non avere fine.

L'incubo di un segreto che mi scorreva nel sangue e che in alcun modo avrei potuto spurgare.

Il riflesso di uno specchio a cui elencavo tutti i miei peccati per ottenere redenzione, senza mai riuscire ad ottenerla.

Una corda di canapa stretta alla mia vita.

Devi chiedere perdono, Agatha, ogni giorno e ad ogni ora, forse solo così potrai mai essere perdonata.

Avrei voluto dirglielo, avrei voluto dirglielo subito, in quell'esatto istante, ma avevo giurato a Dio, io, lo avevo giurato.

E tremavo anche al pensiero di come mi avrebbe considerata poi, se avesse saputo la verità.

«Non so...» bisbigliai a fatica, la voce impastata dalle lacrime che costringevo a cadermi in gola e non sul volto. «A volte è solo che... A volte è solo che penso di non essere umana.»

Una risatina da parte sua, gentile ma anche amareggiata. «Tu sei senz'altro umana, Agatha» dichiarò sicura. «La più umana tra tutti noi.»

Non trovai il coraggio di ribattere, di sputare fuori l'abominio che celavo negli anfratti dell'animo.

«Come fai ad esserne così sicura?»

«Prendi ad esempio l'altro giorno, quando a scuola hai dato il tuo pranzo preparato in casa a Lucy perché lei aveva dimenticato il suo. E c'erano pure le tue polpette preferite, là dentro, quelle che ci impieghi un sacco per fare, ma glielo hai dato lo stesso. E manco stai simpatica a Lucy, lo sai.»

Mi irrigidii sotto il piumone. «Tanti lo fanno, mica vuol dire che sono bravi.»

«O quando ci siamo viste quel film fantasy su quel dittatore e la sua storia. Hai pianto per tutte le vittime che ha causato, ma anche per lui dopo che si è visto quello che gli avevano fatto in passato.»

Inspirai a fatica. «E non è una cosa orrenda?» feci notare. «Piangere per un mostro del genere?»

«Forse per qualcuno lo è» ammise lei. «Ma se si riesce a piangere anche per mostri del genere, secondo me, vuol dire che siamo i più umani di tutti. Perché vediamo la sofferenza che sta anche nel male, cosa che in pochi fanno. E poi mica l'hai giustificato, anzi. Hai solo sofferto pure per lui.»

La invidiavo davvero. Avrei voluto possedere i suoi occhi, anche solo per qualche minuto, e usarli per guardarmi allo specchio.

«È proprio perché sei così umana che ti considero mia sorella» dichiarò decisa. «Perché sei quel genere di persona capace di amare anche nel male.»

Serrai la bocca e la mascella, i denti che rischiavano di spaccarsi come il cuore in tormento.

«Il problema è che ami tutti gli altri, ma non te» proseguì, la voce rafferma. «Ma sono sicura che un giorno ci riuscirai, Agatha. Ti aiuterò anche io a farlo, te lo prometto. Non ti permetterò mai più di non considerarti un essere umano.»

Mi sfuggì una risatina, mentre il pianto mi soffocava la gola.

«Sarai magnifica, Agatha, te lo assicuro. L'essere umano più umano di tutti.»

Col senno di poi, una volta scoperta la verità, spesso mi domandavo se era a quella notte che aveva pensato in quel capanno, per tutte quelle settimane, mentre veniva torturata da mio padre, quell'uomo che lei conosceva bene, di cui si fidava come se fosse stato anche il suo, di padre.

Se anche lei, come me ora, ogni giorno aveva ricordato la prima volta che mi era venuta a parlare in classe e aveva pregato di poter tornare indietro nel tempo per non farlo più, per fingere di non avermi mai vista là, isolata al mio banco.

Se anche lei, come me ora, ogni giorno si era pentita di quella sua scelta di essermi amica, mi aveva odiata con tutta sé stessa, con ciascun respiro.

Se nell'attimo che aveva anticipato il momento in cui mio padre l'aveva uccisa aveva pensato:

Ah.

Avevi ragione.

Non sei mai stata un essere umano









Due giorni dopo l'incontro coi gemelli pestiferi e volgarissimi, fui costretta per forza di cose a uscire di casa di nuovo.

Avevo finito la mia stecca di sigarette e purtroppo il governo americano non aveva ancora permesso che anche queste potessero essere consegnate a domicilio.

Erano le nove del mattino, il cielo autunnale, benché avesse già iniziato a fare freddo, era limpido e sereno come in un pieno giorno d'estate, e mi ritrovai per l'ennesima volta a percorrere il marciapiede che avevo attraversato la sera dell'incontro con quei due birbanti.

A superare il negozio dove era avvenuta la discussione, in quel momento chiuso.

La tabaccheria era a qualche metro da esso, e una volta che vi fui entrata, con la mascherina e il cappuccio alzati, ed ebbi comprato tutto ciò che mi serviva, lasciatomi dal commesso in una busta di plastica, tornai indietro per riavviarmi verso casa.

Non mi guardavo attorno, gli occhi sempre puntati sui miei piedi.

Non sentivo attorno.

Pensavo a stento.

E forse fu per questo motivo che non mi accorsi dell'ombra che era d'improvviso balzata alle mie spalle, il cui proprietario mi afferrò per il cappuccio alzato e lo usò per trascinarmi con una forza mostruosa in una delle viuzze strettissime che separava un palazzo distrutto dall'altro.

Ma non me ne sorpresi.

Non me ne spaventai.

Il corpo sì, il corpo subito si terrorizzò all'annuncio che presto sarebbe stato toccato: ogni organo e muscolo, nervo e pensiero iniziò a pulsare agonia e panico, il cuore palpitò straziato gelo a diffondersi nel sangue, e un manto di sudore e brividi mi rivestì la carne.

Ma la mente, d'istinto, restò lucidissima, ad accogliere quello strazio come se fosse naturale.

Inevitabilmente, quando sentii il pugno colpirmi sul lato destro della faccia senza preavviso, mi ritrovai a pensare: Meriti anche questo, lo sai.

Caddi a terra sull'asfalto distrutto, pieno di buche, mangiato dalle intemperie di tanti e tanti anni, atterrai sul fianco sinistro per miracolo, mentre già avvertivo il gonfiore forte che mi si stava creando sulla metà del volto appena pestato. D'istinto, mi risollevai a sedere e risistemai il cappuccio della felpa così che tornasse a soffocarmi i capelli, coi polmoni che si squassavano dalla paura primordiale per quel contatto fisico, che trasformavano l'aria in sé in puro fuoco, e spasmi continui mi attraversavano le cellule, trafiggendole con brividi continui.

«Lo sapevo che eri tu, brutta cagna.»

Alzai lo sguardo da terra per rivolgerlo a colui che mi aveva appena pestato.

Non mi sorpresi neanche di rivedere il proprietario di quel negozio.

Quel giorno vestito con una camicia uscita senz'altro dal primo dopoguerra e dei jeans tutti rotti e non in maniera voluta, in viso una collera disumana.

Il colpo che mi aveva appena dato forse non mi aveva intontita, ma era stato sufficiente per farmi colare copiosamente il sangue dal naso, le gocce mi caddero subito, andarono a bagnare la mascherina ancora alzata. Il fisico si distruggeva per l'orrore di quel tocco, per la sua violenza, lui che già considerava crudele anche solo un dito nudo a sfiorargli la guancia.

«Levatela! Stronza!» tuonò, indicando la mascherina. «Voglio vedere la faccia della bastarda che mi rovina gli affari!»

Fu inevitabile: mi ritrovai a ridere con furia. L'antagonismo tra lo spavento del corpo e l'accettazione della mente per quella situazione era così forte e straziante da apparirmi comico.

Riuscivo già a immaginare quanto sarebbe stato felice, una volta che mi avesse riconosciuta e compreso quanto sarebbe stato adorato dall'opinione pubblica per la sofferenza che mi avrebbe inferto.

Anche quella era un'altra punizione, anche quello era l'ennesimo prezzo da pagare, ne ero certa, stavolta perché, davanti ai quei due bambini, avevo sperato di poter esser compresa.

Una voce, una voce che mai avrei voluto risentire riaffiorò in mente.

E così la memoria del mio riflesso, i miei occhi spenti a guardarmi, e quelli aguzzini alle mie spalle, lontani dal mio corpo ma già ustioni sanguinanti nel cuore, biglie d'ira a riprovare la mia reale natura da mostro.

Lo sai cosa devi dirti davanti a questo specchio, vero, Agatha?

Ho sbagliato, ho sbagliato, ho sbagliato.

Avevo sbagliato anche stavolta.

Davanti alle mie risate il suo volto si incollerì ancor più, ma non gli diedi tempo di insultarmi ancora, le dita arrivarono al bordo della mascherina sporca di sangue, s'infilarono sotto, pronte per abbassarla.

Ma d'improvviso, proprio in quell'attimo, il corpo dell'uomo iniziò ad essere attraversato da tremende e orribili convulsioni, gli occhi gli si rivoltarono, la faccia sbiancò all'istante, un po' di bava gli cadde dalla bocca e versi gorgoglianti e senza senso esalarono dalle sue labbra serrate.

Il secondo successivo cadde a terra di pancia, con un tonfo così forte da farmi sussultare.

«Cazzo! C'avevi ragione, Dory, 'sta merda è fantastica!»

«T'avevo detto io che Dante c'ha le armi migliori!»

Lo stupore mi investì del tutto, non riuscii a trattenerlo proprio, fu così divampante da scacciare via persino i brividi e la paura che aveva infettato la carne.

Mi ritrovai a guardare, proprio dietro la figura dell'uomo crollato a terra, ancora preda delle convulsioni, i due piccoletti dell'altro giorno.

Dorian e Dorothea.

Vestiti come al solito uguale: maglioncino nero e un paio di pantaloni color cachi, scarpe da ginnastica. Lei i capelli di nuovo legati, lui con un sorrisetto più che compiaciuto sulle labbra.

E Dorian, in mano, stringeva quello che era senz'altro un taser.

«Thaty!» esclamò Dory con tono a metà tra la felicità e la preoccupazione. Mi corse incontro in fretta e furia, non ebbi modo di farle domande, mi si pose subito davanti, guardando la mia figura seduta per terra. «Senti, Thaty, coi guanti ce la fai a toccare le mani delle persone, anche se per poco?»

Ero sempre più smarrita, non sapevo che rispondere.

«Thaty! Sbrigati, non so quanto gli ci vuole per ripigliarsi a 'sto stronzo!» mi spronò con un grido Dorian, ed io sussultai.

«S-Sì» balbettai sgomenta. «Coi guanti riesco... a toccare la gente.»

Dory ridacchiò. «Perfetto allora!» E senza esitare un istante, strinse la mia mano destra con la sua, aiutandomi a risollevarmi da terra. «Sei pronta? Ora tocca fare la cosa più difficile!»

«Cioè?»

Insieme gridarono: «Correre!»

E così facemmo.

Dory mi trascinò via con sé in una corsa folle, pazzesca, che mai avevo compiuto in tutti i miei ventisette anni di vita. Venni trasportata da una ragazzina di dodici anni, trascinata da lei in quella fuga improvvisa che proprio non comprendevo, come una formica alla sua linea di lavoro, come se fosse una cosa così automatica per loro da darla per scontata.

Corremmo lungo il marciapiede tra l'affanno e la fretta, con la busta dei miei acquisti che ancora stringevo a stento nell'altra mano. Mi ero senza volerlo aggrappata ad essa dal primo colpo che avevo ricevuto.

«Tocca che ti devi fidare di noi stavolta, Thaty!» gridò Dorian, mentre mi facevano svoltare in una stradina interna tra un palazzo e l'altro.

«Non ci vuoi andare all'ospedale, non è così?» mi domandò Dory, mentre iniziavamo a salire delle scalette interne divorate dalla polvere e le macchie, scheggiate sui bordi, pieni di buche, infilate in mezzo a due case.

«N-No.»

I gemelli ridacchiarono.

Corremmo per cinque minuti buoni, cinque minuti che cercai di usare, nella fatica e l'affanno, per comprendere cosa diavolo stava succedendo.

Quei due mi avevano appena salvata.

Due dodicenni mi avevano appena salvata.

Con un taser vero e proprio.

Non sapevo che dire, non sapevo che pensare, ci ritrovammo d'improvviso, affannati e sudati, davanti a un grosso edificio vecchio e distrutto quanto gli altri, dal portone d'ingresso in legno divorato dai graffi, le pareti bianche dall'intonaco sciolto e anche scrostato in più punti, le finestrelle dei vari appartamenti coi vetri opachi.

Dorian infilò il taser nella borsetta di tessuto rossa che pendeva a tracolla dalle spalle della sorella per poi tirare fuori da essa un paio di chiavi. Aprì il portone veloce, ci entrò dentro, e Dory mi trascinò a sua volta all'interno.

Mi ritrovai nella zona d'ingresso di un condominio dal pavimento grigio distrutto quanto le case di quel quartiere, con delle scalette a chiocciola di pietra altrettanto sgangherate sulla sinistra, ma i due non mi condussero ad esse, mi portarono invece alla sola porta di quel piano terra, piccola e malridotta, sul muro a destra.

Dorian la aprì con le chiavi, spalancò l'uscio con un calcio.

«Entra, Thaty!» esclamò mentre accedeva.

«I-Io-»

Ma non mi diede il tempo di parlare. Dory mi trascinò di nuovo con sé, mi portò a sua volta là dentro.

E in un istante mi ritrovai in un appartamento.

Udii Dorian richiudere la porta alle nostre spalle, mentre sbigottita guardavo ciò che avevo di fronte a me.

Un trilocale, senz'altro, minuscolo sì, ma comunque un trilocale.

La zona da pranzo che faceva anche da soggiorno era la prima che incontravi non appena mettevi piede là dentro. Il pavimento era di quelli di una volta, in graniglia, dalle mattonelle quadrate che sembravano mosaici fatti con tessere di colore sempre diverso, le pareti erano bianche, corrotte da alcune crepe, specie sul soffitto, e ad illuminarle erano delle lampade a muro che di sicuro dovevano avere cent'anni.

Le due finestre sul fondo erano piccole, quadrate, e a doppie ante, con tapparelle alzate vecchissime, verdi e un po' divorate dalla ruggine. Delle tende corte e bianche, smangiucchiate sui bordi, le contornavano.

Al centro della sala si trovava un tavolino in legno con quattro sedie a circondarlo, dietro di esso, invece, un divano a tre posti appoggiato alla parete destra, dal tessuto rosso un po' sbrindellato, pieno di giacche accumulate sullo schienale, che si affacciava a un televisore piccolo e malconcio, posato su un mobiletto di cartongesso sul muro antistante.

A sinistra si potevano scorgere tre porte diverse, adesso chiuse, sulla prima c'era appeso... un cartello stradale di pericolo, triangolare, giallo e con l'immagine di un teschio al suo centro, che dubitavo fosse stato comprato legalmente, e sotto si trovava, sempre appesa, una targa in legno gigante, con una scritta dipinta con vernice rossa:

VIETATO L'ACCESSO AGLI STRONZI
(Soprattutto te, Dante).

Sbattei le palpebre.

Unita a quella sala c'era anche la cucina, alla destra del tavolo da pranzo, separata da essa solo da una penisola bianca che delimitava le due zone. Dietro quest'ultima i fornelli a gas neri, il lavandino in acciaio pieno di tazze da lavare, un forno che a prima vista ti veniva da credere fosse stato usato l'ultima volta negli anni '20. Il ripiano e i mobili erano grigi, i pensili a parete in legno, incastrato all'angolo s'imponeva un grosso frigo rosso che sfiorava il soffitto e le cui ante neanche si potevano più vedere, tant'era la quantità assurda di calamite che stavano attaccate ad esse.

Benché fosse un po' disordinato, quell'appartamento era tenuto proprio bene, considerando le sue condizioni naturali. Tutto era pulito e sistemato, le sole prove di confusione erano qualche giocattolo sparpagliato qua e là sul pavimento, la collina di giacche sullo schienale del divano e le tazze da colazione in lavandino.

«Come ti senti, Thaty?»

Sussultai.

L'assurdità di quella situazione era stata talmente tanta che anche se stavo stringendo ancora la mano di Dory, e per tutto quel tempo, non provavo ancora il fastidio e il disgusto che di solito mi travolgeva anche coi guanti. Ma arrivò l'attimo dopo, non appena il mio cervello riuscì a connettere un pensiero all'altro e realizzare a sua volta quel contatto, e così, con mio rammarico, fui costretta a sciogliere l'intreccio di dita. Lei mi guardava ad occhi aperti, vera preoccupazione a dilaniarli.

Avvertii lo stomaco contorcersi, annodarsi.

«I-Io...»

«Qua ti puoi togliere la mascherina!» m'interruppe Dorian, correndomi incontro e fermandosi davanti. «Non ti preoccupare, Thaty! Qua è sicurezza massima! È la nostra roccaforte, questa!»

Dory annuì. «Sì! Sì! Qua non può entrare nessuno! C'hanno tutti troppa paura di Dante! Non oserebbero mai far qualcosa!»

Sbattei ancora le palpebre, allucinata.

I due mi guardarono come se fossi deficiente.

«Oh, Thaty, che t'ha stordito le cervella con quel colpo in testa?» mi domandò Dorian.

«Oddio, tocca portarla davvero in ospedale?»

«No!» esclamai a quel punto, e in fretta mi tolsi la mascherina insudiciata dal sangue. «Scusate, è solo che...» Mi bloccai. «È solo che sono sorpresa.»

Loro continuarono a guardarmi come se fossi deficiente.

«T'avevamo detto che t'avremmo ripagato» mi ricordò Dorian, quasi fosse un'ovvietà.

«Sì, ma...» Mi bloccai, un pensiero improvviso mi corrucciò la fronte. «Voi due non dovreste essere a scuola?»

Sussultarono insieme.

«Non è ancora il fine settimana, ed è mattina» continuai. «Perché non siete a scuola?»

Si scambiarono un'occhiata, colpevoli. Dory strinse le braccia al petto. «Ti dovevamo ripagare, t'abbiamo detto» dichiarò sicura, col fratello accanto che annuiva più e più volte. «Lo conosciamo, quello stronzo, anche se prima non c'avevamo mai parlato. È uno di quelli che tende a vendicarsi. Ma dato che su di noi non può farlo perché c'ha cagazza de Dante, sicuro come il fatto che non c'ho i coglioni l'avrebbe fatto su di te.»

«E tu sembravi della zona, quindi di certo saresti ripassata da quelle parti prima o poi» proseguì il suo gemello, assumendo la stessa posa di lei. «Così abbiamo un po' controllato il posto in 'sti giorni.»

«Avete saltato la scuola per me?»

Schioccarono le lingue insieme facendo una smorfia. «Non ce provare a facce la ramanzina, Thaty» mi sfidò subito Dory, l'indice puntato contro di me con fare d'accusa. «T'avemo salvato il culo, oh, non c'hai diritto di farcela.»

«E comunque ci siamo andati a scuola» intervenne Dorian, per poi aggiungere dopo qualche secondo di silenzio: «Solo che semo scappati dalla finestra prima delle lezioni.»

«Sì, sì, dovevamo farci vedere che entravamo a scuola da Dante, sai poi come c'avrebbe rotto il cazzo altrimenti?»

«Tu non ce l'hai il cazzo, Dory.»

«È un cazzo metaforico per me.»

«Che minchia vuol di' metaforico?»

«Tipo che c'è ma al tempo stesso non c'è davvero.»

«Ah, come il cervello di quella sgravata di Vicky.»

Dory scosse il capo e sventolò la mano in su e in giù davanti a sé. «No no, il suo non ce sta e basta. In testa c'ha solo cimici, t'ho detto.»

Sul serio, era davvero comico guardarli e sentirli parlare. Mi accorsi che le labbra avevano cominciato a tremare.

E questo, di nuovo, non andava affatto bene.

«Vi ringrazio» esalai alla fine, e i due tornarono a guardarmi, un sopracciglio inarcato sui volti di entrambi. Erano davvero gemelli. «Ma... non fatelo più, per favore. Non voglio-» Lo stomaco riprese a strizzarsi con agonia. «Non voglio che corriate rischi per me.»

«Cioè meglio che quel pezzo di merda te sfondasse il cranio?» domandò Dorian, di nuovo intento a fissarmi come se fossi una cogliona fatta e finita.

È quello che merito.

Ma non potevo dirlo, specie a due bambini.

«Dico solo che non dovreste correre rischi del genere» ripetei. «E se quell'uomo adesso volesse vendicarsi anche su di voi?»

Scrollarono le spalle. «Te l'avemo detto, quello lì non ci toccherà. Forse al primo incontro l'avrebbe fatto, perché non ci conosceva, ma non c'avemo dubbi sul fatto che dopo ha chiesto de noi in giro e ha scoperto chi siamo» spiegò Dory con tono da maestra e l'aria sicura.

«Saputo de Dante, non oserà manco respiracce vicino.»

Aggrottai la fronte, tornai a guardare la targa che avevano appeso sulla porta della loro stanza, in cui ordinavano a Dante di non entrare in maniera tutt'altro che raffinata.

«Chi... Chi è Dante?»

Tornarono a guardarsi per qualche secondo, per poi rivolgere le attenzioni di nuovo a me.

«La nostra disgrazia» rispose Dorian severissimo.

«La nostra piaga» proseguì Dory.

«La nostra supposta nel culo» continuò Dorian.

«Il nostro herpes nell'anima, però vero, mica come il tuo.»

Avrei davvero voluto essere in diritto di ridere adesso.

«Sì, l'avevo capito» mormorai ancora. «Intendevo-ehm, che legame avete, oltre a tutto questo?»

Sbuffarono in contemporanea.

«Dante, purtroppo per noi, c'ha metà del nostro sangue» disse Dorian. «È stato sgravato da nostra madre prima di noi.»

«Però non è uscito dai coglioni di nostro padre, ma da quelli di un altro.»

«Che tanto erano comunque coglioni di merda proprio come quelli del nostro vecchio.»

«Però noi siamo usciti intelligenti, Dante solo rompicazzi, invece.»

Il loro fratellastro maggiore, perciò.

E se la gente non osava toccare quei due gemelli, significava che in quel quartiere era ben noto per la sua forza e violenza, che si era fatto una "buona" reputazione e la usava per dare ai suoi fratellini una protezione.

Di nuovo, le viscere mi si contorsero con così tanta violenza che faticai a continuare a respirare.

«Dante, Dorothea e Dorian» bisbigliai.

«Sì, nostra madre c'aveva una passione folle per la lettera D da giovane» confermò Dorian, quasi imbarazzato. «Diceva che le portava fortuna.»

«Che non è vero, visto com'è coglione Dante e quanto siamo poracci.»

«Oh, capisco» esalai alla fine. Tornai a guardare l'appartamento. «E... E non è qui, adesso, Dante? Non ci sono neanche i vostri genitori?»

«I nostri genitori sono schiattati, viviamo solo con quel rompicoglioni.»

Sussultai ancora, non solo per il significato di quelle parole, ma anche per la tranquillità con cui Dory le disse, come se fosse una cosa banale, di cui poco o niente le interessava.

«Dante invece sta a lavoro» proseguì il fratello, altrettanto sereno. «Dovrebbe tornare per pranzo, quindi non te devi preoccupare, è ancora presto. Poi oggi aveva detto che il suo cliente aveva una richiesta super difficile, sicuro farà tardi.»

«Il suo cliente?»

«Dante è un tatuatore» rispose Dory. «Il più bravo di tutti in 'sto cesso di posto, anche gente da altre città viene qui per farsi tatuà da quel coglione.»

«Tu non glielo di' che l'abbiamo detto, però, eh, che poi sai come se gasa.»

Un tatuatore.

Trattenni una risata amara, l'ennesima della mia vita.

Un'altra ironica coincidenza? L'ennesima beffa da parte del destino?

In passato, io e Betsy avevamo sempre desiderato farci un tatuaggio che rappresentasse la nostra amicizia: la data del giorno in cui ci eravamo conosciute sul polso interno.

Ma a causa della mia afefobia mai l'avevamo potuto realizzare. Per quanto adorassi l'idea, il pensiero di esser toccata per così tanto tempo da una persona totalmente estranea che non solo mi sfiorava con le mani la pelle nuda, ma con quelle stesse mani trascriveva sulla mia carne, era sufficiente per indurmi il vomito.

«Va bene» sussurrai a fatica. «Non glielo dirò, promesso.»

Gongolarono. «Vieni, Thaty, vatti a sedere sul divano che ti puliamo il viso» dichiarò sicura Dory, mentre il fratello mi indicava per l'appunto il divano e mi prendeva la busta della spesa, posandola sul tavolo del soggiorno.

«Te fa male la testa?» mi domandò lui, seguendomi, ero ormai troppo stanca per poter ribattere qualcosa.

«Sto bene» risposi, per poi mettermi a sedere e rimanerne subito dopo sorpresa. Era morbidissimo, quel divano, non me l'aspettavo proprio, visto quant'era vecchio. «Solo... Mi fa solo male la guancia.»

Dory aprì una delle porte ancora chiuse, quella in mezzo, e scomparve all'interno della stanza, per poi riapparire, pochi secondi dopo, con un kit di pronto soccorso. «Te verrà senz'altro un livido, ma non te preoccupare troppo, Thaty, i lividi so trofei» asserì, mentre posava il kit sul tavolino minuscolo e in legno che si frapponeva tra il divano e il mobile della televisione.

Dorian lo aprì, tirò fuori alla velocità della luce garza, pomata e fazzoletti, mentre proseguiva: «E poi c'hai davvero un bel viso, Thaty, rimarrai comunque gnocca, non c'hai da spaventarti.»

Un'altra ondata di dolore mi annegò tutti gli organi, davanti a quelle parole.

Un tempo, nel sentirle, sarei arrossita così tanto da perdere del tutto il mio incarnato pallido, e pur non credendo ad esse, sarei stata felice.

Ora, invece, al solo udirle mi veniva la nausea.

«Non ti possiamo toccare, perciò dovrai fare da te» continuò Dory. Mi accorsi che tra le dita stringeva uno specchio da mano, ovale, piccolo e in ottone. Me lo passò veloce, lo strinsi incerta, mentre il gemello mi porgeva l'ovatta bagnata e la pomata. «Te conviene abbassarti il cappuccio, però, eh.»

Sapevo che avevano ragione. Ormai, comunque, conoscevano la mia identità, non aveva più senso nascondere uno dei miei tanti simboli d'identificazione.

Lasciai ricadere pomata e ovatta al mio fianco, sul divano, mentre con una mano stringevo lo specchio e con l'altra mi abbassavo il cappuccio.

I miei ricci, quei ricci che avevo sempre odiato e usato soltanto per nascondere il viso, quei ricci quasi afro, tant'erano intricati e arrotolati in sé stessi, esplosero come al solito nell'aria tutto d'un colpo, quasi avessero preso pure loro la scossa da un taser, e nel vederli i due piccoletti sgranarono gli occhi e spalancarono la bocca.

«Wow!» esclamò entusiasta Dory. «Che figata!»

«Pazzeschi!» continuò il fratello, stelle al posto degli occhi. «Sembrano finti!»

«E scommetto che so morbidissimi a toccarli! Chissà che piacere a fallo! Tipo pallina antistress! Figata pazzesca!»

«Come li hai ficcati sotto quel cappuccio? Davvero ce sei riuscita?»

Quei due bambini sfacciati e volgari stavano diventando una tentazione sempre più forte, sempre più dolorosa perché io riuscissi a resistervi.

Più tempo passavo con loro, più desideravo crollare.

Perché mi facevano sentire umana, perché mi facevano sentire normale.

Una donna qualsiasi, una ventisettenne qualsiasi, coi suoi pregi e difetti, che poteva essere presa in giro ma anche riempita di complimenti, proprio come tutti quanti.

Erano anni che non mi accadeva, anni.

E sapevo di non meritarmelo, e proprio per questo era ancor più doloroso rendermi conto che in me c'era ancora una piccola, minuscola, infinitesimale parte che invece continuava a sperare di essere un po' degna di ciò.

Che piangeva per quei complimenti, che si straziava per riceverne altri, non perché ci credeva, ma perché sognava ancora di considerarsi umana.

Gli occhi mi bruciarono con furia, lo specchio prese a tremare.

«G-Grazie» balbettai infine, la voce arrochita. «Per metterli nel cappuccio... devo prima schiacciarli tutti.»

«Peccato che non possiamo toccatte, Thaty, c'ho proprio 'na voglia immensa de palpeggiarti quei ricci» si lamentò con uno sbuffo Dory, mostrando il gesto del suddetto palpeggiamento con le mani nell'aria.

«Sì, davvero. Secondo me a palparli ce passerebbero pure i coglioni girati a causa di quel cagacazzi di Dante.»

Mi sforzai di ammiccare un sorriso, mentre prendevo l'occorrente per pulirmi la faccia, posizionando lo specchio davanti a quest'ultima.

Ero davvero in condizioni pietose.

Al di là del gonfiore che era nato da quel pugno e del sangue uscito dal naso, adesso incrostato alla pelle fino alla bocca, avevo davvero un aspetto orrendo. I miei occhi verdi erano soffocati dalle occhiaie, la carne pallida di natura era quasi trasparente, le guance piene di grasso mi trasformavano in una pralina, le labbra carnose erano secche, le sopracciglia erano fin troppo folte e spesse.

Non mi ero mai considerata una bellezza, al contrario avevo sempre saputo di essere brutta, ma mai come allora mi ero vista così orrenda, e sapevo di non poter dare la colpa ai risultati di quel pugno.

Serrai la mascella, mi rifiutai di dar retta alle mie voci interiori, ai ricordi di anni addietro della mia amica che mi dava ripetuti colpi in testa per ripetermi, ancora e ancora, di non giudicarmi così, di non essere così cattiva con me stessa.

Sei gnocchissima, Agatha, fidati di me! Non posso dirti che andrei a letto con te perché sei mia sorella e sai bene quanto l'incesto mi fa schifo, ma se non lo fossi senz'altro ci avrei fatto un pensierino!

Mi costrinsi a scacciar via quelle memorie, a iniziare a ripulirmi il sangue incrostato sul viso, applicare la pomata sul gonfiore dello zigomo pestato.

I due mi osservarono in silenzio, con la sfacciataggine di sempre a vestirgli le facce, ma una curiosità innata gli illuminava gli occhi.

«So che è ipocrita da parte mia dirlo, visto che mi avete salvata» mormorai alla fine, non appena ebbi finito. Posai tutte le cose sul divano, al mio fianco. «Ma non dovreste far entrare così una sconosciuta in casa vostra, specie quando non c'è alcun adulto e se la sconosciuta è una persona come me, con una reputazione del genere.»

«Oh ma sei davvero scema, eh, Thaty? C'abbiamo un taser! Non potresti toccarci manco con un dito!» esclamò indignatissimo Dorian.

Avevo dimenticato quel dettaglio. «A proposito... da dove esce fuori... quel taser?»

«Fregato da Dante» rispose orgogliosissima Dory. Corrucciai la fronte. «Gli abbiamo scassinato la porta della sua stanza.»

Erano davvero delle pesti, non potevo crederci, piccoli criminali incalliti, e dopo tutto quello che mi avevano detto sul suo conto, adesso avevo anche paura di quel Dante. Non solo la gente del posto lo temeva, ma nella sua camera conservava un taser vero e proprio, ed ero certa che non era l'unica arma che celava là dentro o si portava in giro.

«Ci prova sempre, a impedircelo, cambia serratura praticamente ogni due settimane» continuò la sorella.

«Ma noi non ci facemo fregare, miglioriamo sempre le nostre abilità proprio per non rimane indietro.»

«Oh, come si incazzerà appena se ne accorgerà!» Dory stava saltellando per l'entusiasmo, letteralmente. «Come lo spaventiamo stavolta, Dorian?»

«Diciamogli de avergli bucato tutti i preservativi.»

«Non ce cascherà mai, lo sa meglio di noi quanto ci starebbe sul cazzo un bamboccio uscito dai suoi coglioni e dalle ovaie de quella cimice de Vicky. Il rischio che sia cagacazzi più de lui e più cimice de lei è troppo alto.»

Davvero, non potevano far passare neanche un minuto senza insultare il loro fratello maggiore.

E provavano a nasconderlo, ci provavano eccome, ma era evidente e lampante quanto in realtà gli volessero bene. Puro affetto, caldo e gentile come un lago di luce, gli brillava negli occhi. Mi bastò scorgerlo un attimo per riconoscerlo subito.

Un tempo anche io ero così.

Un tempo anche io avevo una persona i cui occhi brillavano in quel modo, pensando a me.

Un dolore disumano mi investì ancora e se ne accorsero subito, vidi la preoccupazione ramificarsi sulle loro fronti, e questo mi addolorò ancora di più, mi costrinsi a cambiare argomento per distrarci: «Non vi piace proprio questa Vicky, eh?»

«Fosse per noi, la crocifiggeremmo che manco con Cristo» sentenziò lei. Non riuscii a trattenere l'angolo destro della bocca dal sollevarsi.

«Un calcio ai coglioni è più piacevole de quella cimice» concordò il gemello.

«Se crede chissà che femmina solo perché scopa con Dante e la gente le dice sempre che è bella.»

Dorian annuì. «Che poi non è manco così bella: è una fottuta Barbie. Le Barbie so orrende.»

«Vero, per questo davamo fuoco ai loro capelli.»

Lui sbuffò. «Cerca in ogni modo de comprarci perché vuole diventa la donna ufficiale di Dante, non solo scopasselo.»

«Ma noi mica semo cimici come lei, lo capiamo quando una finge. Illusa! Non è certo la prima femmina che prova a comprarci per farsi mette l'anello al dito da quel coglione.» Dory continuava ad annuire.

«Però quando pensa che non la vediamo, mostra subito quanto le stiamo sul cazzo. Tipo perché non capiamo le robe di scuola.»

«E solo perché è una delle poche qua dentro che ha frequentato l'università per qualche anno, quindi se crede de avercela più profumata de tutte.»

«Ma tanto sa fare solo le storie su Instagram per vende trucchi di merda.»

«E profumi di merda che a sentirli te viene voglia di andare ad annusare i cassoni della spazzatura perché so sempre meglio.»

Parlavano senza freno, quasi già sapessero a vicenda cosa avrebbe detto l'altro.

«E poi è pure poraccia più di noi, ma comunque se la tira un casino.» Entrambi erano indignati al massimo. «T'abbiamo detto che Dante è scemo. Bello com'è, avrebbe dovuto approfittarsene e scopasse una riccona, così almeno pure noi adesso c'avremmo i soldi.»

«Ora che ci penso» intervenne all'improvviso Dory, avvicinandosi a me e scrutandomi come una scienziata con i suoi topi da laboratorio, «Tu sei ricca, Thaty, ve'?»

Inarcai le sopracciglia. La situazione stava prendendo una piega pericolosa. «Io-»

«Non osare mentire» mi bloccò subito Dorian. «Adesso te vestirai pure come una sfigata e vivrai qui, ma quei guanti che indossi costano più del mio culo.»

Davvero, trattenersi dal ridere era difficilissimo.

«E secondo me sei molto meglio di quella Barbie de Vicky» proseguì Dory, continuando a ispezionarmi tutta la faccia. «C'hai delle tette stratosferiche e un bel viso, e le sopracciglia ce le hai davvero, sono sopracciglia che se vedono e ci sono, non come quelle de quella bambolotta che so praticamente due schizzi de matita.»

«E soprattutto sei ricca.»

«E i tuoi capelli ricci so fantastici, sul serio, godi anche solo a guardarli. Immaginati a palparli mentre scopate.» Di nuovo, ripeté il gesto del palpeggiamento con le mani.

«E soprattutto sei ricca.»

«E sì, c'hai un po' de grasso in più, ma il grasso piace, eh. Come dice una grande donna, cioè io, una bisteccona succosa è sempre meglio delle costine rinsecchite. La ciccia te fa-come se dice? Prospertica?» Guardò il fratello alla ricerca di aiuto.

«Prosperosa.»

«Esatto, prosperosa. Tipo quei quadri strani di quell'artista famoso morto millenni fa. Non Barbie, ma gnocca lo stesso, meglio de Barbie.»

«E soprattutto sei ricca.»

«Non capisco se mi state facendo tutti questi complimenti perché li pensate davvero o solo perché sono ricca.»

«Essere ricca è un altro complimento» affermarono sicuri insieme.

«Un portafogli pieno te fa scopare meglio sicuro» dichiarò Dory con tono da donna vissuta.

«E perché sono ricca ora volete che mi metta con vostro fratello?»

«Mica te ce devi mettere insieme, ce stai simpatica, non te daremmo mai 'sta condanna» commentò Dorian. «Devi solo scopattelo di tanto in tanto e dacce i soldi.»

Erano sul serio senza vergogna, quei due, ma davvero non potevo neanche indignarmi. Ero travolta dal supplizio di una guerra in me stessa, tra la parte di me che voleva cedere a tutti i costi alle risate e la piacevolezza di quella sensazione e quella che mi latrava contro e mi ricordava ad ogni secondo che razza di bestia fossi, immeritevole anche del più piccolo sorriso.

«Guarda che anche se è cagacazzi e coglione assoluto c'ha proprio un bel fisico ed è gnocco da morire.» Da come parlava, Dorian sembrava una di quelle pubblicità che promuoveva materassi. «E con tutte quelle che ha avuto, secondo me scopa pure molto bene.»

«Così ce togli de mezzo quella cimice di Vicky, oltre che dacce i tuoi soldi.»

Avrei voluto fargli notare che a causa della mia afefobia mi era del tutto impossibile intrattenere relazioni sessuali, e che la mia reputazione agli occhi del mondo era la più orrenda di tutti, non sarebbe mai andato a loro vantaggio un piano così, ma per quanto svergognati, sfacciati e volgari fossero, non me la sentivo di tirare fuori argomenti del genere con dei bambini.

Era ormai evidente ai miei occhi che il contesto in cui avevano vissuto da che erano nati li aveva fatti crescere prima degli altri, dandogli conoscenze che non avrebbero dovuto avere alla loro età; il loro modo di parlare, pensare e fare ne era la prova, e proprio per questo motivo non me la sentivo di peggiorare ancora quella situazione.

«Mi dispiace, non sono interessata» dissi alla fine. «Ma...» Esitai un secondo, incerta. «Semmai... Semmai...»

Non sapevo se dirlo, in realtà, non sapevo se era la cosa giusta da fare, se sarei sembrata ancora più ipocrita e sbagliata di quanto già non fossi.

Deglutii a fatica, i loro sguardi mi stavano ustionando.

«Semmai... vi trovaste in guai economici...» bisbigliai alla fine. «Io... vi aiuterei volentieri, per ringraziarvi... per quello che avete fatto per me.»

In un istante, entrambi sollevarono la loro mano destra davanti alla mia faccia, le dita aperte, i palmi rivolti al soffitto.

«Cento dollari» dichiarò Dory con voce ed espressione così serie da spaventarmi quasi.

«Cazzo dici, Dory, almeno trecento!»

Ed io non riuscii più a trattenermi.

Proprio non ne fui in grado.

Scoppiai a ridere fragorosamente, con così tanta forza che la risata echeggiò come una bomba dentro tutto l'appartamento.

Ci avevo provato, ci avevo provato a resistere.

A resistere alla tentazione di essere felice, anche solo per un secondo.

Ma davanti alla loro sfacciataggine, davanti alla loro determinazione, quella strafottenza così infantile seppur in mano a due bambini nati e cresciuti in un contesto del genere, non ero più riuscita a contenermi.

Erano così belli, così simpatici, così pieni di vita.

Erano le creature più meravigliose che avessi mai incontrato.

I sensi di colpa per aver ceduto a quella tentazione mi squarciarono le budella come una bestia affamata, e comunque non riuscirono a uccidermi la risata, comunque non riuscirono ad annientare quel minuscolo istante di felicità.

«Oddio, ma allora sai ride davvero!» Dory era estasiata, un sorriso gigante le spalancava le labbra.

«Sei davvero gnocca quando ridi, Thaty!»

Ed io risi e risi e risi ancora.

Mi dissi senza volerlo: "Solo stavolta, solo stavolta, lo giuro."

«Con me non ho tutti questi soldi» ammisi alla fine, dopo essermi ripresa. «Ve li darò quando capiterà l'occasione.»

«Ci contiamo, eh, Thaty, è una promessa» commentò Dory, ed io annuii.

«Piuttosto, che c'hai fame?» domandò d'improvviso Dorian, stupendomi. «Io c'ho fame. C'ho fame di dolci.»

«Potemo prepararli, dovremmo avecce gli ingredienti.»

«Ma se facciamo schifo in cucina, tu manco sei capace a bollire la pasta.»

«E tu manco di sbucciare 'na mela.»

Cucinare.

Serrai la mascella, inspirai con forza, le parole sgorgarono da sole, prima che potessi impedirmelo: «Io... Io so cucinare.»

La meraviglia calcò i loro sguardi.

«Davvero?» domandarono insieme, e quando annuii, iniziarono a saltellare sul posto.

«Oddio, sì! Finalmente mangeremo qualcosa che sa davvero de cibo! Corri, Thaty, corri, in cucina, subito!» mi ordinò feroce Dory.

Non seppi impedirmelo di nuovo, non seppi fermarmi di nuovo.

Mi sollevai in piedi dal divano, li seguii a quella cucina.

In testa, dilaniata da un vortice di pensieri, uno in particolare continuava a sanguinare con furia.

"Ti prego, non punirmi anche per questo, ti prego."

*

«Come hai detto che si chiamano 'sti biscotti, Thaty?»

«Si chiamano éclair, Dory.»

«Sembrano dei cazzi piccoli col cioccolato sopra, ve', Dorian?»

«Vero, e poi c'hanno un nome stranissimo. Chi gliel'ha dato?»

«Sono dei pasticcini francesi.»

«Sei riuscita a fa 'na roba francese in casa nostra? Forse sei tu a meritare di diventa santa, Thaty, altroché quello stronzo de Dante.»

«Dorian c'ha ragione, Thaty. Senti, invece di quei bigliettoni, perché non vieni a stare da noi e ce cucini per sempre?»

«Anzi, no, 'spe, facciamo una cosa a metà: invece che trecento dollari ce ne dai cento però passi da casa nostra per i due mesi che vengono per cucinarci.»

«Aspettate prima di giudicare, sono... Sono anni che non cucino qualcosa, non posso garantire che abbiano un buon sapore.»

«Però c'hanno n'aspetto fantastico, oh, te viene proprio voglia de ciuccialli come se fossero cazzi.»

«Parla per te, Dory, a me non interessa ciuccià cazzi.»

«Allora tagliali a metà e spruzzace in mezzo la panna spray, così puoi leccalli come se fosser-»

«Ok! Dovrebbero essere pronti. Potete assaggiarli, ora.»

Non esitarono un istante, si fiondarono su quegli éclair in fila ordinata sopra il vassoio come se da ciò ne dipendesse la loro vita. Li addentarono nello stesso momento e con le stesse identiche mosse ed espressioni in viso.

Erano sul serio un duo comico, quei gemelli.

Mentre li osservavo masticare quei pasticcini senza commentare, mi sentii irrigidire dentro.

Mentre preparavo quei dolci, durante ciascuna fase del processo, in testa non avevo potuto fare altro che dirmi che non dovevo godermi troppo quel momento, che non dovevo permettere all'Agatha di una volta - quella che amava con tutto il cuore la cucina - di prendere il sopravvento.

In parte c'ero riuscita.

Riprendere in mano quella passione mi era sembrato quasi contro natura, il mio fisico si contraeva con strazio ad ogni respiro, mi pareva di star soffocando, di essere finita in una stanza priva d'aria; al tempo stesso, però, le mani si muovevano in automatico e così le braccia e così le dita e così il cervello che tirava fuori tutto ciò che sapevo sulla ricetta, tutti i ricordi che avevo di essa in merito ai mille esprimenti che avevo fatto per migliorarla e renderla unica e speciale, per lasciare a quei pasticcini ben noti nel mondo anche la mia firma.

Era stato come andare in bici dopo tanti anni senza mai averla usata: credevi di essertene dimenticato del tutto, ti sentivi a disagio nel montare in sella, ma ogni muscolo e nervo già sapeva cosa fare, già sapeva come comportarsi, prendeva vita e comandava, imperava sul timore impedendogli di prendere il sopravvento.

Fissai quei due gemelli così assurdi mentre divoravano voraci i pasticcini, davanti a me dall'altro lato della penisola della cucina. Un terrore istintivo mi azzannò il cuore, faticai a prendere fiato, a ricordarmi come si respirava.

Stavo sbagliando, stavo sbagliando di nuovo, lo sapevo bene, lo sapevo benissimo.

Avrei dovuto andarmene da lì, non propormi per preparargli quel dessert.

Avrei dovuto tornare alla mia solitudine e al mio dolore.

Avrei dovuto ringraziarli, dargli tutti i miei soldi che avevo al momento e poi scomparire per sempre dalle loro vite.

Riuscivo già a sentirle, le voci, quelle voci di tutto il mondo che mi abbaiavano contro nel vedermi vivere così tranquillamente, come se nulla fosse, come se non fossi una bestia, la figlia di mio padre.

Io che non meritavo più felicità, io che avevo portato la mia migliore amica alla morte.

Io che-

«Thaty, cazzo! Hai un futuro da chef!»

L'esclamazione di Dorian fu una vera e propria bomba che mi esplose nel cuore, devastando tutto, ogni cosa al mio interno, e più non sentii nulla se non un sibilo così acuto da maciullarmi il cervello, tormentarlo col ricordo di uno dei miei primi giorni felici.

Ciliegina, hai un futuro da chef!

Li guardai.

Guardai i loro visi incantati da ciò che stavano mangiando.

La meraviglia con cui masticavano ogni boccone di quei pasticcini.

Le guance rosse, la luce negli occhi, i sorrisi goduriosi.

Guardai la felicità che avevo creato con la mia cucina.

La stessa che era nata in una cucina diversa da quella, tanti anni prima.

La stessa che aveva calcato anche il volto dell'uomo che più amavo al mondo e che adesso anche più odiavo al mondo.

E mi sembrò di marcire, decompormi proprio lì, in piedi davanti a loro, come se fossi già morta, come se già fossi cadavere ma l'anima fosse rimasta incastrata dentro e più non potesse liberarsi e scappare via.

«Thaty, perché non ti trasf-Oh cazzo! Perché piangi?»

Non ero riuscita a trattenermi.

Le lacrime avevano iniziato a cadermi dagli occhi una dopo l'altra non appena li avevo scorti così emozionati, ed io mi sentii proprio come quelle lacrime, come se mi stessi sciogliendo in gocce voraci, stille che contenevano tutti i miei rimpianti e i miei sogni, a cadere per terra, deflagrare con urla morte nel silenzio su quel pavimento.

E feci del mio meglio per non crollare, feci del mio meglio per rimanere in piedi, asciugarmi il più in fretta possibile quel pianto, dare la colpa alla polvere negli occhi, ma fallii, ne fui del tutto incapace.

Anche se sapevo che era sbagliato, anche se sapevo di non aver alcun diritto di mostrare il mio dolore, di lasciarlo uscir fuori davanti a qualcuno.

Ma questo non mi ascoltò, non mi diede retta. Mi inabissò nella sua voragine di angosce e memorie che tanto avrei voluto dimenticare, e così inabissò anche il resto: la mia voce e i miei respiri, quel poco di forza che mi era rimasta per non sprofondare.

Il mio volto si contrasse, si deturpò proprio quasi fosse carta stagnola, aggredito con bestialità dall'inferno che stavo vivendo da quattro anni e che lo masticò, lo divorò proprio, e adesso più non vedevo cos'avevo davanti, tant'erano grandi e numerose le lacrime che mi affogavano gli occhi, tant'era sconfinata la mia sofferenza.

Un universo di sbagli.

Mi accorsi di esser crollata a terra, in ginocchio, solo dopo qualche istante, quando avvertii il dolore alle ginocchia che si erano schiantate sul pavimento.

Mi accorsi di star singhiozzando solo perché la gola sembrava sul punto di scoppiarmi a causa della violenza di quei lamenti.

Ed era sbagliato, ne ero certa.

Era sbagliato sfogarmi così.

Ero sbagliata io, era sbagliato tutto quello che stavo facendo.

Non ero io la vittima di quella situazione.

Non ero io la vittima di quel dolore.

Lo erano quelli che erano stati uccisi da mio padre.

Lo erano tutte quelle settantatré persone innocenti.

Lo era Betsy.

Lo era Joanne.

Lo era Lucas.

Non io. Mai io. Io che anzi ero la causa principale di quel dolore, io che avrei potuto prevenirlo tanto tempo prima, quel dolore, se solo non fossi stata così stupida, se solo non fossi stata così ingenua, se solo non fossi stata così me.

Io che ero colpevole, rea d'affetto per un mostro, mai sarei stata in diritto di mostrare il mio tormento, sarei stata solo ipocrita, ingiusta, a farlo, avrei solo umiliato ancor più le vere vittime di tutto quell'inferno.

Ma ero incapace di fermarmi, incapace di contenermi.

Marcivo e soffrivo e piangevo e mi scioglievo e singhiozzavo senza più sosta, il dolore mi si scagliava addosso con squarci continui d'agonia contro cui proprio non sapevo difendermi. Come imparare a nuotare da soli buttandosi al centro dell'oceano, senza braccioli, salvagenti e qualcuno al proprio fianco disposto a reggerti e insegnarti.

Affogavo inesorabilmente.

Il mio pianto il mare in cui perdevo il respiro.

E d'improvviso un calore immenso mi scaldò tutta la schiena curvata dalle contrazioni. Sussultai sorpresa, mi guardai attorno.

Dory e Dorian alla mia destra, i loro volti addolorati.

Addosso mi avevano messo una giacca. Un cappotto da uomo invernale di certo non loro, dalla finta pelliccia interna, che mi investì di un fuoco diverso da quello dell'inferno che conoscevo.

«Non possiamo toccarti, quindi possiamo consolarti solo così» sentii dire da Dory, le sopracciglia corrucciate.

«M-Mi dispiace» mi ritrovai a balbettare, presa dal panico. Tentai disperata ancora una volta di frenarmi, ma il pianto continuava a scoppiarmi dagli occhi. «C-Cercherò di riprendermi il pri-»

«Guarda che se stai male è giusto che piangi» mi bloccò subito Dorian. «Mica è sbagliato piangere, oh. Tutti lo facciamo.»

«Vero, pure Dante lo dice. "La storia che un vero uomo non piange mai è una stronzata immensa" dice sempre.»

«E dice anche che il vero uomo è quello che piange senza vergognarsi, perché per esse sul serio forti bisogna sapere ammette quando stiamo a soffrì. Non te fai bene se ti rifiuti di piangere, te fai solo più male.»

Fu troppo.

Tutto fu troppo.

Ogni emozione, ogni respiro, ogni sensazione, ogni rimpianto.

I loro occhi preoccupati.

Il mio dolore.

La gentilezza delle loro parole e del gesto con cui avevano provato a consolarmi.

Il calore immenso di quella giacca sulla mia schiena e le mie spalle.

Nonostante il terrore che poi sarei stata punita di nuovo per quel mio gesto.

Nonostante il supplizio di ciò che ero, del mostro che ero.

Crollai ancora e ancora e ancora, e loro rimasero lì, accanto a me, ad ascoltare ogni mio singhiozzo e lamento, ad asciugarmi ogni mia lacrima anche senza sfiorarmi con un dito, solo guardandomi, solo testimoniando l'esistenza di quella sofferenza che mai nessuno prima aveva voluto guardare o dichiarare ammessa.

E per la prima volta mi ritrovai a pensare tutto ciò che mi ero sempre impedita di dirmi in testa, tutti quei desideri che mai avevo osato esprimere perché indegna, dal giorno della scoperta.

Mi manchi, Betsy, mi manchi tantissimo.

Non voglio soffrire così, non voglio morire così.

Voglio solo essere felice, solo essere felice.

Voglio solo che tutto questo sia un incubo, che in verità tu sei ancora qui, Betsy, e che il mio papà in realtà non è un mostro e nemmeno io lo sono e tutto quanto non è mai successo e anche una come me merita qualcuno che le vuole bene.

Mi manchi, papà, mi manca il mio papà che non era una bestia, un mostro, quel papà che si mangiava i miei biscotti bruciati per farmi sorridere e infiocchettava i nostri polsi così che potessimo tenerci per mano.

Mi manca tutto, mi manco io.

E vorrei solo potermi perdonare, vorrei solo potermi amare.

«Non te preoccupare, Thaty» udii Dorian dirmi. «Sappiamo tenere i segreti noi.»

«Sìsì, t'assicuro. Semo delle botti di ferro. Tranne che con i segreti de Dante, ma quello perché c'abbiamo voglia de fagli girare i coglioni come lui li gira a noi.»

«Io-»

Venni interrotta dal frastuono della porta d'ingresso che si aprì con violenza, andando a sbattere contro la parete.

«SATANA! LILITH!»

L'urlo di un uomo.

Feroce, consumato dall'ira.

Dory e Dorian sussultarono nel sentirlo esplodergli alle loro spalle.

«Che cazzo state a fare qua? A scuola dovreste essere! A scuola, cazzo

«Oh no» sussurrò a bassa voce Dorian.

«C'ha sgamato» sussurrò a bassa voce Dory.

Risollevai lo sguardo, lo volsi oltre i loro corpi, ancora annebbiato dalle lacrime.

Sulla soglia d'ingresso c'era un uomo.

Un uomo che doveva essermi coetaneo.

Indossava una giacca di jeans aperta sotto cui si poteva vedere una maglia bianca, dei pantaloni neri dalle tasche giganti e un paio di scarpe da ginnastica dello stesso colore.

Quegli indumenti gli coprivano praticamente tutto il corpo, ma le poche zone che erano rimaste in vista - il collo, le mani, le dita, un pezzo appena intravedibile del petto - erano a loro volta vestite.

Da tatuaggi neri che, tuttavia, da dove mi trovavo non potevo vedere nel dettaglio.

E anche con quegli abiti addosso si poteva intuire subito quanto fosse allenato. Non possedeva un fisico da culturista o uno di quelli che sembrava esplodere a causa dei muscoli, ma era evidente che ne avesse eccome, di muscoli, proporzionati e delineati anche sotto la maglietta e la giacca.

Ed era alto, mio Dio, se non lo era. Per poco non toccava il soffitto di quel trilocale con la testa. Senz'altro sfiorava o si avvicinava molto ai due metri.

Un tempo, nel vedere un uomo così, mi sarei presa immediatamente una sbandata per lui, avrei subito sviluppato un'incresciosa cotta nei suoi confronti.

Era proprio il tipo a cui andavo dietro da ragazzina: lo stereotipo perfetto del cattivo ragazzo, quello per cui Betsy mi prendeva per il culo dalla mattina alla sera, dicendomi che ero un caso perso.

Aveva una carnagione olivastra, un volto durissimo dalla mascella squadrata, i lineamenti marcati, un naso dritto e un viso simmetrico, labbra carnose ma non in modo esagerato, occhi recintati da ciglia lunghe e fitte, capelli lisci di un castano più scuro che mai, come cioccolato fondente, rasati un po' ai lati e lasciati liberi sopra, le ciocche a cadergli in fronte quasi arruffate.

Due piercing ad anellini d'acciaio gli pendevano dal lobo dell'orecchio destro, ne aveva anche uno verso la fine del sopracciglio sinistro, che attraversava quest'ultimo da una parte all'altra; sopra l'altro sopracciglio, in parallelo alla sua linea, invece, l'ennesimo tatuaggio, altrettanto piccolo, ma troppo lontano perché potessi capire di che si trattava. Sembrava... quattro microscopiche stelline messe in fila.

Ed era senza ombra di dubbi il fratello maggiore dei due gemelli.

Dante.

Sebbene l'aspetto, i lineamenti e persino la carnagione fossero completamente diversi dai loro, gli occhi... gli occhi erano gli stessi, sia nella forma che nel colore: ambrati e limpidi.

Anche se in quel momento proprio limpidi non erano, perché l'ira li stava divorando allo stesso modo con cui gli stava contorcendo il viso.

E la stava rivolgendo tutta alle due piccole pesti, sembrava proprio sul punto di incenerirli con lo sguardo, neanche si era accorto di me.

La sorpresa di trovarmelo lì e di quella situazione mi prosciugò in un attimo le lacrime.

«Possibile che non ci sia un giorno - un giorno soltanto, cazzo! - in cui non venga chiamato dalla scuola per dirmi che avete combinato un casino?!» gridò ancora Dante, mentre Dory e Dorian si voltavano per guardarlo con la loro sempiterna aria di sfida. Aveva una voce profondissima, quasi cavernosa.

«Che stai a fa qua, tu?» lo provocò la sorella. «Non dovresti sta a lavoro adesso?»

«Hai detto bene, Lilith! Dovrei! E indovina un po' perché non ci sto a lavoro? Già! Perché la preside m'ha chiamato per dirmi che voi demoni siete di nuovo scappati da scuola! E sono giorni che lo fate! Giorni! Se n'è accorta oggi perché un professore vi ha visto scappare coi suoi occhi dalla finestra! Vi siete spacciati per assenti, dannati diavoli!»

Lilith?

«C'avevamo robe nostre da fare, oh.»

La difesa di Dorian non mi sembrava molto convincente, e di fatto l'espressione di Dante s'inferocì ancora di più. Avanzò con passi da elefante fino a trovarsi davanti ai due gemelli che, in confronto alla sua stazza, erano dei neonati.

Le narici dilatate fremettero.

«Me ne fotto delle robe che c'avete da fare! Dovete andare a scuola! Dovete studiare! Quante cazzo di volte ve lo devo dire, eh?»

«Non farci la ramanzina, rompicoglioni! Lo sappiamo che tu eri peggio de noi a scuola! Infatti manco ce l'hai il diploma!»

«Appunto perché non ce l'ho vi dico di studiare, Lilith! Proprio per questo! Che volete fare la fine mia, eh?»

«Impossibile. Manco senza diploma finiremmo pe scopacce cimici come Vicky. Non saremo mai scemi come te!» Dory finse un conato.

«Che cazzo c'entra Vicky adesso!» Il viso era sempre più masticato dalla rabbia. «Andate a scuola, cazzo! Vi serve! È importante! La preside sta sul punto di gettarsi da un grattacielo per colpa vostra!»

«Tanto, grassa com'è, rimbalzerebbe come una pallina de ping pong.»

«Satana!»

Satana?

«Che c'è? Me sta sui coglioni, quella là! Se lamenta sempre de noi!»

«Tutti si lamentano di voi! Tutti! La preside! La vicepreside! I professori! I genitori! Gli altri studenti! Cristo, persino i bidelli! E le addette alla mensa! Le addette alla mensa che vedete dieci minuti al giorno, cazzo!»

«Non è vero! Gli studenti non lo fanno!» s'indignò Dory. «Ce venerano!»

«Certo! Come si venera Lucifero!»

Dorian schioccò la lingua. «Fa' poco il santo, rompipalle, che sei tu quello che fa il bagno col sangue dei suoi nemici, mica noi.»

Era talmente fuori di sé, Dante, che sembrava sul punto di voler lanciare loro dal grattacielo, al posto della preside.

«Dovrei fare il bagno col vostro, di sangue! Ma siete così stupidi che diventerei cretino come voi, se lo facessi!»

«Almeno non siamo così stupidi da scopacce quella cimice coi capelli che c'hanno più ossigeno del suo cervello» sibilò Dory, una vera e propria vipera.

«Vi ho detto tremila volte de lascia sta Vic-»

Si bloccò.

Il suo sguardo adirato si era finalmente scostato dai gemelli e si era accorto di me.

Sobbalzai nell'attimo in cui i suoi occhi incrociarono i miei.

E lo capii all'istante.

Mi aveva riconosciuta.

Non che fosse una novità, visto che le mie foto avevano fatto il giro del mondo, ma in quel momento in particolar modo ebbi ancor più l'impulso di coprirmi il viso coi miei ricci.

Farmi riconoscere così, in quelle condizione pietose, con metà faccia dilatata e rossa a causa del pugno ricevuto, il viso fresco di lacrime, gli occhi gonfi dal pianto, che ancora mi bruciavano come fiamme voraci, e il corpo intero preso a tremare per via della sofferenza che mi aveva travolta poco prima, era più umiliante che mai.

Lo stupore per qualche secondo soffocò la sua ira, sgranò le palpebre, la bocca si schiuse, tutto di lui si irrigidì fino a renderlo una statua di marmo.

Non avevo la più pallida idea di come comportarmi, la mia mente si era completamente svuotata, e sapevo di non poter dare la colpa di ciò alla sua bellezza: ormai quel lato fangirl di me era morto da anni.

Lo scrutai mentre serrava la mascella, chiudeva gli occhi, si posava una mano sulla tempia e cominciava a massaggiarla.

Sembrò contare a mente i secondi che passavano, prima di riprendere a parlare.

«Satana. Lilith.»

Chiamò i fratelli con voce ancor più profonda e di una serietà spaventosa.

I due non parvero affatto preoccupati, continuarono a fissarlo con espressione di pura sfida.

«Che c'è, rompicazzi?» domandò Dorian.

Ancora ad occhi chiusi, disse severo: «Ditemi che non sto vedendo quello che sto vedendo adesso.»

Un brivido mi attraversò la schiena.

«Cosa? Una gnocca stratosferica e con le tette giganti in casa nostra?» chiese Dory.

«Ditemi che non sto vedendo davvero Agatha Reid, la figlia di quel pluriomicida pezzo de merda, sospettata di essere una sua complice, in casa mia. Ditemi che sto avendo le allucinazioni a causa di tutti i traumi psichiatrici e cranici che voi due flagelli del demonio me procurate ogni cazzo di giorno.»

«Da quando te frega dai coglioni di chi esce la gente?» sputò Dorian.

Di nuovo, Dante inspirò a palpebre serrate, con così tanta violenza da farmi temere che il petto fosse sul punto di esplodergli.

Poi, con lentezza e meccanicità, risollevò le ciglia.

Mi guardò.

Mi guardò e già seppi, seppi tutto.

Come il resto del mondo, come tutti quelli che un tempo mi conoscevano, per me provava una singola emozione.

Condanna.

Gliela lessi negli occhi, gli deflagrò proprio nell'ambra delle iridi.

Mi si insidiò dentro con la violenza di una bestia, sventrando la minuscola speranza di perdono che era nata attimi prima, la sentii urlare in testa, mentre in lacrime veniva ammazzata.

Lui mi pronunciò contro una sola parola, una soltanto, sufficiente per indurmi a condannarmi a mia volta per tutto ciò che avevo appena fatto e osato sognare in quell'appartamento.

«Fuori








Nota autrice

Sì, Dante, però stay calm and magnate un éclair anche tu!

Allora, muffins.

Lo so, lo so.

Sono una sadica bastarda.

Lo so.

(E ancora non avete visto nie-AEHM.)

Però questi capitoli introduttivi sono fondamentali non solo per presentare i vari personaggi, dare un background ad essi ma anche - o direi SOPRATTUTTO - per comprendere l'animo di Agatha, la nostra protagonista masochista-scema-traumatizzataavita-nuncestoacapìpiùuncazzosimò.

Partiamo dal principio.

In principio era Betsy George.

E Betsy George era presso Agatha.

E Betsy George era Agat-OK, VA BENE, LA SMETTO.

*Si schiarisce la gola e si sistema la cravatta invisibile*

Nella prima metà del capitolo, ci siamo fatti una prima idea generale su due cose:

- Com'era di carattere Betsy e il legame con Agatha

- Com'è avvenuto il rapimento agli occhi del mondo e quelli di Agatha

Partiamo dal primo punto.

Betsy, come descritta da Agatha, era una vera e propria furia, un tornado. Il suo legame con la protagonista era profondo perché - anche se mi pare ovvio, Agatha non l'ha capito perché c'ha un'autostima inesistente come la mia voglia di mettermi a dieta (o come direbbe mi nonna: "perché è scema in culo") - lei era stata in grado di scorgere quella bontà di cui la protagonista stessa è inconsapevole, dal loro primo incontro.

Ironico, vero? Che a indurla ad avvicinarsi ad Agatha sia stato il fatto che l'abbia sentita preoccuparsi e dire al padre di stare attento a lavoro perché non si facesse male. Lo stesso uomo che poi l'avrebbe rapita, torturata e poi uccisa.

Una sorta di crudele beffa del destino.

Di nuovo, per l'ennesima volta, non possiamo più sorprenderci se Agatha è DILANIATA dai sensi di colpa, e non solo per quel fottuto capanno.

È una tendenza umana e autodistruttiva di noi tutti, quella di rivangare al passato e iniziare a pensare :"Se non avessi fatto questo, non sarebbe successo, se avessi fatto quest'altro, non sarebbe successo". Lo facciamo noi ogni giorno, anche per cose più quotidiane, figurarsi davanti a un omicidio di una persona che ci è cara.

L'ennesima prova dell'umanità di Agatha e la sua fragilità estrema.

Ma vi ricordate quello che ha detto Betsy? Che lei mai sarebbe stata amica di una persona debole?

Ecco, non dimenticatelo.

Non avete ancora visto tutto di Agatha, non avete ancora visto tutto il suo passato e tutto il suo carattere.

Perché il concetto di "debole" e "forte" spesso si confonde insieme, spesso non ha neanche distinzione.

L'amicizia di queste due, seppur ora sia "finita" (almeno nel mondo terreno) mi fa sempre commuovere appena ci penso. Verrà approfondita anche in seguito perché:

a) ci servirà

b) ve voglio fa soffrì, e voglio fa soffrì me

Sadica e masochista fino alla fine. Da qualcuno doveva pur aver preso Agatha, no? Mica solo da Lawrence.

Secondo, il rapimento.

Questa storia, come ho detto, avrà lati "true crime" e "gialli" ma non saranno i più importanti e i fondamentali. Magari un po' ci rimarrete male, ma non voglio perdere capitoli interi a spiegare nel dettaglio come è avvenuto ogni singolo omicidio e ogni singolo rapimento e ogni singola tortura.

Quello che vi voglio mostrare non è questo, perché questo non è un libro giallo.

Quello che vi voglio mostrare sono LE CONSEGUENZE di simili azioni nella mente umana e nei sentimenti.

Le conseguenze che ha avuto Agatha nel perdere la sua amica, nello scoprire poi che è stato proprio quel padre che ama a togliergliela. Le conseguenze sulla mamma di Betsy, che ha a sua volta perso la sua bambina.

E ora andiamo alla seconda metà del capitolo, quella che più c'ha fatto sganascià dalle risate perché ci sono I NOSTRI EROI:

Dory e Dorian.

Li amo.

Li amo.

Li amo.

Ho già detto che li amo?

Sono delle pesti, piccoli criminali, volgarissimi, che insultano tutto e tutti senza remore, senza filtri, sbattendosene le palle delle regole, dei giudizi degli altri, amanti dei soldi (e come biasimarli) e odiatori seriali di Vicky.

E lo so che mi volete dire: Simo, però prendono sempre in giro anche le caratteristiche fisiche delle altre persone! Body shaming!

Muffins, c'hanno dodici anni, eh.

E poi nel contesto in cui so vissuti era praticamente inevitabile. Manco lo sanno cos'è il body shaming, per loro insultare tutto e tutti è praticamente un intercalare.

Tipo la bestemmia per un veneto.

Non so perfetti, tutt'altro, ma anche così...

C'hanno un cuore immenso.

Davvero, davvero immenso, a mio parere.

Pensate a questo: quando hanno salvato Agatha, Dory s'è subito preoccupata di chiederle se poteva stringerle la mano col guanto, nonostante fossero in una situazione di emergenza e dovessero scappare subito via. Comunque gliel'ha chiesto per non metterla a disagio.

E HA DODICI ANNI, CAZZO.

Roba che manco i settantenni spesso fanno (di solito molestano per le strade, però shhh)

Entrambi cercano di consolare Agatha il più possibile, facendole mille complimenti, (continuando a insultarla di tanto in tanto, però, beh, ce sta, e no, non sono TSUNDERI come un bad boy a noi noto per chi ha letto Apologia di Callisto, glie piace insulta, solo questo), e no, non solo perché vogliono liberarsi di Vicky facendo "accoppiare" il fratello con Agatha, ma perché ci credono sul serio a quei complimenti.

E soprattutto perché è ricca, sì, anche quello potrebbe essere stato un fattore importante.

Però hanno una naturalezza incredibile: dicono davvero sempre quello che pensano, tutti i complimenti che fanno ad Agatha li pensano davvero.

E poi quando le mettono la giacca addosso per consolarla perché non possono toccarla...

Sniff.

*Si soffia il naso con forza*

CUORICINI MIEIIIIII.

Anche nelle risate che c'hanno fatto fare e le lacrime di commozione, però, abbiamo potuto vedere uno scorcio sul loro passato e l'ambiente in cui hanno vissuto e vivono tuttora.

Genitori schiattati.

Obv.

CHE GEMELLI SO SE NON SO ORFANI, OH!

CHE BEDDE BOI È (O BIDET BOY È) SE NON GLI È SCHIATTATO L'INTERO ALBERO GENEALOGICO?

A parte questo, abbiamo capito che sono due bambini che vengono cresciuti dal fratello maggiore che - vi ricordo - è coetaneo di Agatha, il che significa che può essere qualche anno più grande di lei o anche qualche anno più piccolo di lei. Quindi tra i ventiquattro e i ventotto/ventinove anni.

'Nsomma, non c'hanno avuto 'na bella vita.

Poveri, orfani e pure co' Dante come fratello a crescerli.

UN FLAGELLO (dicono loro, vedremo poi se è vero).

L'avrete senz'altro notato, i gemelli parlano in maniera molto sgrammaticata e anche un po' dialettale.

Non me so voluta ispirare a un dialetto preciso per due ragioni:

NON SO BONA A SCRIVERE E PARLARE DIALETTI, SOLO AD ASCOLTALLI

TECNICAMENTE È UN DIALETTO AMERICANO PERCIÒ LA TRADUZIONE ITALIANA PUÒ ESSERE COME MINCHIA ME PARE VISTO CHE NON ESISTE UN CORRISPETTIVO ITALIANO

Quindi sì.

Dialetto che è un miscuglio de tutto.

Ma soprattutto sgrammaticato.

Non accetto critiche su questo, muffins. NON C'EVO VOGLIA DI STUDIAMME TUTTI I DIALETTI ITALIANI, VE PREGO.

E avrete notato anche questo: pure Dante è un po' sgrammaticato e dialettale. Ma non c'è da sorprendersi, come abbiamo visto qui, Dante non ha il diploma ed era pure più pestifero dei gemelli a scuola.

E sempre per questo, possiamo capire in che condizioni hanno vissuto non solo i gemelli, ma anche Dante stesso: parla così perché è stato cresciuto così, quindi gli pare naturale allo stesso tempo crescere così anche i suoi fratellini (non che potrebbe NON FARLO, visto che, come detto, non ha il diploma, se ne fotteva della scuola e di certo non ha mai avuto modo di imparare a parlare in maniera corretta ed educata)

Comunque ora ve posso fa la domanda.

LA DOMANDA PIÙ IMPORTANTE DELLA NOSTRA INTERA ESISTENZA.

Dante è un bad boy?

BAD BOY O BIDET BOY, QUESTO È IL DILEMMA.

A primo impatto verrebbe da dire di sì, i primi sintomi ce so tutti:

- Tatuaggi ovunque
- Piercing
- Linguaggio volgare
- Reputazione da pestatore seriale nel quartiere (grazie a cui protegge i suoi fratellini)
- Scopatore seriale
- Bonazzo e figo
- Tatuatore (è ormai noto che i bad boy o so tatuatori o gareggiano con le macchine o rapiscono le loro donzelle al grido di "Are u lost babygirl?" perché mafiosi, l'unica eccezione è Rigel che ustiona con lo sguardo e fa cadere le mutandine suonando il pianoforte e ringhiando - o sussurrando che manco lo senti, nel film)
- Mr Muscolo
- Alto
- Scopamica/ancoranonsappiamocosasono bionda ossigenata e descritta dai gemelli come il classico stereotipo Barbie
(sì l'ho fatto apposta, lo sapete che me diverto un casino con questi stereotipi)

E soprattutto, la prima cosa che ha fatto non appena ha visto Agatha è stato trattarla male e ordinarle di uscire fuori di casa. Proprio come il classico stronzo che tratte demmerde la sua Hope Summer Verginy quando la incontra la prima volta.

Sembrerebbe in tutto e per tutto un bedde boih.

MA LO SARÀ DAVVERO?

Mmmmmmm......

E lo so, lo so benissimo che cosa pensate.

CHE STRONZO CHE SEI, DANTE, A TRATTA COSÌ AGATHA CHE MANCO CONOSCI.

C'avete de nuovo ragione.

E de nuovo ve chiedo di mettervi nei suoi panni:

Stiamo parlando di un ragazzo già di per sé incazzato nero perché i suoi due fratellini che cresce hanno bigiato DI NUOVO la scuola, per poi scoprire che si so portati IN CASA LORO una che è stata sospettata dalla polizia e tuttora è sospettata dal mondo di aver collaborato negli omicidi del padre pezzemmerde.

Facilissimo dire: Io non giudicherei mai qualcuno senza conoscerlo.

Ma meh, me fido poco.

Inoltre, vi do un piccolo indizio, c'è un altro motivo per cui Dante è così incazzato per la presenza di Agatha, un motivo che riguarda il suo passato e quello dei suoi fratellini.

Non aggiungo altro, direi che ho finito tutto quello che avevo da dire tranne per una cosa:

Cosa credete accadrà nel capitolo successivo?

Il nostro bedde boih (o bidet boy, ancora non ne siamo certi) riuscirà a cacciare di casa la nostra Agatha Verginy?

SCIAU!

P.s.

La volete sapere una curiosità?

Di tutti i protagonisti maschili che abbia mai scritto finora (Aaron, Jack, Retth, Timothy, Simon, Ruben e quelli dei libri mai pubblicati e che stanno ancora tutti solo nella mia testa deviata e demente) Dante è l'UNICO che fisicamente NON MI PIACE PROPRIO.

Lo confesso: i super tatuati me fanno cagare.

Sono una fanatica dei tatuaggi, in realtà, ne ho tanti anche io.

Ma se coprono TUTTA o GRAN PARTE DELLA PELLE me fanno cagare. Possono pure avecce il fisico perfetto, il volto di Adone, le famosissime e irresistibili e strappa-mutandine fossette sulle guance, ma continuano a farmi cagare.

Con occhi oggettivi posso dire che sono gnocchi (se c'hanno la bellezza de Dante, obv) ma comunque a me continuano a fare cagare.

Invece Agatha, ve lo dico, c'aveva proprio una sindrome de Stoccolma per quelli così da ragazzina.

Tocca vede se è guarita del tutto da essa o meno.

Lo scopriremo.

Si vede che da me Agatha ha ereditato il masochismo ma non i gusti per gli uomini.

Che non so dire se è una condanna peggiore o migliore rispetto alla prima.

P.p.s.

In verità, ho un po' "barato"

Dante doveva ricalcare, come nei classici stereotipi che tanto me piace riutilizzare per poi spazzare via, proprio il tipo de masculo alfa che faceva impazzire Agatha prima che la sua vita diventasse demmerde a causa di quel pezzo sempre demmerde del padre.

Per darle 'na gioia, sì, vi stupirete ma anche io ho un cuore.

Agatha c'aveva 'na passione folle per quelli super tatuati e super impiercingati.

E di fatto ho messo il piercing a Dante: al sopracciglio.

Il punto è che nell'idea originale avrebbe dovuto avere almeno un altro piercing in faccia: il septum (per cui Agatha amoreggiava come una fangirl da ragazzina)

Ma non ce so riuscita.

Perché a me il septum fa proprio cagare.

Non odiatemi, gente col septum, non è colpa vostra. La mia migliore amica pure ce ne ha uno.

Non siete voi il problema, sono io.

È solo che quando vedo un septum penso subito alle mucche.

Non perché siete delle mucche voi, ma perché da bambina c'ho avuto il trauma di vederne una con un anello gigante tra le narici.

Per l'ennesima volta:

TRAUMA.

È tutta 'na vita de traumi, l'esistenza.

Quindi no, non riesco proprio a famme piace il septum.

Ve giuro, è il piercing che me fa più senso dopo i dilatatori alle orecchie, specie quelli che te sfondano il lobo senza che tu ne abbia più uno.

(Anche i dilatatori sono dovuti a - indovinate un po'? - UN TRAUMA.

Quando ero picciotta e andavo al liceo, ci fu UN'EPIDEMIA di dilatatori, praticamente il 98% della mia classe se li era fatti.

A me già non piacevano molto, ma non me ne fotteva granché, poi però, dopo tanti anni, vidi coi miei occhi le povere conseguenze che avevano fatto ai miei compagni che - perso il loro animo adolescenziale ribelle e gli ormoni schizzati che l'avevano indotti a quella scelta - pure loro piangevano davanti ai loro lobi distrutti.

E poi, in una di queste occasioni, incontrai un tizio che praticamente non c'eva più un dilatatore nel lobo, ma direttamente tutto il buco dell'ozono.

Il bastardo mi fece vedere com'era pure il suo orecchio e quel lobo quando se toglieva il dilatatore.

Roba che "The human centipide" in confronto è stata una puntata di Dora l'esploratrice per me.

Insomma, de novo, TRAUMA ASSOLUTO.

E lo so: ognuno c'ha i suoi gusti, ed è giusto così.

Infatti mica sto a di' che non lo devono fare, sia chiaro. Cazzi loro. Se glie piace so pure contenta pe' loro.

Ma no.

Me fa cagare lo stesso.)

I piercing ai genitali e ai capezzoli non mi fanno senso (me sanno solo de libro trash), il septum sì.

Sul serio, certe volte non mi capisco proprio.

I tatuaggi ovunque posso accettalli.

Il septum no.

Ma dato che come sapete a me piace giocare con gli stereotipi, specie quelli trash, rivoltarli come un calzino per sfidare me stessa e i miei limiti e vedere se riesco a farmi piacere anche cose che ho sempre considerato assurde e trashissime e per questo sempre preso per il culo... Per compensare al fatto che mi sono rifiutata di dare a Dante il septum, gli ho dato un piercing da un'altra parte.

E no, non mi sto riferendo a quello al sopracciglio.

Quale zona del corpo?

Lo scopriremo prima o poi.

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