18 - Aghel
Terra
Regno di Legaworat
Oggi
"I Trenta Mercenari sono tornati, mio signore."
I passi pesanti dei mantelli neri, sporchi di polvere e sangue rappresso, seguirono quelle parole, formando un'eco metallico tra le mura del palazzo.
"Con quale esito, mercenari?"
La voce del segretario del re graffiò sulle orecchie nascoste dai neri cappucci. Aghel l'aveva trovata subito odiosa quando, giorni prima, erano arrivati al palazzo per ricevere le informazioni sulla battaglia da affrontare.
"I Trenta Mercenari vincono, sempre."
Fu orgoglioso di sentire la voce del comandante proferire quelle parole. Perché quella vittoria portava il suo nome, il nome di Aghel, stregone dei Trenta Mercenari.
Sebbene sulla Terra la magia non scorresse fluida come su Ergaf, impedendogli di fare incantesimi, aveva ugualmente dato il suo contributo con una recita impeccabile.
Naturalmente Daer non l'avrebbe chiamato recita, lui era sempre così serio e pomposo. Gli aveva solo spiegato cosa doveva fare e Aghel aveva obbedito. Certo, doveva obbedire, eppure Daer riusciva sempre a farsi seguire senza fatica, quando ti guardava con quello sguardo che era dolore, fatica, sogni disperati.
Occhi che capivano il dolore che innondava tutti loro.
Occhi che ti capivano.
E lui aveva davvero recitato in maniera prodigiosa, un vero capolavoro. Si era infiltrato nell'accampamento nemico, travestito con le uniformi luride procurate da due spie dei Trenta Mercenari arruolate nelle file nemiche, e aveva attivato due sfere fumogene, una creazione geniale degli stregoni artigiani della Cittadella.
Non ricordava esattamente il meccanismo interno, gli era stato spiegato anni prima dall'istruttore degli stregoni nella Cittadella, il quale aveva la stessa passione di una gallina che deve spiegare come si cucina il pollo, e lui non l'aveva mai ascoltato molto. In sintesi, erano piccole sfere in cui erano state immagazzinate delle coltri di fumo, che permettevano di funzionare con incantesimi basilari anche in luoghi senza magia.
Le aveva posizionate e poi aperte con un incantesimo semplicissimo, "anaigò sfraghidion". Una magia talmente banale che poteva usare tranquillamente le sue energie magiche, non potendo attingere a quelle nulle della Terra.
A quelle parole, dense coltri di fumo si erano alzate e lui, cambiandosi velocemente d'abito, era apparso vestito da membro dei Trenta Mercenari, presentando la dichiarazione di guerra al comandante nemico.
Avevano provato a reagire, a fermarlo, ma altre sfere fumogene perfettamente posizionate gli avevano permesso di dileguarsi in fretta, lasciando il campo avversario nello scompiglio.
Era così che avevano diffuso il terrore nei nemici, provocando anche una piccola rivolta sobillata dalle spie infiltrate, e la notte avevano potuto attaccare un esercito impaurito, già decimato dalle rivolte e con zero ardore combattivo.
"Se avete vinto, avrete anche la medaglia del comandante nemico."
Quella voce salda, apparentemente distaccata, apparteneva al re Legaworat. La medaglia veniva strappata al comandante nemico e serviva a dimostrare di averlo sconfitto.
"Eccola, come concordato."
Una medaglia ottenuta con sudore e sangue, anche per Aghel. Non potendo usare la magia, aveva combattuto al fianco degli altri, senza appoggiarli dalle ultime file con i suoi incantesimi.
Se l'era cavata proprio bene, aveva combattuto con forza e vinto un sacco di nemici. E intanto aveva seguito con gli occhi le mosse dei compagni, abituato a vedere cosa potesse fare per proteggerli.
Aveva seguito le movenze perfette di Daer, la cui abilità nella lotta era impareggiabile, la forza di Raghel, che si apriva la strada tra i nemici coi muscoli guizzanti, i colpi violenti di Sats, che con la sua armatura naturale da roccioso riusciva a incutere ancora più terrore nei nemici.
Le mosse senza senso di Baber, che in battaglia veniva preso da una pazzia cieca, e le mosse armoniose di Manu e Layo, che agivano all'unisono, uno coordinato con l'altro, difendendosi e colpendo a vicenda.
Anche i nuovi non se la cavavano male. Postermin era freddo e potente, Jash calcolatore e preciso. Almeno, così aveva pensato finché Postermin non era caduto a terra con un grido di dolore. Era stato ferito a una gamba, una ferita molto brutta. Sarebbe toccato a lui, al termine della battaglia, medicarlo al meglio, cercando di limitare i danni in attesa di tornare su Ergaf e provare a curarlo con incantesimi che sulla Terra non poteva tessere.
Il corpo del mercenario dolorante fu nascosto alla vista dei nemici e avevano ripreso a combattere, tentando di portare a termine velocemente a quella battaglia.
Poi aveva guardato Ghimesh...
...e aveva visto quel ragazzo mosso da una rabbia, cieca, totale, una furia senza limiti che colpiva e uccideva senza pietà.
Lo aveva fissato, lo aveva fissato a lungo, chiedendosi come potesse esistere una furia così, chiedendosi quanto odio covasse in quel corpo per potersi lasciare a una furia di quel tipo. Era talmente immensa, totale, da farlo rabbrividire.
Come poteva quel ragazzo sopravvivere, giorno dopo giorno, con quella rabbia imprigionata in corpo?
Talmente irreale, anche per chi, come lo stregone, aveva visto decine di orrori, da distrarlo dalla battaglia e non fargli vedere la lama nemica che arrivava a trapassargli il petto, lacerando il nero tessuto del mantello in un taglio irregolare.
"Posso vederla?"
Daer annuì alla richiesta del re Legaworat e lanciò nella sua direzione la medaglia del comandante nemico.
Quella medaglia... era l'ultimo legame tra il comandante e la battaglia conclusa la notte prima. I corpi dei caduti erano stati bruciati, l'accampamento nemico razziato e distrutto, il sangue lasciato a inzuppare la terra.
Aveva detto addio ad Aghel quella mattina, innanzi alla pira eretta per lui, mentre le fiamme ne divoravano il corpo e l'odore di carne bruciata si spargeva attorno. Eppure, finché aveva avuto con sé la medaglia, gli era sembrato che lo stregone fosse ancora lì con loro, ad aiutarli con i suoi incantesimi, a guardarli coi suoi occhi colore ghiaccio, a pensare come preparare quella che lui chiamava "la recita prima della battaglia".
Mentre la medaglia volava nello spazio tra lui e lo scranno del re, gli parve di rivederne per l'ultima volta il fantasma, che lo fissava con un sorriso.
Un sorriso sincero, perché lo stregone dei Trenta Mercenari era nato nella miseria, nel nulla, costretto a rubare fin da bambino per sopravvivere. La Cittadella gli aveva dato una casa, uno scopo. Certo, aveva fatto cose terribili, ucciso e sgozzato, ma aveva trovato amici, compagni, uno scopo, e aveva potuto conoscere la magia, il grande amore della sua vita.
Mentre la medaglia tintinnava a terra, il fantasma sorridente di Aghel alzò il cappuccio e si voltò. Fece alcuni passi e, quando la medaglia fermò i suoi rimbalzi, quell'immagine scomparve dalla mente del comandante.
Aghel era morto, unico caduto nell'ultima battaglia affrontata dai Trenta Mercenari.
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