Piano A, B e C




Seokjin era seduto al tavolo in giardino, il peso della gamba destra era poggiato tutto sulla punta del piede, il tallone non toccava mai terra, ma saliva e scendeva veloce, facendo muovere tutta la gamba e, sebbene non se ne fosse accorto, facesse tremolare anche il tavolo di legno. Il diciassettenne stava chiacchierando in un francese sporcato dal suo marcato accento di Wontville con Taehyung, toccando argomenti futili e non troppo pesanti – o, meglio, Taehyung riusciva sempre a far veicolare la conversazione senza che l'altro vagasse troppo nei meandri del marketing. Gli altri tre erano seduti insieme a loro in veranda, intorno al tavolo, ma non li avevano esclusi dalla conversazione per cattiveria: stavano giocando ad un gioco di carte che aveva proposto Liz, ma i due avevano perso in un paio di mani, ed erano rimasti a guardare gli altri continuare la partita finché, annoiati – gli altri tre sembravano non voler perdere in nessun modo –, avevano cominciato a chiacchierare tra di loro.

«Seokjin êtes-vous inquiet?» chiese improvvisamente Taehyung, sebbene aspettò che l'altro finisse di parlare.

«Nervoso? Perché?» chiese il diciassettenne, serrando la mascella «Ti sembro nervoso?»

Taehyung sollevò un sopracciglio, fissando lo sguardo azzurro in quello nero scuro dell'Americano, socchiuse le labbra pensieroso, poi fece un cenno alla sua gamba che, ancora, dopo vari minuti, saliva e scendeva. «Non te l'ho mai visto fare».

Seokjin ridacchiò stringendosi tra le spalle: «Siete qui da due settimane, magari non te ne sei mai accorto?»

Il ventenne scosse il capo: «Sono un bravo osservatore e, soprattutto», si avvicinò a Seokjin per parlargli sottovoce all'orecchio, «sono bravo ad osservare te».

La situazione dei pretendenti era abbastanza semplice da analizzare: Jungkook aveva smesso di provarci spudoratamente – il che gli aveva fatto guadagnare qualche punto, sebbene fosse sicuramente quello che a Seokjin stava meno simpatico –, Jimin era divertente e gentile quando erano tutti assieme, ma appena si ritrovavano da soli si ammutoliva o fuggiva con qualche scusa e Taehyung – che inizialmente sembrava essere lì solo per farsi un giro turistico – aveva cominciato ad avvicinarsi di più a Seokjin. Indubbiamente – per forza di cose – se Jin avesse dovuto fare una lista in cima ci sarebbe stato Taehyung.

«Ah, beh-» balbettò improvvisamente in imbarazzo il diciassettenne, riprendendosi un istante dopo. Seokjin non era il tipo da farsi prendere contropiede, da arrossire o senza risposta pronta, ma Taehyung sapeva mettere anche lui a dura prova, con tutti quegli sguardi fissi profondi e la voce bassa con cui gli si rivolgeva solo di tanto in tanto, per dirgli qualcosa di speciale. «In effetti, ho un po' di mal di testa».

Taehyung si riallontanò da lui guardandolo confuso, arricciando le labbra e piegando la testa: «Ti fa male la testa e muovi la gamba?» chiese un primo momento serio, poi ridacchiando a voce bassa «Che cosa dolce».

Seokjin si bagnò le labbra con la lingua, velocemente, abbozzò un sorrisetto nervoso e annuì: «Già, forse è meglio che mi vada a stendere un po'»; si alzò lentamente, Taehyung si alzò di scatto subito dopo.

«Ti accompagno? Magari non ti senti bene...» propose alzando leggermente la voce, sollevando la mano come a volerlo fermare, ma senza toccarlo.

Seokjin scosse il capo, poi si toccò la fronte: «No, tranquillo, rimani pure con gli altri».

«Che hai Jin?» chiese Lizzie guardandolo dal basso, stando attenta a coprire bene le carte che aveva in mano – anche perché aveva davvero ottimi punti e, se tutto fosse andato secondo i piani, sarebbe riuscita a vincere.

«Un po' di mal di testa, tranquilli.» sorrise alla quattordicenne, poi agli altri due, ma meno amorevolmente «Ci vediamo per cena, penso andrò a dormire qualche ora».

Taehyung non insistette oltre sull'accompagnarlo, gli altri gli dissero di riposarsi per bene, Seokjin si incamminò verso la propria stanza: varcò l'ingresso di casa dal giardino, superò la cucina, camminò per il corridoio e salì le scale; si fermò per controllare che nessuno degli altri l'avesse seguito e, constatato che era così, sospirò stanco e sussurrò tra sé e sé: «Che due palle, ma quando finisce questo strazio?». Seokjin, comunque, non aveva nessun mal di testa e, soprattutto, la sua gamba si muoveva così solo quando era profondamente in ansia. C'erano poche cose che mettevano Kim Seokjin sotto pressione: il decollo e l'atterraggio dell'aereo – che comportava sempre lo stringere il sedile così forte da farsi male –, avere mal di pancia il giorno dopo aver mangiato sushi, gli esami con l'orale obbligatoriamente in francese e quando le tempistiche dovevano incastrarsi tra loro perfettamente. Quest'ultima, appunto, era ciò che lo stava facendo dannare da almeno mezzora.

Seokjin aveva organizzato tutto, aveva fatto schemi, aveva calcolato ogni imprevisto, ma era comunque in ansia. (In realtà avrebbe potuto semplicemente rimandare il suo piano, ma non vedeva l'ora di vederlo realizzato e non riusciva più ad aspettare). Entrò nella propria stanza, si avvicinò al letto, si sedette a fianco al comodino e aprì il secondo cassetto; estrasse una scatolina di cartone, la confezione di un piccolo mazzo di carte, si rialzò e la infilò nella tasca dei pantaloni larghi, insieme al telefono.

Il diciassettenne uscì dalla stanza, chiudendo la porta dietro di sé, poi si incamminò silenziosamente per casa, percorse il corridoio del secondo piano, girò a destra, a sinistra, di nuovo a destra e, una volta arrivato alla biblioteca, si fermò davanti ad essa: tre operai stavano risistemando tutti i libri sugli scaffali a parete che dovevano aver montato da poco. Nessuno di quei tre operai era Namjoon. «Merda.» sussurrò tra sé e sé il diciassettenne.

Passò al piano B, tornò a camminare per casa, scese di un piano, poi di un altro e, dopo circa cinque minuti si ritrovò al garage, ma non ci trovò nessuno. Dopo il garage venne la seconda cucina, poi venne il limitare del bosco, venne di nuovo la biblioteca, il bagno della taverna, lo studio: di Namjoon neanche l'ombra.

Seokjin cominciò ad innervosirsi, ansioso; camminava più veloce per casa, stava attento che nessuno lo beccasse – non che non potesse camminare per casa sua, ma non voleva rischiare di sollevare domande scomode –, controllava l'orario, sentiva il cuore accelerato, stringeva piano la scatolina in tasca.

Quando scoprì che era passata mezzora – quella maledetta mezzora calcolata alla perfezione – decise di fare la cosa più imbarazzante ma più sicura: uscì dalla porta d'ingresso, camminò qualche metro e si sedette su una panchina lungo la via che portava da casa sua al cancello principale, poi aspettò, anche se sapeva di non dover aspettare poi molto. E così fu, appunto: cinque minuti dopo la figura di Namjoon gli si palesò davanti, solitaria, con uno zainetto logoro appoggiato ad una spalla sola, lo sguardo basso sul proprio cellulare e il passo svelto.

Quando il ventenne fu abbastanza vicino, Seokjin si alzò di scatto – l'altro si bloccò sul posto, sollevando lo sguardo in quello del più giovane – e gli si parò davanti: «Ti ho cercato ovunque, lo sai?» disse in modo secco e irritato, braccia incrociate al petto e occhi socchiusi. Namjoon provò a dire qualcosa, facendo un grosso respiro, ma Seokjin non gli diede tempo di dire nulla. «Dammi il tuo telefono». Dal tono non era sembrata una richiesta e, infatti, non lo era: il ricco primogenito si impossessò del cellulare dell'altro – che era ancora nelle mani del ventenne, a mezz'aria –, compose un numero, fece partire la chiamata e portò l'apparecchio all'orecchio.

«Chi stai chiamando?» chiese Namjoon confuso.

Seokjin estrasse il proprio telefono dalla tasca e gli mostrò una chiamata in arrivo: «Me?» chiese ironico, ancora infastidito. Riagganciò la telefonata, gli ridiede il telefono e salvò il contatto dell'altro – come Osteoporosi, cosa che fece sorridere il maggiore che, però, preferì far notare qualcos'altro che il nome con cui era stato salvato.

«Potevi chiederlo il mio numero, te l'avrei dato subito, non c'era bisogno di tutta questa scenetta».

Seokjin finì di salvarlo in rubrica, rimise il telefono in tasca e riportò lo sguardo serio sull'altro: «Non ho bisogno di scenette, io.» fece scoccare le labbra – Namjoon notò come lo stingerle tra loro e il separarle velocemente le facesse passare da un rosa chiaro ad un rosa scuro. «Ti ho davvero cercato ovunque, dov'eri?»

Namjoon piegò la testa di lato e guardò intensamente l'altro: la sua espressione seria, infastidita, sicura di sé e allo stesso tempo nervosa; gli occhi dal taglio elegante, neri scuro in cui perdercisi, quelle labbra che aspettava solo di assaggiare di nuovo. «Perché mi cercavi?» chiese il ventenne.

Seokjin sollevò un sopracciglio, indispettito: «Non avevi detto che non si risponde ad una domanda con una domanda?» Namjoon allungò un piede verso di lui, si avvicinò al corpo dell'altro, guardandolo dall'alto; Seokjin non si mosse, poggiando le mani sui fianchi e sollevando il mento. «Beh, dov'eri?»

«Nella vostra palestra a montare un attrezzo nuovo.» rispose frettolosamente per poi tornare a parlare più lentamente, incastonando lo sguardo in quello del più giovane, allargando il sorriso solo da un lato, «Ora puoi dirmi come mai mi cercavi?»

Seokjin fece un grosso sorriso contento, improvvisamente felice: «Hai presente lo studio dove abbiamo fumato?». Namjoon portò lo sguardo sul sorriso di Seokjin, si ritrovò a sorridergli di rimando, felice senza sapere perché; annuì. «Vieni lì tra quindici minuti e lo scoprirai».

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