Martedì 21 giugno
Gabriele mi guarda a bocca aperta. Gliel'ho appena detto, senza tante manfrine: "Sono incinta."
"Ma abbiamo usato sempre il preservativo."
"Una volta no."
"Occazzo. Va beh, ma una volta sola..."
"Sono incinta." ripeto pazientemente. Capisco che è sconvolto, di scemate ne ho pensate parecchie pure io, all'inizio. Gli devo dare tempo.
"Ma sei sicura? A volte i test sbagliano."
"Sono sicura. C'è la righetta. I test sbagliano nel senso che sei incinta, ma ancora non si vede. Se esce positivo è positivo."
"Ma..."
"Ma che? Vuoi sapere se è tuo? È la prossima domanda standard del maschio stronzo medio; le altre le hai già fatte tutte." Eccavolo, adesso il tempo te l'ho dato. Fattene una ragione.
"Scusa. È vero." Sorride e per un attimo mi illudo che sia felice. Che sia un imbecille come me, la mia anima gemella. Ma purtroppo dopo un po' ricomincia: "Comunque bisogna andare dal dottore, per essere proprio sicuri."
Sto per mandarlo a quel paese, ma continua e peggiora la situazione: "E per vedere come si fa."
"Come si fa cosa?" chiedo, torva e minacciosa.
"A fare l'interruzione di gravidanza."
Lo fisso e lo odio, moltissimo. Mi crolla tutto il futuro addosso: è pesante, fa male.
"L'aborto." precisa, come se io fossi sorda o straniera. O cretina.
Respiro, perché sono una brava ragazza e non posso ucciderlo, non subito. "Ma io lo voglio, il bambino."
Mi guarda e forse non capisce: "Come...?" chiede con gli occhi vuoti.
"Non ho intenzione di abortire. Ho deciso che lo faccio, questo bambino."
Continua a tacere, sembra stia per venirgli un colpo.
Io non sopporto le persone flaccide, quelle che non sanno da che parte stare quando è necessario prendere posizione. E così capisco finalmente che uno che ti piace abbastanza, non ti piace abbastanza. Mi alzo e mi allontano, mentre lui continua a emettere silenzi inopportuni e sguardi persi. Io e il piccolo coso invece siamo tosti, e ce ne andiamo per la nostra (tortuosissima) strada.
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