38 - Piccole Ombre Notturne
“Te l’avevo detto.”
Dare rispose a quella strana frase di Ari con uno sguardo interrogativo.
“Che saresti riuscito a convincerlo. Anche se non pensavo volessi reclutare Caret, non credevo nemmeno fosse vivo.”
“Quando arrivammo alla Cittadella per la prima volta, lui se n’era già andato. Fu proprio il suo congedo a farci capire che avevamo bisogno di un Centro di Addestramento in cui poter arruolare nuovi mercenari.”
“Quindi devo a lui il dispiacere di essere la vostra Guardia?”
“Sì, penso che la colpa sia mia.”
Ari rabbrividì a quella voce fredda e tagliente. Non aveva sentito Caret arrivargli alle spalle, cosa che gli provocò un ulteriore brivido di paura. Daer invece non pareva minimamente turbato.
“Ti presento Ari. Gli ho chiesto di lasciare momentaneamente la guida della Cittadella per sostituire un caduto e marciare con noi.”
Gli occhi di Caret scintillarono sotto il cappuccio mentre squadrava l’elfo.
“Hai sostituito i tuoi caduti con me e la Guardia della Cittadella. Tieni davvero a questa missione.”
Il silenzio circondò per un attimo i tre mercenari, rotto solo dai passi dei compagni.
“Credi alla storia dello stregone?”
Daer scrollò le spalle.
“Stiamo parlando di stregoni, dovresti essere tu a dirmi se c’è qualcosa di vero.”
“Come ho già detto mentre eravate in casa mia, anch’io ho potuto udire la rottura tra i mondi nel tessuto magico. Però che questo sia un male lo dice lo stregone. Io so solo che è servita una magia potentissima per creare un’apertura come quella.”
“Che sia un pericolo l’abbiamo provato sulla nostra pelle nel Barët Flaam. Siamo stati attaccati da una bestia, e ti posso assicurare che una cosa del genere non è pacifica.”
“Io – intervenne Ari – fatico piuttosto a capire come sia possibile che lo stregone abbia attraversato tutti questi secoli. Quella mi è sembrata una panzana difficilmente credibile.”
“Ho parlato un po’ con lui e gli ho chiesto spiegazioni. Mi ha descritto una magia di cui non avevo mai sentito. Io non riuscirei a riprodurla, richiede troppa energia, ma in effetti, se lui possiede quella forza, non è impossibile.”
“Quindi, la storia è plausibile.”
“Sì.”
“E potrebbe avere ragione anche nel dire che i due mondi sono in pericolo.”
“Perché me lo chiedi? Se anche ti dicessi di no, penso che ormai sarebbe troppo tardi per tirarti indietro.”
“Volevo la tua opinione per avere un quadro più completo. E sulla nostra meta attuale? Anche quella è possibile?”
Era stata una delle prime cose che Daer aveva spiegato a Caret, anche perché quando ne avevano discusso nella Cittadella, Ari aveva letteralmente dato di matto, ritenendola una pazzia totale. Il comandante non lo aveva mai visto così fuori di sé. Aveva acceso una furiosa discussione con lo stregone, il quale però non si era mosso minimamente dalle sue convinzioni. E infatti l’elfo si scagliò subito a parlare a raffica, senza lasciare a Caret il tempo per rispondere.
“Non è possibile! È una pazzia! Un'idea idiota che ci condannerà tutti!”
Daer fece cenno all’elfo di calmarsi. Caret lo guardò di sottecchi, interessato da quella reazione, prima di rispondere.
“Quando me l’hai detto ho avuto gli stessi pensieri di Ari. Lo stregone vuole usare il Talar Obalis, il valico che si apre in mezzo alla lunga catena montuosa delle D Ilpakës. Tutti gli elfi sanno che non è utilizzabile. Sempre attraversato da una fitta nebbia, nessuno di coloro che si è avventurato al suo interno ha mai fatto ritorno. Tanto che gli elfi si sono convinti che le D Ilpakës siano il limite estremo di Ergaf, oltre cui nessuno può andare.”
Ari fece un gesto con le mani al comandante, come a dirgli che aveva ragione.
“Tuttavia, anche quando gliene ho parlato, lo stregone mi è parso tranquillo. È convinto che il passo sia attraversabile e che oltre le D Ilpakës ci sia qualcosa. Ammette di non esserci mai stato ma, dice, lì abitano creature che ha già conosciuto e che possono esserci utili.”
“Ha detto la stessa cosa a noi nella Cittadella. – intervenne rapidamente Daer bloccando sul nascere le proteste di Ari – Ma non ha voluto dirci di più su chi dobbiamo incontrare.”
“Perché non c’è niente oltre le D Ilpakës! – esclamò l'elfo emettendo uno sbuffo irritato – Non c’è nulla!”
“In realtà, a me ha detto qualcosa in più. Non vuole dirci cosa troveremo oltre perché non sa se riusciremo a oltrepassare i Guardiani del Passo.”
“I cosa?”
“I Guardiani del Passo. Ha detto che, attraversando il Talar Obalis, si arriva in un punto che è la dimora di alcune bestie, i Guardiani del Passo. Sono loro l’ostacolo invalicabile che non permette di superare la catena a nord delle terre elfiche.”
Daer strinse i pugni con violenza.
“Quello stregone ne tira fuori ogni volta una nuova! Io un giorno lo strozzo.”
Caret fece spallucce.
“Doveva convincervi a supportarlo contro uno strano esercito sputato fuori dalle viscere del mondo, avrà ritenuto utile omettere questa parte per non aggiungere troppe cose strane.”
Una folata di vento fece ondeggiare pigramente le fronde degli alberi che crescevano sulle rive del fiume e fece svolazzare i mantelli. Un odore di terra bagnata si sparse tutt’attorno, facendo rimpiangere l’odore dolce di frutti e frumento che riempiva il villaggio di Caret.
“Piuttosto Daer, vuoi spiegarmi cos’ha quel mercenario? È sempre controllato a vista, neanche potesse tagliarci improvvisamente la gola a tutti.”
Daer seguì il cenno di Caret fino alla sagoma di Ghimesh, tenuto strettamente d’occhio da Wors.
“Non hai sbagliato di molto. Quello è Ghimesh, un esseride.”
Uno scintillio brillò negli occhi di Caret.
“Un esseride? Interessante...”
“Interessante, e pericoloso. Ari, spiegagli per bene tutta la storiella di Ghimesh, visto che è per le tue insistenze che è approdato qua.”
Finista la spiegazione, Caret rimase in silenzio per lungo tempo.
“È davvero così temibile?”
“Al termine dell’ultima battaglia era ancora sotto controllo della bestia. Se non fossero intervenuto Raghel e Wors, mi avrebbe ucciso.”
Lo stregone volse nuovamente lo sguardo verso Ghimesh, fissandolo intensamente.
“Da quando mi sono congedato ho cercato di conoscere i segreti di ogni razza, arrivando persino a studiare i rudimenti della segretissima magia elfica, anche se con pochi risultati. Eppure non ho mai sentito parlare di bestie che possano prendere il controllo di qualcuno.”
“Stiamo parlando di un esseride. Chissà quali segreti nasconde quella razza di assassini e ladri.”
“No Daer, – intervenne Ari scuotendo in segno di diniego il cappuccio – non è un esseride. È un mercenario. E se c’è un modo per aiutarlo, dobbiamo trovarlo.”
“Vorrei fare io il primo turno.”
Tutti guardarono stupiti Raxel. Era la prima volta che uno dei due apprendisti si offriva per fare la guardia notturna.
“Va bene, allora Bimbo riposerà e tu farai il primo turno con me.”
Il nano non parve affatto scontento della decisione del comandante e si lanciò rapidamente verso il suo giaciglio, impiegando pochi secondi a riempire la notte col suo rumoroso russare.
Daer si stese in un punto tra il fuoco e Ghimesh, in modo da poterlo tenere sott’occhio anche mentre dormiva.
“Ho le ossa distrutte.” guaì Raxel buttandosi a terra con uno sbuffo.
Capiva la fatica dell’apprendista. Avevano marciato su Ergaf per sei giorni da quando avevano lasciato il villaggio di Caret, costeggiando prima il Fiume Cristallo e poi deviando verso l’interno, fino a giungere al portale controllato da una guarnigione della città di Nult.
Per evitare problemi si erano presentati senza mantelli e cappucci, dicendo di essere una scorta armata dello Stregone delle Ombre. Un grosso sacchetto di monete era servito per convincere a farli passare senza ulteriori perquisizioni.
Ora erano già due giorni che marciavano sua Terra e ne sarebbero serviti almeno altri tre per raggiungere il portale che li avrebbe condotti nelle terre elfiche.
Ed erano giorni di marcia intensi; le giornate si stavano allungando sempre più, aumentando le ore di Sole in cui avanzavano e diminuendo pian piano le ore notturne in cui riposarsi. E il loro abituale giorno di riposo, che effettuavano sempre dopo quattro giorni di marcia consecutivi, lo avevano posticipato di un giorno in modo da trascorrerne la sera precedente nella città di Nult, liberi dai mantelli, trasformatosi presto in una lunga sosta in una bettola da cui erano usciti solo a notte fonda e totalmente ubriachi.
“Non mi piacciono le stelle della Terra.”
Quella frase dell’apprendista scocciò Daer. Era abituato a fare il turno di guardia nel silenzio, ascoltando i rumori della notte e il russare dei compagni. Si costrinse a non rispondere male e prese due grossi respiri prima di tentare un qualcosa simile a una conversazione.
“Preferisci le costellazioni di Ergaf?”
“Mi paiono più vive. Qui sulla Terra le stelle e le costellazioni sono fisse, quelle cinque sopra di noi saranno sempre lì. Su Ergaf hanno una storia.”
“Ti riferisci alla leggenda della memoria delle stelle?”
“Non è una leggenda!”
Daer sorrise alla nota turbata della voce di Raxel.
“Non lo so. Fatico a credere che sia vero, che realmente Ergaf faccia nascere una stella ogni volta che muore un eroe, per ricordarlo. E che quando ne muoia uno che ha fatto gesta incredibili, faccia nascere addirittura una costellazione.”
“Fatichi a crederlo? Ma da sempre si tramandano le storie sulle stelle e sulle costellazioni di Ergaf.”
“Se è per quello, si tramandano anche molte leggende su di noi, tutte piene di bugie. Comunque, cosa cambia se ci credo o no? Ho sparso tanto di quel sangue sul suo suolo, che Ergaf non mi celebrerà con una stella.”
“Ma le storie…”
La mano del comandante scattò a interrompere le parole di Raxel. L’apprendista lo guardò stupito mentre si alzava in piedi ed estraeva la spada.
“Cosa…”
“C’è qualcuno.”
Il comandante stava sentendo l’adrenalina iniziare a circolare nel corpo, un’agitazione calda che percorreva i muscoli. Ne era sicuro, a un centinaio di metri alla sua destra.
Come in risposta ai suoi pensieri, alcune piccole ombre iniziarono a rendersi visibili nell’oscurità. Raxel quasi saltò in piedi quando le vide.
“Cosa sono?” Sussurrò osservando quelle macchie nere più basse di un nano. Daer non rispose e fece un lungo passo nella loro direzione. A quel movimento le ombre si bloccarono.
“Qui riposano i Trenta Mercenari! Tornate sui vostri passi, folletti.”
Un brivido percorse la schiena dell’apprendista. Folletti... Il pericolo maggiore per un viandante.
Dall’ombra emerse una piccola figura, resasi a malapena visibile entrando negli ultimi bagliori rossastri del focolare che ballava alle spalle di Daer.
Era alto circa mezzo metro, si reggeva su gambe tozze e un po’ ridicole mentre le braccia erano due tizzoni lunghi e scarni. La testa era enorme, quasi impensabile che potesse essere realmente retta da quell’esile corpicino. Non aveva il naso, solo due ampi fori sotto gli occhi a palla, e nemmeno le orecchie. Sulla testa era presente una manciata di lunghi capelli neri che si allungavano sulla pelata come piccoli fili dispettosi, ricadendo sulla pelle, una pelle gialla che pareva quasi prendere fuoco nella debole luce del focolare. Parlò con una voce stridula che parve quasi tremolare nell'aria.
“Non siamo così pazzi da attaccare i Trenta Mercenari, non siamo così pazzi. Resteranno distanti i miei compagni, resteranno distanti. Vero che volevamo attaccarvi, vero. Le notti con poca luna sono perfette per rubare, sono perfette. Ma non abbiamo cattive intenzioni ora che sappiamo chi siete, non ora. Ma col tuo permesso io vorrei avvicinarmi, col tuo permesso.”
Daer annuì e la figura avanzò quasi rimbalzando sulle corte gambe, giungendo ai piedi del mercenario e volgendo il suo faccione giallo all’insù.
“Cosa ti spinge a separarti dai tuoi compagni?”
“Curiosità comandante, curiosità. Vorrei chiederle cosa ci fanno i Trenta Mercenari in questa landa di Terra, cosa ci fanno. Noi folletti siamo curiosi di belle storie, siamo curiosi.”
“Dobbiamo viaggiare fino al portale per la Terra degli Elfi.”
“Il portale, il portale! Sprigiona una potente magia il portale, magia potente. Ben udibile dai nostri sensi da folletti, ben udibile. Ci siamo passati vicini tre giorni fa, vicini. Cosa vi porta nelle Terre degli Elfi, cosa vi porta?”
Daer strinse l’elsa dell’ascia. I folletti erano un serio pericolo. Piccoli, silenziosi, veloci e molto versati nella magia, vagavano sui due mondi cercando viaggiatori da attaccare, uccidere e derubare. Preferivano farlo nelle notti senza luna o in notti come quella, in cui la luna era solo un piccolissimo frammento che ancora doveva crescere nel cielo.
Non ci si poteva fidare della loro parola, però nei suoi viaggi Daer aveva imparato che erano anche estremamente guardinghi. Non attaccavano mai qualcuno che pensavano di non poter sopraffare senza perdite. Per questo aveva subito urlato che erano i Trenta Mercenari. Non sapeva se i folletti credessero alle storie sulla loro invincibilità, ma aveva imparato che preferivano non attaccarli, consapevoli che giravano prede meno pericolose e da cui potevano uscire vincitori con maggiore facilità.
Sapeva però anche un’altra cosa. Erano affamati di storie, non c’era cosa che adorassero di più. Se si rifiutava di dire dove stavano andando, poteva rischiare un attacco e non voleva correre rischi. Poteva mentire, ma non c’erano sui due mondi esseri con una magia potente quanto quella dei folletti, era sicuro che non avessero modo per capire se stesse dicendo la verità?
Si decise dopo un lungo silenzio, in cui gli occhi a palla dell’essere non l’avevano lasciato per un secondo. Iniziò a raccontare tutto ciò che li aveva portati fin lì e la loro missione.
Descrisse tutto, nei minimi particolari, e più andava avanti più l’enorme bocca costellata di denti giallognoli dell’essere si spalancava di stupore. Non lo interruppe mai, nemmeno per un attimo, finché non ebbe finito. A quel punto il folletto lo guardò con occhi talmente grandi che Daer credette di poter cadere dentro a quell’immenso pozzo nero.
“Bello, bello! Piacciono a noi folletti le storie, piacciono molto! Soprattutto le storie che ci fanno curiosi e che narrano eventi ancora da venire, soprattutto. E tu mi hai reso curioso comandante, curioso. Voglio ricambiare, sì, ricambiare! Attenti dovete stare, attenti. Uno dei demoni vi segue, uno dei demoni. Si tiene a distanza da voi per non farsi percepire, a distanza. Mai noi folletti abbiamo sentito tanta malvagità, mai.”
Il comandante volse meccanicamente la testa all’indietro, fissando l’oscurità. Non se n’erano minimamente accorti. Quella bestia stava ancora alle loro calcagna? Cosa aspettava per saltare fuori?
“Ti ringrazio. È un nemico pericoloso e il tuo avvertimento ci farà procedere con maggiore cautela.”
“È un onore avere parte ad informazioni così riservate, è un onore. Storie che ancora devono accadere, storie future. Non ho altro con cui ricambiare, non ho altro. Solo questo, solo questo. Yanko ti ringrazia comandante, ti ringrazia.”
Il folletto fece un inchino tanto profondo da sfiorare il terreno. Quando ebbe raddrizzato la schiena fu Daer a porgli una domanda:
“Voi cosa ci fate sulla Terra? È raro trovarvi su questo mondo.”
“Caccia, solo caccia. – disse agitando le braccia scarne – Ma ora capisco perché altri folletti non mi hanno preceduto, ora capisco. Anche la natura è ostile e selvaggia qui, anche la natura. Difendono bene gli umani le loro città, difendono bene. Poco da depredare, nessuno viaggia da solo, poco da depredare.”
Volse le spalle al mercenario e tornò rimbalzando tra le altre figure nell'ombra. Parlottò a lungo fra loro prima di scomparire, inghiottito dall’oscurità.
“Folletti.” bofonchiò Daer nel passare accanto a Raxel. L’apprendista lo seguì con gli occhi e solo in quel momento si accorse che, alle sue spalle, oltre il focolare, tutti i mercenari avevano impugnato le armi pronti a intervenire. Lo avevano fatto senza alcun rumore, senza far frusciare nemmeno un filo d’erba. Raxel si chiese da quanto erano in quella posizione guardinga.
“Tornate a dormire, nessun pericolo.”
Daer si stese nuovamente dove prima. Turbato, Raxel lo imitò.
“Tutti mi hanno sempre detto che i folletti sono un pericolo per i viandanti, ma sembrava che tu sapessi bene come comportarti.”
“Chiunque è solito viaggiare li deve conoscere. Sono creature potenti. Più di ogni altra razza sentono la magia e sanno sfruttarla in maniera molto più potente dei normali maghi. Sono nemici temibili e per sopravvivere derubano e uccidono. Amano le storie e i racconti. Rendili partecipi di un’avventura, da te vissuta o inventata, abbastanza avvincente e ti saranno grati per tutta la loro lunga vita.
“Solo un aspetto supera la loro insaziabile sete di racconti, la loro infinita curiosità. Oggi ho narrato anche la battaglia che dovremo affrontare, anche se a grandi linee. Non c’è niente che più soddisfi un folletto. La racconterà ai suoi simili per giorni e giorni, finché non avrà luogo. Quando ciò avverrà, continuerà per lungo tempo a narrare che lui già ne era a conoscenza prima che accadesse.
“Gli è piaciuta talmente tanto che ha voluto ricambiare dicendomi che siamo inseguiti da un demone. È un’informazione preziosa, d’ora in poi avanzeremo guardandoci bene le spalle.”
Raxel rabbrividì.
“Quella bestia ci segue ancora?”
“Pare di sì. Per questo, finché non arriva il nostro cambio, dobbiamo essere ancora più attenti.”
Un leggero vento caldo passò sull’erba, facendola ondeggiare e accarezzando i loro corpi. Trasportava un odore acre di polvere. Daer rimase in silenzio e si mise a ripensare al termine della conversazione col folletto. Gli aveva detto il suo nome... Doveva essergli davvero grato per quella storia.
Non ne aveva fatto cenno con Raxel, troppo lontano perché avesse sentito il bisbiglio del folletto. Ma lui sapeva che non era un regalo da poco. I folletti usavano nomi che non erano semplici parole. Erano la loro vera natura e il nome di un folletto lo legava per sempre a chi lo pronunciava. Il folletto gli aveva regalato la sua stessa anima e al comandante sembrava più una maledizione che un regalo.
Al momento del cambio, il comandante lasciò Raxel dormire e svegliò Null e Ghimesh. Poi si stese per terra e osservò il cielo, soffermandosi sul minuscolo spicchio appena visibile di Luna. Alla fine scivolò in un sonno popolato dal ricordo della fuga da Gazar e dal ricordo di Reyk.
Si svegliò di soprassalto prima del sorgere del Sole, mordendosi la lingua per non urlare. Ancora una volta, il passato era tornato a tormentarlo, torturandolo con le sue immagini dolorose.
La mano andò in automatico a sfiorare l'ascia, che aveva posato al suo fianco. Bastava stringerla, passarsi la lama sulla gola, e tutto sarebbe finito. Basta incubi, basta ricordi, basta dolore. L'aveva passata tante volte sulla gola dei nemici, che differenza poteva esserci a passarla sulla sua?
Le dita lasciarono il manico ruvido dell'ascia e andarono a prendere le ginocchia, stringendosi le gambe al petto. Serrò gli occhi con forza, costringendosi a non pensare a nulla e a zittire con violenza ogni pensiero che lo facesse pensare al passato.
Mappa della parte nord-ovest delle Terre del Nord.
In rosso, il percorso effettuato dai Trenta Mercenari su Ergaf in questo capitolo.
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