CAPITOLO 20 - LIAM
"Quello che ammiro in certe donne è quella forza assurda che hanno di sorridere nonostante il dolore che le devasta. Mi sa di bellezza, di classe. Ha il sapore della dignità."
— Roberto Emanuelli
Sono sempre stato una persona estremamente orgogliosa, nel senso che ho sempre pensato che se una persona commette anche minimo errore nei miei confronti, allora quella persona non fa più parte della mia vita, non importa quanto possa scusarsi, la elimino.
Sono sempre stato del parere che se una persona riesce a non farsi sentire, allora io posso perfettamente fare a meno di quella stessa persona.
Sono sempre stato il tipo di persona che ad un una parola detta male, deve urlarne quattro dette peggio, perché devo far valere la mia posizione.
Ho sempre pensato che le mie idee fossero migliori di quelle di chi mi stesse intorno.
Sono sempre stato il tipo di persona che non perdona, piuttosto odia fino alla morte.
Sono sempre stato tutte queste cose, ma non riesco ad esserlo con Julia, non con lei. Riesce a rendermi una persona migliore, riesce a placare tutto l'odio, tutto il dolore, riesce a rendermi vivo.
Dirle che l'amo è solo l'inizio di tutto quello che ho in serbo per lei. Per l'unica persona in grado di far sì che io abbia voglia di migliorarmi, per l'unica persona che è in grado di rendermi migliore, per l'unica persona in grado di farmi abbassare qualsiasi barriera, perché raggiungerla diventa l'unica cosa più importante.
La guardo per un secondo, col timore che queste parole possano in qualche modo aver cambiato qualcosa in lei. Ma, come sempre, mi stupisce.
Mi tiene ancor più stretto e con una tale dolcezza, col dito sinistro, marca la mia pelle con il suo amore. Con delicatezza scrive "Ti amo" sul mio cuore e mai, mai nessuno mi ha reso così felice. Non è paragonabile al passato, non rinnego nulla di ciò che stato, non rinnego il bene voluto a Victoria o la passione che mi legava a Meredith, ma con Julia è tutto diverso.
Con Julia mi trovo in un altro mondo, in uno in cui ci siamo solo lei ed io, lei e le sue labbra rosso fuoco. Lei e i suoi occhi azzurro oceano. Lei e i suoi ricci biondi. Lei e il suo sorriso che mi ha rapito l'anima.
La stringo forte a me, la stringo più forte che posso, come se, così facendo, potessimo diventare un tutt'uno e potesse capire quanto amore ho da darle.
"Non lascerò che più niente ti ferisca." Le sussurro tra i ricci ribelli. Julia mi stringe e mi bacia sul cuore, meglio di un qualsiasi altro bacio che io abbia mai ricevuto. Meglio di una qualsiasi altra promessa.
Con gli occhi un po' lucidi afferra il suo blocchetto e scrive in fretta un messaggio.
"Portami al dormitorio, devo parlarti di una cosa." È l'unica cosa che scrive. Non ho modo di risponderle perché si avvia alla mia macchina scrivendo un messaggio, presumo a Leila. Sì, ho finalmente imparato il suo nome. Ma resto dell'idea che la mamma avrebbe potuto darle un nome più semplice.
Ammetto che quel "Devo parlarti di una cosa" mi spaventa. Per tutto il tragitto non ha fatto altro che scrive ma non appena mi avvicinavo per leggere, mi faceva segno di aspettare e questo è stato abbastanza snervante, per i miei nervi già tesi.
Non so cosa aspettarmi, non so cosa possa aver scritto per quasi venti minuti, non so cosa possa esserci di così importante da dover andare addirittura via. E poi, rifletto. E il pensiero che mi stia per dire qual è il motivo che l'ha spinta a non parlare più, mi si stringe lo stomaco. A momenti sento di soffocare e non è possibile che io stia diventando così empatico nei suoi confronti per un qualcosa che neanche conosco.
Julia mi fa segno di sedermi ma con l'ansia che mi assale mi risulta del tutto impossibile. Quindi, o mi siedo e sfondo il pavimento a furia di battere i piedi, o resto alzato e cammino per tutta la stanza e per il bene di tutti, credo sia meglio la seconda opzione.
"No, preferisco restare alzato." Riccioli d'oro annuisce e, senza ulteriori intrattenimenti, mi porge tre fogli del suo blocchetto. Tutte interamente scritte con la sua calligrafia impeccabile, così da formare una sorta di lettera da sei pagine.
Li afferro come se stessi per afferrare la cosa più fragile del mondo perché so perfettamente che su questi fogli c'è tutta la verità, tutto il suo dolore. E non mi importa se non le ho ancora detto che mio padre probabilmente verrà arrestato, non mi importa se io dovrò restare ancora in silenzio. Lei l'ha fatto per chissà quanto tempo, posso resistere per qualche giorno.
Tremante e intimorito da ciò che leggerò, decido infine di sedermi, prendo un respiro ed inizio.
"31 ottobre 2015.
350 giorni fa venivo portato d'urgenza al pronto soccorso per una pallottola conficcata nella costola destra.
350 giorni fa venivo portata d'urgenza al pronto soccorso per una ferita alla testa a causa di una forte caduta sull'asfalto.
355 giorni fa, prima di essere portata d'urgenza al pronto soccorso, vengo rianimata dal mio fidanzato dopo essere quasi annegata nella vasca.
355 giorni fa il mio fidanzato prova ad uccidermi per la prima volta tentando di annegarmi nella vasca da bagno.
350 giorni fa il mio fidanzato prova ad uccidermi conficcandomi una pallottola nella costola, e per poco non ci riesce.
350 giorni fa resto in coma per quasi un giorno.
349 giorni fa mi comunicano che il mio ragazzo si è suicidato.
349 giorni fa, perdo la voce.
Non so dire esattamente come sia iniziata, ma ho smesso di parlare. I medici hanno detto che col tempo avrei recuperato, che col tempo avrei preso coraggio, ma la verità è che io non ne ho più voglia.
Quando la prima volta ha provato ad uccidermi avrei dovuto fare qualcosa, avrei dovuto denunciare, parlarne con i miei o con un'amica, ma sono rimasta in silenzio. Ho preferito credere di potercela fare da sola, che lasciarlo davvero avrebbe messo fine a tutte le mie sofferenze, a tutti gli abusi mentali e fisici che subivo, ma non è stato così.
La prima volta gli avevo detto che doveva smetterla, che doveva fidarsi di me se uscivo con un'amica, che doveva lasciarmi libera di vivere la mia vita e di non essere così oppressivo. L'attimo dopo ero immersa nella vasca destinata al nostro bagno assieme.
Credo che in quel caso la paura mi abbia paralizzata. Non riuscivo a pensare a niente se non a ritornare a respirare. Credo che in quella circostanza abbia avuto paura anche lui, perché è stato lui stesso a rianimarmi.
Ha avuto meno paura la seconda volta quando, dopo averlo lasciato e avermi perseguitato per giorni, mi ha teso un'imboscata.
Il 31 ottobre dello scorso anno, saranno state le sette di sera, ero di ritorno dalla palestra e mi dirigevo verso casa perché da lì a qualche ora sarebbero passati dei miei amici per festeggiare la sera di Halloween. Inutile dire che così non è stato.
La cosa assurda è che avevo avvertito la sua presenza. Non so come, ma il mio corpo, la mia mente, il mio cuore, sapevano che stava per succedere qualcosa. Ma proprio nel momento in cui ero decisa a chiamare qualcuno o semplicemente a darmela a gambe levate, mi ha afferrata e trascinata in un bosco vicino casa.
Ho provato ad urlare, credimi, ci ho provato. Ma le sue mani erano più forti delle mie urla. Quasi come uno scudo sonoro.
Ho provato a scappare, ma questo non ha fatto che aumentare gli strattoni e le imprecazioni.
Una delle cose che ricorderò per sempre è il suo viso invaso da lacrime ma gli occhi più cattivi che avessi mai visto. Alternava momenti in cui urlava di amarmi ed altri in cui urlava che se non avessi amato lui, allora non avrei amato più nessuno.
E' lì che gli ho sferrato un calcio. E' lì che sono riuscita a fuggire e addirittura digitare il numero della polizia. Ma questo non è servito.
Qualche momento dopo era dietro di me, il momento dopo io ero sull'asfalto e il mio cellullare sotto i suoi piedi.
Credo che i suoi calci sulle mie costole si sentissero fino in Belgio.
Gli ho implorato di lasciarmi andare, di non farmi del male. Quello che ottenevo erano solo urla e derisione.
Non so bene quali fossero le sue intenzioni iniziali, so soltanto che ad un certo punto mi sono ritrovata a pregare.
Non sono mai stata una persona estremamente religiosa, non ho mai praticato la chiesa perchè forse ero troppo cinica per importarmene. Ma in quel momento mi sembrava l'unica alternativa. L'unica scelta giusta.
Ho pregato Dio di aiutarmi, di salvarmi, di farmi vivere e sognare ancora ma dopo l'ennesimo calcio e il sangue alla testa, ero quasi sul perdere completamente i sensi.
E' lì che ho sentito pregare anche lui. L'ho sentito pregarmi di aprire gli occhi, di tornare ad amarlo, di tornare da lì. Ed è lì che invece ho trovato il coraggio di dire l'unica cosa che andava detta:
"Non pregare, perché il tuo posto è all'inferno."
Non so bene cosa sia successo dopo, ho solo sentito lo sparo. E' l'unica cosa che in realtà ho sentito.
Probabilmente il dolore che provavo al cuore era peggio della pallottola conficcata nella costola.
Non ho sentito nulla, ma lì mi sono arresa. Nella mia testa ho iniziato a contare i secondi che mi separavano dalla morte, pregando che arrivasse in più fretta possibile.
Quando ho sentito il secondo sparo, ho smesso di contare.
Non c'erano più pensieri, non c'era più dolore, non c'era più speranza o santo che potesse aiutarmi. Non c'era più niente.
Perché io non ho visto niente, Liam. Il vuoto più assoluto.
Mi sono risvegliata 23 ore dopo in ospedale, con la mano destra in quella dei miei genitori e quella sinistra in quella di mia sorella.
Per un attimo c'è stato il vuoto nei miei ricordi. Non c'era nessuna pallottola, nessuna caduta, nessun dolore, niente Cole.
Per un attimo ho creduto di sognare. Fino a quando non ho sentito la voce bassa del dottore:
"In questo momento è fragile sia dal punto di vista psicologico che fisico, quindi, qualsiasi notizia abbiate intenzione di darle in questo momento, siate prudenti."
E probabilmente è lì che ho perso la mia voce.
Ho ricordato la pallottola che mi perforava la carne e l'odio di Cole che mi perforava il cuore. Perché il suo sentimento non può essere paragonato all'amore. L'amore non fa male. L'amore non ti ferisce. L'amore non ti uccide.
Ho chiesto immediatamente che fine avesse fatto, dando per scontato che ormai tutti sapessero tutto.
Per un po' sono stati vaghi, per un po' hanno preferito assicurarsi che io stessi bene. Ma non potevo fingere di star bene sapendo che quel pazzo era ancora a piede libero. E' questo quello che ho urlato a mia sorella quando, per la terza volta, mi ha chiesto come stessi.
"Julia, Cole si è ucciso qualche secondo dopo di te e... Non ce l'ha fatta. Ma ti ha lasciato questa lettera."
Ho capito solo in quel momento che il secondo sparo non era destinato a me, ma a lui.
E allora ho provato ad immaginare la mia vita senza Cole.
Ho provato ad immaginare la mia vita senza la persona con cui sono cresciuta.
Ho provato ad immaginare la mia vita senza il mio migliore amico, il mio confidente, il mio faro in mezzo al male, il mio quasi assassino.
Ho provato ad immaginare la mia vita senza la persona che per metà me l'aveva data e metà tolta.
E lì è piombato il silenzio.
Non so dirti se fossi più arrabbiata per il fatto che la persona che avevo amato per tre anni mi aveva quasi ucciso o per il fatto che dopo averci provato, ha fatto la finita con la sua vita.
E' stato un codardo, Liam.
Io non ho potuto dirgli quanto lo odiavo. Quanto schifo mi aveva fatto. Quanto dolore mi aveva causato.
Non ho potuto avere giustizia.
Non ho potuto vederlo dietro le sbarre.
Non ho potuto dirgli addio.
I dottori dicevano che era normale, che il tutto era stato uno shock e che presto sarei tornata a parlare. Ma più passavano i giorni e più non ne sentivo il bisogno.
Più passavano i giorni, più mi odiavo per non aver confessato tutto prima.
Più passavano i giorni, più perdevo le parole.
I primi giorni li ho trascorsi fissando il vuoto, pensando a come sarebbe stato se avessi parlato prima, pensando a come sarebbe stato se non si fosse ammazzato.
Pensando a cosa ci fosse in quella lettera.
Qualsiasi stimolo era inutile. Rifiutavo qualsiasi tipo di comunicazione e non perché non volessi, ma perché non ci riuscivo. Provavo a parlare ma le parole mi morivano in gola e così, col tempo, mi sono rassegnata al fatto che avessi bisogno di dimenticare, di andare oltre e poi ricominciare daccapo.
Il mio ritorno a casa è stato accogliente e caloroso. La mia migliore amica e mia sorella hanno dormito con me per notti intere. Anche mia mamma, in realtà.
Gli incubi erano frequenti, il dolore no. Non provavo dolore per la ferita inflitta dalla pallottola, piuttosto quella che Cole aveva inflitto ai miei sentimenti, al mio cuore.
Così ho iniziato a procurarmi dei blocchetti su cui scrivere le cose più importanti e dei film per tenermi compagnia di sera.
Man mano tutto è diventato un abitudine, anche il non parlare.
Fin quando ho incontrato te e la voglia delle parole ha iniziato a far di nuovo capolino.
Ma non lo so, Liam, quando sarò pronta.
Non so quando sarò pronta a leggere quella lettera. Non so quando sarò pronta a parlare ancora.
Non so neanche se lo sarò mai.
Non so se ne sentirò mai più il bisogno, ma sentivo di doverti spiegare il perché
oggi,
il mio corpo ha scelto il silenzio."
Resto in silenzio per un tempo indefinito.
Mi asciugo qualche lacrima che mi riga il viso. Rileggo alcune cose più e più volte. Ma la sua espressione resta impassibile.
Se ne sta seduta di fronte a me, con il viso di un angelo che ha subito l'inferno.
Gli occhi che vogliono cedere alle lacrime ma che restano lì, a sussurrarmi parole dolci per non far piangere me.
Mi rigiro la lettera tra le mani e per la prima volta in vita mia non vorrei dire nulla se non urlare. Urlare di rabbia. Urlare di dolore. Urlare tutto quello che lei non hai urlato per mesi e mesi.
Mi passo la mano tra i capelli e sospiro, prendo coraggio e mi avvicino all'unica ragazza che io potrò mai amare.
"Non posso..." sospiro trattenendo le lacrime "Non voglio immaginare il tuo dolore. Non posso e non voglio perché spaccherei tutto il mondo. Tutto, Julia!" Mi sento così male che vorrei iniziare davvero a piangere interrottamente, come un bambino. Perché ne ho bisogno. Perché questa cosa mi ha sconvolto. Perché la amo e non posso sopportare che lei abbia sofferto così tanto.
Le afferro le mani e mi metto in ginocchio, davanti a lei. Occhi negli occhi.
"Non posso restituirti tutto ciò che lui ti ha tolto. Non posso restituirti la voce se non sei tu a volerla, se non sei tu pronta farlo.
Ma posso restituirti la serenità.
Voglio restituirti l'amore che ti è stato sottratto. Renderti felice la vita che ti è stata restituita.
Voglio essere con te il giorno in cui ce la farai, voglio essere con te il giorno in cui vincerai anche questa battaglia.
Voglio esserci, Julia." Alcune lacrime mi rigano il viso e questo la fa allarmare. Le sue piccole e fragili mani mi circondano il viso. Mi fanno da scudo all'orrore che ha vissuto. Mi proteggono dai suoi ricordi che ormai sono già nella mia testa che non fa altro che ripetere parola per parola la sua lettera.
"Non ti chiederò nulla, a riguardo. Qualsiasi cosa tu vorrai dirmi sarò qui per te, ma non farò domande. Non voglio metterti pressione ma ti prego, Julia, lasciati amare." L'ultima parola sembra quasi un implorazione perché mi esce dalla bocca nello stesso momento in cui le lacrime scorrono ancora più veloci sul viso.
Una sola lacrima le solca il viso e non arriva neanche a metà guancia perché mi affretto ad asciugarla e baciarla piano. Ma questo non impedisce alle altre di bagnarle il viso.
Mi alzo e mi siedo accanto a lei, anzi, la afferro piano e la stringo forte a me. Le bacio i capelli e le accarezzo la pelle morbida e pallida mentre lei, silenziosamente, continua ad urlare attraverso le sue lacrime.
"Ti amo" mi scrive sulla gamba quando riesce a calmarsi.
"Ti amo anch'io, più di ogni altra cosa al mondo." Le sussurro sulle labbra. In risposta lei mi stringe forte, quasi come se fossimo un tutt'uno, quasi come se, così facendo, potessi restituirle parte della vita che le è stata sottratta.
"Ti amo , Julia, ti amo." Le ripeto quando ricomincia a piangere, quando ricomincia ad urlare nel suo silenzio.
"Ti amo" ripeto, e mai niente è stato così vero.
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