7) Rododendro cacciatore di nani
Sentivo le voci, sussurri che mi lasciavo alle spalle
«Lui viene dal sud.» bisbigliava la gente attorno a me «Dicono sia stato esorcizzato da un santo.» sibilavano «Che abbia sconfitto un drago. Che si chiami Rododendro e ora sia a caccia di nani.»
Mi fermai e mi voltai, chiunque avesse parlato ora guardava per aria e fischiettava.
«A caccia?» domandai a nessuno.
«Dicono paghi per trovarli, insegua la gente e la torturi pur di saperne di più.»
«Cosa?» mi voltai di nuovo ma ancora non trovai nessuno che mi guardasse negli occhi e rispondesse «Il colmo.» proprio il colmo. Io andavo cercando nani e dicerie su di loro, ma, ora come ora, sarebbe stato più facile che un nano trovasse me e dicerie su di me.
«Cacciatore di nani» ripetei «Se non posso attrarre un nano facendo leva sull'avarizia, potrei provare ad attrarlo per farsi giustizia su un cacciatore molto sanguinario.»
Picchiai il tallone sulla porta di una locanda, entrai col petto infuori e le mani alla cinta.
«Sono Rododendro l'ammazzanani.»
«Bevi!» l'oste riempì un boccale e lo batté sul banco.
«Solo uno?» afferrai e buttai giù per poi gridare «Salute!»
«Salute!» esclamarono tutti i presenti col bordo dei boccali alla bocca e porgendo all'oste quelli vuoti.
Per esperienza d'ostello a prezzi stracciati, sapevo dove cercare compagni di bevute, cani randagi che conoscevano la battaglia mercenaria come la conoscono gli schiavi. Orecchie arrossate disposte ad ascoltare storie di guerra fino alla noia, aliti puzzolenti vogliosi di raccontarle a qualche altro orecchio, qualche altro ancora e così via, fino a trovare chi volevo io
«Sapete quanti nani ho ucciso?» non volli esagerare, ma la bevanda dell'oste mi risalì il collo per toccarmi il cervello «Duecento.»
«Eh!» esclamò scettico l'oste con tutti i presenti che gli fecero eco «Nemmeno un soldato del re uccide tanti uomini.»
«Difatti di uomini ce ne sono un sacco, di nani invece quanti ne sono rimasti?»
Guadagnai il plauso dell'oste, un'altra riempita di boccale e un letto per dormire tutta la settimana. Scoprii in quelle sere che l'alcool mi scioglieva la lingua, prendeva vita di per sé come una marionetta che si stacca dai fili, con la mia bocca spalancata raccontai storie e storielle fino a notte fonda. Verità o meno, con ciò che raccontavo rimbeccavo chiunque e nessuno trovava parole per zittirmi.
«Come hai trovato i nani?» chiedevano.
«Nelle caverne.»
«Come li hai uccisi?»
«Una tattica segreta.»
«Come sono i nani?»
«Bassi e tarchiati: vichinghi alti quaranta pollici, un concentrato di forza e ferocia. Una differenza tra me e loro? Io sono una brocca d'acqua cristallina e loro una birra scura stagionata nella pancia di un bue.»
«Cosa?»
«Proprio così!» quelle serate le passavo in piedi sul bancone dell'oste «A un nano puoi togliere la vita solo se scendi là sotto dove si trova lui, devi andartela a prende, se ci riesci, e lui non te la cederà senza lasciarti qualche ricordo sulla pelle.» parlavo a voce alta e tutti gli occhi mi guardavano.
Mi inventavo ogni cosa dicessi, convinto di potermi improvvisare menestrello all'infinito, descrissi perfino come ne uccisi uno, presi a pugnalate l'aria coi denti stretti e gli occhi fuori dalle palpebre «Gridava, non di paura, gridava come stesse ruggendo...» presi un sorso «...lo avevo ucciso ma per timore di lui, gli lasciai il pugnale nel petto...» presi un sorso e godetti del silenzio delle trenta persone ai miei piedi «...ogni notte mi viene a trovare il suo spettro e mi indica il manico del pugnale che gli spunta dal torace.» allungai la mano come potessi vedere lo spettro in quel momento, chiusi le dita «Afferro quel manico e il nano mi prende i polsi e tira...» venni strattonato dal nulla, mimai di cadere in avanti con la mano ancora attaccata al pugnale «Mi tira!» gridai tra i denti «Mi tira e mi vuole trascinare all'inferno! No!» gridai «No!» poi mollai la presa e mi cacciai indietro dove i presenti, il mio pubblico, mi presero al volo, sdraiato sulle loro braccia conclusi la storia «E tornerà ogni notte e ogni notte ancora. Troppo tardi ho saputo che soltanto togliendo il pugnale lo avrei ucciso del tutto, lasciandolo lì invece il suo sangue gli è rimasto dentro.»
Quella storia la raccontai trenta volte almeno, quel pubblico non se ne stancava e ogni volta riuscivo a migliorare la mia recita al punto che il racconto originale e l'ultimo recitato divennero due storie diverse.
Sicché una sera accadde quel che speravo. Mentre gli astanti godevano del mio pugnalare i sogni, con una mano stretta e il boccale nell'altra, sul finir della storia sbatté la porta d'ingresso dell'ostello e un uomo con la torcia in mano passò gli occhi sui presenti.
«Ci servono uomini armati: sono usciti gli abitanti delle caverne e hanno rapito Gisella.»
«Nani!» quella parola balzò sulla bocca di tutti, e sopra le labbra che la pronunciavano gli occhi puntarono un'unica persona «Rododendro del sud, l'ammazzanani, ci guiderà a salvarla.»
Di notte si gira in pelliccia, anche d'estate, al nord intendo, e quella sera per i tremori mi posarono sulle spalle un mantello in più e una pelliccia d'orso, con tanto di zampe unghiute a penzoloni.
«Non possiamo lasciare il capo banda soffrire il freddo.»
«Già, soffrire il freddo.» magari si trattasse del freddo. Prese le armi e urlato alla giustizia mi nominarono capo della loro brigata e marciammo fuori per riprendere Gisella dalle mani dei nani.
Per chi racconta bugie, avviso per esperienza, se ti dichiari cacciatore di nani, poi dovrai per forza cacciare i nani.
«Capo!» mi guardarono la cinta per la prima volta «Dov'è la vostra spada? Ne volete una delle nostre?»
«Tenetele voi.» sollevai una mano a occhi chiusi «Ne avete più bisogno di me.» avevo imparato a mentire troppo bene.
Paura? Se avevo paura? Sì, l'avevo.
I tremori mi stringevano le gambe tanto da levare il sangue ai muscoli, controllavo il fondo del gruppo e la via di fuga, anche se il mio fiato strozzato non mi avrebbe portato tanto lontano. Nel nero della notte, quello attorno a me mi parve il corteo della mia processione funebre, io in mezzo, esaltato e sollevato dagli altri, sarei stato sotterrato prima del sorgere del sole, da loro o dai nani.
«Eccola» sussurrò uno uomo alle mie spalle, io persi un battito e svenni.
«Capo? Ehi capo, ci sei?»
«Cosa?» aprii le palpebre prima di accorgermi di non doverle aprire fino al giorno dopo, un'occasione perduta.
«Capo, sei crollato»
«Lo spettro del nano, mi ha investito per un attimo e...»
«Allora siamo nel posto giusto» l'uomo di fronte a me indicò oltre una siepe di rampicanti e liane, laggiù una parete di un monte roccioso interrotta in un punto da un buco, nero più dell'ombra attorno a noi.
«Lì vivono coloro che si nascondono sotto terra.» la riga di uomini accucciata dietro i cespi annuiva convinta «Laggiù hanno portato Gisella. Sono i nani quasi di sicuro.»
«Vado io.» prima che parlassero li precedetti «Se sono nani non si può scherzare.»
«Ma...»
Uno volle ribattere io lo strattonai per la maglietta «Hai capito?» gli ringhiai in faccia «Si tratta di nani. È troppo per voi, aspettate il mio segnale. Tornerò con la ragazza.»
«Volevo solo darle la spada, signore.»
«Bene.» la accettai, gliela tirai fuori dalla guaina e presi a camminare.
Nessun vero coraggio, nessun vero piano, si trattava solo di altre bugie. Avanzavo verso il buco nella montagna, nel nero al suo interno vidi una bara aperta, la mia, e pietre da mausoleo nelle rocce attorno, di quelle che si rotolano davanti alle tombe. Stringere la spada non mi rilassò, mai impugnata un'arma prima, a meno del coltello da carne di una locanda nel bosco o del mattarello di mamma.
Mamma, tu sì che sapevi togliermi le bugie di bocca, tu e il tuo mattarello, pesante da far preferire le batoste del nonno. Ricordare il tuo insegnamento prima, all'ostello, prima di trovarsi nella notte di fronte a una grotta spaventosa, mi sarebbe piaciuto.
Con un passo spezzai il velo d'oscurità di quella caverna, immerso nel nero posai la spada col pomolo sulla parete e la punta a terra.
«Popolo dei nani! Vengo in pace»
Nulla, il misterioso silenzio mi attrasse dentro. Passi piccoli e dosati, con le mani tese avanti, racimolai il coraggio di dirlo una seconda volta
«Popolo dei nani, vengo in pace» mi uscì però stridulo, soffocato da quel batticuore che pulsava in tutto il collo, sulle labbra e nel cervello.
Non riuscì a dirlo una terza volta, mi mancò il fiato, questo però mi salvò: pochi passi più avanti una curva, dietro a quella si agitava la luce di un falò, sporsi l'orecchio e poi l'occhio, appiattito contro il muro.
«Orchi» mi uscì di bocca, mai visti prima, li riconobbi all'istante. Orchi di un genere muscoloso e grosso, come tutte le cose al nord, piazzate a terra ed erette al cielo. Sfioravano il soffitto con le teste calve, il volto illuminato dal basso lasciava in ombra gli occhi, così che parevano guardare ovunque e da nessuna parte, le loro zanne illuminate dal fuoco mi ricordarono fiammelle, mi rimandarono subito alle spirali di fuoco tra le fauci di Walgun.
«Perché sono qui?» domandava Gisella, rannicchiata alla parete di fronte a tutti loro «Cosa mi volete fare?»
«Ahahah!» gracchiò il più grasso degli orchi «Tutte le ragazze che prendiamo lo sanno già. Solo tu hai il coraggio di chiederlo.»
Gisella, una ragazza rotonda sul petto e sui fianchi, un viso sempre rivolto per aria, la ridarella tra i denti bianchi e quella fibbia di ferro luccicante alla cinta, forgiata dal padre, fabbro, indossata come un lucchetto, un sigillo intatto, ogni bravo ragazzo in paese gareggiava per meritare di slacciarlo.
Io fuggì, coi talloni che mi battevano sulle natiche, dalla foga lasciai indietro la spada e uscì dalla grotta senza guardarmi alle spalle.
Gisella nemmeno mi piaceva, bionda, con quel naso piccolo tanto diffuso tra le ragazze del nord, poi quel padre ossessivo possessivo, tutto il tempo a forgiare fibbie per cinte ben strette, dov'era mentre la rapivano? No. Io cercavo i nani e, al massimo, cacciavo nani, niente orchi nel mio repertorio, niente giselle da salvare, o altro.
Il fabbro mi prese per il braccio quando passai accanto alla siepe, portava in mano un attizzatoio e grondava lacrime dagli occhi «I nani? Gisella? Hai visto mia figlia?»
«All'attacco.» non è vero: Gisella mi faceva pena, una pena mortale e tutti quegli orchi a guardarla, che solo a vederli di spalle spaventavano me, dovevano terrorizzarla, turbarla in perpetuo «Carica!» gridai, cambiai fronte, di nuovo verso la grotta, la testa bassa e una sensazione frizzante su per le gambe e dentro la testa «Carica!» gridai fino a sgolarmi a sovrastare la corsa degli uomini alle mie spalle, pronti a seguirmi con le loro urla.
Cosa mi prese quella notte, ora a scappare ora a caricare dei mostri che solo gli angeli non temono. Gli orchi, asserragliati nella loro grotta, e Rododendro del sud in testa alla combriccola dell'ostello.
Forse mi convinsero le lacrime del padre, ma mi piace pensare, per salvare la mia autostima, che fu Gisella a convincermi, solo che il coraggio per combattere mi arrivò all'ultimo secondo.
Entrato in grotta per primo raccolsi la spada con la punta in basso, così come tenevo il pugnale nella storiella del nano. Senza smettere di urlare invasi la cerchia di orchi, saltai il falò e atterrai sull'orco di fronte a Gisella, la mia spada conficcata nella sua schiena.
Per mille notti mi chiesi come un nano avrebbe combattuto in quella stessa situazione, oppure, meglio, se io avessi combattuto come un nano. Sbraitando di pazzia, nel centro della ressa, in una caverna e più basso di tutti gli avversari.
Per estrarre la spada da quella schiena mi mancò la forza, tuttavia nulla mi fermò dal raccogliere due ceppi incandescenti e rotearli assieme al mio vorticare furibondo. I ragazzi dell'ostello invasero la caverna pochi istanti dopo, mi guardarono e videro lo sterminatore di duecento nani, spietato e distruttivo come glielo raccontavo, trovarono coraggio e dagli orchi trassero tanto sangue da riempire il pavimento e spegnere il falò.
Un colpo in pancia, un taglio sulla mano, una pietra in testa, l'ultimo mio ricordo l'immagine di Gisella portata via dal padre, gli orchi ancora in piedi attorno a me e l'ultima fiammella del fuoco che si spegne.
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