34 - Disarmonici
“Possibile che siano così lenti?”
Le parole furiose del comandante fecero sorridere l'elfo Karisïkon. Si riferiva ai tre stregoni, ancora una volta ultimi della fila. Già quella mattina si erano presentati in ritardo, facendo subito imbufalire il comandante, e da quel momento erano sempre rimasti indietro e più volte avevano dovuto aspettarli.
Usciti dall'intrico di rami del Barët Flaam, dovevano costeggiare il Barët Flaam in pieno territorio elfico, obbligati quindi a un'avanzata guardinga, con una coppia di mercenari in avanscoperta. Un procedere lento, che avrebbe reso una lunga tortura quei pochi giorni in territorio elfico, cinque secondo i calcoli di Daer, senza nemmeno uno di pausa. Sulla Terra avrebbero invece potuto riprendere la loro marcia abituale, coprendo la distanza con la Cittadella in circa quindici giorni.
Sempre che la guarnigione elfica permettesse allo stregone di usare il portale.
Eppure, nonostante questa loro lentezza forzata, lo Stregone delle Ombre, Raxel e Lya riuscivano comunque a restare sempre indietro e a rallentarli ulteriormente.
Mentre Daer sbuffava per l'attesa forzata, Karisïkon rivolse il viso verso il Sole e si beò a occhi chiusi dei suoi raggi. Era contento sia della lentezza degli stregoni, sia della marcia lenta che erano obbligati a mantenere. Gli permettevano di contemplare con calma quelle terre che aveva dovuto abbandonare a soli sette anni.
Abbassò lo sguardo, contemplando i prati rigogliosi che sembravano quasi luccicare sotto il Sole mentre. A poca distanza alcune colline si alzavano dal terreno in gibbosi cumuli di terra, dando a tutto il paesaggio l'aspetto di una dolce irregolarità.
Karisïkon amava quel paese. Il ricordo del territorio degli Elfi Verdi, della sua terra, era rimasto nel suo cuore come una scheggia, un ricordo a tratti doloroso ma che non riusciva a strappare via. Sapeva che i suoi compagni nei Trenta Mercenari, Sherlan ed Erafan, la pensavano diversamente. Odiavano quei luoghi, anche solo parlarne gli faceva venire il voltastomaco. Li capiva, anche lui odiava gli elfi, ma non riusciva a disprezzare quella bella terra.
Al solo pensiero degli elfi un sentimento velenoso ribollì nel suo stomaco. Chiuse gli occhi e strinse i denti in una morsa rabbiosa mentre la sua mente gli riempiva il cervello con tutto l’odio che provava per il suo popolo. Un odio talmente radicale che pulsò sulle sue tempie fino a fargli venire il mal di testa. Spesso, davanti agli specchi, doveva distogliere lo sguardo perché non riusciva nemmeno a guardare le sue orecchie. Adorava invece i suoi capelli verdi e i suoi occhi viola. Erano un simbolo. La prova che gli elfi, con lui, avevano fallito.
Sospirò. Alimentare quell’odio non serviva a nulla; non cancellava gli spettri del passato che ogni giorno tornavano a tormentarlo velando i suoi occhi di una grigia tristezza, non allontanava gli incubi che la notte lo tormentavano facendolo svegliare sudato e tremante.
La sagoma di un compagno gli passò davanti, tagliandogli la visuale. Avvolti in quei neri mantelli e nascosti dagli oscuri cappucci era sempre difficile capire chi si avesse al fianco. Capiva l’importanza di quei simboli ma non li amava. Preferiva quando poteva calarsi il cappuccio e guardare tutti i compagni, capendo subito chi fosse l’uno e chi l’altro.
Certi erano comunque riconoscibili. Nemmeno il mantello poteva nascondere Manu e Layo, sempre impegnati a dare noia a questo o quel compagno, culminando quasi sempre in una corsa in cui Baber li inseguiva urlante deciso a vendicarsi mentre loro scappavano a zig-zag, confondendolo con la loro velocità e ridendo della sua ira, finché non interveniva Daer ordinando di tornare nei ranghi. I due amici obbedivano divertiti mentre Baber tornava in mezzo ai compagni sbuffando arrabbiato.
Un sorrisino triste gli attraversò il volto mentre tornava a contemplare il paesaggio. Un altro che era riuscito sempre a riconoscere era Aghel. Il giovane stregone, secco e smilzo, indossava un mantello che gli ricadeva largo addosso, caso unico tra i muscolosi membri. Ma ora quel mantello troppo grande non marciava più con loro.
Stavano procedendo lungo un rialzamento che avrebbe presto aperto una nuova visuale ai loro occhi. Guardò i nuovi montagnoli visibili. Bellissimi, di un verde rigoglioso e...
Un nodo gli si formò in gola. No! Non quello!
Chiuse gli occhi e li riaprì, sperando di esserselo immaginato. Invece era lì, oltre il poggio. Cercò di stare calmo, ma alla sua mente si erano già affacciati oscuri ricordi che lo riempirono, impedendogli di ragionare lucidamente e trascinandolo nell’oblio.
Il fumo che si alza in pesanti volute scure. In mezzo alla cenere, piccole fiamme che, nonostante la pioggia, sono ancora vive e guizzano sotto le nuvole grigie. Alcuni tronconi a terra, spezzati e distrutti dal fuoco.
L’arco cade, scivolando dalle sue manine mentre inizia a piangere. Il vento porta il fumo nella sua direzione, bruciandogli gli occhi già gonfi di pianto e avvolgendolo in quella spessa cappa...
“Comandante!”
Quando aveva iniziato a correre verso Daer, Raghel e Wors, in testa alla squadra?
“Comandante!”
La sua voce era terrore puro. Non riusciva a dire nulla, solo a urlare quella parola come se Daer avesse in mano la soluzione, come se potesse fare qualcosa.
Il comandante si guardò attorno, accorgendosi di un fumo che si innalzava oltre il poggio. Era ancora lontano e a malapena visibile, eppure era lì, nero e denso, che si innalzava fino a confondersi con il cielo limpido.
“Cos’è?”
La domanda di Raghel giunse ovattata alle orecchie dell’elfo. La sua mente osservava ciò che succedeva attorno al suo corpo come se fosse diviso da esso.
Qual era il presente e quale il passato che gli stava sommergendo la mente?
In mezzo al fumo, un torrente di lacrime gli sta nascendo dagli occhi, mescolandosi con la pioggia sottile. Tutto quel fumo, che nasce da quella pira…
“Un villaggio di Disarmonici?”
Gli occhi di Daer lo fissarono cupi, cercando di svegliarlo da quella paralisi. Tutt’attorno, alcuni stavano guardando interrogativi l’elfo, altri il punto che ancora il suo braccio indica. Solo due avevano le orbite puntate sul vuoto: gli altri due elfi, Sherlan ed Erafan, le pupille perse in ricordi lontani.
Daer abbandonò i tentativi di risvegliare l’elfo dalla sua paralisi per fissare la voluta di fumo. Cosa doveva fare? Potevano esserci dei sopravvissuti... Ma non avevano tempo per deviare, devono giungere alla Cittadella il prima possibile.
Ci sono momenti in cui un comandante deve prendere decisioni per la riuscita della missione. Momenti in cui lasciare da parte i sentimenti di pietà e fare solo ciò che permette alla missione di essere compiuta velocemente e senza problemi. Momenti come quello, in cui deve calcolare la situazione, capire che deviare verso quel fumo non è solo una perdita di tempo, ma anche un pericolo. Momenti...
“Andiamo verso quel fumo.”
Al sentire la frase del comandante Karisïkon iniziò a tremare. Non voleva avvicinarsi al terrore che ogni notte lo perseguitava! Ma allora perché era corso verso il comandante indicandogli il fumo?
Perché il comandante sa quello che bisogna fare, sa qual è la decisione migliore.
Quel pensiero gli risvegliò qualcosa. Ricordò come avesse voluto che qualcuno si fosse avvicinato a quel fumo, che qualcuno fosse arrivato a portarlo in salvo. Ma nessuno era comparso all’orizzonte e lui, terminate le lacrime e spinto da una fame sempre più lancinante dopo giorni passati a mangiare solo fumo, si era trovato costretto a mettersi in fuga da solo, senza avere la minima idea di cosa fare e dove andare. Finché, quasi per sbaglio, era uscito dal Paese dei due Fiumi e aveva trovato rifugio nei mercenari.
La patina assente che fino a quel momento aveva velato i suoi occhi, si dissolse. Fissò lo sguardo in quello del comandante, annuì e si mise in marcia, presto affiancato dai due compagni elfi, come a darsi coraggio l’un l’altro.
Una collina ostruiva la visuale dell’origine del fumo. I Trenta Mercenari ci si avvicinarono con le mani sulle else delle armi, pronti a usarle. Quelli più avanti si chinarono leggermente verso terra.
All’ordine di Daer di avanzare, i mercenari si mossero obbedienti.
Una volta una lama aveva trapassato il fianco di Karisïkon. Aveva bruciato terribilmente mentre tranciava col metallo freddo le tenere carni.
Aveva pensato che fosse un dolore lacerante.
Non era nulla rispetto alla fitta fredda che sentì attraversargli lo stomaco giungendo fino al cuore.
Fra i Trenta Mercenari, nessuno parlò. Semplicemente osservarono silenziosi. Karisïkon vedeva due cose; con gli occhi, ciò che aveva innanzi. Con la mente, ciò che aveva provato sulla propria pelle quando aveva sette anni.
Tutto è distrutto. Le fiamme hanno avvolto ogni cosa lasciando in piedi solo neri scheletri bruciacchiati, pallido ricordo di ciò che una volta era una casa, un pozzo, un cancello. Pallido ricordo di ciò che una volta era il villaggio.
Il bambino osserva tutto con gli occhi scuri colmi di lacrime. Mentre passa in quella che era la strada principale, sfiora con la manina pallida i muri anneriti. Delle case in legno non è rimasto che qualche brandello di muro, neri tizzoni che macchiano di fuliggine la sua manina. Forse erano ancora caldi, non lo sa. Se anche la sua mano prendesse fuoco, in quel momento non se ne accorgerebbe.
Attorno a lui, nera desolazione. Nemmeno gli uccellini cantano più. C'è solo silenzio, un silenzio assassino, intenzionato a lasciarlo completamente solo.
Si ferma a guardare una vecchia officina. Le gambe non sanno se voltare l’angolo o no. Dietro quella svolta, dietro quella piccola colonna risparmiata dalle fiamme, c’è la piazza.
Nella piazza c’è casa sua.
Chiude gli occhi mentre si affaccia.
Nota dopo che della sua abitazione non è rimasto che un mucchietto di ceneri nere. Nota dopo che niente è stato risparmiato dal fuoco, non un muro, non un tavolo, non una sedia.
Prima vede i corpi massacrati accumulati uno sull’altro, le bocche violacee volte verso il cielo plumbeo. Gli arti si ammassano deformi uno sull’altro. In mezzo riconosce i volti del fabbro e del panettiere, i bianchi capelli della vicina. Nelle loro pupille attanagliate dalla morte volano insetti, ronzando rumorosi attorno agli occhi vitrei, ai corpi defunti, al sangue secco.
Non vede inizialmente i genitori. I loro occhi vuoti li riconosce dopo, le gambe piegate innaturalmente in mezzo agli altri.
"Andiamo."
La voce del comandante risuonò di una nota fredda. Si trovavano sopra una collinetta, da cui era ben visibile la montagna di corpi in mezzo alla piazza del villaggio. Decine di cadaveri, malamente accumulati e attorniati da neri uccelli che girovagavano pigri su quella massa putrescente, abbassandosi di tanto in tanto a banchettare con le carni senza vita. E dovevano scendere, entrare fra i resti carbonizzati, controllare se ci fossero superstiti.
Entrarono in mezzo alle prime case. Un odore di bruciato putrido schiaffeggiò i loro volti, un tanfo orribile che avvinghiò le narici cancellando ogni altro odore. Quando da piccolo era rientrato nel villaggio massacrato, era troppo occupato a vedere ciò che lo circondava, incapace di rendersi conto che non stava sognando, per accorgersi dell'odore di morte che circondava l'aria. Un odore di marcio e putrefazione che mai aveva sentito così forte.
Attorno, tutto era bruciato. Solo qualche pezzo di legno ancora dondolava nell’aria, incerto se cadere o rimanere al suo posto.
Karisïkon deglutì rumorosamente e procedette in mezzo alle ceneri, ostentando una sicurezza che in quel momento non possedeva.
Quando era piccolo, una colonna divideva il punto in cui si trovano e la piazza in cui erano ammassati i corpi. Ora, aveva invece davanti il muro annerito di una casa.
Prese un grosso respiro. Errore. Il tanfo ovunque alleggiante entrò pomposo e sembrò attanagliargli il cervello. Gli salì un conato di vomito, ma si costrinse a inghiottirlo.
I due compagni elfi si presentarono al suo fianco, uno a destra e uno a sinistra. Si guardarono l’un l’altro per darsi coraggio. Il loro passato li legava più che ogni altro guerriero.
Insieme voltarono l’angolo e si obbligarono a osservare quel cumulo che già avevano intravisto.
Erano tantissimi, immobili, bloccati dalla morte nel loro ultimo istante di vita. Alcuni erano stati colpiti da armi nemiche, li si riconosceva dalla pozza di sangue annerito sotto di loro. Altri erano corpi carbonizzati. Probabilmente si erano nascosti all’inizio dell’attacco, terminato come sempre con un incendio generale per uccidere anche gli ultimi sopravvissuti.
In quel mucchio scomposto di arti e corpi, di sangue e vestiti bruciati, si poteva ancora vedere luccicare, di quando in quando, alcune ciocche di capelli sopravvissute alle fiamme, un cangiante susseguirsi di strisce viola, bianche e verdi che risaltavano nel nero che li circondava.
Come i cadaveri, anche i tre elfi si immobilizzarono, gli occhi impietriti che guardavano quella pila interminabile. Servì che Daer gli toccasse la spalla per costringerli ad ascoltarlo.
“Guardate lì.”
Seguirono il dito di Daer. Nell’osservare quel macabro spettacolo di morte, le loro pupille non avevano registrato l’unica immagine importante.
Una piccola figura, rannicchiata ai piedi della morta montagna, il viso rivolto verso quell’indicibile spettacolo. Il braccio destro tremava vistosamente, unico particolare che facesse capire che era viva, e non uno dei cadaveri ai piedi della montagnola.
Si avvicinarono piano, la mano destra sull’arma. La figura non si voltò, i suoi occhi erano rapiti a osservare ciò che si stagliava dinnanzi a lei. Arrivati a pochi centimetri furono obbligati a toccarle una spalla per richiamare la sua attenzione.
Il capo si voltò di scatto, gli occhi neri e grandi che li osservavano impauriti. Le mani andarono immediatamente a pararsi dinnanzi al volto, la bocca aperta in un urlo terrorizzato senza parole. Le orecchie a punta risaltavano sull'infantile volto pallido.
Era una bambina.
I tre elfi non seppero cosa fare e rimasero immobili. Solo dopo diversi secondi di stallo la piccola iniziò a gridare con voce esile, pigolando disperata.
“Non fatemi male! Non ho fatto niente, non ho fatto niente!”
Presi alla sprovvista, iniziarono a tentare di calmarla, con pessimi risultati. Il piccolo corpicino era scosso da un tremore sempre più violento. Le orecchie non ascoltavano le parole dei tre elfi e i suoi occhi non vedevano i loro gesti. Aveva solo paura e si rannicchiava sempre più in una piccola palla tremante.
Karisïkon pensò a cosa sarebbe successo se, quel giorno, qualcuno fosse andato da lui. Avrebbe avuto paura come la bambina dai capelli castani dinnanzi ai suoi occhi? Certamente. Avevano appena massacrato la sua famiglia, i suoi amici, tutti coloro che conosceva. Lui si era salvato solo perché era a caccia nella boscaglia vicina e i nemici potevano essere ovunque, pronti a prenderlo, pronti a ucciderlo.
Era solo.
Mentre scappava oltre i confini del Paese dei Due Fiumi, era terrorizzato da ogni piccolo movimento, da ogni sottile brusio oltre i cespugli.
Cosa avrebbe potuto calmarlo se qualcuno si fosse avvicinato a lui?
Ci pensò per qualche secondo prima di capire. Lentamente, muovendosi piano per farle comprendere che non intendeva alzare le mani verso di lei, mise le dita sotto la trama del cappuccio e se lo calò, rendendo visibili i corti capelli verde scuro che incorniciavano gli occhi viola.
La bambina smise di tremare e guardò Karisïkon con occhi colmi di stupore. Comprendendo il fine del suo gesto, anche i due compagni si levarono il cappuccio. La bambina vide i capelli di Sherlan, bianchi come una nuvola nelle giornate più limpide, ricadere sulle sue spalle in ampi gorghi, ben ordinati nell’incorniciare il viso delicato. Nonostante le grandi pupille nere, era appena visibile, nel sottile contorno che si frapponeva fra essi e la bianca iride, un luminoso colore verde, limpido come l’erba rigogliosa dei campi primaverili. Quindi si volse verso Erafan, osservando rapita i suoi grandi occhi bianchi come il nulla che contrastavano con i corti capelli viola brillanti.
I grandi occhi della bambina immagazzinarono l’immagine dei loro capelli e dei loro occhi. Rimase impietrita per un secondo prima di gettarsi, singhiozzante, al collo di Karisïkon, le braccia strette attorno a lui in una morsa disperata, il corpo che si muoveva impazzito, traversato da rumorosi singhiozzi e da lacrime liberatorie che sgorgavano dai suoi occhi. Sherlan ed Erafan si strinsero anch’essi all’esile corpicino, provando a trasmetterle, in quell’abbraccio, tutta la loro comprensione, provando a farle capire che erano lì per lei.
Anche Karisïkon strinse la bambina mentre i suoi occhi si voltavano a guardare la montagna di cadaveri. Un impetuoso desiderio di vendetta gli riempì il petto.
“C’è un tanfo terribile!”
Da sotto il cappuccio Daer guardò Raxel, impegnato a tentare inutilmente di coprirsi la bocca e il naso con un lembo della sua tunica cremisi.
“I morti hanno questa brutta abitudine.”
L’apprendista osservò i tre elfi abbracciati alla bambina.
“Si sono tolti i cappucci! Ma non possono farlo solo sotto tuo ordine?”
Daer fece una smorfia insofferente.
“Ogni membro dei Trenta Mercenari è libero. Obbediscono a me perché in battaglia è sempre conveniente avere un punto di riferimento, ma possono fare ciò che vogliono. E sono convinto che abbiano fatto la scelta giusta.”
“Perché? A cosa può essere servito calarsi il cappuccio?”
“Davvero non lo immagini? – attese alcuni secondi senza ottenere risposta prima che un dubbio si affacciasse alla sua mente – Sai chi sono i Disarmonici, vero?”
Scosse la testa in un gesto di diniego.
“Dimorate presso le terre elfiche e non lo sai?!”
All’ennesimo cenno di diniego, Daer sospirò e si chiese che cosa gli insegnasse lo stregone.
“Il Paese dei Due Fiumi - iniziò a spiegare con voce scocciata – è diviso nelle tre terre degli Elfi Viola, Elfi Bianchi ed Elfi Verdi. Non si tratta solo di una divisione politica, non per gli elfi almeno. Ogni terra è convinta di avere il compito di dominare su tutti gli elfi, destino a cui sono chiamati dalla purezza del loro sangue. Una purezza che ognuno di questi popoli rivede nel colore degli occhi e dei capelli. Per gli Elfi Verdi, è simboleggiata dagli occhi e capelli verdi, per gli Elfi Viola dal colore viola di occhi e capelli, per gli Elfi Bianchi dal colore bianco. Per questo sono in continua guerra tra loro, ogni popolo è convinto di dover dominare sugli altri.
“Esistono però quelli che loro chiamano dispregiativamente Disarmonici. Sono gli elfi che non solo non hanno il sangue puro, ma, usando le loro parole, non hanno nemmeno il “sangue pulito”. Sono quegli elfi che presentano occhi e capelli di un colore diverso e che, a loro dire, non fanno parte dell’armonia elfica.
“Nei secoli passati, quando iniziarono queste teorie della purezza del sangue e il Paese dei Due Fiumi venne diviso nelle tre terre che conosciamo oggi, i Disarmonici vennero confinati in villaggi appositamente costruiti, lontani dai maggiori centri elfici. Mischiarsi con gli altri elfi fu loro proibito e gli fu tolto qualsiasi diritto. Spesso sono semplicemente ignorati ma capita che si decida di inviare... battute di caccia, loro le definiscono così, con cui attaccare e distruggere un villaggio di Disarmonici. La giustificazione per tali attacchi è che i Disarmonici sono colpevoli di avere rotto l’equilibrio della natura con il loro visibile tradimento all’armonia elfica.
“Gli attacchi si svolgono sempre allo stesso modo. Dopo uno scontro iniziale, con cui uccidono tutti gli abitanti, radunano i cadaveri nella piazza e danno fuoco al villaggio, radendolo al suolo e uccidendo chi si era salvato nascondendosi. Salvano solo i più piccoli. I bambini hanno capelli castani e occhi neri fino ai quattordici, quindici anni. Solo successivamente prendono il loro colore definitivo. Quindi vengono salvati nel caso presentino i colori puri, altrimenti verranno rinchiusi in un nuovo villaggio Disarmonico.”
Raxel osservò i resti carbonizzati del villaggio.
“Conosci a fondo le abitudine elfiche.”
“I mercenari sono un approdo abituale per i Disarmonici che fuggono dai loro villaggi o che riescono a sopravvivere agli attacchi. Ho imparato molto da loro. E anche la Guardia della Cittadella, il capo del luogo in cui vengono addestrati i Trenta Mercenari, è un elfo. Mi ha spiegato molte cose. E lui è l'unico elfo non Disarmonico che io conosca ad avere abbandonato le terre elfiche. È fuggito per come gli elfi trattano i Disarmonici, disgustato dalle teorie sulla purezza di alcuni elfi rispetto ad altri. Lo ammiro per questo; ha scelto di abbandonare un luogo in cui poteva vivere tranquillo per ciò che riteneva giusto.”
“Però ancora non capisco perché i tuoi compagni si siano calati i cappucci.”
“L’hanno fatto per far comprendere alla bambina, scampata al massacro, che anche loro sono Disarmonici. Ha sempre vissuto in un villaggio composto solamente da Disarmonici, con il continuo terrore di coloro che non lo sono, è normale che di essi si fidi. Per questo approvo il loro gesto, era l’unica cosa che potesse tranquillizzarla.”
“Comandante, dobbiamo portarla al sicuro.”
Daer guardò Erafan che avanzava portando la bambina per mano. Fecero ancora alcuni passi prima che il comandante si calasse il cappuccio e si chinasse dinnanzi alla bambina, le lunghe orecchie a punta che spuntavano enormi in mezzo al visino pallido.
“Io sono Daer. Come ti chiami?”
Lei lo guardò timorosa. Aveva sperato di vedere anche in lui i capelli differenti dagli occhi, invece erano uguali. La mamma la avvertiva sempre, attenta a quelli che hanno i capelli e gli occhi uguali. Però lei non aveva mai visto nessun adulto con occhi e capelli marroni.
Non sapendo cosa fare, stette in silenzio e si strinse al Disarmonico dai gentili occhi viola scuro. Lui sorrise e si chinò su di lei parlandole dolcemente.
“Puoi fidarti. Non è un nemico, non è nemmeno un elfo. È un umano.”
Questo la calmò un pochino. Papà gli aveva raccontato degli umani; esseri deboli, né veloci né resistenti, ma tanto tenaci. Almeno così raccontava nelle storie papà. Però non le aveva mai detto se ci si potesse fidare di loro o no...
“…Arres...”
Chiuse gli occhi nel vedere la sua enorme mano avvicinarsi al volto. Solo dopo si accorse che le stava semplicemente accarezzando una guancia coi calli duri.
“Arres... Avevo un’amica elfa una volta. Mi insegnò che i vostri nomi significano sempre qualcosa. Cosa significa il tuo?”
Riaprì gli occhi felice. Quello lo sapeva!
“Forza interiore!”
“Che bel nome. Allora Arres, adesso te devi avere tanta, tanta, tanta forza interiore. Che ne dici, puoi averla?”
Sentì le lacrime salirle lungo la gola ma le ingoiò e annuì con forza. Glielo diceva sempre anche la mamma. Doveva essere forte, sempre. Fuori e dentro. Soprattutto dentro. Per questo le aveva dato quel nome.
“Chi siete?” Chiese con voce timida. Quegli esseri neri e incappucciati le facevano paura.
“Siamo i Trenta Mercenari. Non devi temerci.”
Il volto le si illuminò. Papà le aveva raccontato dei Trenta Mercenari! Erano soldati invincibili da cui si poteva scappare se restava sola. A loro non interessava se avevi capelli diversi dagli occhi! Ma perché non glielo avevano detto subito invece che dirle solo che quello era un umano? La sua mamma e il suo papà parlavano in modo molto meno complicato.
“Quelli che ti accolgono sempre? Gli eroi che non perdono mai? Quelli a cui non interessa il colore dei tuoi occhi e dei tuoi capelli?”
Il volto dell’umano dalla mano callosa si rabbuiò per un secondo, fermando i suoi salti gioiosi. Aveva detto qualcosa di male?
“Non siamo eroi.”
“Cosa ne facciamo?”
La voce di Wors era cinica, la voce di chi sa riconoscere che una decisione va presa. Daer si guardò attorno.
“La porteremo con noi alla Cittadella.”
Il vecchio stregone lo guardò con gli occhi grigi.
“Quindi, da qualche parte, anche il comandante nasconde un cuore.”
Daer lo fulminò e ordinò di riprendere la marcia. Karisïkon porse l’arco che portava a tracolla e le sue armi a Erafan, prese la bambina sotto le ascelle e se la caricò sulle spalle. Quando fu a cavalcioni, la bocca della bambina si avvicinò all’orecchio dell’elfo.
“Anche se quell’umano non lo sa, io lo so che siete degli eroi. Me lo ha detto il mio papà.”
Sorrise mentre prendeva il cappuccio fra le mani e lo calava dinnanzi al volto. Quindi riprese la marcia, lasciandosi alle spalle una colonna di fumo che inquinava il paesaggio del Paese dei Due Fiumi. Una carogna gracchiò mentre si allontanavano, ultima voce del villaggio senza vita.
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