Parte 1 senza titolo

C'è buio.
C'è silenzio.
Poi, silenzio con qualcosa in mezzo. Avete presente, no? il suono della certezza di non essere soli? Un rumore di occhi e di sguardi.
Sbatto le palpebre fissando il soffitto. Le travi a vista, poderose, come tante braccia legate insieme, mi sembrano al posto sbagliato. Mi chiedo cosa ci fanno sopra la mia testa. Poi metto insieme i pezzi dei fatti recenti, li tengo uniti col nastro adesivo della logica, e salta fuori un ricordo.
Sono al podere di Cassino. Ho appena trascorso la notte di Natale più assurda della mia vita e, visto che ho dormito al massimo un paio d'ore, oggi è ancora Natale.
Tutto considerato, i Templari avrebbero potuto onorare la festa e offrirci, che so, spumante e panettone.
Comunque, non tornerò indietro a farglielo presente. Non metterò più piede all'abbazia di Montecassino. Ne ho avuto abbastanza ieri notte.
Io e i miei compagni siamo entrati in quel posto per cercare un'amica. Siamo entrati con i nostri nomi e una certa idea, non precisa, ma abbastanza chiara, su chi fossimo. E siamo usciti da quella base sotterranea con nomi diversi, con ruoli assurdi, con un obbligo sulle spalle. Con un cazzo di destino, che nessuno aveva chiesto.
Una parte di me neppure ci crede. Com'è che, quando ti rivelano che sei la reincarnazione di qualcuno, si tratta sempre di qualcuno famoso? Mai una volta che venga predetto "tu sei il fornaio" o, che so, "sei quello che vendeva giornali all'angolo".
Avrei preferito. Invece quelli dicono che i miei amici sono i mitici cavalieri della Tavola Rotonda.
E io? Lo scudiero? Lo stalliere? No, chiaro che no! Io sono il re.
Io sono sempre la sfiga più grossa.
Trovo lo spunto per buttare le gambe giù dal letto. Il pavimento gelido saluta i miei piedi nudi. Lascio il letto, che assomiglia a uno zatterone incagliato nella stanza, alto e massiccio, come tutto il resto dei mobili. Sembrano fatti per un'epoca in cui le persone erano più alte e più grosse, un'epoca di giganti o semidei. Mi trascino in bagno, giusto per darmi una sistemata. Ora ho fretta di scendere e vedere i miei amici. Li ho lasciati nella sala grande, perché avevo bisogno di dormire. Magari a quest'ora sono crollati pure loro. Mi immagino di trovarli stesi per terra, come nelle favole, quando la strega lancia il sortilegio e il castello si abbandona al sonno. Poi arriva l'eroe, bacia la principessa, tutti si risvegliano, e sono felici e contenti. Compreso l'eroe, se la principessa assomiglia a Helena.
Helena.
Generalmente, penso a lei appena mi sveglio. Stavolta ci ho messo un po'. Mi convinco che sia un buon segno. Forse sto guarendo. Sarebbe una fortuna. Se insisto a farmi dei film, finirà male. Io so quando piaccio alle ragazze, non ci vuole un genio. E a Helena io non piaccio. Non le interesso.
Ripone in me una blanda fiducia, ma più perché lei è generalmente incoraggiante con tutti. Io mi sento come quei calciatori delle squadre giovanili che non vengono venduti ad altri club, ma solo dati in prestito, per farli «maturare». È come se Helena mi dicesse: «Certo, Marco, ho fiducia in te, credo che tu possa migliorare, ma preferirei che migliorassi lontano da me. Grazie».

Fisso la mia immagine allo specchio, un rettangolo enorme incorniciato da riccioli di legno dorato. Il tizio oltre il vetro ricambia la mia occhiata, con un'aria sospettosa. È come se dubitasse di me.
Non mi sento di dargli torto.
Mi concentro sugli occhi del riflesso fino a perdere i contorni dell'immagine. Sto cercando una traccia di Artù. Non la trovo, ma succede una cosa strana. Per un attimo, vedo il nonno nello specchio, al posto mio.
No.
Questa non è una storia di fantasmi, non è che il nonno appare e mi parla. Ma, per un secondo, il mio riflesso e il suo diventano la stessa cosa.
Mi manca un sacco.
Mi do una ripulita e uso l'acqua gelida per tornare a ragionare. In camera recupero le scarpe e poi scendo al piano di sotto. Sono a metà della scala, una serie di gradini bassi e lunghissimi, le mani sul corrimano di pietra, quando sento la voce di Deacon. Non capisco cosa dice, ma il tono ha dei picchi. Freme. Litiga col mondo. Le parole di Emrys, il mio improbabile Merlino, mi guidano lungo il corridoio, come sassolini lasciati proprio per non farmi perdere la strada.
Sono chiari, affinché io non li possa ignorare e sono taglienti, perché Deacon è pur sempre Deacon.
Percorro il pavimento di cotto e mi fermo sulla soglia della sala.

È un'ambiente grande. Due enormi finestre, con gli infissi scuri, si affacciano sulla vigna, le tende sono di un broccato bruno, pesante come stoffa bagnata. Tra le finestre, c'è l'orologio a pendolo, un soldato dritto e implacabile. A ridosso delle pareti, che virano al verde, c'è una sequenza di cassapanche sui cui poggiano i cuscini di raso, e ci sono quattro credenze uguali, con le porcellane dei servizi migliori, in mostra dietro alle vetrine. È una stanza fatta per pranzare con gli ospiti e per fermarsi con gli ospiti, dopo aver mangiato. Infatti nella metà di destra c'è un grande tavolo rotondo, con cinque candelieri a cinque braccia, mentre nella metà a sinistra ci sono tre divani di broccato marrone e una poltrona. Nel mezzo c'è il camino, una bocca nera che sembra spalancata per divorare il fuoco.
E, magari, per divorare anche Erek.
Greystone infatti è in ginocchio accanto al camino, sposta i ceppi e li sistema sugli alari. Deacon, alle spalle di Erek, sta camminando sulla traiettoria della paranoia, avanti e indietro, avanti e indietro. Lo stava facendo prima che me ne andassi a dormire, al piano di sopra, lo sta facendo adesso, come se non avesse mai smesso.
L'adrenalina lo tiene sveglio. Sono ancora fermo sulla porta, a fissarli, quando Deacon si accorge di me.
«Ehi tu, era ora! Pensavo fossi in letargo».
Mi strofino gli occhi. «Quanto ho dormito?»
«Tutto il pomeriggio» decreta Deacon.
«Meno di tre ore» lo corregge Erek. Poi indica l'orologio a pendolo. «Sono le quattro e ti sei risparmiato il Deacon Show».
«Pianifico le prossime mosse» ribatte Deacon. È sulla difensiva, agitato. Lo è sempre, ma stavolta di più. Credo che la faccenda di essere un mago leggendario non sia facile da digerire. La sua ansia è una presenza quasi fisica. Sembra di vederla accanto a lui, nella stanza.
«E Lance?» domando.
«In giro, con Helena» dice Erek.
«A fare dio sa cosa» aggiunge Deacon.
Okay, Marco, cancella l'ultima parte.

Provo a star calmo. Di sicuro sono qui, intorno, nella proprietà. È impossibile che siano andati in paese. Do uno sguardo fuori dalle finestre e il mondo si mostra coperto di bianco.

«Vado a vedere se sono alla vigna» annuncio. Gli altri mi seguono. Erek ha bisogno di una boccata d'aria e Deacon ha la vocazione del persecutore, quindi viene con noi solo per darci il tormento.
«Uscire? Non ne vedo il bisogno» sta dicendo mentre, fregandosene della contraddizione, si appresta, in effetti, a uscire. «Helena e Lance se la cavano anche da soli» continua mentre superiamo la porta di servizio, un arco in ferro battuto con un cancelletto tinteggiato di verde, «perché ci dovremmo ammalare tutti? Per solidarietà?» su queste parole tace e noi con lui. Siamo all'esterno, lo spettacolo silenzioso della campagna innevata si ruba le parole, seppellendole nello stupore.
Ai lati c'è la vigna, coi filari sommersi nel bianco, davanti a noi c'è il viale alberato, che porta fuori dalla tenuta. È un nastro bianco e i cipressi sono fusi di zucchero filato.
«Fa un freddo stramaledetto» dichiara Deacon, che ha superato la meraviglia e deve ribadire l'ovvio. «Eppure siamo all'equatore o quasi! Che diavolo, dovremmo stare in canottiera!»
In quella luce strana, una tinta che accarezza il rosa, Erek ci supera tutti, e va incontro alla neve. Vuole essere il primo a pestarla. Ce ne saranno cinque centimetri, accumulati per terra. 

Io impazzisco per la neve. È una tentazione. Erek continua a lasciare ovunque le sue orme, Deacon continua a lamentarsi, quattro passi davanti a me.
«Erek, rientriamo. Usiamo la testa!» sta dicendo. «Ci bagnamo le scarpe. Ci ammaliamo!»
La neve è una tentazione, soprattutto quando il bersaglio è un tizio alto come un lampione e sta proprio di fronte a te...
«Vuoi questo? Vuoi che ci ammaliamo tutti?»

Un bersaglio senza sciarpa. Con la nuca scoperta...

«No perché, se è la tua aspirazione, ti inoculo il virus dell'influenza. Risparmiamo tempo e...Ehi, ma che diavolo...?»

La mia palla di neve non solo ha colpito Deacon, ma è esplosa in mezzo ai suoi capelli assurdi.

Deacon si gira ed è tardi per nascondere la mano. Ho già pronta la seconda palla. E lo centro nel petto.
Lui è sbalordito. «Ma fai sul serio?» si indica, «mi hai colpito davvero con una palla di neve?»

«Due» lo correggo.
«Tre» annuncia Erek e in effetti lo colpisce sulla schiena

Deacon lotta con lo stupore. «Compio diciotto anni tra una settimana» dice, atteggiandosi a persona matura. «Non cederò alle vostre provocazioni infantili» non finisce neanche la frase: gli ho tirato un'altra palla di neve. Mi guarda come con l'aria di aver subito un'offesa irreparabile, poi si china, abbranca una manciata di neve e me la tira. La nuvola di neve fresca sembra una polvere magica.
«Emrys, sei un dilettante» lo derido.
«Hai tutto da imparare, Dick» sentenzia Erek e lo colpisce ancora, con una bordata micidiale.
A questo punto è guerra.
Deacon si china e racimola un paio di manciate con una velocità strabiliante. La prima palla è per Erek, e si disintegra sulla sua spalla, la seconda per me, e mi centra in faccia.

Deacon non è la schiappa che sembrava.

Meglio, così ci si diverte di più.

La cosa degenera in fretta e perdiamo ogni residuo di dignità. I piedi sono bagnati, non sento le mani, la luce è sempre più rosa e noi siamo padroni del mondo e del momento. Respiri, voci, un sacco di insulti, palle che volano, palle che mi colpiscono. Saltano le alleanze: non ci sono più amici, è tutti contro tutti.
E il cuore batte come una mitraglia, mentre realizzo che sto bene con queste persone, al punto di dimenticare quanto, ultimamente, io stia male con me stesso. Male perché un mese fa avevo tradito la loro fiducia, male perché tre giorni fa l'ho fatto di nuovo e ho passato un esame imbrogliando e male perché da sedici ore mi trovo sulle spalle un destino che pesa come un macigno.
Sono chinato per raccogliere munizioni, quando mi arriva un uno-due alla schiena, mi alzo e rispondo al fuoco mettendoci tutta la forza che ho.
E, porca miseria, colpisco Chevalier!
Si è materializzato. Cioè, è più probabile sia salito dalla vigna attraverso la scalinata in marmo che porta al terrazzo, ma è stato l'effetto apparizione a fregarmi. Helena, accanto a lui, ha lo sguardo sbarrato in un'espressione che supera lo stupore.
«Scusa, scusa, scusa» mi precipito da lui, gli do una mano a togliersi la sciarpa, la neve gli si è infilata sotto il colletto della camicia. Lui ride, ma io mi sento una merda, e gli chiedo di nuovo scusa e, intanto che ci sono, mi scuso anche con Helena. Una vecchia abitudine.
«Non volevo mica beccare te, era una palla per Emrys, era...»
Non finisco la frase. Proprio Emrys, il bastardo, ne ha approfittato per colpirmi in faccia. È in piedi sulla collinetta, i capelli sembrano esplosi sulla testa, è bagnato fino alle ginocchia, ha le maniche del maglione arrotolate oltre il gomito. Nel respiro affannato la schiena si curva in una postura da corvo. E non so se mi spiazza di più la smorfia da psicotico, o quella luce implacabile che gli accende lo sguardo. Ha l'aria di uno che non smetterebbe più. Che è drogato di guerra.

Ma la risata di Helena e la sola presenza di Chevalier per me segnano la fine delle ostilità. Non ho intenzione di rendermi ridicolo davanti alla ragazza che mi piace e fare l'idiota davanti a Lance ribadirebbe che lui è un tipo posato e maturo, e io, al contrario, un perfetto deficiente.

A Erek invece non frega niente di sembrare un bamboccio e ride, e prende per il culo Emrys, perché neanche voleva giocarci, con le palle, e ora sembra avere il diavolo addosso. E alla fine anche Deacon, che provava a fare il sostenuto, comincia a lottare per stare serio, ma ha perso in partenza. Abbiamo perso tutti.
Erek, quando comincia a ridere, scatena un effetto valanga. Non solo non si ferma, ma ti travolge. Cominci piano, con qualcosa che si muove nello stomaco. Poi l'euforia rimbalza dalla pancia alla gola. E non ce la puoi fare: alla fine ridi anche se non volevi, anche se farlo sottolinea che sei davvero molto più scemo di Chevalier, e anche se, facendolo, fornisci alla ragazza più carina del mondo la conferma che sei un idiota. Ma che ci volete fare? La maturità è un lusso che a diciassette anni non riesco a concedere a me stesso.
Rientriamo bagnati e infreddoliti, ci ripuliamo come possiamo, e prima di arrivare al salone incrociamo la signora Lola, la governante della casa. La sua stazza blocca il corridoio. Sorvola sul nostro aspetto, impassibile come si richiede alle persone di servizio, e mi chiede istruzioni per la cena. Traduco per i miei amici, giusto per sapere cosa vogliono mangiare, ma Erek è folgorato da un'idea.
«Cuciniamo noi, chiaro».
La signora Lola è, come me, abituata ai ruoli, a stare nei ranghi. Quando traduco la proposta di Erek, sembra stupefatta. Anzi dispiaciuta. La prende come una destituzione, come un atto di sfiducia. Ma Erek, pur con me di mezzo a fare da interprete, riesce a spiegarle che non si tratta di quello.
Chi ha le giacche se le toglie. Passiamo a lavarci le mani e siamo tutti in cucina.
Erek decide il menu ma non come farei io che se ho voglia di spaghetti li chiedo. Lui vuole davvero imparare a cucinarli. Lance collabora, Helena sembra perfino felice, Deacon non è esaltato ma fa la sua parte, io, al contrario un po' esaltato lo sono. Non mi spiego bene il motivo, ma questa cosa di tagliare le cipolle mi appaga. La signora Lola dirige le operazioni. Non è del tutto a suo agio vedendomi in cucina, lo percepisco e mi dispiace un sacco. Forse pensa che io sia fuori posto o, piuttosto, che io non sia in grado. Il sospetto che sia un problema di fiducia mi ferisce. Mi impegno di più. Non sono un re leggendario ma, cristo, la cipolla la so tagliare.
La radio è accesa su una stazione sensibile all'atmosfera natalizia. Programmano Michael Bublé come se non ci fosse un domani, e vecchi pezzi inglesi sugli omini di neve o su Babbo Natale che arriva in città. Poi d'un tratto una voce alla radio ci esorta a immaginare che il paradiso non esista, e un attimo dopo Lance si mette a canticchiare. Non credo che se ne renda conto, la voce di John Lennon a lui fa sempre questo effetto. Helena se ne accorge, lo fissa e sorride.
Vieto a me stesso di essere geloso. Vieto a me stesso di pensare che lui è Lancillotto, che tutti quelli che lo conoscono sono pazzi di lui e che perfino io lo sono.
Torno a tagliare la cipolla. Avere un coltello in mano e qualcosa di inerme su cui sfogarsi a volte salva da certi pensieri. Ma affondo con troppa convinzione e finisco per tagliarmi. Non trattengo un gemito.
Helena mi guarda allarmata. «Tutto bene?»
«Sì, niente di che» la rassicuro.

Deacon, alle prese coi pomodori, mi scruta senza compassione. «Tremo all'idea che tu sia il nostro re».

Il fatto che nomini la faccenda, fa piombare la stanza nel silenzio. Ancora un po' e tace pure la radio. Erek fa un cenno in direzione della signora Lola, quasi a rammentarci della sua presenza, ma io scuoto la testa e ribadisco, «non parla inglese» mentre lei continua a darci le spalle e a occuparsi del soffritto.

«Quanto a te, Emrys» sbotto tenendomi la parte ferita. «Io non sono il re di niente. E sai cosa?» strappo un pezzo di carta da cucina e me lo avvolgo intorno al taglio. «Non ci credo! Cavalieri della tavola Rotonda?» ripeto mettendo tutto lo scetticismo e la diffidenza e il sarcasmo di cui sono capace. «A me sembra una cretinata».
Helena abbassa lo sguardo sulla terrina dove sta spezzettando il peperoncino. Non dice nulla ma non ce n'è bisogno. Abbiamo passato la notte e la mattina a parlare di questo. A lei non sembra vero di far parte di una leggenda che ama, a Deacon non sembra vero di essere l'erede di un mago e a Erek non sembra vero di essere destinato a un'organizzazione umanitaria, come la chiama lui, che opera in segreto da secoli. Una versione fantasy di Amnesty Internationl, Green Peace e Emergency messe insieme.
«Io ci credo invece» mi conferma Erek. Ma riconosco che Greystone non lo dice come fa Deacon, non te lo sbatte in faccia come se si vantasse della sua Fede, come se il suo crederci lo rendesse migliore di te. Erek lo dice con l'aria di uno che vuole portarti dalla sua parte. Se Deacon è il teologo, Erek è l'apostolo.
«Pensaci Marco» continua, mentre mi raggiunge, per dare un'occhiata al taglio. «Avere un destino è un vantaggio! Eviteremo la fase del "non so cosa fare da grande"» alza una spalla. «Perché noi lo sappiamo: rifonderemo la Tavola Rotonda e aiuteremo chi ne ha bisogno».
«Oppure apriremo una birreria!» rilancio, «cioè sul serio, io la domanda "cosa farò da grande?" voglio farmela, Erek, ci tengo a quella cazzo di domanda».
«Okay, fattela» mi concede Deacon, che intanto è passato alla mozzarella e la osserva come fosse un enigma. «Fattela e poi risponditi: rifonderò la Tavola Rotonda e aiuterò chi ne ha bisogno» e affonda il coltello, infilzando anche me, con un'occhiata che non lascia scampo.
«Non puoi fidarti di monaci militari che hanno rapito una tua amica e non puoi fidarti di una favola» virgoletto la parola, «in cui un re salva il mondo!»
«Infatti» conferma Deacon. «Mi fido della favola in cui il mago salva il mondo».
E visto che il mago è lui non serve replicare.

Erek lotta per non sorridere, e mi riserva un'occhiata che è la somma di esasperazione, perché Deacon in modalità onnipotente esaspera tutti, e solidarietà, che è reciproca, visto che entrambi abbiamo la sfiga di essere suoi amici.
«Ti ci vuole un cerotto» dichiara Erek, giusto per cambiare argomento, ma anche per darmi la possibilità di scappare da lì.
«Ti accompagno a cercarlo» dice Helena. E già si toglie il grembiule. La sua voce e la sua proposta, arrivano così inattese che per un attimo la fisso. E devo avere la faccia di uno che proprio non se l'aspettava, e forse anche di qualcuno che non vuole, perché lei corre ai ripari. «Oh magari te la cavi da solo e...»

«No, ma ti pare?» le dico, «quando mai me la cavo da solo?» indico la porta. «Vieni con me in bagno. Lì c'è la cassetta del primo soccorso».
«Okay» dice lei e mi raggiunge, «andiamo in bagno».

«Ma stateci poco».

La raccomandazione, ovvio, viene da Deacon.
I primi tempi, pensavo fosse geloso di Helena, ma adesso ho capito che è solo protettivo. A lui le ragazze non piacciono ma tiene a Helena.
Sulla porta, mi ricordo di darle la precedenza. Alle ragazze piace se le fai passare, o aspetti che si siedano per prime. In corridoio però faccio strada io. Adoro sentire i suoi passi, è bello sentirli coi miei.

Stiamo andando nello stesso posto, e ci andiamo insieme.

Okay: sto caricando la cosa di un significato che probabilmente non ha. Ma quando si tratta di Helena io divento un sentimentale.
Una volta nel bagno lei è letteralmente rapita dalla stanza. Ne ha motivo. È un'ala aggiunta alla fine del novecento, ed è bellissima. Le cose che colpiscono sono la grande vasca termale, piastrellata di blu, costruita nel centro esatto della stanza e il rosone circolare di ferro battuto e vetri colorati che la sovrasta, in mezzo al soffitto. È da lì che arriva la luce del giorno.

Per la prima volta noto che si tratta di un cerchio, il rosone, che interseca un altro cerchio, la vasca. Ora capisco la fissazione della mia famiglia per stanze rotonde, tavole rotonde, tombe rotonde, e la predilezione che abbiamo per funerali in chiese di pianta rotonda.
«È meraviglioso».
Helena, col naso in aria, impedisce ai pensieri tristi di attecchire. È bella in modo assurdo. Completamente bella. I suoi occhi mi fanno sentire nudo, la sua bocca sembra fatta per riempirmi di baci e lasciamo perdere il resto perché ne esco pazzo.
Lei è bella anche nelle cose che non avrei messo in conto potessero piacermi.

Per esempio la clavicola.

Non mi sono mai posto il problema, finché non ho notato la sua. È successo tre sere prima del mio esame. Ripassavamo nel ripostiglio dei materassi, di fianco alla palestra, lei si gira per passarmi un quaderno e la torsione del collo le mette in risalto l'osso vicino alla gola. E io? Io ci ho pensato per due giorni di fila.
Il che conferma che ho pochissime speranze di uscirne vivo.


Helena comincia ad aprire alcuni dei pensili attorno alla specchiera di murano. E mi ricordo che siamo lì per un motivo.
Poco dopo lei mi sta passando il disinfettante su una ferita ridicola che ha smesso da un pezzo di sanguinare.
Entrambi sappiamo che non ho bisogno di tutte quelle attenzioni, ma io mi guardo bene dal farglielo notare e lei si adegua.
Insomma, è come se stessimo giocando al dottore.

Okay, Marco. Cancella anche questa.
«Si muore dal caldo» osservo. Per me la temperatura si è alzata davvero.
«Meglio» nota lei, lo sguardo basso, sulla mia mano. «Prima alla vigna, avevo così freddo che pensavo mi si staccassero le dita».
Guanti!
Devo comprarle dei guanti, alla prima occasione...
«A proposito della vigna, che ci siete andati a fare, tu e Lance?» mi esce un tono inquisitorio e devo bilanciare con un «non che me ne importi» fin troppo indifferente.

«Due passi. Niente di che» alza una spalla e ancora non mi guarda. Preferirei lo facesse. Stiamo in silenzio una manciata di secondi, poi lei prende fiato, come se si apprestasse a fare una cosa difficile. «Posso fartela io, una domanda?»

«Tutte quelle che vuoi».

«Davvero non ci credi?» mi chiede. «Davvero non credi alla storia dei Templari?»

Sto per dirle di no, che sono solo dei buffoni, ma mi blocco. Devo essere onesto. «Diciamo che non voglio darci peso».
«A me piace» dice e mi stringe le mani e alza la testa e finalmente mi guarda. «Mi piace che tu sia Artù».

C'è un concerto di stelle, in fondo ai suoi occhi, e un buco nero dentro al mio cuore. C'è qualcosa di me che le piace, ma è quella sbagliata. Sono ancora fermo su quelle parole, sforzandomi di non precipitare, quando Deacon appare tra stipite e porta. Non ha neppure bussato.
«Bisogna apparecchiare» annuncia. In realtà non vuole lasciarci soli.
A volte lo odio, ma non oggi. In questo momento mi ha salvato.
Non mi piace che Helena pensi che sono Artù. Non mi piace perché significa che si aspetta che io faccia cose degne di un re leggendario. E, con un'aspettativa così alta, quando poi si rende conto che sono solo Marco, che mi spiego male, mi arrabbio troppo e rubo i compiti di matematica per passare i test la deluderò in proporzione.

Nella sala scopro che la tavola rotonda è stata coperta da una tovaglia rossa, la signora Lola ha acceso i candelabri e ora sta tirando fuori il servizio di Natale da una delle credenze. Scopro che apparecchiare è davvero facile come sembra. Erek si è portato dietro la radio. Adesso c'è la canzone della renna dal naso rosso. Mentre appoggio i bicchieri sul tavolo, mi lascio prendere dal messaggio di speranza. Perfino una renna patetica con un nome patetico, può salvare il Natale. E questo mi sembra un pensiero felice, perché mi sento molto Rudolph.
La cena è buona, e l'atmosfera bella, il vino ci rilassa e Erek fa morire dal ridere. È di ottimo umore, nonostante le bugie di Darlin, o come cavolo si chiamava, probabilmente lo abbiano ferito. E parecchio. Greystone è un tipo in gamba, non ti fa mai pesare le sue cose, lui guarisce anche le ferite che non si vedono. Al nonno sarebbe piaciuto.
Tutti i miei amici gli sarebbero piaciuti, li abbraccio in un unico sguardo, mentre sono seduti intorno alla tavola rotonda. Attraverso le luci dei candelieri posti sul tavolo, le loro immagini risultano davvero magiche, strappate dalla realtà, tanto che sembrano far parte di un sogno. E in fondo è così. Loro sono il mio sogno di una vita diversa.
Lance e Helena non bevono vino, ma riusciamo lo stesso a stappare la quinta bottiglia di Chianti e credo di potermi prendere gran parte del merito. Siamo al dolce, quando Lance si alza e si schiarisce la voce: «È il momento dei vostri regali».
Sono felice di vedere che nessuno se l'aspettava. Nessuno tranne Helena che si alza e, tutta soddisfatta, va a recuperare due grandi shopper blu, da dietro alla pendola. È stata la complice di Lance, fino a ora.
Perfetto. Non mi ero neppure accorto che avessero portato in casa quelle buste. Chissà di quante altre cose non mi sono accorto. Chissà di quante non mi accorgerò in futuro.
Sento il bisogno di riempire ancora il bicchiere.
«Ehi, Lance, ma quando li hai comprati?» chiede Erek allibito.
«Il regalo di Marco ce l'ho da tempo. Ai vostri ho pensato ieri mattina» risponde. «Era chiaro che avremmo passato il Natale insieme. Helena» e la indica, «mi ha dato una mano».

Quello di Marco ce l'ho da tempo è una frase che mi ammazza. Per un attimo provo un assurdo lampo di rancore per questo amico perfetto che pensa a me, che si preoccupa per me, e mentre lo fa sottolinea che io non penso a lui e non mi preoccupo per lui.
Mi rendo conto che sono pensieri meschini. Non posso avercela con lui perché è la persona migliore che conosca.
Di cosa mi lamento, in fondo?
«Comunque io non ti ho fatto niente» chiarisce Deacon con la solita mancanza di tatto. «A nessuno di voi».

«Non è questo lo spirito dei regali» interviene Helena. «Li fai quando e se vuoi».

Lance annuisce e lei gli sorride. Tutta questa approvazione reciproca è insopportabile.

Certo, fate pure, se volete c'è una stanza al piano di sopra...
È un pensiero che mi scappa. Come quando pensiamo alle cose che ci fanno più male.
«Allora, chiarito che li ho fatti per voi, senza pretendere nulla in cambio, posso darvi i miei regali?» chiede Lance.

«Certo» dice Erek, «ma facciamolo bene, davanti al camino» ed è il primo ad alzarsi, barcolla appena, torna indietro e prende la bottiglia per il collo, e pure il suo bicchiere. Io mi accodo. E pure io mi prendo il bicchiere. La quinta bottiglia non sarà l'ultima.

In un attimo siamo davanti al fuoco. Deacon si siede sul tappeto, coi gomiti sul tavolino di mogano, davanti a lui c'è la bottiglia e ci sono quattro pacchetti incartati tra figure di grandi obesi vestiti di rosso ed elfi schiavizzati.
Lance sta in piedi, spalle al camino. Erek si accomoda sulla poltrona del nonno, un arnese in broccato con uno schienale gigantesco. Non mi dà fastidio che ci sia un'altra persona, adesso che lui non c'è più. Soprattutto perché non sarebbe dispiaciuto al nonno. Ma per la prima volta realizzo che il nonno non sceglieva mai il divano. Lui si sedeva sempre da solo. Sempre. Non era un uomo solitario, ma manteneva le distanze. Non era distaccato, ma neppure affettuoso. Immagino che abbia smesso di prendermi in braccio non appena sono stato in grado di camminare da solo.

Quella poltrona, improvvisamente, mi sembra un trono e mi fa paura. Perché sul trono ti ci devi sedere da solo. E lo sarai per sempre.

Prendo posto su uno dei divani, certo che Helena si siederà su quello più lontano. Ci metto un attimo a realizzare di essermi sbagliato. Lei è ferma, di fronte a me, indica lo spazio accanto a me.

«Posso?» mi chiede. Lo fa con una voce così sottile che, se non aggiungesse il gesto e indicasse il cuscino, forse non capirei quello che mi ha detto.

Annuisco, mille volte, come se avessi un tic, chiudo le gambe mi schiaccio contro il bracciolo della poltrona, trattengo perfino il fiato! Sì, ogni cosa pure di mandarle il messaggio che proprio non riesco a dirle: che accanto a me il posto per lei c'è sempre.

Helena si siede. Occupa lo spazio di un fazzoletto.

Lance riprende a parlare. «Cominciamo da Helena».

Lei si allunga verso il tavolino, prende il pacco, ringrazia. Scarta un paio di guanti bianchi.
Guanti!

Maledizione! Quelli che dovevo regalarle io. Mi sento battuto sul tempo, stracciato, di nuovo vittima del pensiero assurdo che Lance sia il mio rivale "naturale" e che abbia già vinto.

Il regalo per Erek è un libro. Una storia sui pirati, comprato da un antiquario del paese che ne aveva ben due copie. Greystone non la smette di ringraziare.
Lance mi dà il suo regalo. «L'ho vista su internet, ho pensato che doveva essere tua».

Scarto il pacco. È una t-shirt, sopra è stampata la scritta you talkin' to me? È la battuta di quel vecchio film con Robert De Niro. Deacon la ripete, ride che non si trattiene, dice che è perfetta che io parlo così. E comincia a fare una specie di imitazione di me che ripeto quella frase.

La cosa, alla fine, è davvero divertente. La t-shirt è fighissima. E alla fine per dimostrare a Lance che mi piace, e per dimostrare a Deacon che non mi frega nulla delle sue battute, mi sfilo il maglione e me la metto sopra al dolcevita.

A Deacon tocca una chiavetta USB con attaccato un pupazzetto di Gandalf. E regalare a Deacon un mago in miniatura è, col senno di poi, una cosa profetica. Va a finire che i Tempari avevano ragione e si scopre che Lance vede davvero il futuro.

Tutti ringraziamo. Lance ha una faccia felice. Ma poi ricomincia a parlare.

«C'è anche un'altra cosa, di cui vorrei parlarvi, un'idea che mi è venuta oggi, mentre stavo in giro con Helena...»
Proprio Helena si volta, mi sorride e allunga una mano per tirarmi la maglietta sul fianco, me la sistema. Il fatto che mi abbia toccato, come se niente fosse, mi fa sentire il peso della distanza che c'è tra noi. Perché vorrei fare lo stesso. Allungare una mano e toccarla. Provo a concentrarmi su Lance.
Ora sta parlando del furgone con cui gli altri sono scesi dalla Svizzera a Cassino, un vecchio catorcio di proprietà della scuola che abbiamo recuperato ieri dal deposito della polizia. Non vedo cosa c'entri il furgone coi regali di Natale.

«...l'agenzia di autisti che ho contattato, ha fatto un preventivo ragionevole...»
Smetto di ascoltare. Torno a guardare Helena. Mi concentro, mi affido al potere della mente, come quando ero bambino.
toccami ancora toccami ancora toccami ancora...
Lei non si muove.
Il mio potere della mente fa schifo.

Mi alzo, prendo la bottiglia e riempio il bicchiere. Appoggio la prima con un tonfo e ricado sul divano. Finisce che siamo più vicini di prima. Ora sfioro la sua gamba.
E, senza passare per il via, mi immagino la sua gamba nuda, contro la mia gamba nuda. Quando realizzo che Helena non si sposta, ma si appoggia, prendo il largo.

Ora, la situazione può solo peggiorare. In mancanza di una doccia fredda, provo a concentrarmi su Lance, che continua a parlare.

Ora sta spiegando che esiste una convenzione tra la Chevalier Luxory, inc. e le principali compagnie della rete ferroviaria europea.
«I quadri aziendali non hanno usato i biglietti chilometrici di quest'anno. E scadranno alla fine di gennaio. Io confesso di avere un debole per i treni e...»
«Ecco, parliamo di treni» me ne esco, «i treni mi piacciono un sacco». Ho un tono di voce rotto, ma i treni mi sembrano un modo per evitare di pensare alla gamba di Helena, al fatto che sotto i vestiti è nuda.
«Io ci sto, Chevalier» dice Erek. «Tanto è chiaro che passiamo queste vacanze insieme, no? Quindi scegliete un posto e io vi seguo».
«Evitiamo la Germania» dice Deacon. Lo fa fissando la bottiglia, con uno sguardo assente. Come se di colpo fosse del tutto ubriaco. «Evitiamo la diagonale di Thule. Le linee di prateria interferiscono. Il castello dell'Ordine Nero è il luogo dove ci saluteremo. Non è ancora il tempo».
«Dick? Sei ubriaco o impazzito?» chiede Erek. Deacon alza lo sguardo.
«Cosa?» sembra uno appena precipitato nel mondo dei vivi.
«Okay, evitiamo la Germania» lo asseconda Lance. «Qualche idea?»
«Ragazzi, non voglio obbligarvi» se ne esce Helena, «ma se davvero questi biglietti non li usa nessuno, io vorrei approfittarne per tornare a Santiago. Vorrei portare dei fiori a mia madre».
«Ti accompagno» mi offro, senza pensarci un minuto. «Partiamo anche adesso».
«Scordati di andarci da solo con lei» aggiunge Deacon che ha recuperato uno sguardo incalzante e tutto sommato normale. «Verrò con voi» .

«A me sta bene» conferma Erek. E visto che pure Lance è d'accordo la cosa è decisa. Partiremo per la Spagna, appena possibile.

Lance si apparta col suo tablet e comincia a consultare gli orari dei treni. Nel frattempo noi decidiamo di giocare optando per carte e scacchi.
Io sono piuttosto negato per entrambi ma, a differenza degli scacchi, le carte mi sono sempre piaciute, nonostante il mio scarso talento.

Mi ci metto d'impegno e provo a insegnare ai miei amici il mio gioco preferito, pinnacolo.

Comincio in coppia con Deacon, ma lui si ostina a mettere le sequenze del mio stesso colore, anziché proseguire il mio gioco, e perdiamo. In coppia con Erek mi diverto un sacco, ma perdiamo. In coppia con Lance, nonostante lui chiuda la partita, riusciamo a perdere. E quando sono in coppia con Helena, ho la testa piena di immagini di noi due sul divano e, naturalmente, perdiamo.

Con gli scacchi va male uguale, ma almeno perdo da solo.
Il tempo ci porta attraverso questa notte che sembra non finire, quando la pendola batte due rintocchi io e Helena siamo di nuovo sul nostro divano. Lei ora stinge una delle coperte portate dalla signora Lola, e ha l'aria di una che potrebbe crollare da un momento all'altro. Lance, sul divano di fronte, è crollato proprio. Un attimo prima era sveglio e un attimo dopo aveva gli occhi chiusi. Erek ha steso una coperta sopra di lui.

Deacon sta trascinando Greystone nell'ultima soffertissima partita quando, improvvisamente, sento Erek esclamare: «Scacco al re!»
«Oh diavolo! È impossibile» irrompe Deacon, i gomiti piazzati sul tavolino e le mani piantate nei capelli.

«Grande Erek» esulto, mentre sto disteso sul bracciolo del divano, col braccio piegato sotto la testa. «Se la meritava una lezione» raccolgo le forze che restano per allungare il bicchiere verso Erek, che risponde al brindisi.

Sarà il bicchiere della staffa.

«Una lezione di cristiana umiltà» conferma Erek.

«È impossibile» ripete Deacon la voce strascicata. Poi punta lo sguardo stranito su Erek. «Hai barato, vero?»
«Tu mi offendi. Ho vinto davvero. E questo significa che mi devi...» prende un blocco di appunti e elenca, «due servizi a mia scelta entro la fine dell'anno scolastico, obbedire a un mio ordine, farti piacere una ragazza e possibilmente commettere atti impuri prima della fine dell'anno solare, prepararmi la colazione domattina e...»
«...devi esaudire un mio desiderio» concludo con un sorriso trionfante.

«Non è regolare vincere un favore per una terza parte» obietta Deacon, incagliandosi sulle parole, come se fossero uno sforzo troppo grande.

«Hai messo la tua firma» gli rammenta Erek, mostrando il taccuino, «eri d'accordo: devi un favore anche a Marco».

Mi godo il momento. «Mi piace l'idea che sei il mio schiavo...»

«Ehi, ehi, piano» scatta, «te lo scordi, proprio Cinquedraghi».
«Okay» annuisco, poi mi viene un'idea. «Cedo a Helena il favore che mi devi» la indico, e mi sento un genio. Le ho fatto un regalo di Natale pure io.

Helena ha la coperta fin sotto il naso, ma capisco dagli occhi che sorride. «Io ci sto» dice. «Quindi Deacon deve un favore a me. Mi tornerà utile».
Deacon alza appena un sopracciglio, ma non protesta. Preferisce di gran lunga essere al servizio di Helena. Si mette una delle coperte sulle spalle. Arranca in direzione del divano più lungo. «Mi butto un attimo qui» annuncia. «Solo un minuto, poi salgo a dormire». Erek prende l'ultimo panno e si butta sulla poltrona. «Oh raga, io sto crollando proprio».
Ognuno ha la sua camera, ma nessuno vuole andarci e ognuno ha una coperta tranne me.
Helena alza la sua, me la porge. «La vuoi?»
Parliamone.
Dovrei dire di no e lasciarla tutta a lei. Ma dividere la coperta con una che ti piace  non capita tutti i giorni. Quindi sì, sì lo voglio.
Chiaro che non sono uno che, se ti offrono la coperta, si prende la ragazza che ci sta sotto, quindi me ne sto buono, dalla mia parte. Stiamo in silenzio per un po', la stanza piena solo del crepitare del legno che brucia, e dei respiri dei nostri amici, in partenza per il mondo dei sogni.
«Mi sa che non si svegliano più» le dico, «fino a domattina».
«Tra un po' crollo pure io» mi avverte in uno sbadiglio. «Non so come faccio a tenere gli occhi aperti».
I suoi occhi sono in effetti socchiusi, inteneriti dal sonno, e lei già di suo ha uno sguardo che ti ammazza, quindi in questo momento il suo livello di dolcezza è praticamente illegale.
«Se ti dico una cosa, mi prometti che non penserai che sono stupida?»
«Non lo penserò mai» la rassicuro.

«Mi dà sicurezza vedervi tutti qui. Nella stessa stanza» mi dice, «non avrei mai sperato di essere così serena, considerato che è il primo natale senza la mamma».

Realizzo che per me è lo stesso, è il primo natale senza il nonno. Non voglio mettere a confronto un nonno che ha vissuto a lungo, con la una mamma morta giovane, perché ci arrivo anche io a capire che è diverso. Ma capisco anche di cosa sta parlando. Anche io sono felice perché siamo insieme, nella stessa stanza. E non parlo solo di lei, parlo di tutti. Anche io, ora, mi sento al sicuro.
«Sai cosa?»
«Cosa?» chiede lei.
«Visto che dormiamo insieme, non devi farti problemi. Se vuoi venirmi vicino. Appoggiarti. Fare cose».
«Fare cose?» ripete.
Provo a non sembrare un idiota, ma è dura. Le mie parole sono, ancora una volta, le mie peggiori nemiche.
Annuisco. E lei annuisce e un attimo dopo mi viene davvero vicino e si appoggia.
Un contatto goffo, rigido, impacciato. E io per paura di fare troppo, finisco per fare troppo poco.

Sono così immobile che la mia proposta sembra una presa in giro, quindi lei fa per allontanarsi. Ma io la afferro.

Ora devo sembrarle un maniaco.

Ma forse è troppo stanca per pensare di me questo o qualcosa d'altro, quindi semplicemente resta tra le mie braccia.
È la terza volta che succede.

La prima è finita malissimo, con Rebecca che mi baciava. La seconda conta poco: è stato ieri sera, quando l'ho rivista nella base dei Templari e l'abbracciavamo tutti.
Ma stavolta conta, stavolta siamo io e lei, gli unici svegli, anche se per poco. Ha la guancia sul mio petto. Sento il profumo dei suoi capelli. Penso che sotto i vestiti è nuda, ma non potrei stare meglio, se lo fosse davvero. Perché la verità è che lei ha un significato che va oltre ciò che sto abbracciando.
«Helena?»
«Hmm?»
«Buon Natale».
«Anche a te, Marco» e sono le sue ultime parole. Vengono dai sogni e mi ci accompagnano. Chiudo gli occhi felice. Tutto quello che chiedo alla vita è in questa stanza. Da adesso, fino alla fine. Qui c'è il mio Natale che non passa.
«Helena?»
Non risponde più. E allora sono al sicuro e glielo dico.
«Mi piaci un sacco».
Risponde il silenzio, ma va bene così.
Non è mai stata una domanda.


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