Michigan pasty e notizie per dolce




L'acqua della doccia scendeva calda sulle spalle di Kim Seokjin. Teneva le braccia tese e i palmi ben aperti sulle piastrelle del muro, la sua testa era abbassata, i suoi occhi erano chiusi, la bocca era tenuta aperta per respirare. Il sapone sul corpo e lo shampoo sui capelli erano spariti da un pezzo, risucchiati dallo scarico della doccia, ma Seokjin era rimasto ancora un po' sotto le cure dell'acqua, godendosi le gocce che gli colavano lungo il volto, sulle labbra, che gli scivolavano lungo i fianchi e gli picchiettavano dolcemente la schiena. Aveva passato più di sedici ore fuori casa, tra voli d'aereo, scali e viaggi a terra; era riuscito a dormire un'oretta nel suo comodo van – mentre aveva passato ore insonni sull'aereo –, ma la voglia di uscire dalla doccia, asciugarsi in fretta e furia e buttarsi completamente nudo sotto le lenzuola del suo letto – senza neppur aver cenato – sembrava un sogno; un sogno, appunto, e non la realtà, perché Kim Seokjin – alla sola età di diciassette anni – non aveva tempo da perdere: chiuse la manopola della doccia interrompendo il flusso d'acqua, rimanendo qualche istante abbracciato dal vapore, facendo scivolare l'acqua in eccesso dal proprio corpo, poi uscì dal box, poggiò i piedi sul tappetino morbido e si portò i capelli bagnati all'indietro con un gesto frettoloso di entrambe le mani; prese il grosso asciugamano caldo appoggiato al calorifero scaldasalviette, lo utilizzò in un primo momento per togliersi il grosso dai capelli frizionandoli con energia, ci si tamponò il petto e le spalle per poi legarselo in vita.

La porta del suo bagno privato si aprì e si richiuse in fretta, così da non riempire la camera da letto di vapore, giusto il tempo per far sì che il giovane potesse cambiare stanza. «Alexa.» chiamò a voce alta l'assistente vocale «Metti la mia playlist relax».

«Ecco Spotify.» fu la risposta metallica e femminile ricevuta in un primo momento, l'istante dopo la stanza fu inondata da un accordo leggero e dalla voce di Diana Krall.

Seokjin si avvicinò alla porta specchiata della sua cabina armadio, la aprì, accese la luce e girovagò per buoni cinque minuti alla ricerca di qualcosa da mettersi per la prima cena a casa Kim. Quando trovò una polo azzurro acqua, un maglioncino rosa e un paio di pantaloni maggesi, tornò nella propria stanza: «Alexa, chiama Gutlac».

Il piano di McCoy Tyner in sottofondo si interruppe dolcemente, abbassandosi di volume fino a spegnersi, sostituendosi al fastidioso tu-tu di una chiamata in attesa finché una voce gracchiante ed allegra non gli rispose: «Allô?»

«Mon gars, comment vas-tu?»

«Americano!» fu la risposta precipitosa del compagno di classe in un ottimo inglese che quasi non lasciava trasparire la sua nazionalità reale, a differenza di Seokjin che, ancora, non riusciva a lasciarsi dietro l'accendo da yankee quando a Ginevra parlava in francese «Sto bene e tu? Sei già a casa?»

Aveva incontrato Gutlac il primo giorno di scuola, due anni prima, e sebbene non fosse stato il primo a presentarsi, il suo compagno di stanza o un altro nuovo arrivato era diventato in men che non si dica il suo "migliore amico". In realtà non era il modo corretto di chiamarlo, almeno non per il resto del mondo, perché solitamente al "migliore amico" si lega l'immagine di un fratello per scelta, di una persona pronta a dare la vita per te, con il quale passi la maggior parte del tuo tempo e sei sulla stessa lunghezza d'onda. Gutlac e Seokjin non erano quel tipo di migliori amici, così come entrambi non avevano nessuna persona al loro fianco per la quale avrebbero davvero dato la loro vita – a parte i componenti della loro famiglia, è chiaro. La loro era un'amicizia di assoluta convenienza ma, anche detta così, non dava il giusto peso alla loro relazione: entrambi si dilettavano nel giocare in borsa e nello studiare gli andamenti del mercato; erano i migliori in tutte le materie legate al marketing e alle scienze economiche; avevano gli stessi gusti nel vestire, nel mangiare e negli hobby da praticare nel loro tempo libero – che, dati gli interessi extra-curricolari nel seguire investimenti non era poi molto. Il loro, più che un'amicizia forte e sentimentale, era quasi un rapporto tra colleghi, qualcosa che li univa in modo semplice e rendeva piacevole passare il tempo assieme, una di quelle amicizie costruite sul tempo che, entrambi lo pensavano, sarebbe durata anche dopo la scuola e, magari, si sarebbe espansa anche a collaborazioni lavorative. Da nessuna delle due parti vi era la minima intenzione di sfruttare l'altro, così come non vi era però neanche la minima intenzione di togliersi qualcosa per l'altro; era così, una convenienza reciproca nel mantenere un bel rapporto che riempiva le loro giornate in modo sano e soddisfacente.

«Sì, da ore ormai». Seokjin si avvicinò al mobile appoggiato al muro e aprì il primo cassetto, estraendone un paio di mutande e un paio di calzini. «E tu invece? Sei ancora a casa?»

«Tra qualche ora partiamo, non mi piace arrivare in aeroporto troppo presto.» rispose, aggiungendoci una risatina «Mi piace il brivido di poter perdere il volo».

I due cominciarono a chiacchierare in un primo momento del più e del meno, di come fosse andato il viaggio di Seokjin, del bel tempo che faceva a Wontville rispetto al giorno piovoso che c'era a Ginevra, poi – senza quasi neanche volerlo – il loro discorso si spostò su alcune nuove aziende Giapponesi che si erano quotate in borsa nelle ultime ore; le loro parole si fecero tecniche, gli argomenti seri e precisi, ma il loro tono rimase divertito e amichevole, come se stessero parlando di una partita di football e non di indici di mercato.

Seokjin era ormai vestito di tutto punto da un pezzo, davanti allo specchio a sistemarsi il maglione sulle spalle a mo' di mantello – troppo il caldo che faceva quel giorno per indossarlo –, annodando le maniche al petto e parlando a voce alta per farsi sentire dal microfono dell'assistente vocale: «Penso che con il cambio del Ministro degli esteri in-». La porta della sua camera si aprì all'improvviso, facendolo sobbalzare per un istante e interrompendo le sue parole; la figura di sua sorella – quella di mezzo – vestita per la sera gli strappò una grossa risata: «Liz, ma che ti sei messa?».

Elizabeth si era sciolta i capelli, il che le copriva le spalle nude – dato il top nero attillato che indossava – ma in compenso la sua pancia era completamente scoperta; un paio di pantaloni lunghi e leopardati si chiudevano dentro un paio di scarpe da ginnastica che sembravano più grandi di lei, talmente colorate da far invidia ad un astuccio di pennarelli. Il rossetto blu fluo che si era messa sulle labbra, comunque, donava, insieme alla moltitudine di braccialetti oro e argento sulle braccia, quel non so che in più da farla sembrare una tipa poco raccomandabile appena uscita dal Ghetto, ovviamente a parte il fatto che ogni cosa indossata valeva un occhio della testa.

«Tesoro mio, questo è puro stile.» obiettò lei all'evidente stato confusionale sul volto del ragazzo – che già era rimasto stupito nel vederla in una tuta arancione fosforescente, ma che ora non riusciva a non riderle in faccia.

«Gutlac, ora devo lasciarti.» disse il fratello con la voce ancora carica di ilarità, cercando di scandire bene le parole «Ci sentiamo nei prossimi giorni, va bene?»

«Certo, certo, porta i miei saluti a tutti, à bientôt».

Seokjin rispose con frasi di circostanza, aspettò che l'altro interrompesse la chiamata; Alexa rifece partire la musica in sottofondo, e i fratelli rimasero nuovamente da soli: «Sembri una rapper appena uscita da un programma trash.» disse Seokjin sorridendo alla sorella minore, per tornare sull'argomento, «Mamma e papà non ti dicono nulla?»

«Che devono dire? È la moda Jin,» al fratello sembrò bofonchiasse qualcosa come "che vuoi saperne tu" ma non poté esserne certo, «questi pantaloni li ho fatti prendere anche a mamma sai?».

Liz si mise a fianco a Seokjin, davanti allo specchio, osservando le figure così diverse ma in un certo senso così simili: tra loro passavano tre anni e almeno trenta centimetri di differenza – se non di più -, Liz aveva dei folti capelli castano chiaro, gli occhi di un nocciola brillante, la pelle leggermente abbronzata, le lentiggini sul naso, formosa ormai sui seni e sui fianchi ma esile nell'insieme; Jin era magro, con le spalle grosse da nuotatore – sport che aveva effettivamente praticato per anni –, i capelli e gli occhi neri come la pece, la pelle chiara e senza imperfezioni, le labbra piene – a differenza di quelli della sorella, sottili come quelli del padre – prese da sua mamma. Erano diversi, ma sorridevano nello stesso modo, si guardavano con complicità e, quando Seokjin le mise un braccio intorno alle spalle, nessuno al mondo avrebbe osato controbattere che non fossero effettivamente fratello e sorella, non quando tanto sembrava l'amore che scorreva tra loro.

«Sei ridicola vestita così».

«Tu sembri l'impiegato del mese». Liz fece passare entrambe le braccia intorno al suo busto e lo strinse forte, ma senza provare a fargli male: «E questa musica fa schifo».

Seokjin ricambiò l'abbraccio cingendogli le spalle anche con l'altro braccio e girandosi verso di lei: «È jazz, Liz.» rispose – quasi sembrò non voler aggiungere altro, come se bastasse a concludere il discorso – per poi guardare la loro figura abbracciata allo specchio «Ma quando vieni qui puoi mettere la musica che vuoi».

Elizabeth sollevò il volto mostrandogli un enorme sorriso – tanto bambinesco come gli piaceva ricordarla – e, invece di ringraziare, disse solo: «Mi sei mancato».

Seokjin ricambiò il sorriso e annuì: «Anche tu.» si lasciò stringere ancora qualche istante, poi chiese «Scendiamo in sala da pranzo?»

Ad entrambi sembrò una buona idea: l'impiegato del mese e la rapper del ghetto scesero le scale della loro magione nei rispettivi outfit scelti per la serata, chiacchierando come due buoni fratelli su quello che la ragazza stava imparando a scuola e sulle sue amicizie. (A Seokjin dispiaceva non poter esserle sempre accanto, quei momenti provava a fare il fratello maggiore, dandole consigli e informandosi su dove usciva e con chi). Il discorso ebbe però vita breve perché non appena misero piede nella sala da pranzo vennero investiti in pieno dall'odore del cibo già presente, facendoli zittire entrambi all'istante. Kendall stava sistemando la tavola – la tavola era in realtà già apparecchiata dai domestici, lei stava girando i centritavola per dargli un tocco di originalità – e la piccola Ruth era seduta su una delle sedie, con un cuscino alto almeno una spanna sotto il sedere per farla arrivare alla tavola, intenta a colorare un album da disegno con dei pastelli colorati.

«Oh! Stavo per venire a chiamarvi!» esclamò Kendall appena si accorse dell'arrivo dei figli, girando intorno al tavolo per raggiungerli e – in particolare – per aggrapparsi al braccio del maggiore «Tesoro mio, hai visto che ti ha preparato la mamma?»

Seokjin lo aveva visto molto bene – anche se in tavola erano presenti solo alcuni antipasti aveva già intuito il resto del menù – e si stava trattenendo dal piangere per la commozione – non per il gesto, ma per quanto gli era mancato il suo cibo. «Quella è la New England clam chowder?» chiese, con voce tremante, anche se sapeva bene che fosse proprio lei, la sua amata zuppa di vongole e patate.

«Ci ho fatto mettere un po' di panna e la pancetta, come piace a te.» rispose sua madre e, data la risposta, ottenne pure un grosso abbraccio dal figlio che già pregustava i sapori tipici degli Stati Uniti che tanto gli erano mancati a Ginevra.

Una quarta voce, però, fece capolino dietro di loro: «Per me e tua sorella non la fa mai preparare, dobbiamo aspettare il tuo ritorno per poterla mangiare». Seokjin si girò di scatto, i suoi occhi si posarono sulla figura del padre e i due uomini si sorrisero con familiarità. Kim Namgoo era un uomo ammaliante: non aveva la bellezza tipica del figlio – presa dalla madre – ma aveva un'aurea di fierezza, intelligenza e gentilezza che ti paralizzava al primo incontro; era una di quelle persone che riusciva sempre a farsi tutti quanti amici, che teneva i contatti, che ricordava i nomi dei figli, che ti mandava almeno un messaggio di auguri al tuo compleanno – o un mazzo di fiori il giorno dopo, se si era dimenticato. Gli amici americani lo chiamavano Googoo, i suoi impiegati lo chiamavano Presidente Kim, gli altri CEO con i quali chiudeva affari lo chiavano semplicemente Kim Namgoo.

Per Seokjin era soltanto: «Papà!». L'uomo si avvicinò al figlio con le braccia aperte, gli regalò un lungo abbraccio, dandogli sonore pacche sulle spalle in maniera affettuosa.

«Mi sei mancato.» disse Namgoo – nel frattempo la madre si tratteneva dal piangere, Ruth continuava a colorare fregandosene altamente di loro e Liz si lamentava perché voleva cominciare a mangiare. «Abbiamo tanto di cui parlare stasera».

Seokjin si districò dall'abbraccio per guardare il padre con aria incuriosita: «Ah sì?» chiese.

L'uomo non fece altro che annuire, nascondendo un sorrisetto – non troppo bene – e indicandogli il tavolo: «Ne parleremo mangiando».

La famiglia Kim si sedette a cena e, per qualche strano motivo, venne il silenzio: Jin provò ad intavolare una conversazione – una qualsiasi – ma le risposte da parte dei familiari furono sempre frettolose, atte a chiudere il discorso, così da non permettere un botta e risposta generale. Improvvisamente, sebbene Seokjin non ne capisse davvero il motivo, l'aria della sala da pranzo sembrava essersi congelata: non vi era tristezza, non sembravano arrabbiati o delusi, sembrava stessero semplicemente "pensando ad altro"; è pur vero che se un figlio torna a casa dopo sei mesi e trova i propri familiari intenti a "pensare ad altro" – altro che non fosse chiedergli come stesse e cos'avesse fatto in quei giorni separati – ha difficoltà a non rimanerci male: Seokjin rimase impassibile per buona parte della cena, confuso da ciò che stava accadendo, ma a prima vista né preoccupato né offeso; nel mezzo dei silenzi masticava lentamente le leccornie yankee che tanto gli erano mancate quali pollo fritto con besciamella, Michigan pasty, gelatina di carote, il resto del tempo faceva domande. Fu proprio quando gli sembrò di essere arrivato al limite – indeciso o meno se alzarsi da tavola facendo un'uscita di scena degna del loro comportamento o chiedere in maniera decisa cosa non andasse – che l'aria tornò nuovamente serena, come per magia.

Uno dei domestici entrò nella sala da pranzo con una cartelletta tra le mani, si avvicinò al padre di famiglia e, appoggiandola sul tavolo a fianco alle posate d'argento, disse solo: «Eccola, è arrivata».

Sotto lo sguardo attonito di Seokjin, tutti – eccetto Ruth, che continuava a mangiare il suo pomodori verdi fritti prendendoli direttamente con le mani dal suo piatto di plastica personale delle superchicche – tornarono sorridenti e presenti. «Ma che succede?» chiese il figlio, preso alla sprovvista.

Elizabeth ghignò di gusto, poggiando la schiena sul sedile della sedia e incrociando le braccia al petto: «Io mi godo lo spettacolo».

Kim Namgoo richiamò il figlio con voce calda, gentile, ma anche sicura e decisa: «Seokjin,» gli occhi dei due uomini si incrociarono, attenti uno all'altro, «ormai hai diciassette anni, tra poco ti diplomerai, poi andrai all'università e – sempre se lo desideri – entrerai poi a lavorare nella nostra società».

Seokjin annuì deciso: «Sì, lo sai che è ciò che voglio».

«E io ne sono felice, non immagini quanto». Si sorrisero entrambi a vicenda, ma il giovane tornò subito serio, ancora confuso da quello strano momento familiare in cui – era ovvio – tutti sapevano qualcosa che lui non sapeva. «Ma penso che-», si interruppe, alzò la mano per correggersi, «Noi pensiamo che dovresti avere qualcuno al tuo fianco e abbiamo pensato di fare una...» staccò lo sguardo dal figlio per posarlo su quello della moglie che, a sua volta, lo guardava euforica, «...festa per trovarti una persona speciale che possa rimanerti accanto per sempre e con la quale tu possa creare una famiglia, un giorno».

Venne di nuovo il silenzio, un silenzio fatto di sguardi: Kendall e Namgoo guardavano Seokjin, Jin guardava suo padre, Liz guardava tutti e tre coprendosi la bocca per non scoppiare a ridere, Ruth guardava i suoi pomodori verdi fritti nel piatto.

Kim Seokjin si picchiettò l'interno della guancia con la lingua, confuso: «Mi volete organizzare una specie di ballo delle debuttanti?». I suoi genitori si guardarono per qualche istante poi annuirono sommessamente. «Non avevamo già fatto questo discorso due anni fa?»

Kendall non sembrò perdersi d'animo: «Sì tesoro, ma-»

«Niente ma, sono stato chiarissimo con voi e pensavo di avere il vostro totale supporto.» serrò la mascella, il giovane diciassettenne, leggermente deluso dalla situazione «Anche se non vengo a dirvelo tutti i giorni le cose non sono cambiate, sono ancora gay e non ho intenzione di trovarmi una fidanzata per convenienza».

Il padre scosse il capo: «Lo sappiamo Jin, non abbiamo intenzione di farti fare una cosa tanto orrenda, lo sai». Kim Seokjin non fece neppure in tempo a chiedere spiegazioni, arrabbiarsi o polemizzare semplicemente, perché la famosa cartelletta gialla portata in precedenza – e mai aperta – gli venne fatta scivolare davanti. «Per favore, aprila».

Jin sospirò, ma non disse nulla; si pulì le mani con il tovagliolo di stoffa – sebbene fossero già pulite, più per abitudine che altro – poi sollevò la prima pagina della cartelletta e trattenne il respiro. Liz scoppiò a ridere e si alzò dalla sua sedia all'istante, raggiungendolo e poggiandosi alla sua spalla: «Come sono?» chiese, euforica.

«Ma sono... ragazzi.» sussurrò Seokjin preso in contropiede, sollevando lo sguardo nuovamente sui suoi genitori.

Namgoo annuì contento, sorridendogli: «Ho fatto fare delle ricerche in ufficio e questi sono i tre ragazzi omosessuali più ricchi e promettenti in circolazione».

Seokjin richiuse la bocca – rimasta spalancata per troppo tempo – e tornò a guardare le tre foto sotto il suo naso: «N-non so che dire».

Elizabeth ne indicò uno dei tre: «Questo è il più bello.» ridacchiò allegra poi si girò nuovamente verso il fratello «Li incontrerai vero?»

Jin rimase immobile, lo sguardo scuro sulle foto dei tre sconosciuti, pensando a quello che era appena successo, a ciò che i suoi genitori avevano organizzato, al suo futuro: «Beh,» alzò lo sguardo verso la sorella e le sorrise, tutto d'un tratto di nuovo sereno «Perché no».

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