L'ANIMA | DELLE COSE IMPORTANTI (28)



Il Principato di Monaco è un posto dannatamente pacchiano. Quando arriva il Natale, poi, superare i limiti della decenza pare motivo di particolare orgoglio nazionale.

Il caos, le lucine, gli alberi ad ogni angolo, la neve finta - neve finta! - ad addobbare le piazze. Più Max ci passeggia, più pensa che non fosse stato per Susie, mai si sarebbe ritrovato a vivere in un posto del genere.

Pensa anche che forse dovrebbe andarsene.

Che ci sta a fare lui, ancora, in quel posto che non gli appartiene?

Poi però una domanda, conseguente alla precedente, lo colpisce.

Esiste davvero, un posto che gli appartenga?

Max continua a camminare per le strade del centro, con la testa alta e gli occhi bassi, le mani affondate nelle tasche dei pantaloni, e sente come il bisogno di scalciare qualcosa. Ma in quel posto non c'è neanche un maledetto mozzicone di sigaretta, per terra.

L'abitacolo della sua macchia, quello è un posto che gli appartiene. Un posto familiare, costruito per lui e che solo lui comprende. Anzi, si comprendono a vicenda. Dicono della sua monoposto che sia inguidabile da chiunque altro, esattamente come lui è impossibile da decifrare per chiunque abbia un cuore e non un motore. Però insieme, insieme fanno grandi cose.

Quanto è triste, pensare che il proprio posto nel mondo sia una cazzo di macchina?

Ride di quel pensiero, da solo, poi si ricompone stirando leggermente il collo.

Un bambino che gli corre incontro interrompe il flusso dei suoi pensieri.

<<Me lo fai un autografo Max? Sei il mio idolo!>> esclama, facendo una mezza giravolta per mostrargli lo zainetto col numero trentatré appeso alla sua piccola schiena.

<<Scusalo, davvero, ma quando si tratta di te è incontenibile!>> aggiunge una donna, raggiungendoli trafelata.

Max scrolla le spalle, cercando di chiudere il tutto il più frettolosamente possibile.

Si vede che sono turisti. I monegaschi non farebbero mai niente del genere. Ed è forse l'unica cosa che Max Verstappen apprezza di loro.

E' solo un bambino. Per questo, quando la madre li invita a fare una foto insieme, si costringe persino a mettergli una mano sulla spalla.

Jos glie le dava, da piccolo, le pacche sulla spalla. Quando alle gare riusciva a strappare un primo posto.

Cerca di defilarsi il più in fretta possibile, riprendendo a camminare per le vie del Principato, nella speranza di non ricevere ulteriori interruzioni sul suo percorso. Quando sente la stessa domanda di prima tornare a trapanargli il cervello, sposta le mani nelle tasche del giubbotto e tira fuori un paio di auricolari. Li infila nelle orecchie. Spara un po' di musica, provando a rendere più sua quella città.

Tentativo miseramente fallito.

Max è particolarmente irrequieto, quel pomeriggio.

Che poi dall'esterno non si direbbe, ma sente la testa pesante, affollata com'è, e un fastidio alla bocca dello stomaco che non gli permette di respirare come vorrebbe.

Sta peggio, da quando è finita la stagione.

E i festeggiamenti per il campionato a poco sono serviti.

La Dottoressa Iris non fa che ripetergli che le cose si risolveranno, che quando riuscirà a trovare la giusta stabilità potrà persino arrivare ad apprezzare certe cose che mai si sarebbe sognato di voler vivere come una persona qualunque.

Ma Monaco no, Monaco continuerebbe a fargli schifo persino se non avesse una personalità borderline e tendenze depressive. Esattamente come il Natale.

<<Non pensi magari di odiarlo perchè ti fa sentire solo?>> gli aveva chiesto la Dott.ssa Iris nell'ultima seduta.

Max aveva scosso la testa, sottolineandole che no, non era la solitudine il problema. Erano tutte quelle inutili decorazioni, ed il bisogno che la gente provava di dare e ricevere amore, e le orrende carte regalo che riempivano casa sua e nascondevano inutili aggeggi mandati dagli sponsor con altrettanto osceni biglietti prestampati di auguri di buone feste.

Ha sempre sognato di rispondere a tutti quei bigliettini rimandandoli al mittente e scrivendoci un "vaffanculo" in stampatello proprio sopra quelle faccione sorridenti dei Babbi Natale, o tra le corna delle renne e così via.

Lo ferma soltanto l'idea che, probabilmente, il suo Team Principal lo caccerebbe per una cosa del genere, e proprio non può permetterselo di perdere il suo unico posto nel mondo.

La Dott.ssa Iris, comunque, quando le aveva spiegato che la solitudine non c'entrava proprio niente col suo odio nei confronti del Natale, gli aveva rivolto quel sorriso di circostanza che faceva sempre quando Max cercava di farle capire di qualcosa mentre lei era già convinta del contrario.

Non era la prima volta che si trovavano discordi su qualcosa.

Tipo, lei era convinta che l'aver lasciato andare Nina fosse un mero riflesso della sua personalità, un tentativo di difesa, una scissione netta usata per distaccarsi da qualcosa che avrebbe potuto ferirlo.

Max le aveva detto no, che sarebbe stato facile ridurre tutto ad una "scissione", come la chiamava lei. Invece lasciar andare Nina era stato il primo gesto non totalmente egoistico della sua intera vita, la prima cosa che si era imposto di fare per il bene di qualcun altro, per salvare qualcun altro, da sé stesso, e non per sé stesso.

E aveva fatto un male cane.

Però gli aveva fatto qualcosa.

Alla fine Nina ce l'aveva fatta, a fargli provare qualcosa.

Quel dolore l'aveva sentito tutto.

Lo sente ancora ora.

Un dolore fisso, tra la quarta e la sesta costola, lì dove si era conficcato con forza le dita mentre teneva le braccia incrociate sul petto e sentiva lei che bussava disperatamente alla sua porta.

Avrebbe potuto ucciderla.

Lì, nel salone di casa di Susie, nel caos delle cose, avrebbe potuto stringere un po' di più le mani attorno al suo collo e osservare la vita lasciare il suo corpo.

Lei glie l'avrebbe lasciato fare.

Come gli aveva lasciato farle del male.

Perchè lui ne aveva bisogno. Solo per questo.

Quella consapevolezza, più tardi, l'aveva folgorato.

Avrebbe potuto ucciderla e a lei sarebbe piaciuto, perchè la morte sarebbe venuta dalle sue mani.

E a Max della vita in generale importava poco, della propria ancor meno. Aveva scoperto, però, di tenere a quella di Nina.

Di avere bisogno di saperla viva.

Almeno lei.

Realizzare che accanto a lui era geograficamente il posto che più la metteva a rischio, aveva fatto parte di quel male che era finalmente riuscito a sentire.

L'immagine di lei a diciassette anni, con una bottiglia di birra tra le mani, una sigaretta tra le labbra e le gambe incrociate sul muretto di casa di Susie gli torna alla mente, offuscandogli la vista noiosa dei passanti tutt'attorno.

Lo sguardo che gli rivolgeva.

Anche lì, racchiuso in quell'immagine, Max sente di appartenere.

Ed è persino più difficile e triste della storia dell'abitacolo della monoposto, che almeno quello è un luogo. Stretto e sudaticcio e invivibile, ma fisico. Appartenere ad una sensazione, invece, ha un senso?

L'impossibilità del tutto è decisamente coerente con la sua indole.

'Fanculo, pensa, scacciando i pensieri e provando a chiuderli da qualche parte, dentro di lui, dove però non riesce più a stipare le cose come una volta.

Alla fine Max attraversa mezza Monaco, criticando silenziosamente tutte le sue luminarie, evitando lo sguardo di tutti i passanti, e tutto ciò che ci guadagna alla fine sono un mucchio di risposte inutili ad una domanda che lo tormenta da sempre, assieme alla brutta sensazione che lo pervade quando è costretto a stare in mezzo alla gente.

Su questo, però, la Dott.ssa Iris l'ha aiutato.

Non sembrerebbe, perchè prima almeno, ogni tanto, persino lui aveva voglia di buttarsi in mezzo alla calca. Ma dopo gli eventi degli ultimi mesi, era diventato difficile anche il solo pensiero di mettere un piede fuori casa.

Lei sta cercando di aiutarlo a ricordare come si sta al mondo.

E un po' ci sta riuscendo.

Certo, non fosse per la valida motivazione di quel giorno, difficilmente Max sarebbe uscito. Sopratutto a piedi.

Tre mesi.

Tre mesi dalla morte di Susie e un campionato vinto di mezzo.

Tre mesi dalla morte di Susie, che poi non sono altro che un'innumerevole quantità di giorni brutti. Di momenti passati a guardare il soffitto ed altri a spaccare cose. A convivere con quel nuovo dolore nel fianco. Ad odiare, cosa non si sa. Odiare e basta.

Tre mesi dalla morte di Susie e due mesi da quando ha accettato un aiuto dalla persona che meno si sarebbe aspettato.

Tre mesi che non vede Nina e non riesce a non pensare che una parte di lui vorrebbe continuare così, perché non è convinto che riuscirà a sostenere l'idea di doverle dire addio un'altra volta.

E quando si ritrova davanti a casa di Susie, la voglia di andar via è tanto forte da muovergli i piedi per allontanarlo da quel cancello di ferro.

Sei più forte, si dice dopo due passi indietro, autoritario.

Ed è vero.

Alla fine Max, quando decide di fare qualcosa, la fa anche a costo di affogare qualsiasi emozione potrebbe provare a fermarlo. E' così che è diventato sordo alle emozioni. A furia di spegnerle per dimostrare a se stesso, a tutti, di essere più forte di chiunque, persino del proprio ego.

E' che ultimamente non ci riesce più troppo bene e vorrebbe davvero, davvero tornare a quello stato di totale apatia nel quale, alla fine, si trovava a suo agio.

Nina è stata la prima persona per la quale ha messo in dubbio la sanità di quell'indifferenza. A volte, lei gli ha fatto venir voglia di sentire certe cose.

Ma senza Nina attorno, che senso ha rimanere esposto ai sentimenti?

Tutto ciò che sente è dolore e ansia e distanza.

E' lì dentro.

Il pensiero lo colpisce, scuotendolo.

Guarda la casa oltre il cancello, la casa che è stata spenta per mesi e che ora sta tornando alla vita.

Nina è lì dentro e lui è lì fuori.

Sono tre mesi che non sono così vicini.

E lui lo sa, quanto lei lo sta aspettando.

Perchè è Nina.

Perchè Nina lo aspetterà sempre, fosse pure per star zitta e lanciargli uno di quei suoi sguardi ammonitori, o per sorridergli in mezzo alla folla. Per provare a farlo, inconsciamente, sentire parte di qualcosa.

Quanto c'ha provato, Nina, a farglielo percepire quel senso di appartenenza.

Appartenere a lei, al suo mondo, ai suoi amici.

Quanto c'ha provato, Max, a respingerla.

Se fosse stata un po' più razionale, un po' più come lui, avrebbe capito perchè.

Vede qualcuno appoggiarsi alla finestra con un calice  stretto tra le mani, oltre le tende chiuse. Quando si mette di profilo, riconosce la solita acconciatura di Cook, le linee androgine del suo viso.

Istintivamente distoglie lo sguardo. Fa un altro passo indietro.

Quando entrerà, se lo farà, dovrà avere a che fare con lui. E tutti gli altri presenti. Tutta quella massa di gente sconosciuta della quale a lui non importa proprio niente, così come lui non importa a loro.

Allora fa un passo al lato un po' più deciso di prima, che tanto a lui non frega niente e a loro neanche e Susie è morta.

A Nina frega, però.

Scrolla le spalle, come a volersi rispondere da solo, poi riprende a camminare sulla strada come se non avesse mai raggiunto la su meta.

Non sarebbe certo la prima volta che la delude. Forse l'ha delusa così tanto che in realtà non è vero che lei si aspetta di vederlo. Ha persino mandato l'invito per quella festicciola tramite Serge, senza degnarsi di scrivergli.

Magari sta tanto bene in Italia, nella sua nuova vita, che ha finalmente capito quanto può star meglio senza di lui. Il che non lo rende mica poi così contento, anzi. E' arrivato alla consapevolezza di volerla sana e salva da qualche parte, lontana da lui. E l'ha lasciata andare per questo. Ma ad essere contento di saperla felice da qualche altra parte, a saperla più felice di come sembrava felice di stare con lui, a questo non è ancora arrivato. Col cazzo. Il solo pensiero gli fa venir voglia di mangiarsi le mani, gli riempie la bocca di amaro, del sapore di qualcosa che sarebbe stato facile avere.

Sarebbe stato.

E quando Max pensa a cosa avrebbe voluto avere con Nina, non pensa alla voglia di avere qualcuno accanto, di non sentirsi solo. Non pensa alla voglia di baciarla, di scoparla, di percepire la pelle di lei contro la propria. E forse dovrebbe farlo, ma non pensa neanche alle grida, alle litigate, a quel senso di distruzione che li accomuna più di quanto si sarebbero aspettati.

Pensa al conforto.

A quella cosa che gli rimaneva dentro mentre stava steso su di lei dopo due orgasmi, tutti bagnati e incastrati, con le dita di lei a disegnargli forme sulla schiena.

A come, per pochi momenti, la sua testa si spegneva e rimaneva solo il battito del cuore di Nina che gli rimbombava nelle orecchie e, oltre quello, il silenzio.

Come quando sta per scattare l'ultimo semaforo alla partenza.

Quell'unico, silenzioso, momento prima del caos, dove tutto torna a posto prima della guerra.

Quel momento in cui Max è calmo, tra un inferno e l'altro.

Camminando a passo deciso, Max supera casa di Susie, la vecchia casa abbandonata ed arriva persino alla fine della strada residenziale, trovandosi di fronte al bivio che scende verso Monaco Ville o sale sino a ricongiungersi con altrettante stradine composte di villette a schiera. Si ferma per decidere la sua destinazione.

Perchè non l'ha visto? non riesce ad evitare di chiedersi.

Lei lo vede sempre, perchè non sta volta?

Perchè non poteva esserci Nina alla finestra al posto di Cook, intenta a guardare fuori, ad aspettarlo?

Se l'avesse visto, gli avrebbe sorriso. Sarebbe uscita e con il solito entusiasmo l'avrebbe convinto ad entrare in casa. Gli avrebbe tolto il peso della scelta.

E' lei che lo trascina nella vita, che gli rende le cose facili, che gli sta accanto per farlo sentire meno inadeguato.

A pensarci, Nina ha cercato di insegnargli come stare al mondo da molto prima che arrivasse la Dott.ssa Iris.

E' Max a non essere particolarmente portato per la materia.

Susie avrebbe saputo dirgli cosa fare.

Susie sapeva sempre cos'era meglio per lui.

Divertente, come Max avesse bisogno di lei per capire se andare o meno ad una festicciola in sua memoria.

Si sente nervoso, ora.

Sente dolore al lato del petto, tra le costole.

Sente una rabbia che non ha bisogno di spiegarsi.

Odia l'idea di essere lì, esposto, al centro della strada, mentre aleggiano nell'aria le note di una stupida canzone natalizia e la vita gli scorre attorno e lui non sa come viverla.

Torna sui suoi passi, cercando di nascondere la coda tra le gambe dietro la schiena dritta e una faccia di bronzo, anche se non c'è nessuno per strada a godere di quella messinscena. Torna a casa di Susie e ci si ferma di nuovo davanti. Non c'è più nessuno oltre
la finestrella che dà sulla strada, ma sente delle voci in giardino.

Affacciati, si ritrova a pensare. Guardami.

Ombre passeggiano dietro le tende, ma mai abbastanza perchè Max possa riconoscerne qualcuna.

'fanculo, si dice, consapevole delle bassissime probabilità per cui proprio Nina dovrebbe apparire dietro quella finestra e notarlo. Così si decide a fare il giro esterno della villa, fino a raggiungere il cancelletto sul giardino posteriore. Lo spinge leggermente e quanto basta per permettergli di passare oltre, si avventura per il prato ora curato e illuminato dalle luci calde dell'interno della casa, che passano filtrate dalle grandi vetrate del salone.

Ci si avvicina, ma mai troppo.

Rimane lì, in mezzo al prato, a pochi passi dalla piscina. Rimane al freddo, mentre tutti all'interno hanno l'aria di godersi l'accoglienza della casa messa a nuovo. Ridono tra loro e parlano e sorseggiano da bicchieri colorati. Max si chiede in quanti dei loro discorsi ci sia Susie.

Riconosce le facce di tutti. Gli amici di vecchia data, i parenti, le compagnie estive.

A tenere banco, come una star, c'è Cook con un braccio gettato sulle spalle di Jerry. Vede Kevin approcciarsi a loro, con una ragazza sconosciuta al fianco. Trova la folta chioma di capelli rossi di Benny vicino al tavolo del buffet, intenta a guardare Serge con gli occhi spalancati e quest'ultimo tutto preso a sorriderle.  La mamma di Susie è impegnata con il refill delle bevande.

E lui è lì fuori.

Sente i rumori della festa ovattati, lontani, come i ricordi di una vita passata con quelle stesse persone, che però non ha mai voluto attorno. Che non ha mai lasciato avvicinare. Perché avrebbe dovuto? Per trovare la loro compagnia come magra consolazione di una perdita devastante?

Funziona davvero così?

O meglio, funziona?

Continua a cercare Nina con lo sguardo, affondando sempre più i pugni chiusi nelle tasche del giubbotto.

Un pensiero gli balena nel cervello.

Susie avrebbe amato, quella rimpatriata.

Max lo sa con la stessa certezza con la quale sa che, in circostanze normali, lui non ci sarebbe andato.

Si sarebbe messa il vestito più luminoso, con i lunghi capelli biondi di un tempo lasciati sciolti sulle spalle, e se ne sarebbe andata in giro tra gli invitati, ridendogli nell'orecchio, trascinandoli a ballare.

Viveva per quelle stupide feste. Per vedere casa sua piena di gente, per vederli divertirsi. Viveva dell'idea di entrare nei suoi bei vestiti e saltare su tacchi improbabili per tutta la notte, fino a ritrovarsi al mattino con i piedi gonfi e rossi e le scarpe gettate in qualche angolo remoto della casa.

Viveva, e non vive più.

E sembra rendersene conto solo lui, mentre tutti gli altri ridono.

Poi però vede anche Nina ridere, e improvvisamente non gli sembra più sbagliato.

A separarli ci sono metri di giardino e persone e un'intera, massiccia, vetrata, eppure qualcosa già cambia.

Max sente il suo calore.

Un poco, sul fianco, lo aiuta a lenire il dolore che da quel pomeriggio di tre mesi fa in cui si è costretto a non aprirle la porta non l'ha mai lasciato.

Guardami, pensa ossessivamente. Guardami.

Però Nina non getta mai lo sguardo sul giardino.

Viene rubata dalla gente accanto alla quale passa e lei, contenta, saltella col vestitino di velluto rosso tra loro. Ha i capelli più corti rispetto all'ultimo periodo, la frangetta folta e ordinata, ed è più magra.

Max vorrebbe semplicemente osservandola capire cosa deve aver passato in questi mesi, ma lui quel potere non ce l'ha. Quella è più una roba da Nina. Tutto ciò che riesce a vedere è il modo in cui scorre quel piccolo frammento della vita di lei, come fosse dentro un acquario. In uno spazio sicuro, di comfort, separata da lui, protetta da lui.

E forse è così che deve andare.

Allora Max si prende giusto un ultimo momento, le dà un'ultima chance di girarsi, di scoprirlo lì.

Sente la mancanza della persona che era, quel ragazzino che si buttava in qualsiasi cosa senza pensarci, senza calcolare le conseguenze, tanto su di lui non avevano effetto. Niente aveva effetto. Ora è diverso.

Maledizione, sono qui, trovami.

Si gira di scatto, costringendosi a tenere un passo normale mentre invece vorrebbe scappare.

Attraversa il giardino piantando i piedi nel prato, si allunga verso il cancelletto e questa volta lo apre con forza.

<<Vieni dentro, fa freddo>>

Rimane fermo con la mano ancorata alle sbarre di metallo, gelide.

<<Lo sai che odio le feste>> risponde, prendendosi il suo tempo per girarsi.

Quando lo fa, trova Nina affacciata dalla porta sulla veranda, con mezzo busto allungato fuori e il resto del corpo dentro. 

Che gli sorride.

E lo guarda, come solo Nina l'ha mai guardato.

<<Lo so>> afferma <<Ma questa è importante>>

Max schiocca la lingua contro il palato.

<<Importante per chi?>> chiede.

<<Per Susie>> dice Nina, convinta <<Per me, e per te>>.

<<L'ultima volta che siamo stati qui insieme, avrei potuto ammazzarti>>

<<Avresti voluto?>>

Scuote la testa.

<<No>>

Ed è la cosa più vera che abbia mai detto.

La sola idea di poterle fare del male, e di quello che le ha fatto, ora, gli fa venire la nausea.

<<Allora non lo farai neanche sta volta, con tutta questa gente attorno poi>>

Max fa una smorfia che fa ridere Nina.

Per qualche motivo, quel suono si trasforma nelle sue orecchie come un mi sei mancato.

E lo fa sentire bene. No, non bene, meglio.

<<Non stavo bene per niente>> le dice, d'istinto, facendo dondolare il cancello che stringe ancora tra le mani.

<<E ora stai bene?>> gli domanda lei, con la voce morbida.

<<No, ma almeno lo so>>

Rimangono per qualche attimo a guardarsi, con i rumori della festa che arrivano ovattati e non riescono a riempire lo spazio aperto che intercorre tra loro.

<<Tu stai bene?>> si ritrova a chiedere Max.

Suona così strano che la sua voce non gli sembra neanche più la sua e persino Nina si ritrova ad aggrottare le sopracciglia, in un'espressione buffa.

Probabilmente non glie l'ha mai chiesta una cosa del genere in tutta la sua vita.

<<Ci provo>> risponde Nina, superando l'iniziale imbarazzo. <<Sto in Italia, lo sai? Sì, penso tu lo sappia>> La ragazza scosta la porta ed esce sul patio, ma deve ricredersi dopo pochi attimi perchè una folata di vento gelido le fa tremare le braccia sottili, avvolte soltanto dal tessuto rosso del vestito. E' il turno di Max per fare una faccia sorpresa. Certo che lo sa che è andata in Italia. <<Dai, aspetta un minuto qui fuori. Vado a prendere il cappotto e due calici di vino e andiamo sul nostro muretto a fare due chiacchiere>>

<<Io vado, tu torna alla tua festa>> afferma lui.

Sarà difficile già così.

La bocca di Nina si schiude leggermente , formando una piccola "o".

<<Lo sai che preferisco te, alle feste>> gli risponde.

<<Non questa volta>>

Torna per un momento il silenzio. Max sa che dovrebbe andare, Nina sa che non dovrebbe trattenerlo. La strada fredda e buia e solitaria sta chiamando lui, la festa alle sue spalle chiama lei. Però le cose sospese sono sempre stato il loro forte, ed è difficile tornare alle proprie vite, rinunciandoci.

<<Sto vedendo qualcuno>> dice allora Max, rendendosi poi conto di come gli sia uscita male la frase.

<<Ecco, magari avrei preferito non saperlo questo>> controbatte infatti lei, fingendo una risatina forzata.

<<No, nel senso, vedo qualcuno per farmi dare una mano. A sentirmi meglio>> si spiega.

<<Anche io>>

<<E' stata Benny a convincermi>>

<<Raccontami questa storia>>

<<Sono sicuro che sarà più che felice di raccontartela lei>>

<<Tu e Benny... amici?>>

<<Ci tolleriamo>>

Hanno imparato, a tollerarsi. Per Serge. Ora Max è quasi convinto che un po' lei abbia cambiato idea su di lui.

<<Sono felice per il tuo campionato>> esclama Nina, gettando le parole una dietro l'altra, come si fosse ricordata solo in quel momento di qualcosa che avrebbe voluto dirgli da tempo.

Max scrolla le spalle.

<<Avrei voluto esserci>>

<<E' stato meglio così>> mormora, prima di prendere davvero la decisione di andar via. <<Ciao Nena>>

Avrebbe voluto evitare il soprannome, ma gli sfugge. Forse perchè, un po', gli mancava pronunciarlo.

Si gira e lascia scivolare via le dita dalle sbarre del cancello.

I passi di Nina li sente subito, ancor prima che arrivi il suono della porta della veranda che sbatte quando non trova più niente a tenerla aperta.

E altrettanto immediatamente percepisce la sua presenza alle sue spalle.

Imponente, nella sua fragilità.

Importante.

Prende un grosso respiro prima di girarsi e lei è lì che lo aspetta, tremante.

Nina allunga d'istinto una mano verso la sua guancia. Gli lascia una carezza. Come quella che lui aveva provato a farle, in una notte che sembra appartenere ad un'altra vita.

Si chiede se le sue mani, ora, sarebbero più capaci di prima di darle affetto.

Ma non lo scoprirà quel giorno di certo.

<<Grazie per essere venuto>> sussurra, soffiando le parole sul suo viso. <<Ci tenevo>>

La mano che gli accarezza la guancia è gelida, ma gli occhi di Nina sono accesi, carichi di tutte le cose che non possono dirsi.

Max si concede di perdersi, per un attimo, in quel gesto.

Ora che lo sente, ora che non riesce ad impedirsi di percepirne la potenza, non vorrebbe fare altro che stare lì, al freddo, a lasciarsi andare.

<<Quando ne sarò capace>>> le dice, piegando leggermente la testa in avanti, fino a sfiorare con la fronte la frangetta di lei. Poi stringe la mascella e si tira indietro. <<Sarai la prima persona alla quale chiederò scusa. E dirò grazie. Quando ne sarò capace...>>

Lascia cadere la frase, per non sbarrare la strada a quella promessa.

Quando ne sarà capace, si vedrà.

E' certo però che se c'è una parte di lui che saprebbe vivere senza rabbia, senza vuoto, una parte di lui che saprebbe come fare una carezza, che saprebbe quando chiedere scusa, e come dire grazie, lei merita di averla.

E per la prima volta, fare una promessa del genere non gli costa.

Per ora però, è giusto andar via.

Lo fa senza pensarci due volte, lasciando cadere la mano di Nina nel vuoto.

Lei non glie lo impedisce, non questa volta.

Anche lei, infondo, ha bisogno di guarire.

Ora lo sa. Lo sanno.

Si lascia alle spalle casa di Susie e riprende a camminare verso una nuova meta.

Il telefono nella tasca dei pantaloni comincia a squillare dopo poco.

<<Che c'è?>> domanda, portandoselo all'orecchio.

<<Vi ho visti parlare>> esclama Benny, con un tono frettoloso <<Come è andata?>>

<<Ma chiedilo a Nina, da quando sono io la tua amichetta?>> sbotta lui, senza davvero un particolare fastidio. Solo per il gusto di farlo.

<<Andiamo, volevo solo sapere come stavi>> rilancia lei.

<<Piuttosto>> devia il discorso, passando a togliersi un dubbio <<Mi chiedevo, Nina ha mai capito che sono stato io a prenderglielo, il biglietto per Firenze?>>

<<Mettiamola così, quando l'ha visto ha creduto che glie l'avessi comprato io>> risponde Benny, con un tono mezzo divertito <<E io non ho voluto contraddirla>>

<<Immaginavo>> afferma lui, ripensando alla conversazione di prima.

<<Dovresti dirglielo, che glie l'hai fatto trovare tu. Che non è stata lei ad abbandonarti, ma tu a lasciarla andare>>

<<Nah, va bene così>> controbatte <<Magari aveva proprio bisogno di questo>>

Max rimane con il telefono attaccato all'orecchio anche se Benny sembra essersi ammutolita.

Attraversa la strada lontano dalle strisce per arrivare prima al cancello dall'altra parte, poi supera la solita bancarella del fioraio all'ingresso.

<<Posso chiederti una cosa?>> domanda la ragazza.

<<Posso chiuderti il telefono in faccia, rossa?>>

Benny, anziché prendersela, ride.

Ci sta davvero provando, ad essergli amica.

<<Eri davvero innamorato di Susie?>>

La domanda non lo sorprende più di tanto. Non quel giorno.

Però gli tira comunque uno sbuffo.

Alla fine smette di camminare e si prende un momento per pensare.

Anche su questo, Nina è stata l'unica a fargli dubitare di ciò che provava. Anche su questo, non ha una risposta.

Ma crede di essere giunto a capire che, per certe domande, una risposta non c'è.

Rimane solo una sensazione.

<<Sapeva di casa>> afferma, prima di chiudere il telefono e ricacciarselo nei pantaloni.

Nei suoi ricordi, sa ancora di casa.

Una casa alla quale apparteneva e ora non può appartenere più.

Una casa che ora non è altro che una lastra di marmo in un cimitero, davanti alla quale si lascia cadere per terra, scomposto.

A volte fissa le lettere del nome di Susie incise e pensa che vorrebbe parlarle, ma lui sarà pure matto, sì, però non fino a mettersi a chiacchierare coi morti.

Vorrebbe solo che lei sapesse che lui starà bene. E che Nina stata bene. Che ad un certo punto, anche se non quel giorno, o non quello successivo, staranno tutti bene.

Ma, ancora, lui non ci crede a quelle stronzate nelle quali credeva lei.

Però gli piace starsene lì seduto, ogni tanto, a pensare alle cose che vorrebbe dirle. A incazzarsi perché lei non può sentirlo.

Anche a lei, lui, apparteneva.

In un modo che non ha più bisogno di spiegarsi, che tanto Susie non c'è più. Perché porsi il problema.

Sicuramente ci sono tante persone che appartengono a tanti luoghi, momenti, amici, familiari.

Max, invece, può contarli sulle dita.

L'abitacolo della sua macchina.

La sensazione di quando sta con Nina.

La familiarità che un tempo aveva con Susie.

Se stesso.

E in quel momento, decide finalmente che gli va bene così.
Infondo, ora appartiene anche all'aspettativa racchiusa in una promessa.

Quando ne sarò capace.

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