I Senzaluce - parte I
Quella sera il vapore che saltava fuori dai tombini creava un'atmosfera ambigua, insieme alle luci dei semafori che sembravano consigliarmi ad ogni passo di stare attenta. I riflessi delle insegne, che coloravano l'asfalto umido di pioggia, sorvegliavano il mio cammino come guardiani silenziosi. Persino il simpatico barbone, che incrociavo tutti i giorni rannicchiato sui gradini di una vecchia chiesa sconsacrata, all'imbocco della trentaduesima, quella sera indossava le corna da diavoletto. L'aria poi era intrisa di un profumo inconsueto, come di carta bruciata, e l'umidità si raccoglieva in piccoli banchi di nebbia che aleggiavano come spettri sopra l'asfalto. Il freddo era più pungente del solito e il silenzio era decisamente anomalo per una zona tanto trafficata. Ma forse ero io che mi lasciavo suggestionare dalla ricorrenza.
Imboccai la stradina a destra, subito dopo l'isolato che avevo appena superato, il terzo da dove lavoravo. La percorrevo tutti i giorni per rientrare a casa dall'ufficio e, come ogni sera, mi accolse il suo cattivo odore. Era sempre piena di cartoni e immondizia che straripava dai cassonetti.
Una colonia di gatti si contendeva i resti ammuffiti di un sandwich. Anche i loro miagolii irritati facevano halloween. Mi fermai a rimproverarne un paio che quasi venivano agli artigli.
Mi sfregai le mani, avevo le dita congelate; non era neanche novembre e il freddo già picchiava duro.
Un tonfo, come di un chiusino che sbatte sull'asfalto, mi costrinse a voltarmi. Girai appena la testa ma non mi fermai, anzi, accelerai il passo. Poi ci ripensai, forse dovevo controllare se qualcuno mi seguiva, il rumore che avevo sentito poteva essere un avvertimento. Per fortuna la stradina era deserta; eppure ero certa di aver sentito quel tonfo e non doveva provenire da molto lontano.
Le mie gambe cominciarono a divorare metri di strada, forse come non avevano mai fatto.
Alzai il collo della giacca sul viso. I miei occhi, sbarrati e guardinghi, correvano da un punto all'altro del soffice bordo di lana e spesso guardavano anche in alto per assicurarsi che intorno ci fossero solo palazzi e asfalto.
Fu allora che vidi un'ombra sfrecciarmi accanto. O meglio, mi sembrò di vederla. Pensai subito a un grosso cane sfuggito al controllo del padrone e mi fermai di colpo. Schiacciai le spalle contro il muro e mi preparai alla difesa indurendo i muscoli delle braccia.
Dei rumori, che provenivano da un cumulo di cartoni a qualche centinaio di metri da me, attirarono la mia attenzione. Una sagoma scura rovistava china sui rifiuti. I suoi occhi di brace, per una frazione di secondo, scivolarono nella mia direzione.
Il cuore mi saltò nel petto.
Feci un balzo e mi accucciai dietro al cassonetto che avevo davanti.
«Ti prego, ti prego, fa che non mi abbia vista!», biascicai alzando gli occhi al cielo.
Non potevo tornare indietro, la stradina era stretta, lunga quasi un chilometro e senza viuzze laterali, chiunque mi fosse stato davanti mi avrebbe vista fuggire. Dai polizieschi che guardavo spesso in tv, avevo imparato che in casi come quello dovevo limitarmi a trovare un buon nascondiglio e aspettare in silenzio che il losco figuro si allontanasse. Un discreto nascondiglio me l'ero aggiudicato, la sagoma imponente del cassonetto mi copriva perfettamente, dovevo solo starmene zitta, nascosta, e avere pazienza. Mi ripetei più volte che dovevo calmarmi, se quel qualcuno non mi aveva vista, prima o poi se ne sarebbe andato per la sua strada. Ero quasi certa di non aver attirato la sua attenzione, indossavo le mie Nike e il mio passo era impercettibile, al contrario, quel qualcuno vestito di scuro, di fracasso ne faceva eccome rovistando negli scatoloni accatastati. Era halloween, ed erano le otto di sera, probabilmente quel tipo, come molti altri, indossava il suo bravo costume con tanto di led rossi al posto degli occhi e mantello scuro. Doveva essere un uomo, e piuttosto alto a giudicare dalla sagoma imponente. E aveva fretta, si muoveva con una certa frenesia, probabilmente troppa per essere un barbone, di solito i clochard sono meticolosi nelle loro ricerche per non lasciarsi sfuggire tesori. Le luci, che spiccavano sulla sua faccia, risplendevano di un rosso penetrante e si trovavano proprio dove avrebbero dovuto stare gli occhi; incorniciate da quella sagoma scura e informe, fendevano l'oscurità proprio come due laser. Probabilmente quegli occhi rossi servivano a spaventare chiunque lo incrociasse, e la rapidità con la quale si muoveva contribuiva a renderlo un personaggio misterioso. A dirla tutta, avevo osservato quell'uomo per qualche secondo e probabilmente la mia fervida immaginazione aveva lavorato parecchio sulle sue luci rosse, che forse non erano poi così vivide e penetranti, probabilmente la mia fantasia aveva voglia di vivacizzare quell'esperienza per renderla accattivante, per rendere quella sera diversa da tutte le altre, quelle banali, ordinarie, che ero abituata a veder scivolare dentro la mia normalissima esistenza. Probabilmente il tipo che si agitava in mezzo agli scatoloni era solo un burlone che amava prendersi gioco di chi disgraziatamente s'imbatteva in lui; halloween era l'occasione giusta per ridere delle proprie e delle altrui paure. A pensarci bene, non potevo restare nascosta tutta la notte in quel cantuccio umido, scomodo e puzzolente, i miei si sarebbero preoccupati non vedendomi rientrare. E poi anch'io dovevo indossare il mio costume, avevo una festa in programma.
Allungai la testa oltre lo spigolo del cassonetto, giusto quel poco che mi bastava per sbirciare. Il cumulo di cartoni era davanti a me, a un centinaio di metri più o meno, ma la sagoma scura dagli occhi di fuoco era sparita, e senza fare rumore. Eppure ero certa di aver visto qualcuno che rovistava in mezzo agli scatoloni ed ero stata attenta a cogliere anche il più piccolo rumore.
Mi feci coraggio e uscii dal mio nascondiglio. Guardai velocemente davanti a me e intorno a me. Ero prontissima a rientrare nel mio rifugio proprio come un gattino impaurito.
Un solo lampione, dalla luce intermittente, rischiarava a stento la strada; era vicino al cumulo di cartoni e lo lambiva col suo cono di luce. Dovevo passare proprio di là, era una tappa obbligata se volevo tornare a casa.
Tirai un profondo respiro, ingoiai un groppo di saliva e cominciai a camminare. Ogni passo mi avvicinava sempre di più alla collina di cartoni.
Ingoiai di nuovo. I miei occhi frugarono il buio in cerca di movimenti sospetti ‒ il tipo col mantello e gli occhi di brace poteva aspettarmi nascosto fra quegli scatoloni.
Mi avvicinai ancora, sempre con la massima cautela. Senza dubbio davanti a me c'erano degli scatoloni, null'altro che un mucchio di cartoni ammassati. Il tizio, che era lì fino a qualche istante prima, forse aveva perso qualcosa in quel punto preciso della strada, oppure qualcuno doveva aver nascosto sotto i rifiuti qualcosa per lui.
La mia curiosità, indubbiamente malsana, m'impedì di tirar dritto.
Afferrai uno degli scatoloni alla base del mucchio e lo tirai verso di me. Quelli che erano in cima precipitarono intorno alle mie gambe. Ne scagliai via uno, poi un altro e un altro ancora, fino a liberarmi del tutto.
«Cerchi qualcosa, zuccherino?»
Il mio cuore si fermò e anche il mio respiro. Sgranai gli occhi. Le mie mani si pietrificarono all'istante.
C'era qualcuno dietro di me ed io non avevo sentito arrivare nessuno. Stavo perdendo colpi. Che idiota ero stata, e ingenua. Chiunque fosse stato alle mie spalle, adesso mi aveva in pugno, avrebbe potuto puntarmi una pistola alla schiena e togliermi i pochi dollari che avevo senza che battessi ciglio. Avrebbe potuto stordirmi, accoltellarmi, e probabilmente mi sarei meritata quella fine. Avevo agito con troppa leggerezza.
Non risposi. E mi voltai lentamente sperando che il colpo non arrivasse prima di aver guardato in faccia il mio carnefice.
Nella semioscurità individuai un ragazzo piuttosto alto e snello. Aveva il capo coperto dal cappuccio di una felpa scura ed era appoggiato, con disinvoltura, al muro del caseggiato che delimitava la strada. Non sembrava armato, ma poteva esserlo, aveva entrambe le mani infilate nel tascone della felpa. Il suo fisico snello mi fece escludere che fosse il tipo dagli occhi di brace, e lo considerai un buon segno, per quanto buono poteva essere un segno nella notte di halloween.
Tirai un respiro e socchiusi gli occhi, probabilmente il ragazzo non aveva cattive intenzioni.
«Dici a me?» domandai con una certa naturalezza, finta naturalezza.
«Certo. Ci sei solo tu!» sghignazzò lui con arroganza.
«Già, ma, ehm... non credo ti riguardi quello che faccio», ribattei decisa.
Il ragazzo sibilò: «Scommetto di sì, invece».
«Sentiamo, perché ti riguarderebbe?» domandai per prendere tempo, dovevo pensare.
«Comincia piuttosto col dirmi perché rovisti fra quegli scatoloni. C'è qualcosa che t'interessa lì sotto?»
Sbuffai. «È solo robaccia. Sono tue queste scatole?»
«Sei divertente... mm, no, non sono mie. Non fare l'ingenua con me, ti ho vista, sai!? Cercavi qualcosa fra i cartoni come una ladra. Dimmi chi sei, non credo di conoscerti, non frequenti la comunità e chiaramente non sei dei nostri.»
«Comunità? Dei nostri?» Feci spallucce. «Penso tu abbia preso un granchio! Non riesco a vedere il tuo viso, non posso dire se ci conosciamo. Vieni sotto la luce, o hai paura che ti riconosca? Hai forse qualcosa da nascondere? Oh, chiaro, sei un teppistello e hai bisogno di fare il gradasso per dimostrare alla comunità, o meglio la tua banda, che hai le palle?!» Probabilmente stavo tirando troppo la corda, uhm, senza probabilmente, e dopo un po' me ne resi conto, ma non volevo mostrarmi spaventata, non dovevo, o avrebbe preso il sopravvento.
Lui ruggì: «Non è necessario che tu mi veda, fa' poche storie e dimmi che ci fai qui!»
Alzai lo sguardo verso l'alto. «Se vieni alla luce di questo lampione sgangherato sono dispostissima a dirtelo. La tua faccia in cambio del mio segreto.» Bluffai. Non avevo alcuna intenzione di parlargli del tizio con gli occhi di brace, per quanto ne sapevo poteva essere il suo socio in affari.
Ma all'improvviso qualcosa o qualcuno mi travolse. Mi spinse sull'asfalto con una violenza tale che non provai nemmeno a evitare l'impatto. Non servì a molto parare avanti le mani, le mie braccia si piegarono e cedettero come fossero di carta pesta. La tempia e la guancia sbatterono sul selciato, rimbalzarono, e picchiarono di nuovo sul manto di pietrisco durissimo. Persi i sensi.
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