27 - Promesse infrante
Daer, ancora sbilanciato dal tentare di non cadere, alzò lo sguardo sulla lama che calava verso di lui senza chiudere gli occhi. Era tempo che aspettava quel momento, voleva goderselo fino in fondo.
Chissà se sarebbe stato doloroso come se lo era sempre immaginato? Anche i suoi occhi si sarebbero pian piano spenti, come troppe volte aveva visto spegnersi gli occhi dei nemici?
Un colpo, un rantolo rumoroso come un grido di dolore, poi un corpo crollò a terra.
“...Postermin?”
La voce di Daer era un soffio sottile, più flebile del volteggiare di una foglia nel vento. Il corpo del ragazzo era davanti a lui, un taglio lungo e orribile che gli percorreva la schiena nel punto in cui la lama diretta verso il comandante lo aveva trafitto.
Qualche mercenario si frappose fra il comandante, il corpo del ragazzo e la bestia. Alzarono gli scudi cercando di resistere ai suoi attacchi. Ma Daer aveva occhi solo per Postermin.
“Cosa hai fatto?”
“Co... Comandante... Sei... Unica speranza per... Per chi speranze non... Ne ha... Dove andrebbe chi non... Non ha altre strade?... Chi... Chi non ha altri... Altri luoghi in cui ess... Essere accettato... In cui... Trovare un... Paga da... Ai propri cari... Dove?”
Batté il pugno a terra con violenza. Postermin era sopravvissuto! Era sopravvissuto alla prima battaglia! Sarebbe stato congedato per la sua ferita!
PERCHÉ?! Perché quello stupido lo aveva fatto?!
Un fiotto di sangue copioso, come il fiume Irin in piena, sgorgava dal taglio, inzuppando il mantello e il terreno sottostante. Le bende che stringevano la ferita sulla gamba erano mezze srotolate, lasciando visibile una parte dell’orribile ferita riportata in battaglia, quella ferita che gli avrebbe permesso il congedo.
“Comandante, – disse Postermin con parole sicure e chiare, ben diverse dalle precedenti strisciate a fatica. – non arrenderti. Troppi si affidano a te e ai Trenta Mercenari.”
Gli occhi del ragazzo iniziarono a raffredarsi, come troppe altre volte Daer aveva visto velarsi gli occhi degli avversari in battaglia quando la mano gelata della morte li ghermiva.
“Daer!”
Il comandante rispose all’urlo di Raghel alzandosi in piedi. La stanchezza era scomparsa, i suoi pensieri non erano più ovattati nella nebbia del sonno. Già uno era morto per la sua incertezza. Avrebbe portato questa colpa come un peso eterno sul suo petto. Ma dopo, ora doveva guidarli.
Iniziò a urlare ordini, riprendendo saldamente il comando. I Trenta Mercenari si compattarono, chi usava scudi posto a difesa dei compagni senza, e avanzarono senza esitazioni, circondando la bestia da ogni lato.
Quel cambio di atteggiamento colse momentaneamente di sorpresa il nemico, permettendo ad alcuni colpi di raggiungerlo e facendolo indietreggiare di qualche metro.
Una vittoria di pochi secondi, subito la bestia si riprese e iniziò a parare i colpi peggiori. Quindi li schernì, e la sua voce fece vacillare molti mercenari. Ma sotto la solida guida di Daer gli scudi si alzarono a difesa dei compagni e la situazione sembrò quasi immobilizzarsi in uno stallo in cui nessuno dei due riusciva ad avanzare. I colpi continuavano a rimbalzare sul nemico, senza ferirlo.
Uno stallo che non durerà molto. Se non troviamo una soluzione, questa bestia ci vincerà. Possibile che non riusciamo nemmeno a ferirlo?
Non voleva dargliela vinta, non dopo quello che aveva fatto a Postermin! Maledisse sé stesso, maledisse quella bestia, maledisse il terreno molle, ma un altro impercettibile passo indietro gli fece esplodere la testa di rabbia.
Un urlo tagliò l’aria, un insieme di parole che non avevano senso per il comandante, ma che sapevano di potere. Una folata di vento attraversò le fronde facendole vibrare. La bestia si bloccò e mosse la testa tutt’attorno, come cercando l’origine di quelle parole che rimbalzavano tra i tronchi.
Guardò i mercenari, come se fosse indeciso su cosa fare. Infine, ringhiando e sbuffando come un rolcopa rabbioso, si voltò, si aprì un varco a forza e fuggì, veloce come un fulmine che incendia la steppa in una notte di pioggia.
“Ragazzo! Sei vivo?”
Per la prima volta, sentire quella voce chiamarlo ragazzo non lo turbò. Guardò con sollievo il mantello grigio svolazzargli affianco mentre tentava di inseguire la bestia, ormai lontana, e accolse con gioia la vista di Raxel e Lya impegnati ad agitare le mani pronunciando parole che lui non capiva. Li lasciò fare, anche se era chiaro che il mostro fosse ormai irraggiungibile, e si chinò al fianco di Postermin.
Terminato il loro tentativo di inseguimento, le voci degli apprendisti gli chiesero se voleva che gli dessero un’occhiata, per vedere se si poteva fare qualcosa, ma scosse la testa sconsolato. Sapeva che nemmeno le magie dello stregone potevano fare qualcosa.
Solo quando la prima goccia di pioggia riuscì a sfiorargli il volto, facendosi spazio tra le fronde del Barët Flaam, si decise ad alzarsi e a fissare rabbioso lo stregone.
“Cos’era quell’affare?!”
La domanda del comandante vibrava di rabbia, una rabbia disperata. Raghel lo capiva. Avevano perso un compagno per combattere contro un... coso apparso d’improvviso e apparentemente senza motivo.
Ma non è questo a turbarmi...
Nemici ne avevano sempre avuti, anche se solitamente li conoscevano e avevano tempo di studiarli. Qualcos'altro lo agitava, qualcos'altro lo riempiva di rabbia.
Loro, i Trenta Mercenari, tutti assieme, erano stati messi alle strette e costretti a una posizione difensiva da cui non avevano ricavato alcun successo.
Non sono riuscito a sconfiggerlo... E senza lo stregone, avrei perso.
Quella consapevolezza lo fulminò. Dopo il primo scontro affrontato con Daer, aveva promesso che nessuno lo avrebbe più sconfitto. Mai più!
“Quello, ragazzo, era un demone, uno dei sei apprendisti dello Stregone del Fuoco.”
La voce dello stregone aveva perso quella nota lieta che usualmente accompagnava le sue parole. Aveva un cipiglio serio e i suoi occhi guardavano un punto lontano.
“Non pensavo vi avesse seguito. Quando ho sentito la magia dello Stregone del Fuoco vincere la mia e creare una crepa nel tessuto magico, sapevo che un demone era riuscito a fuggire, ma pensavo fosse una sentinella inviata a studiare i due mondi e i suoi popoli. Avevo mandato Raxel e Lya a intercettarlo ma non erano riusciti ad arrivare in tempo. Avevo quindi lasciato perdere, preferendo concentrarmi sulla ricerca di alleati per l’imminente scontro.”
Le gocce di pioggia lieve iniziavano a penetrare regolarmente in mezzo alle fronde, ticchettando sui rami e sui tronchi e riempiendo l’aria di un odore umido e triste.
“Ho fatto un errore di valutazione, un errore che è costato caro a uno dei tuoi compagni. Vorrei tanto poter rimediare, dirti che conosco magie in grado di farlo tornare fra noi, ma mentirei. La sua vita grava su di me, me ne sento responsabile. Avrei dovuto parlarvi dei demoni, i sei apprendisti dello Stregone del Fuoco che lo aiutarono nel portare a compimento la sua terribile magia. L'incantesimo li ha trasformati in quelle orribili creature e gli ha fatto perdere qualsiasi volontà propria, rendendoli marionette nelle mani del re dei demoni. Assieme alla loro volontà hanno perso anche i loro nomi, sia dalla loro memoria che da quella di chiunque altro. Il loro vecchio maestro li identifica semplicemente con un numero. Sono esseri potenti, forti e difficili da affrontare. L‘unico modo per renderli vulnerabili, per riuscire a ferirli e tentare di sconfiggerli, è riuscire a fargli perdere la presa sulle loro nere armi. In quel momento la loro patina diventa trapassabile ed è possibile ferirli o ucciderli.”
Raghel vide lo sguardo di odio che il comandante rivolse allo stregone. Non si sarebbe sorpreso nel vederlo gettarcisi contro con l’ascia pronta a colpirlo.
“Sarebbe stato utile saperlo prima che il nostro compagno morisse.”
“Ragazzo, te lo ripeto, sono profondamente responsabile per quanto è accaduto. Non ho controllato i confini della mia casa, non ho notato l’arrivo del demone, vi ho permesso di allontanarvi abbastanza da non poter intervenire immediatamente in caso di bisogno e vi ho lasciato alla mercé di una creatura per voi sconosciuta. Ho fallito, totalmente. Stasera vi ho chiesto un aiuto in nome dei favori che vi ho fatto un tempo, ma con questo mio immenso errore ritengo che il debito si sia invertito, io sono ora obbligato nei vostri confronti. Chiedetemi qualunque cosa e, se mi sarà possibile, la farò. E non sentitevi più in debito nei miei confronti.”
Per diversi, lunghissimi secondi, l’unico suono udibile fu il ticchettio delle ultime gocce di pioggia tra i rami. Ergaf stava terminando il suo pianto per Postermin.
“Quindi è vero. – persino la voce di Wors aveva perso il suo solito tono atono e risuonava cupa – Questo re dei demoni sta davvero per arrivare.”
I mercenari si guardarono l’un l’altro. Nessun di loro aveva davvero creduto allo stregone, non fino a quel momento. Ora le parole di Wors li portavano a ragionare nuovamente su tutta la faccenda. I loro sguardi erano cupi e la maggior parte di loro giochicchiava con le sue armi, come cercando un qualche gesto abituale che li aiutasse a mettere insieme tutto quello che era successo.
Il comandante si chinò nuovamente su Postermin e lo guardò a lungo.
“Jash, sei stato suo compagno a lungo entro le mura della Cittadella. Prendilo sulle spalle assieme a Wors. Stregone, ti chiediamo se hai un luogo in cui alzare una pira per bruciare il nostro compagno, caduto per noi in battaglia. Poi parleremo e ti daremo la nostra risposta.”
Mentre lo stregone rispondeva a Daer e i mercenari si avviavano dietro a lui e ai due apprendisti, Raghel si attardò a guardare il punto in cui la lama del demone aveva lasciato un taglio profondo nel terreno.
Ho perso. Sono stato costretto ad arretrare davanti a un nemico.
Prese una manciata di muschio e lo strinse nel pugno.
Mi vendicherò! Affronterò nuovamente quella bestia e la ucciderò! Nessuno può dire di avermi affrontato ed esserne uscito vivo.
Due si fermò solo quando fu sicuro di essere abbastanza lontano dallo stregone e dalle sue pericolose magie. Il vecchio era l’unico che conosceva quali incantesimi potevano ferirlo, bloccarlo e sconfiggerlo. Era un nemico troppo pericoloso, solo il suo re poteva affrontarlo.
La pioggia lieve gli graffiò il volto, colmandolo di ira. Lui odiava il pianto di Ergaf!
Lanciò un ringhio acuto che rimbalzò tra i tronchi e fece fuggire decine di piccoli animali e uccelli.
Aveva avuto il comandante nemico a un soffio, stava per ucciderlo, e quell’insulso umano si era lanciato in mezzo, frantumando il suo successo! Era stato a un soffio dal riuscirci!
Strinse la lama e iniziò a colpire un tronco finché non lo guardò ansimante cadere a terra.
Non tutto però era andato storto. Quello stupido umano era morto, ne era sicuro. Questo significava che le leggende sui Trenta Mercenari erano favole. Erano semplicemente trenta soldati addestrati, trenta miseri soldati che non valevano niente.
Quel pensiero lo calmò per un attimo, prima che il fastidio per la pioggia tornasse a riempire i suoi pensieri.
Mentre tornava al portale, spostandosi da un albero all'altro per non essere graffiato da quella stupida pioggerella, si mise a ragionare.
Ormai si era scoperto, non poteva più contare sull’effetto sorpresa.
E anche il vecchio sarebbe stato più attento.
Doveva riprendere a inseguirli, da lontano, a distanza dalle magie dello stregone. Prima o poi la sua occasione sarebbe giunta.
Strinse la spada con una gioia malvagia. Gli sembrava già di sentire in bocca le morbide carni dei mercenari e sulle labbra il tepore del loro sangue.
Le fiamme che ardevano consumando Postermin si riflettevano con luccichii violenti negli occhi del comandante.
Perché l’aveva fatto? Perché si era lanciato in mezzo?
"Postermin è caduto nella sua seconda battaglia, quando ormai non era più una recluta. È caduto nella maniera più gloriosa, sacrificando la vita per un compagno. Per questo gli rendiamo onore qui, nel Barët Flaam, nel luogo in cui i Trenta Mercenari hanno indossato per la prima volta i mantelli.”
Tutti calarono i cappucci e seguirono le parole di Daer con un silenzio rispettoso. Poi, mentre le fiamme calavano, uno alla volta se ne andarono.
Rimase solo Daer a fissare gli ultimi guizzi scoppiettanti. Gli parve di sentire un dolore sordo nella parte bassa dello stomaco. Era come se un enorme masso volesse farsi strada nelle viscere, cercando una via per arrivare alla gola e infine riuscire a liberarsi dagli occhi con lacrime calde.
Combatté con quel masso, riuscendo a tenerlo premuto sulla parte bassa dello stomaco. Non avrebbe offeso Postermin piangendo come un debole.
“Come stai?”
Si costrinse a non voltarsi. Il suono di quella voce lo aveva colto completamente di sorpresa. Era l’ultimo suono che credeva di sentire in quel momento.
“Come un comandante che non è riuscito a salvare uno dei suoi mercenari.”
I passi leggeri sfiorarono l’erba e si fermarono a pochi passi dietro di lui.
“Cosa ci fai qui?” chiese cercando di mantenere una voce calma. Il silenzio che seguì a quelle parole fu il più lungo di tutta la sua vita.
“Volevo... Niente, volevo solo farti sapere che mi dispiace per la vostra perdita. Veramente. Probabilmente è un errore venire qui a dirtelo, potrebbe creare degli equivoci, ma ho pensato che fosse l’unico modo per farti capire che sono sincera. Non ti ho perdonato, assolutamente, ma volevo solo farti capire che mi dispiace davvero.”
Il masso stava risalendo. Velocemente. Era già alla base del collo.
Si chiese cosa dovesse fare. Ascoltare quelle parole, assaporarne il gusto sincero, sottolineato dal gesto di venire lì in quel momento? Se l’avesse fatto, il masso sarebbe risalito senza freni fino agli occhi sciogliendosi in lacrime salate. E gli unici a vedere quel pianto sarebbero stati lei e la pira di Postermin.
...Postermin...
Morto perché lui non era riuscito a essere il comandante che serviva in quel momento, morto per salvare lui. Se ora avesse ceduto al pianto non sarebbe più stato l’invincibile comandante dei Trenta Mercenari. Il pianto e il dolore avrebbero avuto la meglio, lo avrebbero sconfitto, e avrebbe tradito di nuovo i suoi mercenari, che avevano bisogno del comandante invincibile.
Non poteva farlo. Lo doveva a Postermin.
Spinse con forza il masso e lo ricacciò in fondo allo stomaco, dove avrebbe continuato a graffiare e a spingere dentro la gabbia di dolore in cui lo stava rinchiudendo.
“Grazie, ma non serviva. Ora vai, il tuo maestro avrà bisogno di te e io devo parlare coi miei mercenari.”
Erano passati ormai diversi minuti quando vinse le sue resistenze e riuscì a girarsi.
Dietro di lui non c’era più nessuno.
Lya se n’era andata senza fare rumore.
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