Capitolo 36.

Erano giorni che mi sentivo strana e mai piena di energie. Mi era diventato difficile anche prepararmi la colazione senza distruggere una tazza o un piatto.
Kelly e mio padre si presero due settimane in più staccandosi dal lavoro, avevano detto che ne avevano bisogno ma sapevo che in realtà la loro decisione era quella di far durare più tempo la nostra vacanza in montagna.

«Sei sicura di star bene tesoro?» mi chiese per l'ennesima volta Kelly mentre mi preparava una camomilla. Tenevo i gomiti posati sul tavolo e la testa fra le mani cercando di far passar quel dannato mal di testa che non mi aveva dato tregua per tutta la notte.
Mugolai come ad affermare ma Kelly non ne sembrò affatto convinta, per questo mi lanciò un'occhiataccia di disaccordo.

Un altro cambiamento di quei giorni fu il ritorno di mio fratello e per chi non lo conosceva bene, poteva sembrare il solito vecchio Kayl ma per me che, lo conoscevo più di me stessa, si vedeva lontano un chilometro che era cambiato e a farglielo notare ci si mise anche nostro padre.
Ero triste, arrabbiata, sollevata e felice allo stesso tempo. Triste ed arrabbiata perché non si era neanche degnato di rispondere al mio messaggio ma si limitò a presentarsi due giorni dopo comportandosi come se io non ci fossi, non accennò ad un saluto, ne a chiedermi spiegazioni per il messaggio e non ci scambiammo neanche una stupida parola. Allo stesso tempo però ero felice e sollevata di rivederlo a casa, tutto intero almeno.

«Perché non vai a riposarti un po'?» mio padre fece il suo ingresso in cucina e solo il suono della voce mi provocava fitte insopportabili alla testa.
Strizzai gli occhi cercando di tenere a bada il dolore ma li riaprii subito dopo quando percepii una mano poggiarsi sulla mia fronte.

Kayl corrucciò lo sguardo, fece incrociare i nostri occhi così uguali per pochi secondi e infine si girò dandomi le spalle.
«Scotta, avrà sicuramente la febbre» quelle parole erano così fredde e così distaccate che se non avessi visto la sua bocca aprirsi e chiudersi e le sue labbra muoversi, avrei fatto fatica a credere che fosse stato proprio lui a parlare.

«Dovremo annullare la partenza, non mi sembra il caso di partire senza Abby»
«No» esclamai. Se c'era una cosa positiva in tutto quello, era sicuramente avere una valida scusa per non partire.
«Non potete rinunciare alla vacanza a causa mia.»
«Non possiamo lasciarti da sola»
«C'è Clara e sai com'è sua madre, si prenderà cura di me»
Si susseguirono diversi scambi di sguardi tra mio padre e Kelly e nel frattempo speravo e pregavo che le mie parole bastassero per convincerli a partire senza di me. Infine lo sguardo di mio padre si posò su di me e ci misi tutta la mia buona volontà per nascondere il mio stato malaticcio e rassicurarlo.
«Promettimi che chiamerai»
Annuii energicamente, aspettando ancora l'esito finale che non tardò ad arrivare.
«Va bene»
Quelle due parole avevano fatto scoppiare una festa all'interno il mio corpo, con tanto di spumante, festoni e la canzone messicana Cielito Lindo in sottofondo.

«Non possiamo lasciarla sola in queste condizioni» a spegnere la musica e distruggere i miei sogni di passare una vacanza spettacolare, fu proprio Kayl.
«È abbastanza grande per prendersi cura di se stessa, non credi?»
«Se gliel'ho chiesto è perché posso e so occuparmi di me stessa» marcai bene le due parole «Non mi hai parlato per tutto il tempo ed ora ti metti a fare storie solo perché rimarrò a casa?» continuai, non facendo caso al mal di testa persistente.

Dato che non ricevetti una risposta, uscii soddisfatta dalla stanza andando nel bagno della mia camera da letto.
Frugai nell'armadietto sotto il lavabo, cercando qualcosa che mi avesse permesso di farmi passare quel dolore ricorrente.
Trovai una scatola di antidolorifici da cui estrassi due pastiglie. Le mandai giù aiutandomi con un po' d'acqua.

Il resto della mattinata la passai a letto, anche se mi fu difficile chiudere gli occhi per via di tutti i rumori che provenivano dal piano inferiore.
Mio padre e Kelly avevano deciso di partire quello stesso pomeriggio e stavano sistemando le ultime cose passando da una stanza all'altra senza darmi tregua.

Dopo pranzo caricarono le valigie nel portabagagli dell'auto di mio padre e qualche ora dopo partirono inondandomi di raccomandazioni e avvertimenti come se fossi una bambina di cinque anni.

Grazie a quegli antidolorifici il mal di testa si era placato e la febbre era scesa notevolmente anche se non era ancora scomparsa del tutto.

Decisi di chiamare Clara per chiederle di passare ma a rispondermi dopo numerosi squilli a vuoto, fu la sua voce registrata:
"Mi dispiace non posso rispondere, richiamami più tardi oppure lasciami un messaggio in segreteria, anche se sicuramente non lo ascolterò. Ciao"
Provai più volte sempre con scarsi risultati.
Poco dopo mi arrivò un messaggio e fui sollevata di "sentirla".
"Ho saputo che hai l'influenza e in questo momento vorrei essere lì con te e riempirti di storie fino alla nausea, ma ho avuto un contrattempo e non posso proprio raggiungerti in alcun modo. Domani mattina passerò con due brioche fumanti per farmi perdonare. Mi dispiace cuore <3"

Le risposi che non si doveva preoccupare e che mi avrebbe dovuto portare tre brioche, due al cioccolato e una semplice per farsi perdonare. Però non ricevetti risposta e passai due ore intere a guardare uno stupido programma di cucina.

Il cellulare squillò e rimasi sorpresa a leggere il nome per ben due squilli prima di accettare la chiamata.
"JONATHAN MATHISON." Quelle due parole illuminavano lo schermo a caratteri cubitali e il punto finale non faceva altro che precisarle.
«Come mai mi hai chiamato?»
«Ciao anche a te Abby, come stai? Ah, io tutto bene e tu?»
«Bene» mentii.
«Cosa farai questa sera?»
«Niente»
«Io avevo pensato di portarti in un posto»
«Non te l'ho chiesto e inoltre non voglio andare da nessuna parte» tutta l'irritazione che stavo provando, venne a galla e un po' mi dispiaceva comportarmi con lui in quel modo. Avevo bisogno di sfogarmi con qualcuno...
«Dato che tu non ti impegni ad avere una conversazione con me, ci penso da solo a farmi le domande»
Sbuffai.
«Sul serio Abby, cosa c'è che non va?»
«Ho la febbre e la mia famiglia è partita, lasciandomi a casa da sola. Clara ha avuto un contrattempo e quindi passerà a casa mia solo domani mattina»
Si seguirono attimi di silenzio e dall'altra parte sentii solo il rumore di un auto che passava.
«Sei ancora lì?»
«Sto congelando»
«Entra in casa allora»
«Se solo tu mi aprissi, non rischierei di morire congelato» esordì facendomi ridere.

Aprii la porta di casa facendo entrare una ventata di aria fredda. Sulla porta c'era Jonathan con ancora in mano il cellulare sulla nostra chiamata che cercava in tutti i modi di riscaldarsi con la stoffa del suo giaccone invernale nero.
Gli lasciai spazio per farlo passare,
invitandolo con un cenno di mano.
Sospirò sollevato per il tepore della casa che forse era leggermente esagerato. Presa da un attacco di freddo per colpa della mia influenza, avevo alzato il riscaldamento al massimo e non mi stupì vederlo sventolarsi una mano sul viso.

Passai il mio sguardo lungo tutto il suo corpo studiandolo nei minimi dettagli.
La felpa rossa con uno stemma nero nascondeva i lineamenti del suo corpo, facendolo apparire più robusto e imponente di come lo era in realtà. Mi immaginai indossare quella felpa mentre lui mi cingeva fra le sue braccia, magari a baciarsi o semplicemente a stuzzicarci a vicenda. Immaginai le sue labbra sulle mie, il sapore della cicca alla menta che stava masticando fino a poco prima e ancora le sue mani sul mio corpo. Era incredibile l'effetto che mi faceva e non solo a livello fisico, perché diciamocelo, come facevo a resistere con un ragazzo così a pochi passi da me.
Inghiottii a vuoto, scacciando quelle voglie irrefrenabili. «Da quanto eri qui fuori?»
«Quando ti ho chiamata ero già qui fuori, avevo veramente intenzione di portarti in un posto.»
Mi ricordai quando mi disse che avrebbe voluto portarmi a vedere il tramonto e vista l'ora immaginai che il suo piano era proprio quello.
«Non serve andare lontano» non capì cosa intendevo così lo presi per il polso per portarlo nella mia stanza «Vieni con me»
Aprii la finestra della mia stanza facendo entrare la luce del sole tiepido insieme al freddo invernale.
Jonathan si preoccupò immediatamente di darmi la sua felpa e fui estasiata a vedere parte dei miei pensieri poco casti realizzarsi.
«Grazie» il profumo da uomo che usava, mi entrò nelle narici e per poco non mugolai per la famigliarità di esso. Era sicuramente diventato il mio profumo preferito ed era una nota inconfondibile appartenente a Jonathan.

Era l'ora esatta per vedere il tramonto e anche se non era bello è spettacolare come quelli estivi sulla spiaggia, aveva comunque il suo fascino e quel qualcosa che mi faceva incantare.

Era la prima volta che vedevo un tramonto con una persona che non fosse mia madre o mio fratello ed era strano per me. Stavo condividendo con qualcuno di diverso una cosa che amavo, che aveva caratterizzato parte dei momenti felici del mio passato.
«È bellissimo» sussurrai come se potessi rovinare quell'atmosfera magica creatasi.
Il sole mano a mano iniziava a scomparire tra i palazzi fino a lasciare posto a un piccolo spicchio di luna.

«Allora cosa si prova?» gli chiesi facendo riferimento alla scorsa sera passata insieme.
«Ancora non l'ho capito» guardai le mie mani poste sul bordo del davanzale, «Spero che si tratti almeno di una sensazione positiva»
Pose una mano dietro i miei capelli avvolgendomi la vita con il braccio libero.
Ed eccola lì, la sensazione che aspettavo.
«Estremamente positiva» sussurrò scoccando un bacio sulle mie labbra.
Spostai le mani sulle sue spalle e mi allungai in avanti per avere un po' di più quelle labbra.
Non ne avrei avuto mai abbastanza.

Lo feci indietreggiare fino a raggiungere il letto con l'unico scopo di continuare ciò che ormai avevamo iniziato. Si sdraiò sul materasso senza mai staccarsi dalla mia bocca, trascinandomi con se. Puntai le ginocchia sul materasso facendo combaciare il mio seno al suo petto.
Spostai le labbra lungo la mascella fino ad arrivare sul collo su cui lasciai tiepidi baci. Gemette a denti stretti cercando di trattenersi e questo mi fece venire da ridere. Mi piaceva l'effetto che riuscivo a fargli ed era la prima volta che mi capitava. Con James era tutto diverso, lui dirigeva i giochi ed era lui a fare la prima mossa su ogni cosa. Mi vedeva come una ragazza delicata, da trattare con cura per non rischiare che mi rompessi. Jonathan invece mi faceva sentire forte e mi trattava come una vera donna, non aveva paura di agire e mi lasciava torturarlo rispettando i miei tempi.

«Ora è il mio turno» capovolse la situazione facendomi finire con la schiena sul materasso. Portai le mani dietro la sua nuca prendendo qualche ciocca di capelli tra le dita. Iniziò a baciarmi sul collo provocandomi una scarica ogni volta che le sue labbra si posavano sulla mia pelle.
A quel punto spostai le mani sotto la maglietta tastando il suo corpo caldo e perfetto. Come se avesse letto nei miei pensieri si levò la maglietta e tornò a torturarmi il lobo dell'orecchio.
Mi lasciai sfuggire qualche verso di piacere  che cercavo di trattenere serrando la mascella.
Chi avrebbe mai pensato che la mia influenza mi avrebbe portato a tutto quello.
«Ti attaccherò la febbre» sussurrai con il respiro irregolare.
«Ne varrà la pena dopo tutto questo»

Ci lasciammo altri baci a fior di labbra, esausti ma ancora vogliosi l'uno dell'altra, per poi trovarsi avvinghiati a riprenderci da tutto quello che era appena accaduto.
Poggiai la testa sul suo petto mentre lui muoveva i suoi polpastrelli sul mio collo con movimenti dolci. A causa della finestra rimasta aperta, i rumori provenienti dall'esterno risuonavano più forti, disturbando il silenzio che si era creato nella stanza.
«Cosa vuoi fare?»
Mi feci spazio tra le sue braccia spingendomi leggermente in avanti per baciare di nuovo le sue labbra rosse e carnose. «Ti basta come risposta?» sorrise divertito lasciandomene un altro di rimando. «Se ricominciassimo non so se riuscirei a controllarmi» ed io non volevo che si controllasse, ne ero sicura. Volevo che facesse con me tutto ciò che gli passasse per la testa senza freni, senza aver paura di un mio rifiuto. Ma questo lo tenni per me e mi morsi le labbra pur di resistere all' impulso.
L'attenzione fu distratta dal suo stomaco che si mise a brontolare sotto di me.
«Ti va di ordinare una pizza?»
«Si, sto morendo di fame» acconsentì.

Ordinammo una normale pizza con pomodoro, mozzarella e, sotto preghiera di Jonathan, aggiungemmo anche il salame piccante.
Mentre attendemmo l'arrivo della pizza, preparammo il salotto per una maratona di serie tv, con patatine, Coca-Cola e una lattina di birra per Jonathan.
Iniziammo a vedere il primo episodio di Dexter dopo le mie continue insistenze. In fin dei conti lui aveva scelto la pizza e a me, di diritto, spettava la scelta del programma.
Dexter era una serie tv poliziesca e thriller che narrava di quest'uomo della polizia di Miami che di notte si trasformava in un vero e proprio serial killer per uccidere tutti  i criminali sfuggiti alla giustizia.
A metà del primo episodio, il ragazzo delle consegne suonò alla porta e, una volta presi i soldi, se ne andò augurandoci buona serata.

Di tanto in tanto mi facevo scappare qualche commento provocando le risatine di Jonathan.
«Ecco lo sapevo» tuonai facendo ridere ancora di più Jonathan.
«Che c'è da ridere?»
«Stai parlando con un televisore, credo che sia una valida motivazione per ridere»
«Ah davvero?» incrociai le braccia al petto «Tu non parli alla tv quando ci sono le partite di football?»
«Touché»
Continuammo a guardare la televisione fino a quando, a metà del quarto episodio, mi addormentai cullata tra le braccia di Jonathan.
«Buonanotte» sentii sussurrare e in seguito una leggere pressione sulla testa, prima di cadere completamente in un sonno profondo.

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