A qualsiasi costo
Giunse sabato.
Il mio piano mi era sembrato funzionare, dato che non avevo informato nessuno, nemmeno i gemelli e Rosemary, di voler andare al mercato per comprare i cibi per il pranzo della domenica.
Non avevo mai neanche accennato all'argomento, anzi, ero stata più che attenta ad assicurarmi che quella famiglia diabolica si convincesse che avrei passato la mattinata in casa a poltrire.
Non aveva funzionato.
Me li ritrovai al parcheggio del mio condominio, tutti quanti, ad attendermi, non appena uscii fuori dal portone d'ingresso. Erano in piedi davanti alla macchina di Dante, una jeep di seconda mano, nera, ad attendere proprio il mio arrivo. I gemelli, vestiti come sempre in maniera identica, con jeans e felpa rossa stavolta de I cavalieri dello Zodiaco, e Dante in piedi al loro fianco, la sua solita giacca addosso, un paio di pantaloni larghi dalle sempiterne tasche giganti.
C'era persino Rosemary, quel giorno, alla destra dei due nanerottoli, con un lungo vestito di lana, bianco, a gongolare.
Non appena li vidi, a pochi metri da me, la borsa mi cascò a terra.
«Thaty!» mi chiamò Dory entusiasta. «Semo pronti!»
«Sìsì!» concordò il suo gemello. «Il mercato è ormai n'altra tradizione de famiglia.»
«Esatto, non ce la potemo perdere per nulla al mondo.»
Dorian assentì col capo. «Vedette come te gasi per il cibo è sempre bellissimo.»
«Perché sapemo che finirà tutto in panza nostra.»
«Questo sì che è amore vero!»
«Altro che Romeo e Giulietta!»
«Noi mica c'ammazzeremmo per te, no no.»
«Noi ammazzeremmo gli altri per te, sì sì.»
Ero allibita, nemmeno la mascherina addosso era in grado di nascondere la mia bocca spalancata, non del tutto almeno, e quando portai gli occhi su Dante... lui sollevò gli angoli delle labbra, in quel suo sorrisetto sadico con cui indirettamente mi voleva dire: "T'ho fregata di nuovo."
I miei nervi si contrassero per il fastidio tutti insieme. Non avevo dubbi su chi era lo stratega di quella trappola maledetta. «N-Non stavo... Non stavo andando... al mercato.»
«Ah no?» Il sarcasmo nella sua voce indusse le mie tempie a pulsare per l'irritazione. «Che volevi fa' a quest'ora, con le chiavi della macchina in mano? 'Na passeggiata con la tua Ford?»
Diventai vermiglia, soprattutto quando vidi sia i gemelli che Rosemary gongolare con trionfo e il sorriso di lui farsi ancor più di sfottò.
«N-Non ho bisogno... che mi accompagnate.»
«Come fai a tene' tutte le buste?»
«N-Non ho... intenzione... di comprare granché.»
«Hai detto così pure l'altra volta e me so finito con quattro buste pesanti in mano.»
Mi ritrovai a tremare per l'indignazione, gli lanciai un'altra occhiataccia. «Me la posso... cavare da sola.»
«Te la puoi cava' ancora meglio con noi.»
La vena sul collo iniziò a pulsare insieme alle tempie, ero sempre più oltraggiata, soprattutto perché più lo ero, più lui si divertiva. «Ti darebbe fastidio... perché... perderei troppo tempo... a parlare... con i venditori.»
«Non ho mai detto che quella tua mania me da' fastidio.»
Un'altra occhiataccia da parte mia. «Non è... una mania!»
«Giusto, 'na passione, così la chiami tu, ve'?»
«Esatto! E ti dà fastidio eccome! Ti sei messo... a contare il tempo l'altra volta!»
«Conta' il tempo non vuol di' che me dà fastidio.»
Non ci potevo credere! La sua faccia tosta non aveva limiti! «Parlerò... almeno tre ore... con i venditori, allora.»
«Non ce so' problemi per me.»
Volevo prenderlo a schiaffi, proprio non sapevo spiegarmi cosa mi stesse trattenendo dal farlo, e no, non era l'afefobia. Lo fulminai di nuovo e lui... sorrise ancora! «Sei... un bullo delle elementari!» esplosi a quel punto, battendo i piedi a terra, per poi rendermi conto troppo tardi di quanto avevo appena fatto.
Arrossii fino agli alluci, specie quando tutti e quattro si misero a sghignazzare.
«Ahhh, che giovanotta bellissima» commentò Rosemary, il tono innamorato. «Quando s'indigna, sembra una cucciolotta.»
«Ve'?» si aggiunse Dorian. «'Na cucciolotta tutta corrucciata che cerca de fasse vale'!»
Dory si mise persino ad applaudire! «'Na gnoccolona! Che grande! Che donna!»
«Altro che Giulietta, Thaty è la donna dei sogni» confermò Dorian, unendosi agli applausi della gemella. «Tocca fa' che Dante se la scopi subito, così almeno c'avremo finalmente 'na creatura dolce in famiglia, mica come a noi infami.»
«C'hai ragione, gemello mio coi coglioni, c'hai ragione. Gnoccolona, dolce e cucciolotta, 'na donna, una vera donna, che grande! E co' le tette stratosferiche.»
«E soprattutto è ricca, non lo dimenticare.»
«Non c'è... nulla di divertente!» esplosi ancora, vermiglia pure nei respiri, mentre loro continuavano ad applaudire.
«Non è divertente, Thaty, è che sei bona» mi corresse serissimo Dorian, continuando a battere le mani con la sorella.
«Sìsì, bonazza vera e propria.»
Rosemary annuì, le mani sulle guance in posa da scolaretta. «Me ricordi Fernanada quando si fa valere con Enzo, anche lei era una cucciolotta, motivo per cui lui stravedeva pe' lei.»
«Motivo per cui Dante se la vuole scopare» specificò Dory.
«Motivo per cui tocca teneccela stretta» specificò Dorian.
«Così ce cucina.»
«E ce dà i suoi soldi.»
«E ce fa toccare i ricci tipo palla antistress.»
«E per Dante le tette stratosferiche.»
«Oddio!» squittii fuori di me, e quando udii Dante ridacchiare per il mio imbarazzo, l'oltraggio diventò così funesto che mi ritrovai a puntargli contro il dito. «N-Non stai migliorando affatto l'opinione che ho di te... facendo così.»
«Te lo ripeto per la millesima volta: non rido perché te sto a prendere in giro.»
Non riuscii più a trattenermi: afferrai la borsa che mi era caduta a terra e gliela scagliai contro con tutta la forza che disponevo. Purtroppo per me, lui la afferrò prima che potesse colpirlo e il suo sorriso si fece ancora più grande. «M'hai appena lanciato la tua borsa addosso?»
«Sì!» urlai disperata. «Perché sei uno stronzo!»
«Ma se non ho fatto niente.»
«Stai ridendo di me!»
«Guarda che so' quei due flagelli a fare i commenti, io so' stato zitto.»
«Sono due dodicenni! Tu sei un adulto! Dovresti educarli, non lasciarli fare!»
«Ma se te stanno a fa' solo complimenti.»
«Ma certo! Come se ridessi per quello!»
Gli applausi si fecero più grandi, persino Rosemary partecipò ad essi.
«Guardala, gemella mia con la vongola, finalmente lo sta a guardare nelle palle degli occhi.»
«C'hai ragione, gemello mio coi coglioni, non lo credevo possibile, ma lo scopacimici c'è riuscito davvero a supera' almeno 'sto problema.»
«È riuscito a supera' il primo ostacolo, quel coglione, non ce credo, me sto a commuove, sento le lacrime già. Lo sta a guarda' davvero nelle palle degli occhi.»
«Tocca fa' che lo guardi pure nelle palle vere, così scopre pure bene che piercing c'ha là sotto.»
«Mi raccomando, patti chiari, gemella mia con la vongola: se è femmina Charlotte, se è maschio Peter.»
«E se escono gemelli come a noi?»
«C'hai ragione pure te, non c'avevo pensato, i gemelli se ripetono spesso in famiglia. Allora famo così, se so' due femmine una Charlotte e l'altra Sissy, così se capisce che so' le nostre principesse.»
«Ce sta, gemello mio coi coglioni, ce sta. Se invece so' due maschi, uno Peter e l'altro William, come quello pelato dell'Inghilterra, così se capisce ancora de più che c'avemo i soldi.»
«E se diventa pelato come a lui?»
«L'importante è che c'ha i coglioni e non se scopa cimici come Dante. Pure i pelati possono esse' gnocchi, che te credi.»
«Giusto, giusto, e poi coi capelli che Thaty c'ha magari se li becca pure lui, così glieli potemo palpeggiare.»
Ero ormai un incendio vero e proprio, sentivo quasi il fumo uscirmi dalle orecchie, il suo sibilo si fece più acuto davanti agli sghignazzamenti palesi di Dante che ancora reggeva la mia borsa in mano.
«Ohhhhh!»
Non ne potevo più, ero indignata come non mai, battei di nuovo i piedi per terra e iniziai a marciare verso la macchina, ignorando tutti, gli strappai la borsa dalle mani, e quando il suo ghigno si fece più arcuato, mi stizzii fino ad esplodere. «Non è divertente!»
«'Sta frase sta a diventare il tuo motto de vita, ormai.»
«È colpa tua che ridi!»
«Non so più come fattelo capì, non sto a ride per questo.» Fece cadere gli occhi sul mio corpo, e solo allora mi ricordai che stavo indossando uno dei tanti capi comprati con Minnie e Max: una giacca aperta e lunga, che mi arrivava alle caviglie, beige e caldissima, un maglioncino bianco ricoperto da un velo sottilissimo di pizzo nero dalla fantasia floreale e un paio di pantaloni della stessa tonalità della giacca. Avvampai di nuovo, sotto la sua indagine. «Quello che hai comprato con quella stronza?» mi domandò.
Il rossore si fece furioso. «Se mi pre-prendi in giro anche per questo, ritorno a casa.»
Aggrottò la fronte. «Perché te dovrei prende' in giro? Stai bene vestita così.»
Lo linciai con lo sguardo. «N-Non sei simpatico per niente!»
«Cristiddio, possibile che non te posso fare manco un complimento?»
«Non mi stai facendo i complimenti! Te la stai ridendo sotto i baffi!»
«Non me la sto a ride' sotto i baffi.»
«Certo, come no!»
«Sono serio, non sto a ride'.»
«Sicuro! Le labbra ti si sono sollevate per magia!»
«Ade' pure sorridere per te è in automatico 'na presa in giro?»
«Stai ridendo di me!»
Ignorai il suo sguardo sempre più accigliato e mi diressi dall'altro lato della macchina, alla portiera dell'accompagnatore.
Non ero scema, sapevo benissimo che non ero una ragazza a cui vestirsi bene aiutava in qualche modo a migliorare il proprio aspetto. Non ero aggraziata, non ero minuta e men che meno affascinante, avrei potuto anche indossare un abito da gala di Chanel e comunque sarei apparsa orrenda.
Mi irritava, però, sentirmi dire quel genere di cose da Dante, perché la parte più stupida di me, la Agatha Pre Scoperta, che da che era una poppante agognava di ricevere simili complimenti, si scioglieva come un cioccolatino nel sentirli, nonostante fosse ben consapevole di quanto poco sinceri fossero.
Stavamo parlando dello stesso ragazzo che mi aveva dato della pluriomicida, che frequentava ragazze come Vicky, bellezze straordinarie e incontestabili, modelle in tutto e per tutto e dall'aspetto opposto al mio, che aveva ribadito più e più volte che mai avrebbe voluto andare a letto con me, e sebbene avessi ormai capito che stava provando a rivalutarmi e a conoscermi meglio proprio per comprendere chi fossi realmente, senza basarsi più sui giudizi del mondo, un cambiamento così drastico dei pensieri da parte sua era impossibile.
Sapevo che aveva buoni intenti, ormai, l'avevo capito. Tutte quelle trappole che lui e la sua famiglia orchestravano per incastrarmi erano il modo con cui volevano assicurarsi che non mi isolassi. Perché erano persone buone e gentili, loro, altruiste persino nei confronti di un mostro come me... tuttavia, questo non significava che d'improvviso lui si sarebbe preso una sbandata nei miei confronti.
Era semplicemente un uomo dal buon cuore, incapace di lasciare da sola una poverina che stava soffrendo per colpa del padre.
E ciò che più mi feriva... era che questo mi rendeva felice.
Felice come non mi sentivo da anni, da quando papà era stato scoperto, da quando avevo visto tutte le mie certezze crollare.
Lui e la sua famiglia stavano incarnando di giorno in giorno la tentazione massima e assoluta per me: un luogo da poter chiamare casa, braccia tra cui trovare conforto, sorrisi da condividere e così lacrime da mostrare.
I miei ultimi quattro anni li avevo passati nella solitudine e nel dolore più assoluti.
Ogni giorno, ogni ora, ogni minuto e ogni secondo vissuti nell'agonia della scoperta, dei crimini commessi da mio padre e dei peccati che mi gravavano sulle spalle.
Era quello che meritavo, lo sapevo, il risultato di quanto commesso il giorno in cui avevo espresso il mio desiderio.
E così mi ero lasciata affogare da quell'oscurità, mi ero abbeverata di essa, anche se faceva male, anche se mi faceva dilaniare dal terrore, anche se non era quello che davvero volevo.
Non lo volevo, no, ma dovevo.
Le tenebre erano il solo posto a cui appartenevo, l'unico luogo in cui meritava di stare un mostro come me, al fianco di mio padre.
Ma c'era sempre stato un problema.
Un peccato inconfessabile.
Che persino in quel buio divampante che mi era entrato dentro... era rimasta lo stesso una luce.
Minuscola, microscopica, a malapena visibile.
Ma era rimasta.
Quella che ad ogni lacrima non pianta sberciava e urlava e abbaiava come un animale perché io la ascoltassi, perché le dessi retta.
La speranza.
La speranza di poter essere come tutti, di esser degna di un po' d'amore e d'affetto, la speranza di avere qualcuno al mio fianco disposto ad ascoltare la mia storia, la mia versione dei fatti, il dolore che mi portavo dentro come un cancro incurabile.
La speranza di poter finalmente crollare e dire: "Sono una vittima anche io."
Di poter piangere e mostrare la mia agonia anche all'esterno, di far vedere quanto a fondo ero stata ferita non solo da papà, non solo dalla morte di Betsy, ma anche dal mio segreto.
Ammettere il mio reato, il mio crimine orrendo, peccare di blasfemia e non ricevere in cambio uno sguardo d'orrore e disgusto, ma le sole parole che avrei mai voluto sentirmi dire: "Non sei mai stata un mostro."
E più passavo il tempo con quella famiglia, più quella minuscola, infinitesimale luce pulsava con furia, con così tanta forza da togliermi il fiato, da farmi sentire un coltello nello stomaco, fermo e incastrato nei visceri, impossibile da estrarre.
Era quella la condanna maggiore.
Quello scontro continuo tra bisogno e obbligo, quella lotta interminabile in cui sapevo avrebbe dovuto vincere il dovere, non il desiderio, eppure non ci riusciva mai, non era mai in grado di annientarlo del tutto. Il peccato d'umanità continuava ad esistere e a sopravvivere, resisteva davanti a qualsiasi intemperia, tortura e orrore gli venisse versato addosso.
E non capivo, proprio non capivo perché.
Avevo visto coi miei occhi i risultati di aver ceduto già una volta a quella speranza, in quei trofei di mio padre, quelle foto di Betsy, sapevo che se mi fossi di nuovo arresa alla tentazione la pena sarebbe stata persino più atroce di quella...
Quindi perché quella speranza non appassiva?
Perché continuavo ad essere felice di venir ogni volta incastrata nei piani di quella famiglia malefica?
Perché ad ogni sorriso che mi donavano, ogni risata e goccia di felicità, invece che vergognarmene soltanto, ne ero anche sollevata?
Ero una criminale che si rifiutava di smettere di compiere reati, nonostante fossi ben consapevole che tali orrori si sarebbero ripercossi sugli altri, non su di me.
L'ennesima conferma di ciò che ero davvero.
Sognavo la mia felicità, a discapito dell'agonia di coloro che amavo.
Sognavo il sollievo, sopprimendo in quel modo la pace di chi mi stava accanto.
Sognavo l'umanità, e così deterioravo ancor più il mondo con la mia natura da mostro.
Egoista e sadica, crudele omicida.
Aprii la portiera di scatto, le mani che mi tremavano.
Com'è possibile che non impari mai la lezione? Com'è possibile che continui a sbagliare?
Aveva ragione lei, aveva sempre avuto ragione.
Lo specchio non era mai abbastanza.
Come l'altra volta, il mercato pullulava di persone, specie nelle bancarelle dell'ortofrutta, già circondate principalmente da anziane e donne di mezz'età, intente a rimirare i vari prodotti.
Ero così irritata, però, per il tranello subìto per colpa di Dante, che mi rifiutai categoricamente di parlargli o guardarlo in faccia, decidendo così di concentrarmi sulla spesa.
«Wow, guarda, gemello mio coi coglioni, 'sti peperoni sembrano bonissimi.»
«Sì sì, sembrano tipo pomodori però più grandi, come le tette de Thaty.»
Dory allungò la mano per sfiorarne uno, ma fu trattenuta da Dante, dietro di loro. «Non si tocca a mano nuda» li avvertì, ed entrambi lo guardarono stizziti.
Non potei trattenere un sorriso, mentre scrutavo i gemelli tornare a fissare il cesto colmo di peperoni rossi della bancarella davanti cui ci trovavamo. Non potevo biasimarli, avevano un aspetto davvero fantastico, ad occhio nudo si capiva che erano di prima qualità.
Accanto a me, Rosemary era presa a studiare gli spinaci rigogliosi dentro un altro scaffale. «Sai» mi disse, «andavo matta per gli spinaci da giovanottissima per via di Braccio di Ferro, forse la mia prima cotta in assoluto.»
Mi venne da ridere. «Aveva senz'altro il suo fascino» concordai, mentre accanto a noi i gemelli riprendevano a battibeccare con Dante. «Lo guardavo anche io, ogni tanto, anche se preferivo i film Disney.»
«Un'altra mia passione, oltre le telenovelas» concordò lei, gli occhi sognanti. «Non dimenticherò mai le canzoni di Cenerentola, facevo sempre di tutto per vedere quei film al cinema.»
Osservai a mia volta gli spinaci, belli e verdi, quasi vivi, mentre lasciavo che le memorie di tanto tempo addietro mi avvolgevano. «Sì» la voce mi si fece roca. «Anche io adoravo... andare al cinema, prima.»
Era un altro dei miei hobby, uno dei pochi che non riguardava la cucina: andare al cinema.
«Non avevi difficoltà, al cinema? Per via della tua fobia, intendo.»
La sua domanda era naturale, visto e considerato che al cinema, per forza di cose, finivi per venir affiancato da qualche sconosciuto, e dovetti sforzarmi con ogni mia essenza per impedirmi di crollare, mentre rispondevo: «La mia amica... Betsy, mi accompagnava sempre lei. Prendevamo... i due sedili più a lato, lei si metteva sul penultimo... e io sull'ultimo, così potevo stare tranquilla... di non stare troppo in contatto fisico con gli sconosciuti, dato che lei... potevo toccarla.»
Era un'abitudine che avevamo preso proprio dal giorno in cui ero riuscita a toccarla. A differenza mia, Betsy non era una fanatica dei film Disney, pur apprezzandoli molto, ma sapeva bene quanto io smaniavo per essi e desiderassi poterli vedere non appena uscivano in sala, come sapeva che non avevo mai osato chiedere a papà di accompagnarmi proprio perché a lui non piacevano... e così, un giorno, aveva suonato alla porta di casa e mi aveva mostrato due biglietti.
«Cosa sono?»
«Biglietti per il cinema, amica mia» mi aveva detto, strizzandomi l'occhio, gongolava persino. «Ci andiamo a vedere Rapunzel.»
L'immagine della sua faccia birbante, quel sorrisetto da vera monella, mi strappò un sorriso e fece piovere lacrime in gola come in un temporale.
Avvertii gli occhi di Rosemary su di me, mi sentii sul punto di svenire, quando lessi in essi non la pietà e men che meno l'accusa, ma pura e umana compassione, la luce di chi invece che considerarmi assassina scorgeva solo il lutto che avevo subìto, la perdita di quella che era stata molto più di un'amica per me.
Una sorella.
Ma era sbagliato... era così sbagliato... che il senso di colpa indusse il fuoco negli occhi.
«Era 'na brava ragazza, la tua amica» commentò poi, la voce serena. «Di quelle che se trovano di rado, di 'sti tempi.»
Mi schiarii la gola, tornai a fissare gli spinaci. «Sì, è così.»
Era una delle cose che più mi mancava di lei: il cinema.
Anche a volerci andare da sola, comprare tre posti solo per me, più non osavo farlo. Oltre al rischio di attirare attenzioni spiacevoli rimanendo con la mascherina anche in sala, la solitudine mi avrebbe travolta nell'esatto istante in cui sarei entrata là dentro.
Perché avrei realizzato ancora di più quanto e chi avevo perso.
L'avrei cercata al mio fianco ad ogni scena divertente, comica o tragica, per vedere se si era emozionata quanto me, e avrei trovato solo il vuoto, l'aria della perdita, a farmi compagnia.
Avrei creduto di poter sentire le continue battute che mi faceva sempre all'orecchio, ma poi mi sarei girata e mi sarei accorta che erano tutte frutto della mia testa.
L'avrei persa di nuovo, persino nella sua memoria.
Mi schiarii la gola, scacciando via quei pensieri così crudeli ed egoisti, e mi concentrai nella semplice impresa di infilare i vari spinaci nella busta da far poi pesare al commesso, così da distrarmi. Quando feci per chiamare quest'ultimo, però, dietro al bancone, mi accorsi che stava parlando con un'altra cliente poco distante da noi, un'anziana signora di almeno settant'anni a cui lui stava facendo lo scontrino.
«L'hai sentito anche tu, Mark?» gli stava dicendo, la voce rauca come non mai, gli occhi scuri e soffocati dalle rughe corrucciati in un'espressione di sdegno. «Hanno trasferito quel mostro nel carcere di questa città.»
Ogni organo dentro di me congelò.
Rosemary sussultò sul posto, le labbra strette tra loro.
«L'ho sentito, Martha, l'ho sentito eccome, la mi' moglie m'ha detto che era perché era il carcere migliore per garantì la sua esecuzione.»
Serrai la mandibola con furia, distolsi lo sguardo, lo concentrai di nuovo sugli spinaci nella busta.
Non dovevo ascoltare, non dovevo ascoltare per nessuna ragione al mondo.
«Agatha, giovanotta, perché non-»
«Quand'è la sua condanna?»
«Il 5 agosto, Martha. Qua nel quartiere alcuni stanno pure a pensa' de radunarsi fuori dal carcere, quel giorno, per festeggiare.»
«Con tutte le vittime c'ha fatto quel pezzo di merda, festeggiare è il minimo, il mondo intero dovrebbe stappa' lo spumante.»
Inspirai con furia attraverso la mascherina, tentando disperata di non mostrare il vortice di emozioni che mi stava travolgendo dentro.
Non dovevo più ascoltare, non dovevo più ascoltare.
«Giovanotta, perché non-»
«Thaty!» L'urlo di Dorian interruppe Rosemary, sussultai quando me lo trovai accanto, un sorrisone immenso, mentre dietro di lui Dory e Dante continuavano ad insultarsi. «Thaty, c'è 'na cosa che te devo fa' vedere, vieni, vieni!»
In quel momento, quel bambino piccolo, così assurdo e sfacciato, apparve ai miei occhi come una vera e propria salvezza. Non esitai un attimo a seguirlo, mentre mi conduceva attraverso la stradicciola che separava le file delle bancarelle, attenti a non tagliare la strada ai vari passanti che la percorrevano.
Ci fermammo a parecchi metri di distanza dagli altri, davanti a un bancone di frittura con pochi clienti attorno, poiché quasi tutti i prodotti erano già stati venduti. I commessi stavano mettendo quelli nuovi, appena sfornati, pian piano. La bancarella era piuttosto piccola, con una vetrata che esponeva i cibi in vendita, e uno dei suoi commercianti stava facendo avanti e indietro dal suo retro coperto al bancone spingendo un carrellino basso che sorreggeva una torre di scatoloni giganti, bianchi e di plastica. Immaginai fossero quelli che contenevano gli alimenti ancora non cotti.
Dorian si fermò davanti al vetro per fissare i pochissimi spiedini di palla di pesce fritti che erano rimasti, abbandonati su un vassoio pieno di molliche. Il commesso era troppo preso a riempire il lato destro del bancone per badare a noi. «Ne vuoi uno?» gli domandai, e subito lui scosse la testa.
«No no, Thaty, volevo solo portatte via da lì, così non la sentivi, a quella vecchiaccia.»
Credetti che il cuore mi si fosse capovolto. Esser letta così da un bambino piccolo come lui era sia un conforto immenso che un dolore atroce. Non seppi come rispondere, non avevo idea di quale fosse la cosa migliore da dirgli, né se ne esistesse davvero una.
E poi, all'improvviso, mentre ancora guardava gli spiedini, lui disse: «Thaty, il babbo mio e di Dory era davvero 'no stronzo, lo sai?»
Sussultai sul posto, con il dolore ad incrinarmi ogni respiro.
Dorian continuò a fissare gli spiedini, in viso non mostrava alcuna espressione di sofferenza, ma era la voce a farlo, quella densità che la inspessiva, come se faticasse ad uscirgli dalla gola: «Faceva un sacco di male alla mamma nostra e poi ha provato a fallo anche a noi, a Dory ha strappato un buco all'orecchio e a me m'ha fatto cade' dalle scale 'na volta, non me so' fatto niente per botta di culo. Se stava fermo solo quando ce stava Dante, perché così come lo menava, così Dante menava a lui.»
La consapevolezza della tragedia che gravava sulle spalle minuscole di quei due bambini sempre così comici e sempre così sorridenti era straziante, soprattutto quando mi resi conto di come Dorian, pur soffrendone ancora, ormai l'aveva accettata in sé, quella tragedia, con una maturità che raramente si scorgeva anche negli adulti più maturi. Non c'era rimpianto nella sua voce, solo e soltanto il ricordo di quelle ferite, il dolore che portava con sé quella memoria lontana.
«Prima però non era così» continuò, gli occhi che non si erano scostati dalla vetrata. «Prima rideva e ce faceva ride' 'na cifra, anche alla mamma, giocavamo sempre insieme e ce divertivamo un mondo, se guardava pure Dragon Ball con noi ogni giorno. Poi ha iniziato a bere ed è diventato uno stronzo assurdo.»
Le lacrime mi tapparono la gola, non ero neanche certa di come dovermi comportare.
«Quand'è schiattato con mamma, al funerale, io e Dory avemo pianto un casino. Tutti pensavano che piagnevamo perché ce mancava la mamma, ed era così, davvero, ce mancava, ma in realtà piangevamo non solo per lei, ma pure per lui, perché ce mancava anche se sapevamo che era un pezzo de merda e ce l'aveva portata via.»
Ebbi voglia di scoppiare piangere nel rendermi conto quanto quei due piccoli bambini mi fossero simili, quanto eravamo stati feriti in egual modo, seppure per situazioni, motivi e da persone completamente diverse tra loro.
In quei due nanerottoli pestiferi adesso scorgevo uno strazio fin troppo simile al mio, una ferita aperta che tutti e tre vestivamo dentro e più non ci saremmo potuti togliere, e forse era proprio per quello se si erano legati così a me e io così a loro, forse era per la comunanza di quello squarcio che ci dilaniava le anime, tanto grande quanto sanguinante.
Perché leccarsi le ferite da soli non bastava, si desiderava sempre aver qualcuno disposto a curarle per noi, qualcuno che le conosceva bene, quelle ferite, quanto noi.
«Perciò, Thaty, ce sta se stai male che il tuo babbo morirà» proseguì, e ad ogni sua parola sentii sia il piacere della liberazione che il cappio della condanna. «Puoi piagne quanto vuoi, quando lui schiatterà. È 'no stronzo e pezzo di merda, sì, però è comunque il tuo babbo. E mica semo noi a decide dai coglioni di chi usciamo e per chi piagne o no. Piagnemo e basta.»
Ed ero sul punto di piangere già da adesso, solo nel sentirmi dire quelle parole da un bambino che nella vita aveva patito sofferenze che nessuno dovrebbe mai subire. Mi tremò il labbro inferiore, il fuoco a inaridirmi gli occhi pur di impedire alle lacrime di scendere.
Era la prima persona in assoluto che mi donava simili parole.
La prima a riconoscere la mia sofferenza senza condannarla, ma anzi a ritenerla addirittura giusta, naturale come lo era l'aria nel mondo.
In quelle poche frasi io scorgevo una libertà che mai avevo ritenuto possibile, un paio d'ali con cui non volare lontano dalla vita, ma anzi rientrare in essa, nel suo canale di sentimenti e peccati, senza per questo venir considerata mostro e assassina.
L'ennesimo errore che però non potei che commettere.
La tentazione a cui non riuscii a resistere.
Solo un secondo, solo un minuscolo, infinitesimale secondo, volli concedermi di potergli credere, di poter credere alle parole di quell'anima piccola d'età ma immensa nel cuore e nella bontà.
Mi ritrovai a sorridergli, quando si voltò a guardarmi, e sorrise anche lui, intuendo le mie labbra curvate anche sotto la mascherina. «Grazie, Dorian» bisbigliai con un filo di voce. «Sarai un adulto fantastico, quando crescerai.»
Il suo sorriso si fece birbante. «Ricordatelo, eh» mi ordinò con tono d'avvertimento. «Se Dante torna a fa' lo stronzo con te, puoi sempre venì da me che so cresciuto. Sicuro uscirò meno coglione de lui e non scopacimici.»
«Così ti do i miei soldi?»
«Soprattutto i tuoi soldi, non lo dimenticare.»
La risata sgorgò dalle mie labbra con la stessa bellezza del pianto nel cuore, gli occhi nocciola di lui, così limpidi e puri, si tinsero di una luce di sollievo e comprensione.
Mi immaginai un mondo in cui il 5 agosto non esisteva, un mondo in cui avrei potuto guardare lui e sua sorella crescere, maturare, diventare adolescenti prima e uomo e donna dopo, in cui avrei potuto credere di poterli guidare in quella strada così complessa e pericolosa della vita, sostenerli nelle lacrime e nei sorrisi, cullare le loro cicatrici e coprirgli le abrasioni con dei cerotti.
Un mondo in cui non ero più Agatha Reid, il mostro figlio del mostro, ma solo e soltanto la loro Thaty.
E pur se un'illusione sbagliata, non potei che ritrovarmi a pensare a quanto meraviglioso sarebbe stato, un mondo del genere.
«Grazie ancora» sussurrai. «Ora sto meglio, non ti preoccupare.»
Lui gongolò di nuovo, le guance rosse, e insieme ci voltammo per tornare verso la bancarella dell'ortofrutta, dove gli altri ci stavano aspettando. Si mise davanti a me, il capo rivolto all'indietro per guardarmi, sfoderò il suo sorriso più malefico.
«Allora, dato che t'ho fatto star meglio, me compri 'na fracca de caramelle?»
Piccolo mascalzone. «No, ne state mangiando troppe, vi verranno le carie. D'ora in poi, i dolci solo per la domenica a pranzo.»
«Andiamo! T'ho fatto sorride! Me le merito eccome!»
«Non mi farai cambiare idea.»
«Ma so' stato bravo! Più de Dante!»
«Tuo fratello non-»
Mi accorsi troppo tardi di quanto stava accadendo. Stavamo superando la bancarella della frittura fiancheggiandola e Dorian aveva proprio in quel momento messo piede nello stretto corridoio che la separava da quella che la affiancava.
Un corridoio da cui stava uscendo uno dei commessi, quello con il carrellino pieno di contenitori per il cibo.
Così tanti contenitori impilati uno sopra l'altro da formare una vera e propria torre.
Una torre talmente alta che il commesso, dietro al carrellino, non avrebbe mai potuto vedere che tra pochissimi istanti avrebbe investito il bambino davanti a sé.
E nemmeno Dorian se n'era accorto, perché stava guardando me, dietro di lui, non alla sua destra.
Una pulsazione feroce mi esplose nel cuore, puro panico e terrore che andarono ad aggredirmi in ogni cellula, e allora il corpo si mosse da solo, non seppi spiegarmi come, urlai il suo nome e corsi verso di lui proprio un attimo prima che il commesso lo investisse.
Lo afferrai per il colletto della felpa, tirandolo a me con una violenza che mai mi era appartenuta. Il suo corpo mi si schiantò contro e le mie braccia si richiusero attorno ad esso mentre cadevamo all'indietro.
Atterrammo sull'asfalto rovinato della stradicciola, io di sedere e Dorian stretto a me, imprigionato da me, in un abbraccio saldo e forte con cui avevo usato il mio corpo per proteggerlo dallo scontro, inglobandolo quasi.
Nell'attimo stesso in cui toccai l'asfalto, nell'attimo stesso in cui il panico che si facesse male fu sollevato dalla consapevolezza che l'avevo protetto, un altro tipo di terrore mi travolse, della stessa intensità e forza del precedente.
Lo stavo abbracciando.
Lo stavo toccando.
E non un tocco semplice con i guanti, di quelli che più non mi preoccupavano, ma uno dei pochi tocchi che anche se coperta da capo a piedi proprio non tolleravo.
L'interezza di un corpo stretto al mio.
Fu come spirare.
Perdere del tutto la mia anima, sentirla staccarsi proprio dal corpo e lasciarmi cadavere lì, a terra, con sentimenti addosso che erano fauci a masticarmi le interiora.
Il mondo si spense e così la vista e l'udito.
Restammo solo io e il terrore.
Quella paura profonda, primitiva, viscerale che mi era tanto nota.
Nata e generata proprio da quel tocco, da quella stretta tanto comune quanto rara per me, il cui calore non produceva sollievo alla mia pelle, al contrario nutriva e alimentava l'incendio di un inferno a me troppo noto.
Un sibilo, solo questo, a riecheggiarmi in testa, mentre ogni battito di cuore, anche il più piccolo, si trasformava in una deflagrazione.
Lo sai cosa devi dire allo specchio, Agatha?
Respirare, dovevo respirare, c'era Dorian davanti a me, che mi stava guardando spaventato, ancora stretto a me.
Lo sai cosa devi dire?
Sì, signora.
Calmarmi, dovevo calmarmi, Dorian adesso si era staccato, era più preoccupato che mai.
Se gli avessi fatto capire quanto stavo male, sarebbe sprofondato in sensi di colpa che non si meritava.
Dovevo restare lucida, abbastanza lucida da poterlo rassicurare.
Abbastanza lucida da non fargli vedere l'inferno che presto mi avrebbe investita.
Dovevo contare, contare da uno a cento, proprio come avevo imparato negli anni, quando un contatto imprevisto mi induceva a delirare e non potevo mostrarlo, una tecnica necessaria per poter rimandare la fine.
E allora... allora mi ritrovai a parlargli, a sorridergli e rialzarmi in piedi come aveva appena fatto lui.
Gli dissi di non preoccuparsi, che stavo bene, che da vestita tolleravo un abbraccio.
Ma non sentivo la mia voce e men che meno la sua. Sentivo le mie labbra che si muovevano, le corde vocali che vibravano, ma non udivo suoni, così come non udivo quelli che produceva lui mentre apriva e richiudeva la bocca.
Non sentivo niente, solo quel sibilo, solo quel ricordo.
Sei sporca.
Gli dissi che stavo bene, davvero, non c'era bisogno di spaventarsi così. Dovevo solo andare un attimo ai bagni pubblici per rinfrescarmi, lui intanto poteva tornare dai suoi fratelli e Rosemary.
Contaminata.
E respiravo ma l'aria sembrava come scivolarmi addosso, come se, appena imbevuta, fuggisse via dai pori della pelle, come versare acqua in un bicchiere incrinato.
E gli sorrisi ancora.
Per poi voltarmi e muovermi veloce, allontanarmi il più possibile da lì, da lui, da quel marasma di persone che neanche più vedevo, ai miei occhi si era trasformato in una poltiglia informe di colori e suoni che si scioglieva sempre di più man mano che i secondi passavano.
Contare, dovevo continuare a contare.
Ventisette, ventotto, ventinove...
I piedi marciavano veloce, si infilarono dentro un altro corridoio che separava le due bancarelle, così da farmi uscire dalla zona del mercato e condurmi allo spiazzale minuscolo dove si trovavano i bagni pubblici, notato l'ultima volta che eravamo andati lì.
Trentadue, trentatré, trentaquattro...
Infetta.
Il corpo continuava a percepire quell'abbraccio, ogni punto che era entrato in contatto con Dorian si straziava e gridava e dilaniava da solo, si scuoiava vivo, ed il dolore che pativo era folle, disumano, ma non potevo ancora cedere a lui, perché c'erano delle persone attorno, c'era qualcuno attorno, se fossi crollata adesso, mi avrebbero riconosciuta, avrei messo nei guai Dante e i gemelli.
Cinquantasette, cinquantotto, cinquantanove...
I piedi accelerarono ancor più il passo, più non avevo idea di cosa stessi facendo, era come se qualcuno stesse comandando il mio fisico mentre la mente tornava ad annebbiarsi, intasata dalla caligine della fobia, del panico, dell'incubo dello specchio.
Mi rifiuto anche solo di sfiorarti.
Settantanove, ottanta, ottantuno...
Lo sentivo, lo sentivo dentro: l'arrivo del panico più assoluto, dell'inferno. Ne avvertivo tutti i sintomi: il respiro che si faceva rarefatto, il senso di dissonanza col mondo, come se mi fossi ubriacata, la sensazione di non toccare più il terreno, di essere così vuota di carne dentro da esser sul punto di volare in alto, mentre il mondo mi vorticava attorno.
Novantaquattro, novantacinque, novanta-
Mi ritrovai in un angolo buio e deserto di una via chiusa tra due edifici decadenti, dove si trovavano tutti i cassonetti dell'immondizia, e proprio non seppi spiegarmi come ci fossi arrivata, non m'interessò neanche farlo.
Mi sfilai rapida i guanti, ficcandoli nelle tasche della giacca, arrivai al muretto che chiudeva quella stradicciola minuscola, mi appoggiai ad esso con le mani ora nude e la fronte, mi strappai di dosso la mascherina e spalancai la bocca al massimo, nel tentativo vano di accogliere più aria possibile in me.
Ma era come se il mondo fosse stato privato d'improvviso di tutto l'ossigeno.
Come se ci fosse un incendio invisibile che l'avesse trasformato in anidride carbonica.
Respiravo, sì, ed era inutile, continuavo a perdere sempre più lucidità, perché adesso non era solo ciò che mi circondava a vorticarmi, ma io stessa a farlo. La pelle sotto i vestiti si accapponava da sola, trafitta da stimoli continui di dolore e paura, le viscere s'intrecciavano e sventravano, si sventravano e intrecciavano; mi ritrovai in ginocchio sull'asfalto, a venir sempre più investita dagli spasmi della paura, col sudore bollente, ustionante, che mi gocciolava dal viso e atterrava sulle mie cosce piegate, a sostituire le lacrime che non potevo versare.
Non c'era un solo punto di me che non stesse marcendo, non una cellula che non stesse delirando in preda alla follia, ciascuna di esse stava venendo squarciata, mi sentivo un puntaspilli vero e proprio il cui tessuto e la sua forma originali più non potevano esser scorti, tant'era la quantità infinita di aghi che lo stavano trafiggendo.
Ti ho detto che non mi devi toccare!
Mi abbracciai con forza, alla ricerca di un calore che non fosse omicida, di un calore che potesse cullarmi invece che uccidermi, ma il mio non lo sarebbe mai stato, lo sapevo bene, mai avrebbe potuto dar frutto ad amore, sempre solo e soltanto al peccato.
Dovevo calmarmi, altrimenti non ne sarei mai più uscita.
Mi costrinsi anche in preda alla violenza di quella memoria a prendere fiato, a eseguire gli esercizi appresi anni e anni prima con la psicologa.
Inspirare dal naso, espirare dalla bocca, lentamente.
Molto lentamente.
Premere le mani contro una superficie per ricordarmi che ero reale, che ero materia e forma, non sentimento e paura.
Spinsi i palmi sudati contro il muretto davanti a me, quasi a volerlo spostare.
Costrinsi i pensieri a concentrarsi solo quella sensazione, il contatto tra cemento bianco e pelle esangue.
Inspirare dal naso, espirare dalla bocca, lentamente.
Ancora.
Spingere contro il cemento.
Ancora.
Inspirare dal naso, espirare dalla bocca, lentamente.
Spingere di più contro il muretto.
Lo sai cosa devi dire allo specchio-
«Agatha.»
Nel sentire quella voce alle mie spalle, ancora lontana, desiderai solo morire.
Scomparire nel nulla, smaterializzarmi come se mai fossi esistita.
L'umiliazione mi intasò le vene, una paura diversa dalla mia fobia portò le lacrime ad accumularsi negli occhi; ricacciarle indietro, trovare la forza di non esplodere mentre tentavo di non smarrirmi nel delirio fu una violenza sia al corpo che alla mente.
«S-Sto bene...» balbettai. «Ho solo... Solo un capogiro.»
Non rispose, e di nuovo il panico mi incenerì il cuore, mentre altri spasmi di dolore mi rivoltavano la carne sia dentro che fuori. Non avevo dubbi di come dovevo apparirgli adesso, di come sarei apparsa a chiunque: Agatha Reid, la figlia di quel mostro, che cercava ancora di attirare attenzioni, di conquistare la pietà della gente con la sua fobia, di fingersi per l'ennesima volta la vittima invece che la carnefice.
Sentivo il suo sguardo sulla mia schiena e le lacrime tornarono a divorarmi la vista, al punto che non riuscivo nemmeno a vedere il muretto contro cui premevo le mani, quello a cui mi stavo aggrappando per non far sfumare il pensiero in follia.
Sta fingendo, lo sapete, ormai. Vuole conquistare la pietà delle persone così, ma è tutta una recita, proprio come suo padre.
«N-Non è così grave, d-davvero.» Le parole uscivano da sole, disperate, avrebbero fatto di tutto pur di dimostrargli che si sbagliava, che il mondo si sbagliava, che anche Dio si sbagliava. «Volevo solo... Volevo solo stare da sola per un po'... tutto qua, lo giuro, n-non volevo-» Un altro spasmo di dolore, l'ennesima onda e onta a travolgermi sia per il contatto subìto che per l'umiliazione nel rendermi conto che mai sarei stata creduta.
Ancora silenzio da parte sua, per qualche secondo.
«Mi vuoi mentire persino ade'?»
Non riuscii a capire se fosse arrabbiato o al contrario spaventato, la sua voce arrivava a singhiozzi nella mia testa ed io non ero lucida abbastanza per poterla tradurre bene. «Mi dispiace, non volevo preoccuparvi, giuro che non lo sto-»
«Lo so, Agatha, sta' calma. Lo so che non l'hai fatto apposta.»
Forse stava mentendo, anzi, no, di sicuro stava mentendo, perché nessuno avrebbe mai potuto credere che Agatha Reid davvero avrebbe potuto soffrire in quel modo per una cosa così stupida come un banale abbraccio, ma lo stesso, nel sentirgli dire quelle parole, non potei che sprofondare nel sollievo. Un sollievo così grande e intenso che le lacrime che tanto faticavo a trattenere esplosero di colpo, divorandomi il viso intero.
Un'altra vergogna, l'ennesima prova di quanto orrenda fossi, la sola consolazione era che lui non poteva vedermi mentre piangevo, visto che gli davo le spalle ed ero con la fronte contro il muretto, proprio come le mie mani.
«B-Bene» gracchiai, provando ad assumere un tono normale, e ancora uno spasmo mi fece trasalire, incastrando i nervi ai muscoli in un modo sbagliato, talmente distorto e disumano da farli sanguinare, «adesso... adesso puoi andare, allora.»
«Me prendi per il culo?»
Serrai i denti, nuove lacrime mi piovvero dagli occhi, anche se non dovevano, anche se erano sbagliate.
«N-Non ha senso... comunque, starmi accanto. Non p-puoi fare nulla, non puoi toccarmi» gli feci presente, una delle poche verità che potevo concedergli. «D-Dammi solo... Ci vuole un po'... per calmarmi, quando succede. Dieci minuti... e torno da voi, davvero.»
Silenzio, e poi... il rumore dei suoi passi, a martellare l'aria e i miei pensieri, i miei respiri.
Un calore improvviso mi avvolse, ma non era un contatto umano, mi rivestì spalle e schiena in un abbraccio non contemplato, e quando sollevai di poco il capo per guardarmi, mi accorsi di avere addosso anche la sua giacca, adesso, quella giacca di jeans che usava sempre.
Il ricordo della prima volta che Dory e Dorian mi avevano portato a casa loro, di come mi avevano consolata con quello stesso, identico gesto, fu una luce di dolcezza nell'oceano di tenebre dentro cui stavo annegando.
Ah.
Avevano preso davvero tutto da lui, quei due gemelli pestiferi.
Lo sentii ancora muoversi fino a raggiungermi alla mia destra, ma non volli voltarmi per guardarlo, non ne ebbi lo stesso il coraggio, pur dopo quel gesto di conforto da parte sua. Reclinai il capo in basso, così che potessi nascondergli la mia faccia divorata dalle lacrime, aumentate ancor più dalla pace che stavo vivendo ora che ero cullata dalla sua giacca, quel contatto insipido per molti, l'unico che una come me avrebbe mai potuto provare.
«C'è qualcosa che può aiutarti a calmarti?»
Spinsi con ferocia i palmi contro il muretto. «N-No, te l'ho detto... Ci vuole un po' di tempo... devo solo... concentrarmi a respirare bene... adesso.»
E così feci: inspirare dal naso, espirare dalla bocca, lentamente, premere le mani sul cemento, ricordarmi di essere forma e materia, non follia e pensiero, non incubo e passato. Per la prima volta da quando ci eravamo conosciuti, la sua presenza lì, al mio fianco, non solo non mi provocò più alcuna forma di disagio, bensì mi donò una consolazione che da tempo non sperimentavo, quel genere di sollievo che ti sboccia nel petto e ti invade con un profumo delicato, appena percepibile, incapace di lenire o deturpare, solo carezzare.
Passarono i secondi, prima, poi i minuti, tanti, troppi, ma non li sentii proprio, attesi con pacatezza che il panico si sfoltisse, che la carne riprendesse a vivere nel modo giusto, senza rivoltarsi, senza scuoiarsi, e la memoria di quell'abbraccio con Dorian venne seppellita dalla stabilità e la freddezza del muro e del cemento che continuavo a blandire sotto i palmi.
Fu allora che ricordai per bene quanto successo, con il capo ancora chino sulle mie cosce piegate, mi ritrovai a chiedergli: «D-Dorian sta bene?»
Lo udii inspirare. «Te stai sul serio a pensa a lui, adesso?»
«N-Non voglio che si spaventi» biascicai a voce contratta. «Non è colpa sua... se sto così, non voglio che... si dia colpe che non ha.»
Non disse nulla per un po'. «Avresti dovuto chiamallo a voce, quando hai visto che si stava per scontra', non toccallo così.»
«N-Non...» balbettai di nuovo, irrigidendomi. «Mi dispiace, io non-»
«Non ti sto a rimprovera', so' io e quel flagello che te dovemo chiedere scusa, non tu.»
La confusione mi smarrì per qualche istante, ma non osai ancora guardarlo. «N-Non è colpa vostra, se ho questa-»
«Il flagello deve guarda' dove cammina e io so' quello che deve bada' a lui, la tua fobia non c'entra niente.»
«E-Era con me quand'è successo, perciò la responsabilità è-»
«La responsabilità è mia, smettela de datte colpe che non hai.»
Serrai di nuovo la mandibola, spinsi con violenza i palmi contro il muro, mentre altre lacrime mi cadevano in viso.
«Sapevo che... se l'avessi toccato in quel modo, sarei stata così» pigolai con un filo di voce. «Perciò, è anche co-»
«Salva' qualcuno anche se sappiamo che ce farà male a noi non potrà mai esse 'na colpa, Agatha.»
Avrei solo voluto supplicarlo di smetterla di dire quelle cose, di smetterla di darmi simili sogni e speranze, perché più andava avanti, più rischiavo di cascare in quella trappola, una seduzione vera e propria per me, il desiderio assoluto di potermi considerare almeno per una volta innocente.
«La sola cosa che me fa' incazza' è che te sei isolata di nuovo mentre stavi male.» La sua voce si era fatto più profonda, ma non alterata, proprio non avrei saputo dire cosa stesse davvero pensando.
«S-Se fossi stata male lì... vi avrei messo nei guai» guaii. «E poi te l'ho detto... non potete comunque fare niente... visto che non potete toccarmi, starmi accanto... è inutile.»
«Quindi ade' che sto qui, accanto a te, so' inutile?»
Mi irrigidii di nuovo, masticata dalla vergogna di esser stata subito smascherata e la necessità di allontanarlo per impedirmi di cedere. «N-Non è questo...»
«Allora cos'è?»
Presi più aria possibile dal naso, portando lacrime bollenti a cadermi copiose in viso, tinteggiarmi l'espressione deturpata dalla sofferenza di quel sollievo enorme che provavo in cuore e che mi rifiutavo di riconoscere.
Udii il suo sospiro. «Agatha, ti rendi conto di che hai fatto?»
«M-Mi...»
«Sapevi che saresti stata male a tocca' così quel demonio, ma per assicuratti che stesse bene e non si facesse nulla l'hai fatto lo stesso.»
La saliva aveva un sapore sia dolce che acido in gola, adesso.
«Come t'aspetti che la gente te stia lontana, se fai queste cose?»
La confusione dilagò in testa. «N-Non capisco...»
«Non capisci perché te lanci sempre da quell'aereo, senza paracadute, e su quel campo de cactus infuocato.»
«Non c'entra niente con-»
«Se a fare 'na cosa del genere fosse stata n'altra persona, non tu, le avresti detto che è colpa sua se sta male o le avresti detto che è 'na persona altruista per sacrificasse così per qualcun altro?»
Sentivo il corpo tremare di nuovo, ma sapevo che stavolta non era dovuto alla mia fobia, il supplizio mi tormentava, mi accartocciava tutto il viso, e più non seppi come comportarmi, non ne avevo idea.
Perché volevo credergli, volevo troppo credergli.
Ma non potevo e non dovevo.
Dante non sapeva... Non sapeva la verità, non sapeva del mio desiderio, non sapeva cosa avevo provocato esprimendolo, non aveva idea di tutte le morti che mi gravavano sulle spalle, delle lapidi nel mio cuore, per questo mi stava dicendo quelle cose, per questo stava provando a convincermi di potermi meritare un complimento del genere.
Ma io non ero lui.
Io sapevo, sapevo bene la realtà dei fatti.
Presi ancora fiato, mi violentai pur di riassumere un po' di compostezza, ora che il panico della paura era passato, sostituito dall'atroce condanna che mi portavo dentro.
«Agatha.»
Non so perché, ma il modo in cui pronunciò il mio nome, stavolta, mi apparve diverso da come l'aveva fatto finora.
La sua voce era la stessa, il tono era lo stesso, ma c'era... qualcosa di davvero diverso.
Qualcosa che non comprendevo.
Come una goccia di un sentimento ignoto, un'emozione mai sperimentata prima.
Una goccia piccola, sì, ma di tale intensità da farmi trovare il coraggio per voltare il capo e guardarlo, per scoprire desiderosa quale espressione avesse in viso.
Non compresi, però, neanche in quel modo.
Era inginocchiato davanti a me e l'espressione era la solita che gli vedevo ogni giorno, quella un po' severa, dura, che così come lo rendeva imponente così lo rendeva maturo, le labbra erano schiuse, e gli occhi erano levigati da una luce che non mi era mai capitato di scorgere in qualcuno. C'era una serietà, dentro quelle iridi nocciola e limpide, che non ricalcava affatto il rigore che indossava ogni giorno: era unica, intraducibile, quasi mi volesse comunicare parole che a voce mai avrebbero potuto esser pronunciate o capite.
Mi guardò dritto in faccia, sotto il suo sguardo mi sentii paralizzata e quasi scolpita, sembrava volermi impiantare nel marmo per assicurarsi che mai più potessi sfuggirgli.
E non comprendevo, non comprendevo minimamente cosa stava succedendo.
Non compresi neanche dopo, quando affermò con spietatezza: «Che ti sia chiaro: adesso, con questo, non ho più alcuna intenzione di perdere, per nessuna ragione al mondo.»
Sbattei le palpebre, sperduta, del tutto incapace di svelare il significato intrinseco di una simile dichiarazione.
Il cuore in petto faticava a pulsare, sembrava sul punto di arrestarsi, tentava di rallentare in ogni modo i battiti per paura che, forti e violenti com'erano, avrebbero sovrastato il suono della sua voce.
Perché voleva ascoltarlo, ascoltarlo fino alla fine, anche se proprio non era in grado di concepire quanto stava accadendo.
«Vincerò io, che ti piaccia o no, e vincerò a qualsiasi costo.»
NOTA AUTRICE:
È giunto il momento che tutti attendevamo, rimandato fin troppo a lungo a causa della mia pigrizia incurabile quanto la leucemia di Jesse Murray.
...
*risata sadica*
Il momento...
PUNTEGGI.
Partiamo da Agatha nei confronti di Dante, stavolta, e partiamo dai capitoli in cui 'sti punteggi non sono stati fatti:
Con i precedenti tre capitoli, Dante ha guadagnato agli occhi di Agatha la bellezza di:
+ 110 punti
Questo perché, come ormai avrete intuito, benché in testa lei si dica che non deve esse' felice del fatto che lui le sta a impedì di soffrì da sola, il cuore e l'inconscio invece ne so super emozionati.
E con questo capitolo, invece, Dante ha guadagnato anche la bellezza di...
*rullo di tamburi*
+ 700 punti
Potete immaginare perché, ve'?
La giacca soprattutto, sì, MA NON SOLO.
Il fatto che l'abbia seguita mentre lei scappava.
Il fatto che l'abbia rassicurata CHE LE CREDE, che sa che non sta male apposta.
Il fatto che le abbia fatto capire che ai suoi occhi lei è una ragazza altruista e generosa, NON un'assassina.
Ora giungiamo al punteggio che Dante ha dato ad Agatha:
Negli ultimi tre capitoli, Agatha ha ottenuto un punteggio di
+ 500 punti
Potete immaginare già perché, no? Ormai l'avete capito che Dante, stracotto, amoreggia come non mai quando la vede tutta imbronciata/indignata tipo barboncino toy che prova a fasse valere con un pittbull gigante.
E con questo ultimo capitolo...
Agatha ha ottenuto un punteggio di...
+ 1000 punti.
E sia chiaro, a differenza di quelli che Agatha dà a Dante, questi punti Dante li ha dati SUPER CONSAPEVOLMENTE.
E potete già immaginare perché anche questo.
Agatha non è che ha semplicemente impedito a Dorian di farsi del male.
Agatha per salvare Dorian SE N'È FOTTUTA ALLA GRANDE DELLA SUA FOBIA, pur di evitare che si facesse del male.
L'atto d'amore e de sacrificio più grande che se potesse mai fare.
Il sogno erotico proibito de Dante. Scherzo, obv.
(Forse)
Quindi, ricapitolandolo:
Agatha: + 4310 (agli occhi di Dante)
Dante: + 2118 (agli occhi di Agatha)
Vi ricordate che vi dissi agli inizi?
Ve dissi:
Dante è stracotto, non innamorato, fidatevi che capirete QUANDO si innamorerà, vi apparirà chiarissimo.
Bene.
Avete capito adesso, ve'?
Sì.
Avete capito.
L'affermazione finale che Dante fa ad Agatha non riguarda il semplice fatto che le vuole impedire di isolarsi.
Riguarda la sua relazione con lui.
Nel caso non se fosse capito:
S'è dichiarato.
Dichiarazione in toto.
Indirettamente le ha detto quel che io dico sempre alle foto della caponata de mi nonna quando non posso scende in Puglia per mangiarla e quindi m'accontento de guardarla così:
Sarai mia, a qualsiasi costo.
Con questo ultimo evento, Dante supera la soglia de sbarramento della cotta e arriva all'emozione proibitah:
L'AMMMMMOREH.
Da parte solo de Dante, eh, sia chiaro.
Agatha ancora sta in fase "non me sto più così a disagio co' te, daje, me ste pure UN PO' simpatico adesso, ce credi?"
Se può dire, leggendo i suoi pensieri, che sta mettendo il primo piede nella fase "cottarella".
Ma più che il piede, direi l'alluce e basta.
Perché a differenza di Dante, lei è terribilmente compromessa a livello emotivo, benché il cuore le urli SCOPATELO, la mente e il TRAUMA le urlano: LO AMMAZZI SE TE LO SCOPI.
Quindi, automaticamente, sbarra il cuore per impedisse de sprofondà nell'ammmmoreh.
Quindi...
È ufficialmente iniziata, muffins.
LA BATTAGLIA TRA LE TESTE DE COCCIO.
Testa de coccio n. 1 che farà de tutto e de più per conquistare er corazòn della sua Beagatha, così da potersela anche bombare e uscire finalmente dalla tragica fatalità della friendzone in cui lei l'ha ficcato (tra l'altro quando manco lo considera friend)
Testa de coccio n. 2 che farà de tutto e de più per non cascà nelle trappole (secondo lei mortali) dell'ammmmmoreh che Testa de coccio n. 1 continuerà a tenderle per falla cedere.
Un Orange Boy (Badde Boih a tratti) disposto a qualsiasi cosa per conquistasse la sua Hope Summer Verginy.
Una Hope Summer Verginy disposta a tutto per non cedere al fascino del pipo (impiercingato) dell'Orange Boy (Badde Boih a tratti)
Captain Orange Boy - Civil War
Dante l'ha detto più volte, io l'ho ribadito altrettanto:
Lui è uno de quelli che quando vuole 'na cosa, fa de tutto per ottenerla, perché oltre che testa de coccio, è pure orgoglioso al massimo.
La triade dei suoi peccati capitali secondo Dory e Dorian:
- Testa de coccio al massimo
- Orgoglioso al massimo
- Cimici (ade' scomparse per merito de Agatha)
Quindi...
Ade' Dante vole Agatha.
A qualsiasi costo.
Non più come cotta, non più come interesse amoroso, ma come UNA DONNA, UNA VERA DONNA (cit. Dory)
Con le tette stratosferiche e soprattutto è ricca, non lo dimenticate.
Citando il suo omonimo, fautore dei nostri TRAUMI liceali più grandi:
«Nel mezzo del cammin di mia Hope Summer Verginy
mi ritrovai per una friendzone oscura,
ché la patata via era smarrita.»
E per Agatha:
Lasciate ogni speranza, o voi Hope ch'entrate (er pipo cor piercing nella patata)
Chi vincerà tra ste due teste de coccio?
Ovviamente noi vogliamo che a farlo sia Orange Boy, testa de coccio n. 1
Daje Dante, famo tutti il tifo per te, te lo giuro (tranne Agatha)
MENZIONE SPECIALE PER IL NOSTRO EROEH DORIAN, che vedendo la nostra Hope soffrì davanti alla gente che festeggiava per la morte del suo babbo, ha voluto consolalla.
Se Dorian non se lo prende Agatha quando cresce e diventa omo, me lo prendo io a sto punto.
C'ho pure le tette stratosferiche.
P.s.
Un altro paio de cose.
Simo, ma non è un po' troppo presto perché Dante se dica innamorato?
Amici miei...
Non so se l'avete notato.
Semo a tipo il capitolo 26.
Lo so che lo slow burn piace, ma se andiamo avanti così qua non è slow, è proprio che pure Stephen Hawking senza sedie a rotelle sarebbe più veloce de sti due coglioni.
Che volete che sto libro c'abbia 797969686978 capitoli de introspezioni e basta da parte di Agatha?
Pliz.
Questo libro si chiama Ignobili affetti non Fabbricante di lacrime.
*Fugge dalle fan indignate*
(Scherzo, a me FDL m'è pure piaciucchiato)
Inoltre CE STA LA SPIEGAZIONE.
Dante come dico sempre è coglione sì, ma per le cose sceme, sa riconoscere il valore nelle persone.
Così l'ha riconosciuto ad Agatha.
E come detto da me, Rosemary, Minnie, Max: il modo veloce, rapido e deciso per conquistare il suo cuore (e non solo il pipo) so proprio i gemelli.
Motivo per cui le cimici sempre se lo sono solo potute scopare.
Dante SA che Agatha vuole davvero un bene nell'anima ai gemelli e ora che ha visto A COSA È DISPOSTA per loro, inevitabilmente s'è sciolto come un cioccolatino.
Vi ricordo anche che SEBBENE la loro relazione non sia più squilibrata come agli inizi, comunque Agatha non è che vede Dante esattamente come il suo migliore amico o na persona con cui confidasse.
EPPURE, lo stesso, ai gemelli vole un bene nell'anima, nonostante siano fratelli dello stronzo che l'ha chiamata pluriomicida.
Na cosa non così scontata, se ci riflettete, e questo Dante lo sa bene, visto che a differenza di Agatha, lui ha commesso l'errore di giudicarla per la sua parentela con Lawrence, quindi Agatha quasi sarebbe stata "giustificata" a farlo coi gemelli, ma non l'ha fatto.
Per Dorian, s'è messa consapevolmente in un dolore fortissimo.
Presa dalla fobia, si è comunque preoccupata di chiedergli se Dorian stesse bene e che non si sentisse in colpa per quanto successo.
Insomma, come Agatha per noi lettori è la nostra protetta, così ora lo è per Dante.
Con la differenza che per lui è anche la ragazza che se vuole bombare, obv 💅🏻
Mi preme farvi notare na cosa.
Dante ha assistito di persona alle conseguenze che la fobia di Agatha comporta, una cosa che spaventerebbe chiunque e lo indurrebbe di solito a scappare via o comunque rinunciare al desiderio di avere una relazione con lei.
E sia chiaro: NON È UNA COSA SBAGLIATA.
Al di là di tutto, questi sono problemi profondissimi che comportano inevitabilmente una fatica e delle sofferenze non indifferenti, se non le si vuole provare, non c'è nulla di male. È naturale spaventarsi e non si è per forza di cose costretti a condividere queste problematiche con chi ne è vittima.
TUTTAVIA, Dante si dimostra più che disposto a ciò.
Ha VISTO cosa comporta l'afefobia di Agatha, ha VISTO quanto sarà difficile riuscire a toccarla senza spaventarla, ha COMPRESO che dovrà faticare/sudare/soffrire UN CASINO per riuscire nei suoi intenti di conquistarla (e bombarla) MA LO STESSO vuole farlo.
È disposto a tanto, questa è l'intensità dell'emozione che prova per lei.
No, non è sindrome da Crocerossina, sia chiaro.
Dante non è la nuova Callisto.
Agatha non è il nuovo Ruben.
Come detto, non ce stanno tsundere in sta storia e nemmeno "idiote".
Ce stanno due teste coccio, per l'appunto.
Noi famo il tifo per la prima in assoluto.
#volemolabombata
Dante, a differenza del tuo omonimo, devi uscire dallo stato pietoso della friendzone (in cui t'ha messo una che manco te considera friend, ribadisco)
La tua Beagatha, a differenza della Beatrice originale, merita davvero de venì puppata, credi a me.
Confidiamo che la tua cocciutaggine sia dura come il tuo 🍆, così sicuro batte Agatha (in tutti i sensi).
Ripeto:
Dante, famo tutti il tifo per te
(tranne Agatha)
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top